L’invasione dei «coccodrilli» cinesi


Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.

Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).

Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.

Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.

I progressi cinesi

Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.

Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.

Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.

Un laboratoio del Guanglong high tech industry park a Guilin, Guangxi, Cina. Foto Glsun Mall – Unsplash.

Il peso delle sovvenzioni

Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.

A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.

Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.

I cambiamenti

Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.

Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).

Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore.  Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.

Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-

zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.

Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.

Un’auto della polizia cinese di marca Byd, produttore in crescita vertiginosa e ormai pronto a invadere i mercati occidentali. Foto James Young 8167.

Modulare l’offerta

Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.

L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.

Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.

Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».

Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.

Raccolta di dati sensibili

Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.

Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere  (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.

Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.

Il Partito e la concorrenza

Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.

Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.

Le auto di Pechino

Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.

Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.

Uno schermo mobile con le applicazioni più comuni dei quattro giganti tecnologici cinesi Baidu, Alibaba, QQ di Tencent e MI di Xiaomi.  Foto Riccardo Milani / Hans Lucas / AFP.

Restrizioni e nuovi mercati

Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.

Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.

L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.

Alessandra Colarizi

 




Chi paga la guerra del grano


La guerra in Ucraina ci ha fatto scoprire le vie dell’export-import del grano. Il suo blocco nei porti e la sua minore produzione stanno generando gravi problemi. E, se l’Europa rischia la recessione, milioni di africani rischiano la fame.

Il conflitto in Ucraina ci ha insegnato che le guerre, oltre a seminare morte dove divampano, producono sofferenza anche a distanza per le loro conseguenze commerciali ed economiche. E se l’Europa rischia la recessione per la riduzione delle forniture di gas, milioni di africani rischiano la fame per la riduzione delle forniture di grano.

Analizzando i dati di produzione e commercio, si scopre che il grano è uno dei prodotti più commercializzati a livello mondiale perché ci sono paesi che ne producono più del proprio fabbisogno e altri che non ne producono abbastanza. Da un punto di vista quantitativo, il primo posto spetta alla Cina, che però non ne produce abbastanza per cui è un importatore netto. Il secondo grande produttore è l’India che, al contrario, non lo consuma tutto e compare fra gli esportatori netti. Una notizia che non ti aspetteresti dal momento che, in India, il 13% della popolazione, 189 milioni di persone, è sottonutrita. Dimostrazione di come la fame non sia sempre un problema di produzione, ma di ingiusta distribuzione della ricchezza che priva milioni di famiglie dei mezzi necessari per acquistare il cibo che nei negozi abbonda.

Lo scandalo del blocco

Il terzo produttore mondiale di grano è la Russia che però è anche il primo esportatore perché ne consuma internamente soltanto la metà. Andando avanti, fra i primi dieci produttori troviamo Stati Uniti, Canada, Francia, Pakistan, Ucraina, Germania, Turchia. Tutti paesi, che, a eccezione di Pakistan e Turchia, compaiono anche fra i primi dieci esportatori. Un gruppo, quest’ultimo, di cui fanno parte anche Argentina e Australia che, pur non producendo quantità astronomiche di grano, ne raccolgono oltre il proprio fabbisogno.

Quanto all’Ucraina, si trova all’ottavo posto come produttore e al quinto come esportatore. Nel 2020 il suo contributo alle esportazioni mondiali è stato del 10%, quello russo del 20%. Grano che, in gran parte, salpa dai porti del Mar Nero. Per questo, con lo scoppiare della guerra in Ucraina, il mercato mondiale del grano ha registrato ammanchi importanti.

The Odessa Journal del 2 maggio 2022 titolava che, nei porti ucraini, erano bloccate quattro milioni e mezzo di tonnellate di grano. Cifra che, secondo le Nazioni Unite, saliva a 25 milioni di tonnellate se si allargava la visuale a mais, orzo, segale e altre derrate alimentari.

Russia e Ucraina sono importanti esportatori di grano. Foto Polina Rytova – Unsplash.

Multinazionali e prezzi

Le imprese transnazionali che commerciali cereali hanno subito approfittato della situazione per innalzare i prezzi.

Giova ricordare che, a livello mondiale, il commercio di cereali è controllato da un pugno di multinazionali di varia nazionalità: Cargill (Usa), Dreyfus (Francia), Bunge (Brasile), Adm (Usa), Glencor (Svizzera), una pattuglia che, nel caso del grano ucraino, è integrata da imprese a capitale locale come Kernel e Nibulon. Colossi in concorrenza fra loro per strapparsi qualche acquirente, ma sempre pronti ad accordarsi quando si tratta di fare lievitare i prezzi. E siccome un fondamento dell’economia di mercato è che il prezzo scende quando l’offerta supera la domanda e sale quando la domanda supera l’offerta, basta un qualsiasi segnale che possa essere interpretato come contrazione dell’offerta per fare impazzire i prezzi. Lo dimostra il fatto che i prezzi del grano sono in movimento dal 2016 quando si vendeva per 4 dollari al bushel (30 kg). Ma nel gennaio 2022, dunque prima dell’attacco russo all’Ucraina, si vendeva quasi al doppio: 7,85 dollari per bushel. E non si capisce bene il motivo dal momento che produzione e riserve (salvo un lieve calo nel 2019) si sono mantenuti pressoché costanti. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, è bastata la sola ipotesi di blocco dei porti per portare subito il prezzo del grano a 12 dollari per bushel. Un aumento del 200% rispetto al 2016 e del 50% rispetto al gennaio 2022, con conseguenze particolarmente gravi per tutti quei paesi che usano come alimento base il grano proveniente dall’estero.

Nel mondo si contano oltre 50mila piante commestibili, ma il 90% del fabbisogno alimentare dell’umanità è soddisfatto da appena quindici di esse. Fra le principali, il riso rappresenta l’alimento di base per il 50% della popolazione mondiale, soprattutto in Asia, America Latina e alcuni paesi africani. Quanto al grano, esso è l’alimento di base del 35% della popolazione mondiale, all’incirca due miliardi e mezzo di persone distribuite in 89 paesi appartenenti a tutti i continenti, con una maggiore concentrazione in Europa, Africa, Asia. Non a caso i maggiori importatori di grano si trovano in questi tre continenti con l’Egitto che, nel 2021, ha fatto da capofila seguito da Indonesia, Cina, Turchia, Algeria, Bangladesh. Altri paesi con forti importazioni di grano sono l’Iran, la Nigeria, il Marocco, il Giappone. Per completezza d’informazione, va detto che solo il 70% del grano prodotto a livello mondiale ha come destino l’alimentazione umana: un 20%, infatti, è utilizzato per l’allevamento animale, e il restante 10% per altri usi industriali. Una precisazione necessaria perché fra le ragioni che, ad esempio, fanno della Cina uno dei principali importatori di grano, c’è proprio l’esplosione degli allevamenti, in particolare di suini e pollame.

La crisi ucraina è destinata ad avere conseguenze su tutti i paesi importatori di grano, ma con effetti diversificati a seconda del grado di dipendenza dalle importazioni e soprattutto di dipendenza dal grano russo e ucraino. La Fao indica una cinquantina di paesi con percentuali di importazione dall’Ucraina e dalla Russia superiori al 25%. La lista si apre con l’Eritrea che copre il 100% delle proprie importazioni con grano proveniente dai due paesi e si chiude con il Bangladesh che copre il 25% delle proprie importazioni.

Chi rischia di più

Per capire quanto il blocco dei porti del Mar Nero possa davvero rappresentare una minaccia alimentare per i diversi paesi, bisogna tenere conto di altri due elementi. Il primo riguarda il posto detenuto dalla farina di grano nelle abitudini alimentari dei singoli paesi. Il secondo riguarda il grado di dipendenza dalle importazioni di grano. Se un paese importa il 100% del proprio grano, che però gioca un ruolo trascurabile nella dieta nazionale, non ci sarebbero rischi alimentari significativi neanche in caso di sospensione totale. Diverso il caso di un paese nel quale la gente mangia prevalentemente pane e pasta: se importa anche solo il 50% del proprio grano, e questo dovesse venire a mancare, il danno sarebbe notevole. Uno studio condotto dall’istituto francese Cirad su una sessantina di paesi d’Africa e del Medio Oriente, per un totale di 1,3 miliardi di persone, ha evidenziato che, pur dipendendo tutti dalle importazioni di grano per percentuali importanti, non tutti subirebbero le stesse conseguenze in caso di gravi turbolenze sul mercato mondiale del grano. Di fatto «solo» una porzione formata da 400 milioni di individui residenti in una quindicina di paesi subirebbe conseguenze gravi perché fa grande uso di pane e di pasta. Un secondo gruppo, formato da altri 400 milioni di persone, subirebbe conseguenze medie perché pane e pasta rappresentano cibi complementari. Infine, un terzo gruppo formato dai restanti 500 milioni di persone subirebbe conseguenze lievi perché per loro pane e pasta sono alimenti marginali. A conti fatti, in caso di riduzioni significative di grano sul mercato internazionale, i paesi a maggior rischio alimentare sarebbero soprattutto Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Turchia. In questi paesi, i minori approvvigionamenti dall’estero potrebbero provocare una reale crisi alimentare, come succede là dove il cibo scarseggia per guerre o siccità. Una situazione, quest’ultima che, secondo il World food programme, coinvolge una cinquantina di nazioni per un totale di 193 milioni di persone con aspetti particolarmente drammatici in Etiopia, Madagascar meridionale, Sud Sudan,

Yemen, paese quest’ultimo dove mezzo milione di persone richiede interventi urgenti per evitare la morte per fame.

Raccolta del grano. Foto Robert Wiedemann – Unsplash.

la spesa delle famiglie

Vada come vada, la guerra in Ucraina è destinata a lasciare un segno profondo in tutti i paesi grandi importatori di grano perché, oltre alle conseguenze immediate, ci sono quelle di lunga durata che si faranno sentire negli anni a venire, per tre ragioni di fondo. La prima è la riduzione dei raccolti 2022 e 2023 causata dal dirottamento di mano d’opera dall’agricoltura all’esercito e dall’insicurezza provocata dal conflitto, fatti che impediscono di raccogliere ciò che arriva a maturazione e di effettuare nuove semine. La Fao stima che fra il 20 e il 30% della terra agricola ucraina non sarà utilizzata per la prossima semina. La seconda ragione di crisi è dovuta al prezzo dell’energia. L’agricoltura ne assorbe grandi quantità, sia in forma diretta che indiretta: diretta, per l’uso di corrente elettrica e carburante; indiretta per l’uso di fertilizzanti. Le sanzioni imposte alla Russia e le contromisure assunte da quest’ultima, hanno già provocato importanti aumenti di prezzi nel settore energetico e dei fertilizzanti, e altri potrebbero arrivare con inevitabili ripercussioni sul prezzo finale delle derrate alimentari. Con due conseguenze: minor cibo sulle tavole di milioni di famiglie e aumento della povertà. In Europa, il cibo assorbe mediamente il 15% della spesa familiare, mentre nei paesi a reddito medio basso assorbe attorno al 50%. In Nigeria, ad esempio, si attesta al 44%. Nel Sud del mondo, dunque, le famiglie sono molto sensibili ai prezzi dei prodotti alimentari, in particolare di quelli di largo consumo come il pane. Se quote crescenti di reddito familiare debbono essere utilizzate per mangiare, ne rimane di meno per le altre spese, determinando un impoverimento generalizzato.

Guerre, fame, debito

Non va dimenticato che, nel 2011, l’aumento del prezzo del pane provocò varie rivolte nei paesi del Nord Africa, fino ad assumere i connotati di una rivolta politica che prese il nome di «primavera araba». Ciò spiega perché, in molti paesi africani, i governi intervengano con sovvenzioni pubbliche per mantenere basso almeno il prezzo del pane. Fra questi l’Egitto dove il 70% dei 102 milioni di abitanti vive acquistando pane a prezzo calmierato dalle integrazioni statali. Questo fa capire perché l’aumento di prezzo dei cereali o dei prodotti oleari, sia non solo un problema delle famiglie, ma anche dei governi che ogni volta subiscono aggravi di spesa pubblica. E non è certo un caso se, poco dopo l’avvio delle ostilità in Ucraina, l’Egitto ha fatto ricorso al Fondo monetario Internazionale e all’Arabia Saudita per discutere nuovi prestiti. La chiusura perfetta del cerchio formato da guerre, fame e debito.

 Francesco Gesualdi

 




Stati Uniti versus Cina: la lotta per la supremazia


Testo di Francesco Gesualdi


Trump accusa la Cina di pratiche commerciali sleali. Per questo ha adottato dazi sui prodotti cinesi, innescando una guerra commerciale che ha conseguenze mondiali. Quella tra Stati Uniti e Cina è una lotta tra giganti, a cui nulla importa delle persone e del Creato. Nel frattempo, l’Italia…

Uno degli elementi di complicazione del capitalismo è che le imprese non sono un corpo omogeneo. Unite dal medesimo obiettivo di fare profitto, si dividono in mille rivoli quando veniamo alle strategie. Grandi contro piccole, finanziarie contro produttive, locali contro globali, sono solo alcune delle contrapposizioni in campo. Ogni gruppo tenta di far prevalere il proprio interesse e, a seconda di quale si impone, il capitalismo cambia forma. Senza mai arrivare a un assetto definitivo perché la lotta è continua. Talvolta il cambiamento è così repentino che non facciamo in tempo a capire cosa è successo che già è in corso un nuovo mutamento. E, a rendere le cose ancora più complicate, ci sono i calcoli della politica che oltre a voler soddisfare le esigenze dei potentati economici hanno interesse a sopire le frustrazioni popolari per garantirsi un largo consenso. Ed ecco il riemergere di nazionalismi e posizioni di indiscussa fede mercantilista che, attribuendo la responsabilità di tutti i mali agli stranieri, pretendono di risolvere i problemi nazionali semplicemente spuntando rapporti più favorevoli nei confronti del resto del mondo. Magari cominciando a erigere muri contro chiunque pretenda di entrare in casa sua senza essere stato espressamente invitato.

I rappresentanti di questo nuovo corso sono Le Pen, Salvini, Orban, ma soprattutto Donald Trump che è stato anche il più audace in campo economico.

Produzione e posti di lavoro

Il paese contro il quale il presidente americano si è scagliato di più è stato la Cina accusandolo di avere fatto perdere agli Stati Uniti oltre tre milioni di posti di lavoro. In effetti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono passate da 2 miliardi di dollari nel 1979 a 636 miliardi nel 2017. E se, nel 2000, gli Stati Uniti registravano un deficit commerciale verso la Cina (differenza fra importazioni ed esportazioni) pari a 84 miliardi di dollari, nel 2017 lo troviamo a 375 miliardi di dollari.

Ciò che Trump ha sempre omesso di dire è che gran parte della crescita delle esportazioni cinesi è pilotato dalle stesse imprese statunitensi che hanno eletto la Cina a principale paese in cui spostare la produzione. Valga come esempio la Nike che, in Cina, dispone di 116 terzisti su un totale di 527 imprese appaltate a livello mondiale. Oppure Apple, che in Cina annovera 380 terzisti sul migliaio che registra a livello planetario.

Sia come sia, già in campagna elettorale Trump aveva promesso battaglia alla Cina con un’accusa durissima lanciata in un comizio del 2 maggio 2016: «Non possiamo continuare a permettere alla Cina di saccheggiare la nostra nazione, perché questo è ciò che sta facendo. Stiamo assistendo alla più grande rapina della storia mondiale». E una volta vinte le elezioni, appellandosi alla Sezione 301, la legge Usa che consente agli Stati Uniti di porre limitazioni alle importazioni provenienti dai paesi che adottano pratiche sleali, Trump ha decretato aumenti doganali sui prodotti provenienti dalla Cina.

Al primo provvedimento, adottato nell’aprile 2018, ne sono seguiti altri, per cui si è messa in moto un’escalation della quale al momento è difficile prevedere gli esiti, perché ad ogni iniziativa statunitense la Cina reagisce con contromosse uguali e contrarie. Al di là di questa contrapposizione, è importante sottolineare che la questione commerciale è usata come pretesto per mettere i puntini sulle «i» su una serie di altre questioni, anch’esse di importanza strategica per le imprese statunitensi.

Le accuse e i dazi punitivi

Tre le questioni di fondo: la proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici, l’accesso al mercato cinese.

La proprietà intellettuale è un tema che sta molto a cuore alle imprese americane basate sull’innovazione. In particolare quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica, della chimica, della farmaceutica, dei macchinari. La loro espansione si basa sulla capacità di elaborare prodotti nuovi, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, per cui è di vitale importanza che nessuno possa utilizzare le loro scoperte o le loro invenzioni senza licenza, che poi significa autorizzazione a pagamento. Per capire quanto sia potente la lobby dell’innovazione tecnologica, basti dire che uno dei 15 trattati istitutivi dell’Organizzazione mondiale del commercio è dedicato proprio alla proprietà intellettuale con lo scopo di definire i principi a cui ogni stato deve uniformarsi quando legifera in materia. Naturalmente la regola d’oro è che nessuna impresa può usare l’invenzione messa a punto da un’altra impresa senza contratto di licenza. E i risultati si vedono: la proprietà intellettuale smuove ogni anno svariate centinaia di miliardi di dollari a livello mondiale, con gli Stati Uniti in cima alla lista dei beneficiari. Nel 2017, le licenze sui brevetti hanno generato a favore delle imprese statunitensi incassi per 128 miliardi di dollari, di cui  8,8 miliardi da imprese cinesi. Il governo statunitense, tuttavia, ritiene che la cifra copra solo una piccola parte dei benefici realmente goduti dalle imprese cinesi, perché gran parte delle innovazioni sarebbero copiate in maniera abusiva procurando alle imprese americane un danno per 50 miliardi di dollari. Di qui i dazi punitivi contro la Cina.

La seconda accusa rivolta alla Cina è che sostiene in maniera eccessiva con aiuti statali le proprie imprese. La prova sarebbe contenuta nel documento di programmazione economica adottato dal governo cinese nel 2015, noto come Made in China 2025. Il piano, che si pone l’obiettivo di trasformare la Cina in un leader mondiale in alcuni settori chiave come i semiconduttori, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’energia rinnovabile, l’auto elettrica, il materiale biomedico, prevede di farlo attraverso una serie di misure che le autorità americane bollano come concorrenza sleale. Non solo perché le imprese cinesi possono godere di sovvenzioni pubbliche nell’ambito della ricerca, ma anche perché sarebbero previste delle procedure di acquisto che privilegiano le imprese nazionali a detrimento di quelle estere.

La terza accusa, infine, è che la Cina continua ad imporre troppi limiti e vincoli alle imprese estere che vogliono entrare nel capitale delle imprese cinesi. Uno degli obblighi più odiosi, a detta delle autorità americane, è quello di dover condividere i segreti industriali. Dunque, la questione tecnologica torna e ritorna, facendoci capire che è il vero nodo attorno al quale ruota l’intero contenzioso fra Cina e Stati Uniti, come del resto è confermato anche dal caso Huawei.

Il caso Huawei

Fra le più grandi multinazionali del mondo attive nel campo delle telecomunicazioni, delle reti e dei dispositivi informatici, c’è la Huawei, un’impresa cinese a proprietà collettiva, addirittura posseduta dai lavoratori stessi. Ma il condizionale è d’obbligo visto la cortina di segretezza che avvolge la Cina. Nata come impresa privata nel 1987, Huawei ha avuto uno sviluppo rapidissimo, con filiali sparse in tutti i continenti. Si narra, ad esempio, che sia di Huawei la tecnologia usata nei 16 mila uffici postali distribuiti in Italia. Uno degli ambiti in cui Huawei sta avanzando di più è quello del 5G anche detto «internet delle cose», la tecnologia dell’avvenire che permetterà di controllare a distanza elettrodomestici e macchinari nelle nostre case, uffici, stabilimenti.

Huawei è nel mirino del governo americano già dal 2012, con l’accusa di spionaggio e pirateria industriale. Ma recentemente è stata anche accusata di mantenere relazioni economiche con l’Iran contravvenendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Per questo il 1° dicembre 2018, Meng Wanzhou, alto dirigente di Huawei, è stata arrestata mentre era di passaggio in Canada e successivamente estradata negli Usa, dove dovrà rispondere di 13 capi d’accusa che vanno dallo spionaggio alla truffa finanziaria. Non contento, Trump ha anche chiesto ai paesi occidentali in rapporti commerciali con Huawei di sospendere qualsiasi relazione economica con questa impresa.

Dunque i rapporti fra Cina e Usa sono al calor bianco e non per qualche manciata di miliardi di import export, ma per il dominio dell’economia mondiale che si gioca su due piani: la supremazia tecnologica e la capacità di dominare le rotte commerciali.

L’Italia sulla «Via della seta»

Il tema delle rotte commerciali ci porta al progetto cinese inizialmente chiamato «Via della seta» e poi ribattezzato Road and Belt Initiative (in sigla Rbi) che potremmo tradurre come «Progetto di cintura stradale». Un progetto faraonico che ha il duplice scopo di rafforzare la rete stradale che collega la Cina all’Europa e quindi all’Asia Occidentale e di rafforzare le infrastrutture marittime dei paesi asiatici, africani ed europei. Il tutto per permettere alla Cina di espandere i suoi rapporti commerciali (come nella mappa sotto lo sguardo del presidente Xi Jinping).

Il costo totale del progetto, spalmato in più anni, è stimato in 8.000 miliardi di dollari e sarà sostenuto in parte dai governi che aderiscono all’iniziativa, in parte dal governo cinese. Più in particolare il governo cinese partecipa sia con investimenti diretti che con prestiti. Al 2017 si stima che il governo cinese abbia investito nel progetto 350 miliardi di dollari di cui 70 sotto forma di investimenti diretti e 280 sotto forma di prestiti. Su proposta del governo cinese, nel 2015 è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) come ulteriore strumento di finanziamento delle opere progettate nell’ambito della Road and Belt Initiative. A essa partecipa anche l’Italia per il tramite di «Cassa depositi e prestiti», che detiene il 2,58% del capitale sociale della banca pari a 2,5 miliardi di euro. Ed è stato proprio per rafforzare questo rapporto di collaborazione che, a marzo a Roma (e poi ad aprile a Pechino), il governo italiano ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un Memorandum d’intesa. «Le parti – è scritto nel documento – esploreranno modelli di cooperazione di reciproco beneficio per sostenere la realizzazione del maggior numero di programmi inseriti nella Rbi». Beneficio che, nel caso della Cina, si traduce nell’interesse a rafforzare la propria presenza nelle società che gestiscono  porti e autostrade d’Italia, senza dimenticare che già detiene il 5% di Società autostrade e il 49% della società che gestisce il porto di Vado presso Savona. Quanto all’Italia il suo interesse è sia industriale che finanziario. Da un punto di vista industriale l’interesse è quello di fare realizzare ai cinesi opere che altrimenti non potrebbero decollare per mancanza di fondi italiani. Un esempio è l’ampliamento del porto di Trieste. Da un punto di vista finanziario è quello di aprire nuove opportunità di affari per il sistema bancario italiano. E poi, chissà, se la Cina diventasse amica potrebbe anche comprarsi un po’ di debito pubblico italiano, considerato che già possiede il 5,6% del debito pubblico americano (circa 1.100 miliardi di dollari).

Lotta tra giganti

In conclusione, ha ragione l’America o la Cina? In una logica di espansione hanno ragione entrambi. L’America, che rappresenta chi è già gigante, vuole mantenere il primato imponendo al mondo intero le regole del gioco che vanno bene ai giganti. La Cina, che sta cercando di diventare gigante, vuole raggiungere il primato con metodiche di concorrenza protetta. Tutt’intorno i paesi minori come l’Italia che, non sapendo come finirà, cercano di essere amici dell’uno e dell’altro, godendo intanto di ciò che la situazione può dare. Il problema è che ciò che conta, ossia la dignità delle persone e la tutela del Creato, non è al centro dell’attenzione né di una parte, né dell’altra.

Come paesi minori, forse è proprio questo che dovremmo fare: sperimentare nuove formule economiche non orientate alla conquista, ma alla tutela delle persone e della sostenibilità in spirito di cooperazione e solidarietà. Ma, per riuscirci, dobbiamo uscire dalla logica delle bandiere e dell’accumulazione ed entrare in quella del rispetto.

Francesco Gesualdi

 




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)