Passare dal «like» all’«amen» è l’invito di papa Francesco nel suo messaggio per la 53ª giornata mondiale della comunicazione del prossimo 2 giugno, Ascensione del Signore. L’espressione sintetizza bene il salto di qualità che siamo chiamati a fare nel nostro modo di comunicare oggi: dalla distanza alla prossimità, dall’individualismo alla relazione, dalla ricerca di ciò che ci piace e conferma le nostre idee al confronto – a volte anche spiacevole – con la verità, dalla superficialità al coinvolgimento, dall’anonimato all’incontro faccia a faccia, dal chiuso dei nostri interessi all’essere «in uscita» camminando con gli altri. È la sfida di creare davvero una rete (net) di relazioni (inter) che rafforzino i legami tra le persone, i popoli e le nazioni, costruendo ponti, abbattendo muri, nella consapevolezza di far parte di un’unica famiglia umana nell’unico mondo che abbiamo.
Le due parole hanno in sé un mondo di significati che vale la spesa approfondire. Il «like» è, di per sé, positivo, dice che qualcosa mi piace, mi diverte, mi interessa e condivido. Il rischio è che questa presa di posizione positiva rimanga un desiderio superficiale, non mi scomodi più di tanto, mi faccia rimanere placido sul «divano» (tante volte menzionato da Francesco in contrapposizione all’«uscire»). Raramente diventa anche azione: una firma, una donazione, la lettura approfondita di un articolo, men che meno un andare ad aprire la porta, un dare una stretta di mano o un abbraccio, neppure un alzare gli occhi dallo schermo per guardare in faccia l’interlocutore, l’altro, il cosiddetto «amico» o il «nemico», colui contro cui mi scaglio senza neppure conoscerlo solo perché scrive o fa come «non piace» a me. Uno dei rischi del «like» è di mettermi a posto la coscienza senza disturbarmi più di tanto e diventare parte di un mucchio con l’illusione di partecipare a qualcosa d’importante (anche quando è una fake news).
L’«amen» fa fare un salto di qualità al like. È impegno, scelta, dono, servizio, libertà, responsabilità, coscienza critica. Spesso si rafforza nel silenzio e si paga con la solitudine (apparente). L’amen è il modo di essere dei costruttori di nuova umanità. L’amen di Abramo, stufo dei succhia paure (i molti idoli) del suo tempo, lo fa uscire verso l’inedito, rendendolo padre di tutti coloro che per fede cercano la vera libertà in un incontro di amore. L’amen di Mosè gli fa smettere di fuggire dalla realtà dell’oppressione e iniziare un cammino di liberazione con il suo popolo. L’amen di Davide, il ragazzetto fulvo e di bell’aspetto, lo fa uscire – armato solo del suo coraggio – contro il super fellone Golia. L’amen di Maria, rafforzato, confermato e purificato da prove e dolori, apre l’inizio della nuova creazione e la rende madre non solo del figlio di Dio ma della nuova umanità. Amen è dire: (sono) sicuro (che quello che mi proponi è) veritiero, così è, (quindi) avvenga! Dove «avvenga» non è un sì rassegnato a qualcosa di inevitabile e più forte di me, ma l’epressione del mio desiderio libero, gioioso e intenso che quello per cui ho detto amen si realizzi davvero con la mia totale collaborazione.
Francesco conclude il suo messaggio dicendo: «Così possiamo passare dalla diagnosi alla terapia: aprendo la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza… Questa è la rete che vogliamo. Una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere. La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui “like”, ma sulla verità, sull’“amen”, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Oltre cinquant’anni fa l’ultimo documento del Concilio Vaticano II, la «Gaudium et spes», scriveva al n. 37: «La Sacra Scrittura, con cui è d’accordo l’esperienza di secoli, insegna agli uomini che il progresso umano, che pure è un grande bene dell’uomo, porta con sé una grande tentazione: infatti, sconvolto l’ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli altri; e così il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano. Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo».
Gesù Cristo è il vero amen che ha cambiato la storia, perché il suo «non la mia volontà, ma la tua sia fatta» (Lc 22,43; Mt 26,39; Mc 14,36) è stato il dono d’amore più grande che poteva fare e con il dono di sè ci ha indicato la vera via per essere uomini liberi che vivono relazioni di amore – faccia a faccia, senza paura – con Dio e ogni uomo di ieri, oggi e domani.
Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news
In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.
Testo di Chiara Giovetti
«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».
Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.
Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».
Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.
Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.
Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.
Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».
Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@– che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».
Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.
Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?
Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.
A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.
A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.
Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.
Le fake news sulle Ong
Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».
Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.
Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».
La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.
«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».
Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.
«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».
Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.
Chiara Giovetti
Fake news, internet, comunicazione … Usiamo la testa
Editoriale su Internete fake news di Gigi Anataloni, direttore MC |
«La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace». Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra il 13 maggio. È un messaggio di estrema attualità, da leggere con intelligenza e cuore. Nessun frequentatore dell’Internet dovrebbe ignorarlo.
Come direttore di una rivista missionaria, sarei tentato di dire «sono già a posto», quel messaggio «non mi riguarda», perché noi non cavalchiamo «fake news» e «già facciamo un giornalismo di pace» e cerchiamo di pubblicare notizie verificate senza scopi occulti o bramosia di guadagno, senza bombardare i nostri lettori, anzi, chiedendo loro di leggere tutto con la calma necessaria per digerire e controllare quello che scriviamo. Però le parole di Francesco sono un richiamo positivo anche per noi, perché – in verità – non siamo del tutto gratuiti, ma «esigiamo» molto dai nostri lettori: il loro tempo perché ci leggano senza fretta (slow news!), la loro intelligenza perché condividano con noi idee e valori, il loro cuore perché amino, gioiscano o piangano con noi, e la loro azione perché esprimano con i fatti solidarietà e sostegno al nostro servizio ai poveri, ai lontani, al Vangelo. Tutto questo non è poco. Non vi ringrazieremo mai abbastanza per la vostra vicinanza.
Certo è che stiamo vivendo un tempo molto bello per la comunicazione, la quale, grazie alla rete, gode oggi di opportunità, possibilità e servizi positivi e partecipativi, inimmaginabili solo qualche anno fa. È però anche un tempo di grande crisi, non solo quella cronica della carta stampata – libri e giornali -, ma anche dei social – Facebook, in primis – che sembrano aver tradito tutte le aspettattive vendendosi per profitto alla politica e ai gruppi di potere, senza alcuna considerazione per i propri utenti, se non quella del puro sfruttamento commerciale. Così, di colpo, cadono i miti, il re è nudo. Il «popolo della rete» si sente gabbato: siamo traditi, imbrogliati, usati, etichettati, classificati, analizzati, derubati della privacy, considerati come numeri, buoni solo per essere manipolati, sfruttati e rapinati dei soldi, del tempo, della buona fede.
Una visione troppo pessimista della situazione? Forse. Però bazzico nel mondo dell’Internet da troppo tempo per credere alle utopie della democrazia digitale, del tutto gratis, della privacy a tutti i costi, del puro idealismo che ci sarebbe in rete. Utopie che sono state smontate dal realismo dei costi di un sistema sempre più sofisticato e allo stesso tempo sempre più fragile, e dalla comprensione della sua potenzialità manipolativa ed economica. Non per niente alcune delle persone più ricche del mondo – certamente troppo ricche per i miei gusti – hanno a che fare con Internet e le cosiddette nuove tecnologie.
Non sono pessimista e non penso serva demonizzare o boicottare i social (o «quel» social in particolare). Credo invece sia più importante ricordarsi che ogni mezzo è solo un mezzo e come tale va usato, senza farne un idolo da adorare e servire o un mostro da temere. Quand’ero piccolo e mio nonno era l’unico e leggere il giornale nella nostra frazione, se lui diceva «l’ha detto il giornale», questo tagliava la testa al toro. Poi si è passati a «l’ho sentito alla radio», «l’ho visto in tv», fino all’idolatria o al terrore dei «like» dei nostri giorni. No, Internet e social «non tagliano la testa al toro», non ci esimono dal pensare con la nostra testa, dal verificare e dall’usarli responsabilmente.
La tentazione indotta dagli strumenti digitali è quella di farci «agire prima di pensare»: clicca, like, inoltra, condividi e così via. Ci vorrebbe calma, invece. Pensare prima di agire. Fare silenzio, ascoltare e ascoltarsi, verificare. Domandarsi «cui prodest?», chi ci guadagna? E poi chiedesi il perché aderisco a certe idee, diffondo notizie, immagini e filmati: lo faccio solo per puro divertimento personale o per creare e condividere felicità? Ho a cuore gli altri, l’ambiente, il mondo o penso solo a me stesso? Sono prudente o superficiale? Costruisco relazioni, comunione, armonia, gioia e pace o divido, istigo, provoco, alimento l’odio, diffondo paura e diffidenza, creo confusione? È importante mantenere il controllo del tempo, di cui i social vogliono l’esclusiva. Salvare tempo per se stessi, per gli altri e (perché no?) per Dio. A volte sarebbe anche meglio pregarci su prima di agire. No, non semplicemente dire una preghiera, ma pregare, cioè fermarsi nel silenzio, per confrontarsi con la Parola e con i valori, il modo di essere, di pensare e di agire di Gesù. Quel suo «ma io vi dico» (tipico in Mt 5) dovrebbe risuonare in noi, sempre. È l’invito a mettere al centro della nostra vita l’unica cosa che veramente costruisce umanità: l’amore. E l’amore si coniuga con la verità e solo la verità ci rende liberi. Liberi e fratelli. Senza le paure che ci fanno costruire muri, ci imprigionano nella menzogna e ci rendono schiavi di chi non ci considera persone ma numeri, consumatori, elementi di un algoritmo. Da che mondo è mondo con lo stesso strumento si può costruire o distruggere, dipende solo da chi lo usa. Solo la «verità nell’amore» ci rende liberi e liberatori.
Gigi Anataloni
Rwanda: Imprenditore sì, ma sociale
Testo di Marco Bello, foto di ARED |
Henri nasce e cresce da rifugiato. Poi ha la possibilità di studiare all’estero. Ma presto nota che la «sua» Africa sta crescendo. E torna in patria con un’idea. Vuole realizzare un business che sia pure utile per i meno fortunati. E crei posti di lavoro. Il cammino non è facile. Lui è tenace e dopo anni di lavoro la sua idea si concretizza. E adesso vuole espanderla sul continente.
Henri Nyakarundi, 40 anni, è nato in Kenya da genitori ruandesi rifugiati dapprima in Burundi. È cresciuto nel piccolo paese centrafricano fino all’età di 18 anni, quando i suoi genitori sono riusciti a mandare lui e sua sorella a studiare negli Stati Uniti, ospiti di parenti. Lì Henri ha vissuto 16 anni e ha studiato informatica.
Durante quel periodo ha iniziato a fare viaggi in Africa, per andare a trovare i genitori e parenti.
Incontriamo Henri in Italia dove è venuto a ritirare il premio «ICT for social goods» per imprese sociali nel campo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, organizzato da Ong2.0 (www.ong2zero.org).
«Nel 1996 sono stato un paio di mesi in Rwanda – ci racconta -. Non c’era nulla, mancava l’acqua, l’elettricità. Poi vi sono tornato nel 2001 e ho iniziato a vedere dei cambiamenti. Quando ci sono andato nel 2008 era tutto in rapida evoluzione, ed è allora che ho preso la decisione che sarei tornato nel continente dove sono nato».
Nel 2008, negli Usa inizia la crisi, ed Henri vede che invece l’Africa è in forte crescita. Henri decide di rientrare nel suo paese di origine, ma non a mani vuote: vuole portare un progetto.
Batterie scariche?
«Mi interessavano in particolare due settori: agricoltura ed energia. Ma il primo mi appassionava di meno. Sulle questioni energetiche ho pensato a diverse possibilità, ma non volevo fare un progetto tradizionale».
Henri ha uno spiccato senso pratico ed è capace di pensare in grande a partire da piccoli esempi concreti. «Uno dei problemi che ho sperimentato personalmente in Africa, è stato la difficoltà di caricare il telefono cellulare. Dovevo sempre andare in giro con una batteria portatile. Tutti avevano lo stesso problema, ma sul mercato avevo trovato solo quella soluzione».
Di passaggio all’aeroporto di Amsterdam Henri vede i punti fissi di ricarica per i telefoni. «Mi sono detto che sarebbe stato interessante avere quelle prese in un contesto all’aperto e magari in versione mobile, per andare ovunque, e dotati di pannelli solari per essere autonomo energeticamente, onde evitare che le infrastrutture non funzionino con regolarità come sesso succede nei paesi africani».
Henri Nyakarundi inizia così a maturare la sua idea di una centralina per la ricarica di cellulari mobile a pannelli solari: «Pensavo occorressero due o tre mesi di studio e prove, invece ci ho messo tre anni per avere il primo prototipo. Ed è stato molto più costoso di quanto avevo preventivato. Ma tutto quello che inizio lo devo finire».
Così a settembre 2009 comincia la fase di sviluppo negli Stati Uniti. Un designer e un ingegnere trasformano la sua prima idea in un trabiccolo su ruote di bicicletta. Riesce pure a reperire finanziamenti da alcune fondazioni e dal governo tedesco.
«Nel dicembre 2012 il primo prototipo era finito. Un mese dopo ho venduto tutto quello che avevo negli Usa e sono “rientrato” in Rwanda con la mia invenzione».
Un business «sociale»
L’idea iniziale è molto semplice, ma evolve rapidamente. Henri non vuole solo ricaricare cellulari dei passanti o guadagnarsi da vivere con il suo business, vede nel chiosco solare ambulante un’importante valenza sociale: la possibilità di dare lavoro a chi altrimenti non lo troverebbe.
«Uno dei maggiori problemi in Burundi, Rwanda e altrove in Africa, è la mancanza di lavoro. Soprattutto tra le donne e le persone portatrici di handicap, che vedono un tasso di disoccupazione due o tre volte più alto di quello degli uomini».
Sono tre gli elementi che mette insieme Henri: «Guardavo all’utilità sociale, volevo risolvere un problema tecnico e allo stesso tempo guadagnarci. L’idea era condividere i ricavi della ricarica tra l’agente che gestisce il chiosco e la micro impresa che lo fornisce». Dopo aver testato il prototipo, per due mesi, sul più grande mercato di Kigali, Henri capisce che non funzionerà, perché il ricavo economico è troppo basso. Occorre qualcos’altro per avere un rendimento sostenibile.
Da qui la domanda: quali altri servizi possiamo offrire che abbiano valore aggiunto per i consumatori?
«Ho osservato che molti servizi diventavano digitali, come il mobile money (cfr. MC novembre 2014), che si è diffuso rapidamente in Africa, o le ricariche dei telefoni. Sono sempre venduti con pagamento anticipato: prima paghi una ricarica, poi te la forniscono. Tutto si può vendere a partire da un telefono». In Rwanda, inoltre, molti servizi dello stato sono digitalizzati (ad esempio la richiesta di certificati di nascita, documenti vari, pagamento tasse, ecc.), e le opzioni di richiesta e pagamento di un documento si possono realizzare in chiosco di questo tipo. Così Henri produce un secondo prototipo che integra alla ricarica dei cellulari, molti servizi aggiuntivi, grazie a un computer di bordo, collegato a un server centrale.
«I nostri clienti sono quelli alla base della piramide, gli abitanti delle zone rurali e semi urbane. C’era un problema di distribuzione di servizi per questa gente, ed è questo che volevamo risolvere».
Informazione gratuita
Ma anche l’aggiunta di questi servizi digitali non basta per la sostenibilità economica. «La gente ci chiedeva se non si poteva avere il wifi, ovvero collegarsi a internet. Abbiamo passato altri due anni di sviluppo, e finalmente è nato il nuovo chiosco, che ha il wifi, permette la connessione, ma prevede anche una connessione intranet, ovvero offline, che rende accessibili contenuti digitali precaricati sul computer del chiosco».
In Africa connettersi a internet comporta ancora un costo abbastanza elevato. Non esistono i collegamenti a tempo illimitato, così tramite il chiosco, e uno smarthphone, i clienti possono connettersi oppure accedere alle informazioni disponibili.
«Informazioni sulla salute, sull’educazione e altro. La gente non consuma infoormazioni digitali perché non ha i soldi per connettersi. Invece in questo modo può avere accesso gratuitamente. Alcune informazioni vengono anche diffuse in semplice modalità audio, ovvero tramite altoparlanti, piuttosto che con connessione wifi».
Alcuni enti e Ong, come la Croce Rossa, lo stesso stato ruandese, nei suoi i ministeri della Salute e dell’Educazione, e privati, pagano la società fondata da Henri, l’Ared (Africa renewable energy distributor) per diffondere contenuti da loro forniti. L’Ared è costituita da quattro persone, di cui tre in Rwanda e una in Uganda. «In effetti è su questo aspetto che l’Ared fa i suoi introiti e rende sostenibile e redditizia l’operazione, mentre gli agenti che gestiscono i chioschi guadagnano sulle ricariche e sulla fornitura dei servizi. La nostra idea, inoltre, è non far pagare il consumatore per l’accesso all’informazione, ma far pagare le compagnie che vogliono diffondere quell’informazione». A questo punto un dubbio può venire sulla pluralità e neutralità dei contenuti diffusi: di fatto qualcuno paga per diffonderli, saranno in qualche modo promozionali o comunque con un certo orientamento.
Soluzione: microimpresa
Oltre ai prodotti «servizi», «informazioni» e «internet», il chiosco genera il prodotto «lavoro». «Crediamo nella micro imprenditoria che pensiamo sia il futuro, e i nostri agenti di chiosco sono dei microimprenditori. È chiaro che la microimpresa non risolverà tutti i problemi, ma dobbiamo considerare che la creazione di lavoro sta diminuendo a causa della tecnologia. Abbiamo pensato di minimizzare il rischio assistendo la persona che vuole intraprendere questo percorso. Per questo motivo selezioniamo gli agenti, li formiamo per tre giorni, e poi diamo loro un chiosco in gestione e li supportiamo in modo continuativo.
Per il chiosco l’agente paga un forfait iniziale di 40 dollari se uomo, 20 se donna e 10 se portatore di handicap. Dopo di che solo un affitto di 1,50 dollari al mese. Inoltre forniamo loro delle uniformi e un’applicazione per il loro cellulare.
È un partenariato tra Ared e la persona che lavora al chiosco. L’operatore riesce a guadagnarsi la vita grazie a questo lavoro. È un modello di business che facilita l’ingresso in impresa a persone che non hanno i fondi per iniziare un’attività propria. Si tratta di un franchising. Qualcuno mi ha detto di esser riuscito a mandare i figli a scuola grazie a questo lavoro. Qualcun altro è riuscito a sposarsi».
Un’esperienza interessante Ared la fa con la Croce Rossa nei campi profughi dei burundesi, rifugiati in Rwanda a causa della crisi nel loro paese. «Ci hanno trovati su internet, avevano bisogno di una soluzione far caricare i telefoni nei campi. Così abbiamo iniziato un partenariato e offerto tutti i nostri servizi. Abbiamo scoperto che nei campi profughi c’è un’altissima densità di telefoni cellulari».
Il capitale umano
Chiediamo a Henri come scelgono le persone alle quali affidare i chioschi. «Abbiamo fatto esperienza sulla selezione degli agenti. Intanto prediligiamo le donne e le persone con handicap. Poi devono avere dai 25 anni in su, sapere leggere e scrivere e passare un test attitudinale per capire se hanno le caratteristiche imprenditoriali. Chi è selezionato deve procurarsi il permesso di lavorare nella zona prescelta, poi gli si affida il chiosco».
Il chiosco, che ha oggi un valore di circa 1.200 dollari resta di proprietà dell’Ared. «Il valore aggiunto non è il chiosco in sè, bensì i servizi che forniamo. Venderlo sarebbe troppo caro per i nostri agenti, e inoltre dovrebbero fare manutenzione, che invece resta a nostro carico. Vendiamo il modello di business: il franchising. Per questo motivo abbiamo creato molti servizi con l’obiettivo di produrre abbastanza reddito per noi e per gli agenti».
Next step (prossimo passo)
Il passo successivo è la raccolta di informazioni e dati a partire da questi clienti. Le informazioni raccolte saranno memorizzate nel chiosco e inviate al computer centrale.
«Una cosa che vogliamo integrare è l’Iot, (l’internet delle cose o internet of things, è un sistema di sensori e di elaborazione dei dati forniti dagli stessi, di cui si parla molto, ndr). Attualmente uno degli ostacoli è come fare il monitoraggio dei chioschi quando sono sul terreno. L’operatore lavora bene? Fornisce tutti i servizi al cliente? Stiamo incorporando l’Iot sul chiosco per ottenere molte informazioni e sapere cosa succede esattamente, in ogni momento. Stiamo integrando anche il Gps, altri sensori ambientali, che ci dicono quante persone ci sono intorno al punto vendita. Riusciremo a fare il monitoraggio dell’attività da remoto oltre che ad accumulare informazioni».
Espansione territoriale
Henri Nyakarundi vede un grande futuro per il suo chiosco. Si spinge a valutare una potenzialità di 50-100.000 chioschi in 20 paesi africani. E ha già in testa una ben precisa strategia di espansione.
«Attualmente abbiamo 30 chioschi in Rwanda e 5 in Uganda, dove abbiamo appena cominciato. Per quattro anni abbiamo testato i modelli e la tecnologia. Ora tutto è pronto e vogliamo espanderci. La strategia che seguiremo per i nuovi paesi è quella di lavorare con partner locali. Vogliamo realizzare una licenza della tecnologia che venderemo nei paesi. Questo ci fa guadagnare meno ma ci permette di espanderci più rapidamente. Il Rwanda è il solo paese in cui controlliamo tutta la catena di valore. In Uganda, ad esempio, abbiamo diviso il territorio in 5 aree geografiche, ognuna seguita da un responsabile. È lui che fa selezione, formazione e monitoraggio degli agenti. Noi ci occupiamo della tecnologia, e dell’adattamento al contesto. Dividiamo i guadagni tra noi, il responsabile di area e l’agente che gestisce il chiosco. È un modello di espansione attraverso il partenariato».
Il prossimo mercato che attrae Henri è la Nigeria. «Grande e difficile. C’è una grande corruzione. Se riesci lì, riesci ovunque».
Marco Bello
Missione … e malaria
In una valle delle nostre splendide Alpi un gruppo di giovani di una parrocchia di città, a fine agosto, sta facendo il campo estivo. Accanto alla casa che li ospita cresce una alberello di prugne, che, ormai mature, dolcissime e assolutamente bio, cadono sul sentiero che i giovani percorrono più volte al giorno. In terra prugne calpestate. In alto rami carichi di blu profondo. Passano i ripassano i giovani. Non vedono le prugne. Non allungano la mano per cogliere quella bontà fresca e gratuita.
Un’altra storia. Da un altro mondo. Africa, Tanzania. Un missionario scrive entusiasta ad amici e benefattori delle meraviglie che il Signore sta operando: le ordinazioni di tre nuovi missionari, dieci giovani che hanno completato il loro periodo di noviziato e iniziano gli studi di teologia, e molti altri che finita la scuola secondaria entrano in seminario per iniziare il cammino di formazione per essere un giorno testimoni di Gesù nei più remoti angoli del mondo.
Due storie apparentemente slegate tra loro, da due mondi molto diversi.
Missione, gioia contagiosa
Ho pensato a questi due fatti leggendo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre. «La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto», scrive papa Francesco. Un messaggio trasformante, realizzato attraverso l’annuncio del Vangelo, nel quale Gesù si fa «sempre nuovamente nostro contemporaneo».
Leggendo queste parole ho pensato a quei ragazzi di città talmente abituati alla frutta del mercato o del frigo di casa da non accorgersi di quella ancora sull’albero. Forse ci rappresentano un po’, abituati come siamo a lasciarci saziare da social, televisione, giornali, fake news, opinione pubblica, guru, politicanti e specialisti vari che ci sommergono di «ricette» per vivere felici senza problemi, al punto da trascurare l’ascolto di quella Parola di Vita che è Gesù stesso, Parola spesso relegata a una frettolosa oretta domenicale – ferie, ponti e settimane bianche permettendo -.
Ho pensato anche ai giovani del Tanzania, più poveri e con meno mezzi di noi, perché sono ancora capaci di «arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta fresca» della Parola di Dio che li apre alla gioia contagiosa e trasformante dell’incontro con il Cristo risorto e con gli altri.
Beati noi, però, perché Dio non si stanca mai di offrirci la sua «frutta fresca e gratuita».
Beati noi, perché Dio crede nell’uomo più dell’uomo stesso.
Malaria e manipolazione della verità
Malaria. Cambio argomento, provocato dalle assurdità che vedo, leggo e sento in questi giorni a proposito di malaria. Comincio autodenunciandomi come suo possibile «portatore sano» e potenziale fonte di contagio (cfr. articolo pag. 62) per chi mi sta vicino con zanzara anofele di mezzo. Questo perché dopo 21 anni di Kenya e un po’ di Tanzania, di punture di zanzare portatrici del parassita ne ho prese a volontà, anche se la malaria vera e propria non l’ho mai avuta. Mi vergogno come italiano della strumentalizzazione della morte di una bambina e del dolore della sua famiglia per diffondere notizie false che alimentano odio e razzismo, sfruttando buon cuore, ignoranza e paure della gente. Certo la malaria non è una bella malattia. L’ho visto di persona. Ricordo che all’ospedale di Wamba nel Nord del Kenya, durante i periodi di siccità e fame moriva almeno un bambino al giorno di malaria. Inoltre so bene che più di un missionario ha perso la vita per lo stesso motivo, tra di essi alcuni cari amici. Ma usare il pretesto della malaria per alimentare il razzismo e aumentare l’odio verso persone come i migranti dall’Africa che di dolore, violenze e sofferenze sono carichi, mi sembra ingiusto e indegno del nostro essere italiani.
Queste manipolazioni a scopi di politica elettorale non sono accettabili, né per i migranti che ne pagano il prezzo con ulteriori sofferenze, né per ogni italiano, perché come italiani ci meritiamo più rispetto di quello che certi nostri politici ci danno. Solidarietà e volontariato sono due impagabili caratteristiche del nostro paese che noi missionari conosciamo bene. Due forze di vita che si manifestano sia sul nostro territorio sia nella miriade di associazioni e gruppi che aiutano a livello internazionale. Solo che non fanno rumore, come la foresta che cresce. «L’italiano qualunque», quello che ama la pace, quello dal cuore grande, ha gli anticorpi al plasmodio dell’intolleranza e del razzismo. Usiamo l’insetticida della fraternità, della compassione e della vera umanità contro le zanzare dell’odio e del razzismo che si nutrono delle nostre paure.
Guatemala misericordia e new media
Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.
Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.
Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.
«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.
Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.
Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.
Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».
E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.
«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».
E arrivò la pace
Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.
«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.
Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.
Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.
Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».
Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.
«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.
Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».
Un lavoro difficile ma necessario
«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.
Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.
Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».
La potenza della comunicazione
E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.
«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.
Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.
Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.
In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».
Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.
«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».
L’importanza dei new media
A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.
«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.
Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.
È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.
Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?
Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.
Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.
Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.
Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».
L’attenzione del Papa
«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.
Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.
Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».
Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».
«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.
In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.
A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.
In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».
Guatemala il presidente attore
Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.
Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.
«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.
Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.
La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.
All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.
Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.
C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».