Dall’Amazzonia colombiana a quella boliviana. Due missionari Imc hanno partecipato al Fospa per capire come la resistenza contro la distruzione dell’Amazzonia possa passare dalle parole ai fatti. Perché le idee e i progetti sono tanti, ma il tempo stringe.
Era il 1951 quando, nel Caquetà e Putumayo, in Colombia, arrivarono i Missionari della Consolata, con monsignor Antonio Torasso. All’epoca, l’Amazzonia era un luogo di conquista e colonizzazione. La foresta veniva distrutta per costruire strade, case, paesi, per la creazione di grandi pascoli e coltivazioni estensive per portare il «progresso» secondo la prospettiva occidentale e, infine, convertire le comunità autoctone alla religione cattolica, e vestire le persone con abiti «decenti».
Oggi, settantatré anni dopo, la realtà è molto diversa perché – per fortuna – parliamo di dialogo con le culture, rispetto del territorio, conservazione della foresta amazzonica.
Tutto questo lo sentiamo importante come ci hanno insegnato le comunità indigene del nostro territorio che, da sempre, vivono in equilibrio con la natura e da essa ricevono tutto quello di cui hanno bisogno per vivere.
La parrocchia e il parco
Io vivo nella parrocchia di Solano, Caquetà, Amazzonia colombiana. La parrocchia appartiene al Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano, creato nel 2013 da papa Benedetto XVI che nominò come primo vescovo monsignor Joaquin Humberto Pinzón Güiza, Imc, che – da allora – lo guida con molto entusiasmo.
Da sette anni sono parroco di questa parrocchia così estesa che abbiamo dovuto suddividerla in quattro parrocchie più piccole. Si trova nel municipio di Solano a cui appartiene uno dei parchi naturali più estesi e belli dell’Amazzonia colombiana: il parco del Chiribiquete. Nei suoi pressi troviamo comunità indigene autoctone (Coreguaje, Huitoto e Murui) che vivono in riserve riconosciute dal governo colombiano e con una certa autonomia e legislazione propria.
Nel parco vero e proprio è proibito l’accesso a chiunque (anche se, con molta probabilità, al suo interno si sono rifugiati gruppi della guerriglia), ma ci vivono almeno tre comunità indigene in isolamento volontario, ovvero che non sono venute a contatto con la «civiltà» occidentale.
L’Amazzonia e Francesco
In questi ultimi anni, da territorio dimenticato e marginale, l’Amazzonia è diventata luogo di somma importanza per la vita dell’umanità. Anche papa Francesco l’ha posta al centro dell’attenzione a livello ecclesiale sia per la salvaguardia del Creato, sia per le popolazioni che in questo territorio vivono.
Oltre ad aver scritto nel 2015 l’enciclica «Laudato Si’» sulla cura della Casa comune, nel 2019 Francesco ha indetto il Sinodo per l’Amazzonia. Il documento post sinodale è stato accompagnato dalla lettera «Querida Amazonia». Inoltre, il pontefice ha fatto nascere la Ceama, la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia. Prima del Sinodo, era sorta la Repam, la «Rete ecclesiale panamazzonica» per raccogliere tutte le forze presenti nell’Amazzonia, dove sono presenti più di cento giurisdizioni ecclesiastiche.
La nascita del Fospa
Sapendo che l’unione fa la forza, nel 2002 persone, associazioni e gruppi hanno dato vita a uno spazio d’articolazione per proteggere quello che viene chiamato il «polmone» del pianeta e così è nato il Fospa, il «Foro sociale panamazzonico».
Nel 2017, a Tarapoto, in Perù, avevo partecipato all’ottava edizione del Fospa. Quest’anno l’undicesima edizione dell’incontro si è tenuta dal 12 al 15 giugno scorso, a Rurrenabaque, San Buenaventura y Reyes nell’Amazzonia boliviana dove ho avuto la fortuna di partecipare assieme a padre Fernando Flóres e Tania Ruiz del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano.
Da un’Amazzonia all’altra
Siamo arrivati in Bolivia in anticipo per trascorrere due giorni a La Paz, la capitale amministrativa più alta del mondo, a 3.600 metri sopra il livello del mare. E qui abbiamo avuto modo di vedere – con i nostri occhi – cosa produce il cambiamento climatico.
Con una guida turistica siamo, infatti, stati sul massiccio di Chacaltaya, a 5.421 metri d’altezza, unico centro di sport invernali della Bolivia e anche il più alto del mondo e più vicino alla linea equatoriale.
A causa del riscaldamento globale, dal 2009 il ghiacciaio (risalente a 18mila anni fa) è praticamente scomparso, lasciando il posto a un deserto di rocce. Nel gruppo delle dodici persone in visita al luogo c’era un signore olandese che ha raccontato la sua esperienza negli anni Settanta come sciatore in questo stesso luogo.
Sulla crisi climatica
A quest’ultimo Forum hanno partecipato 1.200 persone provenienti dai nove Paesi dell’Amazzonia, ma anche dall’Africa. I partecipanti sono stati divisi in quattro grandi gruppi, attorno ad altrettanti temi: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre Terra, estrattivismo e alternative, resistenza delle donne.
Io ho fatto parte del gruppo Madre Terra. Il tema è stato diviso, a sua volta, in cinque aree di studio. Personalmente, ho partecipato al gruppo di lavoro sul «Cambio climatico» («Crisi climatica») che noi abbiamo ribattezzato «Collasso climatico».
Inizia così il nostro documento finale: «L’Amazzonia ha raggiunto il punto di non ritorno: il collasso climatico derivante dalla deforestazione e dall’estrattivismo minaccia la sua sopravvivenza, quella delle comunità che la abitano, e mette a rischio la vita dell’intero pianeta».
Si è insistito molto sul fallimento del cosiddetto «accordo di Parigi» (per limitare il riscaldamento globale, entrato in vigore nel novembre 2016) e sulla solidarietà tra i popoli per frenare ogni tipo di meccanismo perverso.
Oggi la situazione è preoccupante: «Senza l’Amazzonia non esiste soluzione alla crisi climatica. Senza una soluzione alla crisi climatica globale non sarà possibile salvare l’Amazzonia».
Abbiamo riflettuto per un accordo a favore della vita, e proposto un cambio dalla base, con una «minga» (termine quechua per indicare un lavoro comunitario) e cioè un tavolo di lavoro collaborativo tra i vari continenti, partendo dal nostro sentire e pensare. Per rendere realtà l’urgente richiesta di «cambiare il sistema capitalista e non il clima» occorrerà: costruire territori liberi da estrazione petrolifera e mineraria, deforestazione, agrocommercio, inquinamento, libero commercio, razzismo, colonialismo, prodotti transgenici, prodotti agrotossici, megaprogetti infrastrutturali, violenza, militarizzazione, genocidio e terricidio.
«Oggi – hanno spiegato i partecipanti – è chiaro che soluzioni reali ed efficaci arriveranno dalle nostre lotte, dai nostri territori, dalla nostra esperienza, dalla nostra capacità di autogestione e dalle nostre alternative».
A casa dei Chimanes
Oltre a partecipare ai lavori di gruppo, abbiamo avuto l’opportunità di visitare una delle tante comunità indigene del territorio. Siamo così stati a San José di Canaan, una comunità di Chimanes (detti anche Tsimané) che vive in una riserva riconosciuta dal governo. Attorno a loro ci sono altri ventitré villaggi indigeni che lo scorso anno hanno vissuto un terribile incendio durato quasi tre mesi. Con tutte le loro forze hanno cercato di domarlo ma l’incendio ha distrutto intere comunità. Anche San José ha perso molti raccolti, ma si è riusciti a circoscrivere la perdita all’esterno del villaggio. È stato un disastro umano e ambientale molto grande. Oggi ci sono famiglie con bambini delle comunità distrutte, che vanno nei ristoranti e negozi dei due paesini di Rurrenabaque e San Buenaventura a chiedere elemosina.
La comunità San José ci ha accolto con una danza e un discorso di benvenuto nella propria lingua.
In seguito, alcuni di loro han- no raccontato il dramma vissuto. Molto interessante è stato vedere come le comunità si siano assunte le loro responsabilità proponendo criteri e metodologie affinché, in futuro, gli incendi non vengano favoriti dagli stessi abitanti.
Sono state stabilite norme precise come non diserbare con il fuoco ma triturare la vegetazione perché rimanga come concime per la terra. E quando, eventualmente, si dovesse pulire un terreno con il fuoco, non farlo nei quattro mesi di tempo secco e cercare sempre la presenza di tutta la comunità perché possa intervenire in caso d’emergenza.
La lezione che abbiamo appreso dall’esperienza di San José è la seguente: non bisogna aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, occorre iniziare da noi stessi a realizzare azioni utili per un futuro migliore.
I nostri comportamenti
Come sanno benissimo i lettori di Missioni Consolata, bisogna rivedere il nostro stile di vita. Quindi, è indispensabile ridurre il consumo di acqua, non sprecare energia elettrica, utilizzare meno carta, muoversi di più a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici, ottimizzare i sistemi di riscaldamento e raffreddamento in casa, ridurre gli sprechi alimentari, piantare alberi, riciclare, recuperare.
Qui, nella nostra parrocchia, stiamo spingendo a non utilizzare recipienti monouso. La stessa gente del paese sta guardando alle istituzioni che rispettano l’ambiente. Questo diventa un incentivo per aumentare la sensibilità verso la custodia della natura e dell’Amazzonia tutta.
Angelo Casadei
Puerto Leguízamo, esperienze concrete a livello di territorio
Dalle parole ai fatti
«L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di apportare cambiamenti negli stili di vita, nella produzione e nei consumi, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano» (Laudato Si’, 23).
Nel 2015, il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano ha iniziato l’attuazione di un progetto sul Cambiamento climatico sotto la direzione del padre José Maria Córdoba Rojas, all’epoca direttore della Pastorale sociale. L’intervento è stato realizzato nella zona di Nuestra Señora de la Mercedes del Comune di Solano Caquetá.
Obiettivo del progetto: aumentare la resilienza delle comunità contro i rischi di siccità e inondazioni, attraverso metodi di produzione adattati e sostenibili, con la partecipazione di cento famiglie (di cui novanta contadine e dieci indigene) situate nelle veredas (comunità rurali con coloni provenienti da altre regioni, ndr) di Mononguete, Las Mercedes, Hericha, Peñas Blancas e nel resguardo (comunità indigena autoctona, ndr) la Teófila.
L’intervento è stato realizzato tenendo conto delle popolazioni più vulnerabili, cercando nelle comunità un cambiamento nei modi di vita in armonia con il territorio amazzonico. Attraverso i processi formativi è stato possibile per le famiglie trasformare un atteggiamento passivo in uno sguardo critico e riflessivo sulla realtà sociopolitica, economica ed ecologica, a partire dalla gestione delle proprie aziende agricole e da come vengono visti il territorio e la comunità.
A livello comunitario è stata rafforzata la leadership, sono state formulate, gestite e realizzate piccole iniziative per progetti infrastrutturali e per la lavorazione del latte e del miele di canna. Attraverso spazi di lavoro comunitario e scambi di esperienze e visite tra produttori, è stato possibile conoscere nuove visioni del territorio, pratiche agroforestali sostenibili, scambio di sementi, riconoscimento e valorizzazione delle tradizioni culturali di alcuni popoli dell’Amazzonia.
Francisco Rodriguez Tovar
La riflessione
Plurietnici, Pluriculturali, Biodiversi
ARurrenabaque-San Buenaventura ci siamo riconosciuti plurietnici, pluriculturali e biodiversi, ma immersi in una visione d’insieme chiamata Amazzonia, superando così i confini imposti dai nove Stati nazionali in cui il territorio amazzonico è stato suddiviso.
L’Amazzonia vive perché respira attraverso la complessità delle sue foreste, acque, flora, fauna e delle culture che si mostrano nei volti di indigeni e afro, di contadini e residenti fluviali, ma anche abitanti delle città. Questa Amazzonia è però malata e sofferente a causa dei progetti di morte che si sviluppano al suo interno, trasformando la Madre Terra in una semplice risorsa monetaria venduta al miglior offerente.
Se sul pianeta tutto è connesso, una «foresta» non funziona senza l’altra. La foresta eurocentrica di cemento ha bisogno della foresta amazzonica per preservare la vita nelle sue molteplici forme. Al medesimo tempo, la foresta amazzonica ha bisogno che la foresta eurocentrica prenda coscienza che è impossibile sostenere un consumo infinito con risorse finite. Per tutto questo, accanto ai volti amazzonici, il Fospa ha accolto altri volti provenienti da diverse parti del pianeta che si sono alleati nel grido in favore della vita.
È stato interessante sentire che non si deve aspettare che la cura arrivi solo dall’esterno. È da questa constatazione che scaturisce la necessità di passare dalla condizione di vittime a quella di attori, avendo sempre ben chiaro che non c’è cultura senza territorio, non c’è territorio senza conoscenza, saperi e memoria, non c’è territorio senza acqua.
L’autonomia non si ottiene solo da un documento, ma da un territorio con le caratteristiche preesistenti che comprendono spiritualità, cibo e salute. Siamo autonomi quindi se viviamo, se produciamo e se abbiamo la capacità di curarci.
Il Fospa porta avanti il grande sogno di vedere il territorio come la Madre da cui tutti dipendiamo e l’essere umano come fratelli e sorelle diversi, sì, ma uniti da un unico scopo: coltivare, proteggere, guarire e tessere la vita che ci è stata data in eredità dalle nostre antenate e antenati. Il Fospa – infine – è servito per condividere una Parola che è arrivata al cuore e che ognuno di noi partecipanti si è portato con sé per essere risvegliata nei propri territori.
Fernando Flórez Arias (Imc)
Colombia. Mai fare tabula rasa
Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.
Quando, nel novembre del 1986, arrivai nel seminario internazionale dei Missionari della Consolata a Bogotá, in Colombia, il formatore era padre Antonio Bonanomi. Prima di conoscere questo paese multietnico, con una grande biodiversità ecologica, visitandone i luoghi, attraversandone le strade, padre Bonanomi fece a me e ai miei cinque compagni un’introduzione sulla complessa realtà latinoamericana e colombiana a livello sociale, politico, religioso, storico e culturale. Padre Bonanomi fu la mia guida nei primi quattro anni colombiani durante gli studi di teologia, terminati con l’ordinazione diaconale (poi, nel dicembre 1990, rientrai in Italia per un periodo di animazione missionaria).
Quei giorni sono rimasti nel mio cuore perché mi aprirono gli occhi su un nuovo mondo. C’è una frase, in particolare, che mi è rimasta nel cuore e nella testa come un tarlo: «Il futuro d’America è nei popoli originari».
Per anni ho cercato di capire cosa volesse dire. Oggi quell’affermazione ha trovato delle risposte nelle esperienze con i popoli indigeni e nel lavoro realizzato dai nostri missionari in tutti paesi dove siamo presenti. Non posso non ricordare la bella e difficile esperienza Imc in Brasile, a Catrimani o tra gli indigeni delle pianure amazzoniche di Roraima per il recupero della loro terra.
Penso anche a Licto Riobamba, nelle Ande dell’Ecuador, dove le comunità indigene sono impegnate nelle attività e i missionari le accompagnano nella formazione e nelle celebrazioni. Qui, padre Giuseppe Ramponi ha lavorato per molti anni imparando la lingua e apportando alle comunità molti elementi di formazione umana e recupero della loro cultura.
In Colombia, con i popoli dell’Amazzonia, condividiamo un dialogo interreligioso molto profondo: la nostra esperienza di fede cristiana e cattolica si è incontrata con la loro spiritualità che ha molti punti d’incontro con la fede in Cristo. E abbiamo anche conosciuto il loro amore e rispetto per la Madre Terra che noi bianchi finora abbiamo concepito soltanto come un luogo di sfruttamento senza limiti.
Nel 1991 la nuova Costituzione colombiana ha rivalutato i popoli indigeni. Prima di essa, essere indigeno era sinonimo di inferiorità. Per questo motivo molti hanno abbandonato la propria identità e si sono uniformati alla cultura occidentale.
Toribío e il progetto Nasa
Lo scorso settembre sono stato alcuni giorni a Toribío, nella regione andina del Cauca, per un incontro con i rappresentanti dei Nasa. È stata l’occasione per toccare con mano come un popolo originario che recupera la propria identità e ne è fiero, può contribuire a dare uno stile alternativo al nostro modo di vivere.
In quei giorni ho compreso il grande accompagnamento realizzato da oltre cinquanta missionari che, in 38 anni di presenza dell’Istituto della Consolata, hanno vissuto con il popolo nasa. È stata realizzata un’evangelizzazione che non partiva dal principio della «tabula rasa» per imporre la «nostra religione», ma dall’identità di questo popolo, nel recupero della sua storia, della sua cultura, spiritualità, organizzazione politica, venendo a creare così un interscambio molto interessante tra i Nasa e gli altri soggetti (lo Stato, la Chiesa, il mondo).
A Toribío noi Missionari della Consolata siamo arrivati dopo la morte violenta (nel 1984) di padre Alvaro Ulcué Chocué, primo sacerdote indigeno di questa etnia, ordinato nella Chiesa dell’arcidiocesi di Popayan. Per venti anni i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, assieme a un’équipe missionaria e all’associazione Nasa hanno animato il territorio.
Come missionari e missionarie che vivono attualmente con le comunità indigene, il motivo dell’incontro dello scorso settembre è stato quello di una verifica critica e propositiva, per poi riprendere alcuni elementi che potrebbero essere utili per l’accompagnamento del cammino dei popoli originari non solo in Colombia, ma anche in Perù ed Ecuador.
Ci siamo trovati con un nutrito gruppo di indigeni «mayores» (capi, anziani del popolo nasa) catechisti e coordinatori di diverse aree del progetto Nasa. La grande maggioranza delle persone presenti sono state formate dall’équipe missionaria e hanno condiviso il significato della presenza dei Missionari della Consolata nel territorio, che è stata una grande ricchezza per tutti.
Abbiamo realizzato il primo giorno dell’incontro nella scuola agroecologica del Cecidic, un Centro di studio e formazione in difesa della cultura del territorio, fondato da padre Antonio Bonanomi.
Il secondo giorno è stato scandito da tre momenti: il refresco, la limpieza e il trueque. Ai piedi di una meravigliosa cascata, i vari capi anziani delle comunità Nasa hanno voluto pregare per noi. «Voi – hanno spiegato – avete pregato molte volte per noi, adesso noi vogliamo pregare per voi», e ci hanno coinvolti in un rito di purificazione con canti, benedizioni e offerte di frutta alla madre terra.
Dopo la «limpieza», abbiamo avuto la gioia di partecipare a un evento annuale noto come «trueque», lo scambio di sementi e di prodotti agricoli che ha coinciso con i 42 anni del progetto Nasa e i 38 della nostra presenza come Consolata nel territorio nasa.
L’attività si è svolta proprio nel luogo dove è nato questo progetto promosso e animato da padre Alvaro Ulcué per recuperare l’identità del suo popolo che rischiava di perdere le proprie origini. Hanno partecipato circa tremila indigeni. È stata una festa, con cibo per tutti, come espressione di un popolo che è cresciuto in comunione, in organizzazione e partecipazione.
L’incontro di settembre è servito per scoprire che la vita «offerta» in équipe trasforma l’ambiente, le persone con la presenza del Signore che motiva, dà forza, sostiene e si fa consolazione.
In quei giorni, i Nasa ci hanno fatto sentire parte di loro e ci hanno chiesto di continuare ad accompagnarli.
Ci hanno hanno anche proposto di collaborare nella missione verso altri popoli indigeni dove siamo presenti perché tutti possano sperimentare il processo realizzato nel Cauca. Oggi, qui operano due missionari Imc: padre John Wafula Wamalwa del Kenya e Francis Gerard Shau del Tanzania.
Ci siamo lasciati con l’impegno di continuare il dialogo e di realizzare, in futuro, un nuovo incontro con il popolo nasa e altri popoli indigeni che vogliono continuare ad approfondire e conservare la propria identità.
Dopo i giorni dell’incontro, siamo tornati ai nostri rispettivi luoghi di fede, comunione e vita. Siamo rientrati «a casa», con la soddisfazione di essere stati testimoni dei frutti di un’evangelizzazione che parte da un’équipe di vita, dove si sperimenta la spiritualità, la fraternità e si lavora in comunione.
Angelo Casadei
L’esperienza Imc nel Cauca sulla strada di padre Alvaro
Al centro di tutto c’è il popolo dei Nasa, un insieme di famiglie indigene in lotta fra di loro ma che, per difendersi dai nuovi invasori, si unisce per non perdere le proprie terre e tradizioni.
Fondamentale diventa la figura del padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote diocesano di origine nasa che presta il servizio pastorale in mezzo alla sua gente e, al tempo stesso, elabora con la comunità il progetto Nasa per il recupero dell’identità indigena. Questa nuova consapevolezza porta la gente a lottare per la propria cultura, spiritualità e recupero del territorio.
I potenti della zona non ci stanno: sono loro i mandanti dell’assassinio di padre Alvaro, che viene ucciso da sicari il 10 novembre del 1984. Il Progetto però non muore. Anzi, prende più forza perché la popolazione ha ormai preso coscienza.
Il padre Ezio Roattino (oggi residente ad Alpignano, Torino, ndr), a quel tempo a Bogotà come provinciale dei Missionari della Consolata ed amico del padre Alvaro, appena appresa la notizia della sua morte si precipita a Toribío e accompagna il popolo Nasa in lutto.
Quando rientra A Bogotà, fa la proposta ai Missionari della Consolata di continuare il progetto di padre Alvaro. Padre Armando Olaya risponde «A la orden» (sono disponibile) e, con alle spalle un solo anno di sacerdozio, parte per il Cauca. Senza sapere più di tanto della realtà di quel popolo, si mette in cammino con loro. Anche padre Ezio Roattino, terminato il suo mandato come superiore, partirà per questa terra ed è l’unico missionario che imparerà la lingua «Nasa Yuwe».
Dopo tre anni di permanenza a Toribío padre Armando viene richiamato a Bogotá come formatore del Seminario filosofico Imc, ma è subito pronto a sostituirlo padre Antonio Bonanomi che realizza così il sogno della sua vita: vivere la missione con un popolo autoctono. Rimarrà a Toribío per 16 anni.
In questo tempo, grazie all’équipe missionaria formata da missionari, sacerdoti, laici locali delle varie parrocchie affidate ai Missionari della Consolata e presa a cuore da padre Antonio Bonanomi, le comunità autoctone del Cauca crescono moltissimo mediante una formazione che è, a un tempo, spirituale, sociale, politica e culturale. Sempre senza forzare ma scoprendo i valori del Vangelo dentro la cultura locale, attraverso la conoscenza della Parola di Dio, con l’eucaristia e partecipando ai riti di purificazione («limpieza») proprie della cultura nasa.
In questo impegno missionario s’inserisce anche la presenza silenziosa di padre Rinaldo Cogliati che, oltre ad accompagnare le comunità, è di grande aiuto come amministratore dei progetti di padre Antonio, che lo riconosce come suo braccio destro.
In seguito, molti altri missionari arrivano nel Cauca: colombiani, latinoamericani, nord americani e africani. L’impegno è apprezzato dalle comunità indigene, che lo vedono come un’apertura verso di loro e un’opportunità di raccontare se stessi.
An.Ca.
La Colombia e il riscatto indigeno, dalla fuga al ritorno alle origini
Per trovare i popoli ancestrali della Colombia occorre salire sulle alte catene montuose o giù verso il bacino amazzonico. Questa posizione è in parte spiegabile con il fatto che gli invasori spagnoli si appropriarono delle terre migliori, quelle delle valli e delle colline pedemontane.
Per i popoli invasi, una delle forme di resistenza è stata quella di occupare i luoghi geografici di difficile accesso: le montagne e la foresta.
L’indipendenza dall’oppressione della Spagna, a cui parteciparono i popoli nativi, i popoli afro e i meticci, non portò loro grandi guadagni. In verità, non c’è stata una vera indipendenza. Piuttosto, essa ha lasciato il posto a nuove modalità di oppressione, esilio, esclusione ed emarginazione.
La storia però non si ferma. La mente si illumina ed esce dal letargo. Ed è così che, da qualche anno, si è generata un’altra dinamica: il ritorno alle origini, alle sorgenti d’acqua ancora fresche, ma nascoste.
Non è un ritorno anacronistico. Tiene conto di tutte le implicazioni sociali, politiche, economiche e culturali del mondo di oggi. Il ritorno alle fonti è una discesa verso i tesori più preziosi che gli invasori non potevano portare via o distruggere: «Hanno raccolto i nostri frutti, tagliato i nostri rami, bruciato i nostri tronchi, ma non hanno potuto uccidere le nostre radici» (Popol Vuh, libro sacro dei Maya).
È necessario scendere in profondità per ascoltare gli spiriti degli antenati, ascoltare la Madre Terra, il canto degli uccelli, il mormorio del vento, la voce dei più grandi viventi, le voci degli alleati delle cause liberatrici.
Così come l’uscita è stata un volo doloroso, il rientro di questi ultimi anni è piena di speranza: scendere per liberare la spiritualità, la terra usurpata, i luoghi sacri, le voci degli anziani, dei giovani e dei bambini, e unirsi alle voci e al canto di tutti i popoli: neri, contadini, tutti gli esclusi.
È una discesa per una liberazione totale, tra musica, canti, danze, mingas…, con il fertilizzante del sangue dei martiri. In questo andare su e giù c’è la conquista della fraternità, lo stare insieme.
La montagna non sarà più un luogo nel quale fuggire; le valli non saranno più i territori dei grandi proprietari terrieri. La terra liberata sarà il luogo dell’incontro fraterno, del baratto dove brulica la vita, dove il bambino potrà scambiare il suo bel cavolo per un delizioso gelato e la nonna potrà scambiare la sua jigra (tipica borsa indigena portata al collo, ndr) per qualche chilo di riso…
È il Sumak Kawsay, è il buon vivere, il sogno possibile della terra senza mali. È un’utopia. È il sogno di un Dio, manifestatosi in Gesù Cristo.
È il sogno che i Missionari della Consolata hanno accompagnato e continueranno ad accompagnare scalando le montagne e entrando nella bellissima e oltraggiata Amazzonia. Essi hanno raccolto alleati e continuano a essere alleati del Regno del Padre buono, Padre di tutti, del Regno in cammino insieme ai discepoli di Gesù.
Questo è qualcosa che abbiamo visto e sentito nel nostro incontro con alcuni dei sognatori combattenti del popolo nasa-páez a Toribío. Queso è ciò che ci incoraggia a continuare a condividere con loro le lotte per la costruzione di un’umanità autentica.
Armando Olaya (formatore nel Centro alternativo per la formazione di missionari – Caf a Medellín)
La Colombia su Mc
Joaquín H. Pinzón Gũiza con Angelo Casadei, Dieci anni di sogni e sognatori, gennaio-febbraio 2023.
Tre parole magiche
Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato. Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.
La prima parola è «coraggio». Questa espressione poteva significare: avanti, stai tranquillo, stai di buon umore, non preoccuparti. La usa 397 volte nelle sue lettere, soprattutto scrivendo ai suoi figli e figlie nelle lontane missioni dell’Africa. La frequenza di questa parola esprimeva quanto lui quotidianamente coglieva, pregando la «sua» Madonna Consolata. Riconosceva quanto arduo e difficile fosse il compito di aprire una nuova strada all’evangelizzazione e voleva dire loro tutto il suo amore di padre e la protezione materna della Consolata. Un esempio: «Coraggio, dunque. Ti ripeto: coraggio e pensa che io ti amo, anche perché con i voti perpetui sei mio figlio perpetuo. Scrivimi spesso».
La seconda parola è «caro/a», utilizzata 330 volte. Per lui non era un semplice e formale aggettivo con cui aprire le sue lettere. Voleva subito trasmettere con tale espressione la sua vicinanza, condivisione e tutto il suo amore nei riguardi dei suoi figli e figlie. Lui, sempre misurato, con questo termine manifestava tutta la sua carica affettiva, umana e spirituale. E i suoi missionari lo sapevano bene e contraccambiavano con altrettanto affett. Ma questo termine non lo utilizzava solo con i missionari e missionarie: non sono rare le espressioni come: «Cara Consolata», «Cari africani», «Cari defunti», «Caro vicerettore».
La terza parola è «ti benedico» e ricorre, nel suo epistolario, 470 volte. Essa rifletteva non solo il suo dovere di sacerdote, ma anche l’atteggiamento di un «patriarca biblico» che sentiva la sua responsabilità su questo suo «popolo missionario». Scriveva a padre Angelo Dal Canton e a fratel Anselmo Jantet, ritornati dalla loro prigionia in Etiopia nel dicembre 1915: «Tutte le sere senza eccezione vi mandai la mia speciale benedizione con due segni di croce». Dopo la morte dello studente Baldi Eugenio (+14/06/1917) in guerra, scriveva ai missionari: «Nella sua ultima lettera dal fronte mi diceva: “Non so se al giungerle questa mia sarò ancora vivo; in ginocchio le domando la sua santa benedizione”. L’ebbe in tutti i giorni e più volte al giorno». Così anche alle suore missionarie: «La mia benedizione a tutte e a ciascuna».
Tre parole, tre perle, che rivelano il cuore di un fondatore e padre.
padre Piero Trabucco
Fiducia nella divina Provvidenza
Padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata ugandese, da vari anni lavora in Colombia fra gli afroamericani della costa nella diocesi di Bonaventura, in una realtà di periferia caratterizzata da grande povertà e abbandono dove l’opera di evangelizzazione ha bisogno di appoggiarsi a una profonda fiducia nella Provvidenza.
Tutto nelle mani di Dio
Chiamiamo Divina Provvidenza la preoccupazione di Dio per tutta la creazione o i suoi interventi per mezzo dei quali le creature sono guidate al loro fine. Tutto ciò che Dio ha creato lo conserva e lo governa attraverso la sua Provvidenza.
La fiducia nella Divina Provvidenza è molto evidente nella spiritualità del beato Giuseppe Allamano. Non si può parlare di lui senza metterlo in relazione con essa. Era un esempio di fiducia totale nella Provvidenza perché metteva tutto nelle mani di Dio. Esortava spesso i suoi figli, missionari e missionarie a confidare totalmente del Signore.
Secondo il beato Allamano «fiducia» è sapere che Dio accompagna sempre i piani quotidiani degli esseri umani, e che la vita non dipende solo dai loro sforzi, dalle capacità intellettuali, dalle ricchezze acquisite. Tutto, in larga misura, dipende dalla cura amorevole di Dio che manda la pioggia sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45), per cui noi, come discepoli missionari di Gesù Cristo, lasciamo tutto nelle mani del Signore senza paura.
«Non fondiamo la nostra confidenza nei mezzi umani che sono in noi: talento, forze e virtù ecc., o che sono negli altri. Facciamo sempre quello che possiamo da parte nostra, poi lasciamo tutto nelle mani del Signore, senza timore. Egli lascia mai l’opera a metà» (Così vi voglio, p. 139).
La missione: luogo della Divina Provvidenza
La missione appartiene sempre a Dio e è il suo principale protagonista. Durante tutta la sua vita, Giuseppe Allamano ha chiarito che la missione è la magnifica opera di Dio e dipende interamente dalla sua Divina Provvidenza. I discepoli missionari del Signore sono semplicemente dei collaboratori che agiscono secondo la sua santa volontà.
Lui, come padre e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata doveva preoccuparsi della loro formazione, ma anche del sostegno materiale dei due istituti in patria e nei luoghi di missione. Tuttavia, non ha mai perso il sonno a causa di questa grande responsabilità perché aveva piena fiducia nella Divina Provvidenza.
Ha detto: «Io non dubito della Provvidenza. Senza questa fiducia ci sarebbe da perdere la testa. Alle volte accade che si arriva a sera e non c’è denaro per una fattura che scade. Ebbene il giorno dopo i denari arrivano e si salda il debito. Vi assicuro che non ho mai lasciato di dormire tranquillamente per questo fastidio» (Così vi voglio, p. 140).
La Consolata è la vera fondatrice
E come riponeva tutta la sua fiducia nel Signore, Giuseppe Allamano confidava anche nella potente intercessione della Consolata. Affermava che Maria Consolata era la vera fondatrice dei due istituti e che lui era semplicemente uno strumento messo da Dio per concretizzare quest’opera. Fondato su questa convinzione attribuiva un po’ tutto all’opera del Signore per intercessione della Consolata.
In innumerevoli occasioni ha parlato dell’amore materno della Consolata per l’istituto: «Sì, noi siamo figli di questa nostra madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera fondatrice è la Madonna» (Così vi voglio, p. 216).
Come ogni madre si prende cura dei suoi figli e delle sue figlie, così anche la Consolata ha sostenuto gli istituti fondati dal beato Giuseppe Allamano. Ha detto: «Tutto quello che si è fatto è opera della SS.ma Consolata. Ella ha fatto per questo istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre, piovere denari. Nei momenti dolorosi la Madonna intervenne in modo straordinario e questo senza parlare delle grazie concesseci lungo l’anno, anche di ordine temporale, come il pane quotidiano. Sì, anche per questo lascio l’incarico alla Madonna» (Così vi voglio, p. 216).
Il fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata riponeva grande fiducia nell’intercessione materna di Maria Consolata, tanto da affidare tutto alle sue cure. Era convinto che non avrebbe mai smesso di intercedere per i suoi missionari che annunciavano il Vangelo del suo Figlio Gesù, nostro salvatore. Animato da questa fiducia, in diverse occasioni ha detto: «Per le spese dell’istituto non ho mai perso il sonno e l’appetito. Dico alla SS.ma Consolata: pensaci tu!, se fai bella figura sei tu!» (Così vi voglio, p. 217).
Conclusione
Questa è la grande esortazione del beato Giuseppe Allamano ai suoi figli. Con essa ci aiuta a capire che la missione è opera di Dio e dipende interamente da lui. Sta a noi continuare a lavorare, ma con questa incorruttibile sicurezza. La Provvidenza di Dio non ci delude. «Vorrei proprio che i nostri istituti in genere e tutti voi in particolare aveste sempre questa grande fiducia in Dio» (Così vi voglio, p. 141).
padreLawrence Ssimbwa
Carlo Acutis e Giuseppe Allamano
I missionari e le missionarie della Consolata, ogni anno scelgono un patrono speciale da invocare nella loro preghiera. Quest’anno hanno scelto il beato Carlo Acutis, adolescente morto nel 2006 e beatificato da papa Francesco nel 2020. La sua vita, le sue virtù e i suoi amori evidenziano vari aspetti in comune con la vita e la santità del beato Allamano.
Un giovane di oggi
Il motivo che ci ha indotto a scegliere il beato Carlo Acutis come nostro patrono per l’anno 2023 è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato per l’eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare e nella quale seminare il Vangelo.
Fin da piccolo Carlo manifesta una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.
Innamorato dell’eucaristia
All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». È fortemente innamorato dell’eucaristia, tanto da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’eucaristia è la mia autostrada per il Cielo».
L’infinito come meta
Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Ai primi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa a una semplice febbre o influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile.
Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San
Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: «Bene, qui c’è gente che sta peggio di me». Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso».
Carlo ama ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo», e spesso dice anche: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per marciare verso questa meta e non «morire come una fotocopia», Carlo dice che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.
I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.
Sacramentini
La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’eucaristia.
Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro beato fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. L’Allamano ci esortava ad essere «sacramentini», ad avere un grande amore per l’eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, a identificarci con il Cristo nel suo mistero pasquale.
La recita giornaliera del santo rosario è per Carlo espressione di delicato amore per la santa Madre di Gesù, di cui il nostro fondatore era innamorato, presentandocela come nostra madre tenerissima, la Consolata.
I social al servizio del Vangelo
La passione di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra famiglia religiosa, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. In nostro padre fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.
Papa Francesco, nei suoi messaggi annuali in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti».
Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione oggi.
padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla
Dieci anni di sogni e sognatori
È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.
Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.
Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.
Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.
Partendo dai nostri fiumi
Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.
La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.
Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.
Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:
«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).
È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.
Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.
Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico
Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.
La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.
In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.
Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.
Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.
Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.
In attesa della seconda «Minga amazonica»
L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.
Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.
Per una storia plurale
La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.
Joaquín H. Pinzón Güiza
Il Vicariato e l’opzione indigena
Il «rostro indigeno»
Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.
Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.
Eduardo Reye Prada (Imc)
Il Vicariato e l’opzione contadina
Il «rostro campesino»
In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.
La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.
Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.
Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.
Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.
Maria del Carmen López (Cm)
Il Vicariato e l’opzione afro
Il «rostro afroamazonico»
Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.
Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).
Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.
Lelia Yaneth Márquez (Op)
Il Vicariato e l’opzione urbana
Il «rostro urbano»
Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.
Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.
La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.
Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.
La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.
In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.
Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)
Archivio MC
Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.
È tempo per una nuova Colombia
Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.
Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).
In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.
Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.
Gli anni di Uribe
Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.
Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.
Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.
Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.
Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.
Una svolta storica
Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.
La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.
È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.
Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.
Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.
Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.
È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.
La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.
Una coppia unica
Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.
Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.
Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.
È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.
L’Uribismo di Iván Duque
Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).
Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».
La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.
Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.
Mons. Luis Castro, costruttore di pace
Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».
Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.
A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.
Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.
All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.
La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.
Il popolo colombiano
Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.
«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».
Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.
i numeri della guerra
«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).
Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.
Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.
Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.
La sfida odierna
Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».
Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.
Paolo Moiola
Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani
Da Washington a Pechino?
La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.
Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.
Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.
La tela cinese
E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.
Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.
Paolo Moiola
Noi e voi, spazio di dialogo lettori e missionari
Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?
La guerra è quanto di più tragico, disumano e folle possa accadere nel mondo. Lo possiamo constatare in questi giorni in cui
l’Ucraina è oggetto di occupazione e bombardamenti con innumerevoli morti tra i civili, fughe all’estero, ecc. Viene spontaneo chiedersi dove sia e che cosa faccia Dio di fronte alle ingiustizie e alle violenze a danno degli innocenti. Gli autori dell’Antico Testamento, per trascrivere l’esperienza del popolo d’Israele, hanno fatto ricorso al lessico e ai modelli culturali dell’ambiente mediorientale, compreso il fenomeno umano e storico della guerra; si trovano di frequente quindi episodi di eccidi, stermini e vendette senza limiti. Nella ricerca del volto di Dio è presente anche il titolo «Signore degli eserciti» (Is 10,24) e tra tutte le forme di conflitto vi è la «guerra santa» (Gl 4,9); si fa breccia, in ogni caso, la convinzione che Dio non corrisponda ai criteri elaborati dall’uomo, come avviene, ad esempio, nel libro di Giobbe, in cui si mette in dubbio l’idea che l’insuccesso sia dovuto all’abbandono divino, e nella letteratura profetica in cui si elabora l’idea che la giustizia di Dio non sia quella dei canoni umani. Il Nuovo Testamento rivela infatti un volto di Dio del tutto inatteso e, soprattutto, annuncia che Gesù, il Figlio, non rispondendo con la violenza alle accuse rivoltegli e accettando la morte, ha vinto definitivamente il male, in particolare il peccato. Dio non è all’origine del male e ha a cuore la vita (Gn 9,16), dinanzi alle gravissime derive causate dalle possibilità dell’uomo conseguenti alla sua libertà, interviene con l’incarnazione, la vita, la morte e resurrezione del Figlio Gesù, e propone un ideale (Mt 5,44), l’amore verso il nemico, che tanti martiri e santi hanno testimoniato nel corso dei secoli, non sminuendo in ogni caso il valore della lotta per la giustizia. Dio, che è vivo, sicuramente agisce con il suo Spirito ma in modo imperscrutabile; non interviene in modo magico e sostiene l’uomo che potenzia le sue «armi» quali l’impegno quotidiano nel superare i piccoli contrasti inevitabili, la pratica costante di azioni diplomatiche e politiche volte a mediare, la preghiera perseverante ed insistente. Dio soffre atrocemente per le vite interrotte con la violenza, i danni arrecati all’ambiente naturale e alle opere costruite dall’uomo, per l’uso delle armi sempre più sofisticate e l’incapacità di trovare intese durature, necessarie in quanto gli equilibri geopolitici non sono mai definitivamente risolti, è presente laddove si soffre, e «agisce» attraverso tutte le iniziative che l’uomo assume per porre rimedio ai conflitti, costruendo degli accordi, e attraverso coloro che, nella fede e nella grazia sacramentale, sono uniti intimamente a Cristo (Mc 11,24) nell’implorare la pace.
Milva Capoia 14/03/2022
Troppa popolazione?
In questi giorni sembra che sulla Terra abbiamo superato gli otto miliardi di abitanti. Eravamo 2.480 milioni a fine 1950, quindi in 71 anni siamo più che triplicati. È vero che in questi 71 anni non ci sono state guerre mondiali e neanche epidemie generalizzate: ma di una pandemia ci stiamo occupando adesso e sembra che Putin abbia voglia di trascinarci in una guerra mondiale per difendere il suo posto di padrone della Russia e magari diventarlo di tutto il mondo. In ogni modo, anche senza il suo aiuto non credo che la vecchia palla su cui viviamo sia in grado di reggere a lungo una popolazione che si triplica ogni 70 anni. Io ho avuto la possibilità di girarla tutta (e a forza di prendere sole mi son preso anche un tumore, ma tanto ho superato benissimo gli 80) e vi assicuro che è bellissima e che ha una popolazione meravigliosa che però si fa governare da troppi cialtroni e non pochi veri assassini.
Claudio Bellavita 24/03/2022
Grazie per le considerazioni e per l’amore alla nostra Terra. La questione della popolazione è ovviamente molto complessa e controversa. Di sicuro la soluzione non sta né nella pandemia né nella guerra, ma probabilmente neanche nelle «scelte di morte» che avvengono di fatto nel nostro mondo (figlio unico, aborto, messa in crisi della famiglia, esaltazione del gender, ecc.). Di fatto, e l’Italia ne è capofila, stiamo assistendo a un declino demografico preoccupante, come se non credessimo nel futuro. Invece la crisi che stiamo vivendo richiede un serio ripensamento degli stili di vita, dei consumi, dell’uso delle risorse del nostro pianeta e delle relazioni tra i popoli.
Tra guerriglia e sogni di pace
Carissimi amici,
riesco finalmente a raccontarvi un pezzo di vita della mia parrocchia in questi mesi del nuovo anno. Dopo la paura iniziale per il Covid-19, in questo ultimo periodo, qui a Solano la vita è ritornata quasi alla normalità.
In Colombia la distribuzione dei vaccini è iniziata dalle zone periferiche e ai confini con altri paesi come Perù ed Ecuador; quindi, possiamo dire che siamo stati privilegiati essendo stati tra i primi a essere vaccinati.
La situazione sociopolitica in Colombia è sempre più complicata nonostante l’accordo di pace avvenuto nel novembre 2016 tra il governo del presidente Santos e la Farc (guerriglia). Molti hanno lasciato le armi e, attraverso i programmi integrativi dello stato, si sono inseriti nella vita civile, ma molti altri hanno deciso di continuare la lotta armata ed è sorta la disidencia (dissidenza), mentre altri, dopo essersi consegnati, delusi per il mancato compimento delle promesse statali, sono ritornati alle armi.
Il 28 gennaio e 8 febbraio ho accompagnato tre giovani di Solano al seminario diocesano per un discernimento vocazionale: uno a San Vicente del Caguán, altri due a Florencia, il capoluogo della regione. Appena arrivato in canonica al mio rientro da Florencia, ricevo una chiamata: «Padre è tutto pronto». Mi reco al «Club Juvenil», punto d’incontro per le varie attività dei giovani costruito da padre Giuseppe Svanera, senza sapere perché richiedono la mia presenza. Entro e trovo davanti a me tre bare con i corpi di tre giovani fratelli che sono stati assassinati.
Viviamo in un territorio dove per sopravvivere si coltiva la pianta di coca da cui poi viene estratta la pasta basica per produrre la cocaina e, quindi, la violenza è fortissima.
Le bare. ancora aperte, sono poste sopra tavole di legno sostenute da casse vuote di birra. Attorno si brucia caffè per cercare di coprire l’intenso odore dovuto alla decomposizione dei corpi. Un giovane che è stato testimone dell’eccidio racconta la brutalità che i tre fratelli hanno subito: legati e uccisi con vari colpi alla testa e al torace da un gruppo di trafficanti di droga che si fa chiamare Sinaloa. Tutto risale al 5 febbraio.
I primi a parlare con me sono i padrini di battesimo di due dei giovani assassinati: sono molto addolorati e mi dicono che il papà sta sbrigando le pratiche con la giustizia. Hanno preso seriamente il loro impegno di padrini e sono una chiara testimonianza di fede per la gente del paese. Per questo li ringrazio. Mi presentano i genitori. La mamma già la conoscevo perché l’avevo aiutata economicamente comprando direttamente da lei alcuni dei suoi prodotti. Vive separata dal marito, e fa parte della «Iglesia evangelica pentecostal». Il papà, Pedro, desidera la messa cantata per il funerale dei figli.
Celebriamo il funerale in un ambiente militarizzato, con molta paura e tristezza. Durante l’omelia denuncio gli autori di questo assassinio, dicendo che non esiste nessun motivo per togliere la vita a qualsiasi persona: Dio dona la vita, non la toglie. Invito gli assassini a pentirsi del loro gesto e a non continuare con queste stragi che stanno colpendo molto duramente il nostro territorio, soprattutto contro i giovani.
Le tre salme sono caricate su tre mezzi e portate al cimitero in processione. Accompagno il corteo con la recita del rosario, benedico la tomba e durante la sepoltura alcuni giovani mettono musica colombiana, il «Vallenato», che esprime la disperazione che stanno vivendo.
Nel pomeriggio viene il papà dei tre giovani. È un antioqueño che ha lasciato la sua terra 36 anni fa in cerca di fortuna. È stato nel Caguán, a Remolino, dove ha conosciuto il padre Giacinto Franzoi, e ora si trova nel Yurilla, dove è proprietario di un piccolo negozio di alimentari e vende benzina. I figli vivevano in un villaggio più all’interno, nella foresta. Quando gli hanno comunicato della loro morte, superando il dolore con molta forza, ha coordinato tutto per portarli a Solano. Ha chiesto appoggio alle forze dell’ordine che gli hanno dato protezione e gli hanno consigliato di non ritornare da dove era venuto perché è a rischio la sua vita.
Gli chiedo: «Perché li hanno uccisi?», e lui ripete all’infinito: «Erano bravi ragazzi, non hanno fatto del male a nessuno. Io non posso lavorare perché sono anziano. Spesso andavo da loro e si chiacchierava e rideva, o loro venivano da me. Abbiamo passato momenti molto belli di amicizia, di fraternità e di gioia grande. Non mi spiego il perché».
Prosegue: «Sono stato interrogato dall’esercito per più di due ore, e ho ripetuto che non abbiamo mai collaborato con nessun gruppo. Ho detto che quando venivano i guerriglieri mi chiedevano di trasportarli con la canoa. Non potevo dire di no e così davo loro le chiavi e la benzina. Mai ho guidato io l’imbarcazione. Loro andavano e me la riportavano. Chiedevano cibo e compravano la benzina, mai a loro abbiamo creato problemi. Ho anche dato all’esercito le coordinate dove poterli trovare, anche se i militari sono qui da più di un anno e non fanno assolutamente nulla, stanno a guardare. Padre, ho anche denunciato che l’anno scorso, quando è stato ucciso un dissidente della Farc, vi è stata una grande mobilitazione militare con barche ed elicotteri fino ad arrivare nel mio villaggio. Erano presenti circa 80 uomini del gruppo Sinaloa, ma l’esercito ha sparato verso le canoe dove c’erano i contadini, non a quelle dei guerriglieri. Sono arrivato alla conclusione che vi è una alleanza tra l’esercito e i Sinaloa, e che forse questo gruppo è stato creato dallo stesso esercito con ex combattenti della Farc per combattere la dissidenza».
Qualche giorno dopo il signor Pedro viene a chiedermi il certificato di sepoltura dei suoi tre figli perché vuole denunciare lo stato. È intenzionato ad andare a Bogotá per parlare con i mezzi di comunicazione a livello nazionale e internazionale. È arrabbiato e triste. Mi dice: «Non voglio che muoiano altri giovani, molti ne sono stati già uccisi. Dobbiamo fermare questa strage. Oggi la barca di linea portava più di cento persone che scappavano dal territorio dopo aver visto trucidare i miei tre figli senza alcun motivo».
Lo avviso che oggi passerà a Solano la Croce Rossa internazionale e che sarebbe importante mettersi in contatto con loro perché appoggiano questi casi di violazione dei diritti umani.
Vedo che si fa sempre più urgente un lavoro con gli adolescenti e i giovani. Già in parrocchia lo stiamo attuando, non solo con attività religiose di catechismo e con gruppi giovanili, ma con una presenza a tappeto nelle varie scuole e collegi del territorio dove operiamo, attraverso un accompagnamento di formazione sul progetto di vita e sui valori in cui credere per costruire il proprio futuro.
Approfitto per ringraziare le varie associazioni e persone che hanno collaborato in questi anni nell’appoggio economico delle varie attività realizzate nella parrocchia e a livello del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano (come il progetto di Amico, luglio 2019). Qualche frutto lo abbiamo visto in giovani che si sono inseriti nella società come lideres. A livello ecclesiastico abbiamo quattro giovani nel seminario.
Da quando sono arrivato il 3 dicembre del 2017 abbiamo diviso questo immenso territorio in tre parrocchie e come zona ci troviamo una volta al mese qui nella parrocchia madre. Siamo un bel gruppo: tre sacerdoti, sette suore, due seminaristi e una laica Missionaria della Consolata. Un gruppo di missionari/e molto giovani che, guidati dalla forza dello Spirito del Signore, vogliamo accompagnare i vari popoli che vivono in questo territorio amazzonico minacciato dalla violenza e dalla distruzione per interessi di potere e di soldi.
Grazie per la vostra vicinanza, sempre vi ricordo nell’Eucaristia che sta al centro della mia giornata e della mia vita.
Il beato Giuseppe Allamano (oggi è la sua festa) e la nostra madre Consolata siano di appoggio nel nostro cammino missionario per le strade del mondo.
Padre Angelo Casadei da Solano, Colombia, 16/02/2022
Nuovo ausiliare a Caracas
È con gioia, e ringraziando Dio e la Vergine, che i Missionari della Consolata (Imc) in generale, e quelli del Venezuela in particolare, hanno ricevuto, il 23 dicembre 2021, la bella notizia della nomina di padre Rivas Durán Lisandro Alirio, fino ad allora rettore del Pontificio collegio missionario internazionale «San Paolo apostolo» di Roma, come vescovo ausiliare di Caracas.
L’ordinazione episcopale di mons. Lisandro e mons. Carlos Márquez è stata conferita dal cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Caracas, nella chiesa di san Giovanni Bosco nella capitale, con la partecipazione di molti vescovi del Venezuela, più alcuni vescovi di Rito greco e due vescovi Imc dalla Colombia.
Nella sua omelia, il cardinale, riferendosi al testo biblico del «Buon Pastore», ha ricordato ai vescovi eletti che sono «scelti, preferiti e sostenuti dal Signore» e che «il Signore li ha chiamati per nome perché sono di Dio» e li ha esortati a essere dei buoni pastori sull’esempio di Gesù.
Domenica 13 marzo 2022, monsignor Lisandro ha celebrato la sua prima messa come vescovo ausiliare nella parrocchia di San Joaquín e Santa Ana di Carapita, nell’area pastorale che è stato incaricato di accompagnare nella periferia della città.
Ha presentato il Vangelo come suo programma pastorale e ha sottolineato che sul suo emblema episcopale c’è la Bibbia aperta su cui sono incise A e Ω con il motto «Perché in Lui abbia vita». Ha espresso la volontà di dare il meglio di sé al servizio del popolo di Dio affidato alle sue cure.
adattato da «Vida nuestra», aprile 2022
Riportiamo in breve questa notizia, riservandoci di pubblicare quanto prima un’informazione più completa sull’avvenimento e sulla situazione pastorale di Caracas.
Taita Agustín
Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.
Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.
«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.
All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.
All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.
Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».
E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.
Bogotá ottobre 1999
I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».
«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».
«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».
Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.
E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.
Licto, anni ’90
La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».
Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.
Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».
E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.
I mille e un orto di tutta una vita
«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».
Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.
A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).
L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.
Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.
E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.
L’ultima barella
Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.
Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.
E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.
Gianantonio Sozzi
Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».
Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.
Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.
Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.
Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.
Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.
Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.
Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.
Slideshow di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima
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L’universo umano della comuna 13
testo di Diego Battistessa |
«Comuna 13» è una città nella città, dove sono passati milizie urbane, Pablo Escobar, gruppi guerriglieri, paramilitari, forze dell’ordine. Un campo di battaglia e violenza, ma oggi anche di riscatto.
A Medellín, la seconda città più grande della Colombia, dopo la capitale Bogotá, la violenza generalizzata è stata di casa per molto tempo. Un luogo mondialmente famoso, purtroppo, più per essere stato la città natale e la casa di Pablo Escobar Gaviria (ucciso nel 1993) che per le sue tante meraviglie. A Medellín, esiste uno dei sistemi integrati di trasporto pubblico più moderni della regione, è una città circondata da una natura traboccante e che vanta incredibili esempi di rivalsa sociale e riqualificazione urbana. È la patria, inoltre, di un altro Escobar: Andrés, il caballero del fútbol («il cavaliere del calcio»).
Medellín, insomma, è un crogiolo di contraddizioni, di universi che convivono, spesso senza toccarsi.
I 140mila della «Comuna 13»
Uno degli spazi più emblematici della capitale del dipartimento di Antioquia è senz’altro la Comuna 13, una delle 16 comunas (divisioni territoriali amministrative) che compongono la città.
Verso Nord e più a occidente del Barrio Laureles – dove sorge lo stadio di calcio Atanasio Girardot che tante volte ha visto le prodezze dell’Atletico Nacional de Medellín e dell’Independiente de Medellín –, si trova la fermata della metro San Javier da dove si accede (oggi comodamente) alla porta d’ingresso della Comuna 13. Qui vivono più di 140mila persone, distribuite in diciannove quartieri che coprono una superficie di 74,2 chilometri quadrati.
Questo conglomerato urbano nacque dalle invasioni prodotte alla fine degli anni Settanta da chi viveva nelle periferie della città (come il Basurero Moravia) e cercava un luogo dove costruire una casa e un futuro. Gli ultimi, i dimenticati, gli emarginati, cominciarono ad occupare appezzamenti di terra appartenuti in passato a grossi latifondisti caduti in disgrazia e che non potevano più pagare le tasse sulle loro proprietà.
Così, prima che il municipio di Medellín potesse disporre di quelle terre, il popolo le reclamò con un atto di giustizia sociale. A questi primi coloni si aggiunsero ben presto intere famiglie sfollate dalla violenza dei conflitti armati che colpiva sia il dipartimento di Antioquia che il dipartimento del Chocó.
Come spiega Ricardo Aricapa, in un magistrale resoconto degli anni più duri della Comuna 13 e della guerra urbana che la caratterizzò (Comuna 13. Cronica de una guerra urbana: de Orión a la Escombrera, 2015), gli inizi non furono per niente facili: mancava acqua, corrente elettrica, latrine, polizia. Vigeva la legge del più forte, del più scaltro, del più crudele: omicidi, stupri, furti, risse e ogni tipo di lite e discussione. A poco a poco i servizi migliorarono, perché il municipio capì che non poteva più sgombrare centinaia di famiglie (anche perché non avrebbe saputo dove ricollocarle) e così l’insediamento divenne permanente.
Le milizie urbane e pablo
Fu così come un nuovo organo pulsante delle città prese vita, un laboratorio umano dove ben presto si insediò il primo grande esperimento di milizie urbane in Colombia. All’inizio questi gruppi nascevano spontaneamente ed erano formati in gran parte da giovani: lo scopo era quello di controllare e garantire la sicurezza di poche strade, quelle dove abitavano o dove vivevano i loro amici e parenti. In quegli anni gli abusi e i soprusi tra gli stessi vicini dei quartieri che conformavano la Comuna 13 (quartieri che crescevano costantemente), erano molti, troppi. In poco tempo, però, la dinamica della violenza di quel periodo (annoverato tra i più cruenti in Colombia) obbligò queste «autodifese comunitarie» (chiamate anche Mp, Milicias populares) a estendere il loro raggio d’azione a interi quartieri e, alle volte, a spingersi anche fuori dalla Comuna 13.
Un fenomeno che attirò l’attenzione dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale) che pensò di poter controllare questi gruppi estendendo e rafforzando la sua presenza a Medellín, punto strategico nella Valle di Aburrà e di tutto il dipartimento di Antioquia. All’Eln seguirono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias deColombia) che videro la possibilità di reclutare i membri delle milizie urbane per sviluppare una strategia di penetrazione politica e militare a livello urbano. Per le due storiche guerriglie colombiane non fu però facile sovrapporsi e sostituire le bande esistenti che, tra il 1980 e il 1990, facevano capo, in molti casi, al cartello della droga di Medellín. Il conflitto fu cruento. Basti ricordare che all’epoca Pablo Escobar stava portando avanti una vera e propria guerra contro lo stato a colpi di mitragliatrice e dinamite e i suoi alleati si trovavano proprio nelle periferie della città (cfr. Aricapa 2015).
I gruppi armati
Come detto, il primo gruppo armato a entrare nella Comuna 13 fu l’Eln che però non rimase molto e si ritirò volontariamente. L’esperimento portato avanti da «los elenos» (così gli abitanti della Comuna 13 si riferivano ai membri dell’Eln) fu interrotto perché ritenuto troppo caro (non avevano fondi sufficienti), ma soprattutto infruttuoso: il comportamento delle reclute nella periferia urbana dava peggiori risultati in termini di condotta (i giovani erano meno disciplinati e molto propensi all’abuso di alcool e droghe) rispetto a quelli reclutati nella zona rurale. Dal 1990, anno di formazione delle prime Mp, la Comuna 13 assistette all’ingresso di una molteplicità di attori che lottavano per il territorio, oltre che per il cuore e la mente dei suoi abitanti.
Il libro del poliziotto comunitario Yoni Alejandro Rondón Rondón (Comuna 13, 2017) ci spiega che nella zona operavano le strutture urbane dell’Eln, con il fronte Carlos Alirio Buitrago (si facevano chiamare Los regionales), il fronte Luis Fernando Giraldo Builes, e le piccole fazioni di María Cano, Héroes de Anorí e Bernardo López Arroyave.
Erano presenti anche le milizie urbane delle Farc, rappresentate dalla colonna mobile Teófilo Forero e dalla rete urbana Jacobo Arenas.
Inoltre, il 25 febbraio 1996 venne fondato il gruppo di milizie indipendenti autonominato «Commando armato del popolo» (Cap), sostenuto dalle milizie dell’Eln. Questi ultimi, prima di adottare la denominazione finale, si facevano chiamare Cab (Commando armato del barrio) e operavano nei quartieri Juan XXIII-La Quiebra, Blanquizal, El Salado per poi estendersi ad altre zone della Comuna 13.
La guerra di Uribe
Il «regno» di questi gruppi armati terminò alla fine del 2002 con la prima grande guerra urbana promossa da Alvaro Uribe, ma solo per lasciare il posto al terrore portato dal paramilitarismo.
Oltre all’operazione Orione (16-20 ottobre 2002), altre cinque operazioni militari furono lanciate per recuperare il territorio gestito dai gruppi guerriglieri e dal Cap: operazione Primavera (1-3 febbraio 2001), operazione Autunno (ultima settimana del febbraio 2001), operazione Mariscal (il 21 maggio 2002, una delle più cruente con un bilancio «ufficiale» di vittime superiore a Orione e che si fermò solo perché gli abitanti occuparono le strade sventolando panni bianchi chiedendo pace), operazione Potestà (15 giugno 2002) e operazione Torcia (15 agosto 2002).
Nell’ottobre 2002, però, l’intervento dell’autorità pubblica fu mastodontico: 3mila uomini – tra esercito, polizia e paramilitari – guidati dal comandante della Polizia metropolitana di Medellín, il colonnello Leonardo Gallego, e dal generale della quarta brigada dell’esercito, Mario Montoya, entrarono nella Comuna 13. Per due giorni e tre notti caddero bombe, fischiarono pallottole e due elicotteri Black Hawk sorvolarono le case fatte di lamiere e argilla crivellando con armi di grosso calibro le postazioni delle Farc, nel cuore del barrio.
Le raccomandazioni al «Todopoderoso»
Chi poté si nascose, chi non poté fuggì, tutti raccomandarono l’anima al Todopoderoso (titolo usato per riferirsi all’Onnipotente).
Chiunque venisse sospettato di essere connivente con le bande armate della Comuna 13, venne catturato e, se fortunato, portato a Ballavista (il carcere di massima sicurezza di Medellín), altrimenti a La Escombrera.
Un numero imprecisato di persone finì nelle liste (tanto comuni nella regione) dei desaparecidos, altre centinaia scontarono ingiuste carcerazioni prima di essere assolte e rimandate a casa con le scuse dello stato e con la promessa di un’indennizzazione che, nella maggior parte dei casi, non è mai arrivata.
I «falsi positivi» e quella fossa comune
Solo nel 2015, tredici anni dopo la drammatica operación Orión, si cominciò a scavare in quel macabro luogo di 15 ettari che prende il nome di Escombrera: situato tra El Salado e San Cristobal, zona Nord-Ovest della città. Una discarica di rifiuti edilizi che, per anni, aveva accolto gli scarti dell’espansione immobiliare di Medellín e che divenne la tomba delle persone assassinate nell’ottobre 2002 e nella successiva «pulizia sociale» eseguita dai paramilitari.
La contabilità ufficiale dell’operazione militare voluta dall’allora neopresidente Alvaro Uribe Vélez (in carica da solo due mesi) parlava di 14 morti. Oggi sappiamo che sono molti di più (si parla di almeno 300) grazie alle denunce di Ong nazionali e internazionali e alle dichiarazioni rilasciate nei processi per i «falsi positivi».
Nel gergo militare colombiano, poi reso popolare dai media, un «positivo» rappresenta l’uccisione di un nemico dello stato, di solito un guerrigliero delle Farc. Un «falso positivo» è, quindi, una simulazione che vuole far passare l’uccisione di un cittadino comune per l’uccisione di un militante della guerriglia al fine di poter riscuotere la taglia (tanto più alta quanto più alto il grado del guerrigliero). La Giurisdizione speciale per la pace (Jep, nella sua sigla in spagnolo) ha reso noto, in un report del marzo 2021, che nei primi anni della presidenza Uribe i falsi positivi contabilizzati furono 6.402. Altri dati però segnalano numeri ben più alti.
La Escombrera è oggi memoria storica della città e della Colombia intera. Gli abitanti della Comuna 13 la segnalano ai turisti durante il «Graffiti tour», sottolineando che vanta insieme al deserto di Atacama in Cile un tragico primato: è probabilmente una delle più immense fosse comuni della regione.
Gli anni della trasformazione
È in questo contesto che sono nati dei «meravigliosi fiori» di speranza, di insorgenza e di opposizione a quello che sembrava un destino ineluttabile. In questo scenario molte persone, soprattutto donne, si sono caricate il peso del presente e del futuro sulle loro spalle affrontando e combattendo l’ingiustizia sociale.
La Comuna 13 ha subito una trasformazione negli ultimi dieci anni, con un lavoro di riqualificazione promosso dal municipio di Medellín attraverso l’Impresa di sviluppo urbano (Edu, nella sua sigla in spagnolo).
Uno dei grandi problemi del settore risiedeva nella pericolosità dei camminamenti e nella mancanza di scale per superare le ripide salite che caratterizzano il contesto di un abitato cresciuto sui fianchi delle montagne. Strade pietrose, ponti fatti di assi di legno, un pericolo sempre dietro l’angolo che faceva vivere gli abitanti della Comuna 13 in costante preoccupazione soprattutto per i bambini e gli anziani. Lasciare ogni giorno la propria casa per andare a lavorare o raggiungere la città era una vera e propria impresa.
Nel 2010 ci fu una prima esplorazione architettonica e sociale da parte dell’amministrazione della città, per capire quale tipo di intervento di riqualificazione urbana poteva migliorare la vita degli abitanti di questa zona della città: in quell’occasione proprio delle leader comunitarie negoziarono con la municipalità importanti interventi.
Si decise di dare colore e vita alle strade, utilizzando la street art per raccontare in modo visivo la genesi e la vivenza di quei luoghi e inoltre venne proposta l’installazione di scale mobili per facilitare la mobilità comunitaria e stimolare il commercio locale. L’opera architettonica, di carattere pubblico e gratuito, fu inaugurata il 25 di dicembre del 2011 e da quel momento ha cambiato radicalmente la vita della Comuna 13, soprattutto quella del quartiere la Independencia, dove è situata, beneficiando direttamente più di 12 mila persone. Questo cambio non fu solo pratico, ma anche di percezione della Comuna 13 da parte della popolazione delle altre zone di Medellín.
Gli abitanti hanno potuto toccare con mano un miglioramento sociale ed economico importante dovuto anche al fatto che il luogo si è trasformato in una meta turistica della città. Visitatori da tutto il mondo giungono (oggi frenati in parte dalla pandemia) in quello che fu teatro della più cruenta guerra urbana della Colombia, per fotografare i numerosi graffiti che popolano le pareti delle case e che custodiscono la memoria della comunità.
La Comuna 13 oggi e il Graffiti tour
È così che oggi, nel luogo che forse più di altri è viva testimonianza di tutti i mali di questo paese controverso e affascinante, dipinto magistralmente da Gabo (Gabriel García Márquez), si può realizzare il Graffiti tour: un’esperienza unica, intensa, profonda, vissuta passo dopo passo per le strade dove si respira lotta, riscatto sociale e tanta voglia di futuro.
Decine di guide locali (gli stessi membri della Comuna 13 sopravvissuti alla violenza) aspettano i turisti nazionali e internazionali all’inizio del percorso delle scale mobili, per guidare i visitanti in un viaggio nel tempo e nello spazio, visivo, musicale e gustativo: che termina proprio di fronte al ristorante delle Berracas della 13, un collettivo di donne simbolo della rinascita del quartiere.
«Una comunità in resistenza, che conosce la sua storia e non vuole ripeterla», canta il collettivo di rapper di strada Venezmusic, integrato in buona parte da venezuelani migranti che oggi sono un ulteriore elemento di eterogeneità e diversità in questo incredibile universo umano che è la Comuna 13.
Diego Battistessa
Martiri della Chiesa cattolica
Morire per un ideale di comunità
Era il settembre 2002 quando fu assassinato padre José Luis Arroyave Restrepo, un sacerdote che amava e viveva per la Comuna 13.
Nella Comuna 13 la violenza non risparmiò neanche gli uomini di Dio e, sia prima che durante lo scontro finale tra lo stato e i gruppi armati che avevano il controllo su quel territorio, il tributo di sangue pagato dalla Chiesa cattolica fu enorme. Dei veri e propri martiri che pagarono il lavoro di trincea portato avanti con coraggio e abnegazione. Nel settembre 2002, un mese prima dell’inizio della famigerata «Operazione Orione», venne ucciso il sacerdote di 48 anni José Luis Arroyave Restrepo. Una morte che sconvolse la comunità e la città intera per l’impegno che il padre aveva profuso per portare un vento di giustizia e riconciliazione nella Comuna 13. Due sicari incappucciati, in quella giornata di fine settembre, lo aspettarono fuori dalla chiesa nel quartiere San Juan XXIII e, quando il sacerdote stava per salire sulla sua auto, lo freddarono con due colpi a bruciapelo. José Luis era un visionario, un uomo di Dio che interpretava la sua missione apostolica fuori dalle mura della chiesa. Si era dato il compito di creare un ponte di pace tra le milizie e i paramilitari. Per questo si era anche fatto preparare una giacca personalizzata con scritto «Io amo e vivo per la Comuna 13»: una giacca che non potè mai indossare. Quel crimine creò un dolore profondo in tutti gli abitanti della Comuna 13, che ripetevano a gran voce che era stata spenta una delle più brillanti luci di speranza e pace in quella parte marginale di Medellín. Un luogo così violento, ingiusto e pieno di disperazione da far dire a chi ci viveva, che anche il Diavolo stesso si raccoglieva in preghiera chiedendo la fine di quell’orrore. L’Arcidiocesi di Medellín con il decreto 55 del 2002 scomunicò gli autori del crimine, ma i lutti non si sarebbero fermati lì.
Un altro tributo di sangue fu pagato dalla Chiesa cattolica colombiana proprio durante i giorni dell’operazione poliziesca-militare ordinata dal presidente Álvaro Uribe Vélez nel succesivo mese di ottobre. Infatti, uno dei civili morti – colpito dal fuoco «amico» dell’esercito – fu il seminarista dell’ordine dei Frati cappuccini, Elkin Ramírez, di soli 22 anni. L’inizio dell’Operazione Orione lo sorprese lontano da casa, dove viveva con sua madre e suo fratello. La donna non si era mai abituata al rumore dei continui scontri armati nel quartiere e soffriva di crisi di panico ogni volta che le pallottole iniziavano a fischiare. Cosciente di tutto ciò, Elkin cominciò a correre per raggiungere casa sua e accompagnare sua madre in quelle che si preannunciavano come lunghe ore di scontri e tensioni. Il giovane corse a perdifiato, ma non riuscì ad evitare un colpo, sparato forse da un cecchino, che lo trafisse a 10 metri dalla porta di casa sua. Il fratello lo vide cadere esanime, cercò di uscire per dargli aiuto ma venne respinto da un muro di proiettili. Dopo padre Arroyave, venne così spenta un’altra vita che aveva scelto di servire la comunità attraverso la parola di Dio. Si dice spesso che siano i migliori a lasciarci. Davvero, in quei mesi di fine 2002, il martirio dei giusti sembrava non avere fine.
Di.Ba.
Tu, «padrecito», non capisci niente
testo di Renzo Marcolongo |
Ero sinceramente convinto che una laurea in psicologia mi avrebbe dato una marcia in più al servizio della missione, aiutandomi a capire le persone senza problemi. In realtà le persone sono molto di più di quanto i manuali scientifici riescono a codificare. C’è sempre qualcosa da imparare.
Un pomeriggio a San Vicente del Caguán, una donna mi chiamò al cellulare chiedendo un appuntamento per sua figlia quindicenne che soffriva di depressione. Le ricevetti (la madre, la figlia e la nipotina di 3 mesi) lo stesso pomeriggio, e ascoltai ciò che la madre – molto preoccupata e nervosa – mi diceva: sua figlia non mangiava, non dormiva, si chiudeva in se stessa, si isolava e non voleva parlare. Tutto questo a causa di una vicina che le aveva mandato una maledizione, un incantesimo o una stregoneria, perché invidiosa della ragazza che aveva dato alla luce una bella bambina.
Chiesi alla madre di uscire dal mio studio per poter parlare con la figlia. Dal dialogo capii che la ragazza stava soffrendo di depressione post-partum. In più non era assolutamente felice di essere rimasta incinta a 14 anni e abbandonata dal padre della bambina. Il suo futuro non sembrava per niente roseo. La mia diagnosi di depressione post-partum mi sembrava molto azzeccata (quasi da manuale) e, in questo caso, aggravata da fattori personali.
Con questa diagnosi in mente, invitai la madre a entrare nel mio studio e le spiegai in modo semplice che lo stato di sua figlia non dipendeva da una maledizione e che non c’era motivo di preoccuparsi. Tutto si sarebbe sistemato abbastanza presto. La signora ascoltò incredula le mie parole e, con mia sorpresa, mi disse: «Tu padrecito non capisci niente e troverò un’altra soluzione».
La soluzione alternativa fu quella di consultare i «fratelli» (curanderos tradizionali) che le promisero di eliminare l’incantesimo mettendo sotto il letto della figlia un bicchiere d’acqua benedetta da un sacerdote (probabilmente benedetta da me), per tre notti, e chiedendo un contributo «volontario» di 150mila pesos (35 euro) per ogni bicchiere d’acqua.
Sorriso sotto i baffi
Non so se la neomamma, poi, sia stata meglio. Penso di sì, non tanto a causa dei benefici dell’acqua benedetta posta sotto il letto, quanto perché la depressione post-partum non tende a durare a lungo, a meno che non subentrino complicazioni.
La replica della madre alla mia diagnosi mi sembrò divertente e sotto i baffi mi scappò un sorriso, perché le sue parole avevano messo in discussione i miei 32 anni di esperienza come terapeuta. Tuttavia, con il passare del tempo, le parole di quella donna continuavano a risuonarmi nella mente come un chiodo fisso. Iniziai a chiedermi allora se per caso non mi fosse sfuggito qualcosa nella mia diagnosi, forse un’interpretazione della realtà diversa da come io l’avevo percepita che mi avrebbe permesso di offrire alla ragazza una cura più consona alla sua cultura.
Dal punto di vista della psicologia «scientifica» del mondo occidentale, la depressione post-partum ha una soluzione terapeutica collaudata con un percorso di recupero eccellente.
Però, perché non prendere in considerazione le convinzioni e le credenze delle persone che vivono esperienze emotive in culture diverse da quella del mondo occidentale, cose tutte che influiscono sul benessere della gente?
Qual è l’impatto che il mondo del «sacro» e del «simbolico», che ognuno inconsciamente porta dentro di sé, ha sulla vita quotidiana e sul benessere della persona? Il mondo sacro e simbolico è un serbatoio di senso e significati che le persone usano per vivere1.
Identità e culture
Il mondo personale e intimo di ogni essere umano possiede una sinfonia, un insieme di valori, miti, visioni sulla natura umana, su ciò che è «normale e anormale», su ciò che è «salute e malattia» (fisica o mentale), sulle cause di essere sani o malati, sul significato di «maturità», su come ricostruire i rapporti familiari e sociali distrutti e scoprire chi o cosa li ha distrutti. È una sinfonia trasmessa dalle generazioni passate e interpretata nel presente da persone che condividono e assumono ciò che è importante per il gruppo di appartenenza che, a sua volta, offre un’identità.
Identità: un termine che viene dal latino idem, che significa «lo stesso – medesimo» e si applica alla persona. La mia identità dice chi sono io con le mie caratteristiche che mi distinguono dagli altri; e si applica anche all’identità di un gruppo che crea e modella ciò che è importante per il gruppo stesso e i suoi membri. Comprendere l’identità di un gruppo significa entrare più profondamente nella mente di una persona che ne fa parte e ccapire le visioni e le percezioni del suo mondo. E questo favorisce la diagnosi e il cammino terapeutico.
Il contributo della psicologia scientifica occidentale può «guarire» la mente spiegando le dinamiche psicologiche che sono in gioco. Ma in un mondo non occidentale, non sempre la psicologia riesce a «guarire» l’insieme della mente e del cuore che formano un’unità nella persona. Il limite della psicologia scientifica è quello di non dare la dovuta importanza ai mondi simbolici e diversi che creano e organizzano tutta la vita delle persone nella loro mente, nella loro salute e nelle loro relazioni.
Un mondo di relazioni
Quella donna che scelse di avvicinarsi ai «fratelli» e non a uno psicologo «qualificato», fece una scelta culturale, sociale e religiosa, attingendo alle sue percezioni del mondo e ai suoi valori. Cercava un «significato» per quello che stava accadendo a sua figlia, e il significato offerto dalla psicologia non possedeva il peso affettivo, né il valore emotivo che i «fratelli» le offrivano. Le emozioni e il cuore furono più potenti ed efficaci della scienza e del cervello.
Quello che per me era un disturbo interno, mentale, personale e passeggero, per la donna era la conseguenza di un mondo esterno che entrava nella persona; un mondo di relazioni sociali negative segnate dall’invidia. E questo mondo esterno era percepito come la causa della sofferenza e di lì la necessità di sconfiggerlo.
Incontro tra Psicologia e cultura
Possiamo parlare di incontro tra psicologia e cultura? Possiamo incoraggiarlo? Sarà possibile?
Credo che per favorire l’incontro tra il cosmo (che significa ordine) scientifico e quello dell’esperienza culturale, sia necessario un «interprete», pur cosciente che l’interprete è, per forza di cose, sempre un po’ un traditore: è impossibile, infatti, tradurre da un universo culturale a un altro in modo fedele il significato profondo di una parola, un’espressione, un sentimento, un’esperienza sociale, emotiva e strutturale di un gruppo. L’ordine sociale espresso a parole, in culti e musica è ben compreso solo da coloro che appartengono a quel gruppo. Gli altri possono capirlo teoricamente ma non emotivamente.
Quello che imparai personalmente fu che la mia diagnosi era stata parziale perché non aveva incluso il mondo culturale di madre e figlia, mondo che formava e interpretava le manifestazioni delle malattie fisiche e mentali.
Ora mi rendo conto che lè importante nella guarigione della persona, per restituirla alla sua comunità sana e ristabilita, scoprire, assieme alla diagnosi psicologica, qual è la sua visione del mondo. In questo modo si può ricostruire quell’identità specifica che appartiene alla grande sinfonia di identità individuali che formano la persona e che la fanno sentire parte di un gruppo.
Questione di armonia
Ricostruire l’identità significa ricostruire l’armonia del gruppo ed eliminare quella dissonanza che danneggia la melodia dello stesso.
Ognuno ha dentro di sé un equilibrio emotivo che gli permette di vivere con tranquillità la propria esistenza, interpretando il suo mondo. Questo equilibrio può apparire fragile agli occhi di uno straniero, ma non alla persona che lo vive.
Ora ho imparato che, come psicologo, non posso più fidarmi solo del quadro interpretativo della malattia mentale offerto dalla psicologia. Se veramente mi sta a cuore la guarigione completa della persona è essenziale comprendere il mondo interpretativo (quadro di riferimento) del suo cosmo, collegando così la guarigione a tutta la persona.
La storia di Teresa
E fu così che, con questa esperienza e riflessioni, affrontai, alcuni mesi dopo, il caso di Teresa (un nome fittizio per proteggere la sua identità).
Teresa mi aveva chiesto un incontro, perché si sentiva agitata da uno spirito che non le permetteva di vivere bene (era depressione), e lo spirito proveniva da una persona che la malediceva e la odiava senza che Teresa ne sapesse le ragioni. Le prime sessioni, durante le quali Teresa acquistò fiducia in me, furono seguite da incontri nei quali lei entrava in trance cambiando tono di voce, personalità e raccontando episodi dolorosi della sua vita. Al risveglio Teresa diceva di non ricordare nulla, però lo «spirito» del trance mi dava informazioni importanti su avvenimenti passati e su sentimenti percepiti come troppo dolorosi per accettarli coscientemente.
Ciò mi diede la possibilità di affrontare emozionalmente situazioni del suo passato dolorose e traumatiche.
Il cammino verso la guarigione sembrava stesse funzionando bene, fino a quando, in una delle sue ultime sessioni, lo «spirito» mi chiese – durante un trance – che, come sacerdote, andassi nel suo campo per rimuovere e distruggere una ciotola sepolta lì dal «nemico» che conteneva le maledizioni e lo «spirito» stesso, e per esorcizzare il terreno.
Accettai di andare, e pur non trovando alcuna ciotola, nonostante il figlio avesse scavato in vari posti indicati dallo «spirito» (mentre Teresa era in trance), spiegai che senza dubbio la ciotola di cocco si era sciolta, consumata dopo cinque anni sotto terra e che, con quella, era sparito anche lo «spirito» e la maledizione.
Feci l’esorcismo del terreno, e la presenza calma e silenziosa di un cane confermò che non c’era più nulla di malefico nella tenuta (secondo la cultura spiritica dei «fratelli», i cani abbaiano quando sentono la presenza di uno spirito o di una maledizione).
Teresa entrò e uscì dalla trance ancora una volta, dopo di che si sentì integralmente libera. Ringraziò e abbracciò i presenti e da allora la sua guarigione fu completa.
Darsi una mano
Ho incontrato Teresa molte altre volte camminando per le strade del paese, e ho notato che è ben inserita nella sua famiglia e nella sua comunità.
Mi sono convinto che il semplice intervento psicologico non sarebbe stato sufficiente se non avessi percepito gli aspetti emotivi, sociali e spirituali di Teresa. L’esorcismo ha dato un’ulteriore risposta al malessere e disagio di Teresa completando così il lavoro terapeutico.
Credo sia fondamentale per ogni disciplina (scientifica o tradizionale) saper riconoscere i propri limiti, liberandosi dalla pretesa di sapere tutto e risolvere tutto.
Scoprire il mondo delle immagini, del divino e del simbolico di una cultura, collegandolo con la storia vissuta della persona, ci porta a una visione più completa delle persone e quindi a inventare nuovi cammini per risanare e curare.
Dandosi la mano, scienza, mondo tradizionale e spirituale, possono favorire un benessere più profondo e significativo nella gente. E questo è il mio ministero qui, a San Vicente del Caguán.
Renzo Marcolongo
(1) Sono grato a David W. Augsburger che con il suo libro «Pastoral counselling across cultures» (WP Philadelphia, 1986), mi ha molto aiutato a diventare culturalmente sensibile e aperto a nuove interpretazioni della realtà.
La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia
Uno zaino di sofferenza
Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.
Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.
Il migrante venezuelano
Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.
Donna venezuelana, immagine e mito
In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.
L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.
Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»
Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.
Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.
Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso. In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.
Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.
La mossa della Colombia
Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.
Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.
Diego Battistessa
La migrazione: la via di Cúcuta
Al di là del ponte Simón Bolívar
Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.
San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.
Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».
Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».
«Trochas» e «trocheros»
Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.
Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.
Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.
I problemi in territorio colombiano
Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.
Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.
Per il corpo e per lo spirito
In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.
Cúcuta e prostituzione come necessità
A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).
La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.
Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.
Verso altre piazze
In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.
Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.
Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.
Le tende e la «lavanda» dei piedi
Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.
Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.
Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.
Diego Battistessa
La migrazione: la via della Guajira
Quando il destino è la strada
Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.
La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.
Prima tappa a Maicao, Colombia
Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.
Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.
A Riohacha, capitale della Guajira
Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.
Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.
In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.
Le Ong di Barranquilla
Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.
Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international, Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).
La prostituzione a Barranquilla
Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.
Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.
… e a Cartagena de Indias
Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.
Diego Battistessa
Inserti
«Ranchitos»
Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».
Di.Ba.
Torturatori
A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.
Di.Ba
I morti di Sonia
Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.