Clima e ambiente, adesso è il tempo per cambiare

Lo sostiene e lo argomenta il rapporto della Coalizione italiana contro la povertà – Gcap, che mostra quanto la pandemia abbia aperto spazi per un cambio radicale nelle politiche pubbliche. A patto che queste siano coerenti fra loro, altrimenti si rischia di fare con una mano e disfare con l’altra.

La pandemia da Covid-19 ha causato cambiamenti radicali e richiede provvedimenti imponenti. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se l’Italia, l’Europa, il mondo, sceglieranno di orientare questi cambiamenti e provvedimenti verso un ritorno alla situazione pre-Covid o, viceversa, in direzione di un mutamento del nostro modo di abitare il pianeta che ci permetta di affrontare – e possibilmente risolvere – i problemi che c’erano già prima dell’epidemia, a cominciare dal cambiamento climatico e dai danni all’ambiente.

Questo è il presupposto da cui muove il rapporto 2020 della Gcap – Coalizione italiana contro la povertà@, capitolo italiano della più ampia rete della Global call to action against poverty, che riunisce undicimila organizzazioni della società civile in 58 paesi.

Il rapporto mira a incidere, con una serie di raccomandazioni, sul processo decisionale che porterà l’anno prossimo alla revisione della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile@, e mette in evidenza i legami fra cambiamento climatico e crisi ambientale da un lato e, i vari settori inclusi negli Obiettivi di sviluppo sostenibile dall’altro (Sdg nell’acronimo inglese, gli obiettivi che le Nazioni unite hanno elaborato nel 2015 per il quindicennio che arriverà al 2030, da cui il nome di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile).

Al di là dei tecnicismi, comunque, la concretezza del rapporto e dei problemi che solleva emerge nella serie di domande avanzate dagli estensori del primo capitolo, cioè Maria Grazia Midulla, Responsabile Clima ed energia del Wwf, Andrea Stocchiero, responsabile delle attività di policy e advocacy della Focsiv, e Massimo Pallottino, co portavoce Gcap Italia.

«È possibile», si chiedono i tre autori, «garantire una vera transizione ecologica se si continuano a fornire sussidi per le energie fossili? È possibile avviare un vero percorso di riduzione delle disuguaglianze se si mantiene un sistema economico che proprio nell’esistenza e nell’aggravamento delle disuguaglianze trova il proprio motore principale? È possibile arrestare la corsa verso il collasso ecologico, fatto di riscaldamento climatico e di riduzione della biodiversità, se continuano ad aumentare i consumi e lo spreco di risorse?».

Il riscaldamento continua

Cominciamo dal clima: «Gli ultimi cinque anni», ricorda il rapporto Gcap, «sono stati i più caldi della storia, così come lo è stato l’ultimo decennio, 2010-2019. Dagli anni Ottanta, ogni decennio successivo è stato più caldo dei precedenti». Quanto a quest’anno, occorrerà aspettare le rilevazioni dell’ultimo trimestre, ma l’estate 2020 è risultata la più calda di sempre nell’emisfero boreale stando alle rilevazioni dell’Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica (Noaa) degli Stati Uniti, agenzia federale che studia il clima, il meteo e le condizioni degli oceani e delle coste.

Il lockdown non ha ridotto significativamente la presenza nell’atmosfera dell’anidride carbonica (CO2) e degli altri gas responsabili dell’effetto serra. Se è vero che lo scorso aprile si è registrata una diminuzione del 17 per cento nelle emissioni di anidride carbonica rispetto all’anno precedente, già a giugno la riduzione era solo del cinque per cento. Ma quel che più conta è che queste riduzioni non sono bastate per far diminuire la concentrazione dei gas serra che, anzi, ha continuato ad aumentare fra il 2019 e il 2020 come se nulla fosse successo@.

Se molte persone hanno avuto durante il lockdown la sensazione di un miglioramento della qualità dell’aria e di una riduzione dell’inquinamento, spiegava@ lo scorso 10 settembre il fisico del clima Antonello Pasini durante la presentazione del rapporto Gcap, è perché con le chiusure della scorsa primavera sono effettivamente diminuiti gli inquinanti che hanno un tempo di vita in atmosfera di quindici giorni: un blocco della attività di due mesi è quindi sufficiente a ridurli in modo molto evidente. La CO2, però, ha poi precisato Pasini, ha un tempo di vita in atmosfera di alcuni decenni. Per ridurne la concentrazione, quindi, servono prolungate e significative riduzioni delle emissioni, che possono essere solo l’effetto di decisioni politiche da parte dei governi di tutto il mondo.

L’inquinamento dell’aria

L’inquinamento dell’aria è responsabile di quasi nove milioni di morti all’anno, sottolinea il rapporto citando i dati@ della Commissione su inquinamento e salute del Lancet, prestigiosa pubblicazione medica britannica. La cifra, che è il doppio rispetto a precedenti stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), rappresenta il 16 per cento dei decessi annuali e nove vittime su dieci vivono in paesi a medio e basso reddito.

Il costo dell’inquinamento – inteso come lavoro perso, spese mediche affrontate, tempo libero non goduto a causa delle malattie legate all’inquinamento – è pari a 4.600 miliardi all’anno, equivalente a circa il sei per cento del Pil mondiale.

Guardando alla sola Europa, lo scorso settembre l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) ha pubblicato un rapporto – basato su dati 2012, i più recenti forniti dall’Oms – secondo il quale nell’Unione le morti dovute all’inquinamento sono 630mila, di cui 400mila riconducibili all’inquinamento dell’aria e dodicimila all’inquinamento acustico.

Inoltre, benché si tratti di ipotesi ancora in corso di verifica, diversi studi hanno evidenziato una correlazione fra l’inquinamento dell’aria – in particolare la presenza di inquinanti come il particolato (le polveri fini dette PM10 e PM2,5 ) – e l’aumento di infezioni e morti per Covid-19@.

Ambiente e sanità

Per affrontare cambiamento climatico e inquinamento, dicevamo sopra, sono necessarie decisioni politiche strutturali e durature. Ma, insiste il rapporto Gcap, queste decisioni possono portare dei risultati solo se non ne vengono contemporaneamente prese altre che le annullano. Questo vale per tutti gli ambiti: dal commercio alla finanza, dalla sanità all’agricoltura, dalle migrazioni alla giustizia intergenerazionale, e il rapporto dedica un capitolo a ciascuno di questi settori. Qui possiamo approfondirne solo alcuni.

Rispetto alla coerenza delle politiche nell’ambito sanitario, ad esempio, il rapporto richiama One Health (Una sola salute), un approccio che riconosce la relazione esistente tra salute umana, animale e ambientale.

Un esempio – in negativo e da correggere – della relazione fra questi tre ambiti, è quello relativo alla resistenza agli antibiotici che, secondo le stime dell’Oms, è responsabile a livello mondiale di 700mila morti all’anno, e potrebbe provocare dieci milioni di vittime entro il 2050.

Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Amr, Antimicrobial resistance) «ha cause molteplici, ma è legato in larghissima misura all’uso massiccio e improprio di antibiotici in medicina e veterinaria, all’abuso di farmaci antibiotici per uso non medico negli allevamenti intensivi, alla diffusione e dispersione nell’ambiente dei fitofarmaci usati nell’agricoltura industriale e intensiva. Gli antibiotici continuano a essere utilizzati in zootecnia per la crescita rapida degli animali e per la prevenzione delle malattie, a fronte delle scarsissime condizioni di benessere vigenti nella maggior parte degli allevamenti intensivi, anziché essere prescritti per uso medico in caso di effettiva necessità. Queste pratiche scorrette, e ampiamente documentate, contribuiscono alla comparsa di batteri resistenti agli antimicrobici negli animali, che possono poi essere trasmessi all’uomo attraverso la vendita della carne».

Clima, ambiente e cibo

Un altro esempio è rappresentato poi dal settore dell’agricoltura, dell’allevamento e della silvicoltura, responsabili di quasi un quarto delle emissioni di gas serra, specialmente il metano, generato dai processi digestivi dei bovini e dal letame immagazzinato, e l’ossido nitroso, derivante dai concimi ricchi di azoto.

In questo caso, per l’Unione europea la coerenza consisterebbe nell’approfittare della imminente riforma della Politica agricola comune (Pac) per inserire nella programmazione per i prossimi sei anni provvedimenti più decisi nella direzione di un’agricoltura più sostenibile.

Coerenza significa, inoltre, evitare di adottare politiche protettive dell’ambiente e del clima «in casa» spostando poi all’estero il problema.

A questo proposito, è stato molto dibattuto negli ultimi mesi l’accordo – ancora da firmare e, almeno alla data in cui scriviamo questo articolo, abbastanza in bilico@ – fra l’Unione europea e i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay).

L’accordo permetterebbe@, l’importazione in Europa dai paesi del Mercosur di una serie di prodotti fra cui le carni bovine. Queste potrebbero entrare a dazi ridotti (7,5 per cento) e fino a raggiungere la quota di 99mila tonnellate. L’Ue ha precisato che questa quantità è «poco più dell’1% del consumo totale di carne bovina dell’Ue, pari alla metà delle importazioni provenienti attualmente dai paesi del Mercosur. Inoltre, tale quota non sarà applicata integralmente fino al 2027 e verrà gradualmente ripartita in sei rate annuali».

Ma, nonostante le rassicurazioni@ che escludono un aumento della produzione di carne bovina nel Mercosur in conseguenza all’eventuale accordo, diversi osservatori hanno comunque obiettato@ che la firma di un accordo come questo è in netta contraddizione con il piano presentato dalla Commissione europea lo scorso settembre, che prevede una riduzione delle emissioni entro il 2030 non più del 40 per cento, come era previsto nel precedente piano, ma del 55 per cento@.

Scelta discutibile

Per semplificare, il dibattito sembra svolgersi in questi termini: l’Ue dice che le quantità importate non si tradurranno in maggiore produzione nel Mercosur, e non genereranno ulteriore deforestazione e aumento delle emissioni di gas serra; le organizzazioni della società civile, puntualizzano invece che se davvero vogliamo ridurre i danni dovuti alle emissioni di gas serra l’obiettivo è ridurre la produzione globale, non mantenerla uguale continuando, fra l’altro, a buttarne una parte.

Nell’agosto del 2019 questa rubrica aveva riportato i dati Fao sullo spreco di cibo: «Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta –, 574 miliardi di uova, tre miliardi di salmoni atlantici e undicimila piscine olimpioniche di olive». E ancora: «La produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’otto per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme»@.

Chiara Giovetti

Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre

«I più anziani si ricorderanno il colonnello Bernacca, che aspettava con ansia l’arrivo dell’anticiclone delle Azzorre, che segnava l’inizio dell’estate: bene, adesso questo anticiclone è un po’ latitante», così il fisico del clima Antonello Pasini, ospite dell’evento di presentazione del Rapporto Gcap, ha iniziato la sua spiegazione.

«Con il riscaldamento globale di origine antropica», ha continuato Pasini, «si è espansa verso Nord quella che noi chiamiamo la cellula di Hadley, cioè la cellula equatoriale della circolazione atmosferica. Espandendosi la cellula verso Nord, gli anticicloni che prima stavano stabilmente sul deserto del Sahara adesso ogni tanto entrano nel Mediterraneo, portando un caldo molto più feroce di quello dell’anticiclone delle Azzorre, con siccità e ondate di calore». (Chi.Gio.)




Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




L’anno più caldo di sempre


Si è svolta lo scorso novembre a Marrakech, Marocco, la ventiduesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop22). Essa ha fissato le procedure e i metodi per arrivare entro il 2018 al regolamento di attuazione degli impegni presi a Parigi alla precedente conferenza. La Cop21 del 2015, stabiliva fra le altre cose l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i due gradi di aumento rispetto ai valori dell’epoca preindustriale.

Sulla strada tra Loyangallani e North Horr, Kenya.

Il 2016 si avvia ad essere l’anno più caldo di sempre. Lo diceva lo scorso novembre l’Organizzazione Meternorologica Mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, lo aveva anticipato a luglio 2016 la Nasa, l’agenzia aerospaziale statunitense. Occorrerà aspettare l’elaborazione definitiva delle rilevazioni 2016, ma i dati pubblicati dall’agenzia meternorologica a novembre in occasione del Cop22, la ventiduesima conferenza Onu sul cambiamento climatico, indicavano una temperatura di 0,88 gradi Celsius superiore alla media registrata fra il 1961 e il 1990 e più alta di 1,2 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Sempre secondo la Wmo, i dati preliminari di ottobre indicavano che le temperature continuavano a essere a un livello sufficientemente alto da restare ben sopra il valore annuale del 2015, che era stato di 0,77 gradi.

L’effetto di El Niño, che l’anno scorso veniva da alcuni studiosi indicato come fenomeno corresponsabile dell’innalzamento delle temperature, è terminato a maggio 2016 dopo aver lasciato una scia di episodi di siccità in Africa, Sudest asiatico, Sud America, India, Etiopia, Australia orientale e diverse isole del Pacifico occidentale tropicale.

Sempre lo scorso novembre il Washington Post riportava le segnalazioni di diversi osservatori secondo i quali le temperature all’Artico erano più alte della norma di circa venti gradi, mentre una vasta area di aria fredda si era spostata sulla Siberia. A questo si aggiungeva un più lento ricongelamento dell’acqua: la superficie della banchisa polare, infatti, normalmente raggiunge l’estensione minima a settembre, poi comincia a riformarsi. Ma quest’anno, almeno fino a novembre, lo ha fatto più lentamente del solito. L’area ghiacciata, riportava il quotidiano statunitense, era ancora più ridotta di quanto non fosse nel 2012, anno in cui l’estensione dei ghiacci aveva toccato i suoi minimi storici.

Fiume Kwanza, in Angola.

La situazione dei gas serra

Quanto ai dati sulla concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, riportava ancora il comunicato del Wmo, sembravano mostrare a novembre una tendenza al rialzo: nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica – il gas serra ritenuto più «colpevole» del riscaldamento globale – aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm) e, sebbene le medie 2016 non siano ancora disponibili, l’agenzia meternorologica riportava valori registrati sino a novembre dell’anno scorso in diverse stazioni di rilevazione nel mondo. Quella di Mauna Loa (Hawaii) aveva rilevato a maggio 407,7 ppm, il più alto valore mensile mai registrato. Diverso invece il trend delle emissioni di anidride carbonica, che si attestano su livelli praticamente stabili per il terzo anno consecutivo, nonostante un aumento del Pil mondiale pari al 3,4 per cento nel 2014 e al 3,1 nel 2015. La Iea, Agenzia internazionale dell’energia, rimarca che nei tre precedenti momenti storici in cui si era registrata una diminuzione delle emissioni – nei primi anni Ottanta, nel 1992 e nel 2006 -, la riduzione era associata a una «frenata» dell’economia mondiale; il dato attuale invece sarebbe imputabile alla progressiva sostituzione di fonti di energia da parte di Cina e Stati Uniti, i primi due paesi al mondo per emissioni di CO2 e responsabili, rispettivamente, del trenta e del quindici per cento delle emissioni stesse. Per quanto riguarda la Cina, «la ristrutturazione economica nella direzione di industrie a consumo energetico più basso e gli sforzi del governo per produrre energia elettrica usando sempre meno il carbone ha spinto in basso il consumo di quest’ultimo. Nel 2015 il carbone ha generato meno del settanta per cento dell’elettricità cinese (nel 2011 ne produceva l’ottanta per cento) mentre le fonti energetiche che comportano meno emissioni di CO2 – in particolare energia idroelettrica ed eolica – sono balzate dal 19 al 28 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno visto una riduzione delle emissioni pari al due per cento principalmente a causa del passaggio dal carbone al gas naturale. In aumento risultano invece le emissioni da parte di altri paesi asiatici e di quelli mediorientali mentre anche l’Europa segna un lieve incremento.

Cop22, i risultati

Quella di Marrakech è stata una Conferenza delle Parti (Cop) della diplomazia e del lavoro preparatorio. E non poteva che essere così. L’accordo di Parigi (si veda MC 5/2016), risultato della precedente Cop, prevede fra le altre cose, di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali – facendo tuttavia il possibile per non superare gli 1,5° C – e di supportare attraverso fondi ad hoc i paesi più esposti ai danni prodotti dal cambiamento climatico, che spesso corrispondono ai paesi più poveri. L’accordo, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e ratificato da 112 paesi su 197, richiede tuttavia un piano per essere attuato. Ed è di questo che si è discusso a Marrakech, stabilendo che il 2018 è la scadenza per definire i dettagli e i regolamenti che metteranno in atto l’accordo.

Carbon Brief, sito britannico di informazione su clima e politiche energetiche finanziato dalla European Climate Foundation – del cui consiglio fa parte quella Mary Robinson che è stata inviata speciale Onu per El Niño e il Clima – descrive così l’effetto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa: «la più grande domanda che aleggiava sulla Cop22 era: [il nuovo presidente] deciderà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi? Potrà quest’ultimo sopravvivere a un così duro colpo? Gli stornici negoziatori hanno continuato il loro lavoro nonostante una minaccia sostanziale, sebbene non confermata, incombesse. E il ritornello della conferenza è presto diventato: l’accordo di Parigi è più grande di qualsiasi paese o di qualsiasi particolare capo di stato. Saranno i prossimi quattro anni a dimostrare se è davvero così».

Deserto del Chalbi vicino a North Horr, Kenya.

Le critiche: per chi troppo, per chi troppo poco

James Hansen è l’ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, l’attuale direttore del Program on Climate Science, Awareness and Solutions alla Columbia University ed è considerato uno dei padri degli studi sul cambiamento climatico. La sua valutazione dell’accordo di Parigi all’indomani della sua adozione alla Cop21 era stata tutt’altro che lusinghiera: «È una frode, un falso» aveva dichiarato in un’intervista al britannico Guardian. «È una stupidaggine dire: “diamoci l’obiettivo dei due gradi e poi incontriamoci ogni cinque anni per cercare di fare meglio”. Sono parole vuote. Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili continuano ad essere i meno costosi, si continuerà a bruciarli». A Parigi aveva proposto di mettere una «quota, perché la parola “tassa” fa scappare la gente a gambe levate», di 15 dollari per tonnellata di carbonio che aumenti di 10 dollari l’anno, generando introiti pari a 600 miliardi solo negli Usa. Ma nessuno, nemmeno i gruppi ambientalisti, ha accolto la sua proposta.

E se quella di Hansen è una critica al troppo poco che, a suo dire, si sta facendo, non mancano le critiche dall’altro versante: quello dei cosiddetti climate change deniers, i negazionisti del cambiamento climatico, per i quali il clamore (e il giro d’affari) intorno all’argomento è fin troppo.

Valle Susa, Salbertrand (To)

I negazionisti

Le posizioni negazioniste si possono (brevemente e non esaustivamente) riassumere così: i negazionisti «duri e puri» che sostengono non ci sia nessun cambiamento climatico; i negazionisti più morbidi, secondo i quali il cambiamento climatico c’è ma non è indotto dall’uomo o almeno non in maniera determinante né chiaramente quantificabile; un ultimo gruppo, che negazionista non è ma che appare scettico rispetto alla gestione del fenomeno e sostiene che il cambiamento climatico c’è, è indotto anche dall’uomo ma è diventato un business, uno strumento di controllo attraverso l’allarmismo o, addirittura, una specie di nuova religione.

Ai negazionisti del primo gruppo possono essere ricondotti i creatori del documentario Climate Hustle (Truffa climatica), uscito lo scorso maggio negli Stati Uniti, che sostengono che il film «toglierà la maschera alla propaganda sul riscaldamento globale, mostrando quel che veramente c’è dietro questo multimiliardario imbroglio». Marc Morano, il narratore del documentario è citato dal Washington Post «come uno dei principali responsabili di campagne di deliberata disinformazione». A fargli compagnia il quotidiano statunitense mette il commentatore di Fox News, Steve Milloy, che in comune con Morano ha anche legami professionali ricorrenti con colossi dei combustibili fossili come ExxonMobile. Fra i «disinformatori» cita poi l’ex governatore dell’Alaska Sarah Palin e il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch.

Posizioni più moderate, sebbene scettiche, ha espresso ad esempio il senatore e premio Nobel per la Fisica 1984 Carlo Rubbia. Nel 2012 ha sostenuto che «non è riscontrabile un rapporto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di CO2» e nel novembre 2014, durante un’audizione al Senato ha affermato che «il clima della Terra è sempre cambiato». Pensare che tenendo la CO2 sotto controllo il clima resterà invariato è un errore. Nello stesso intervento, Rubbia ha anche precisato che dal 2000 si è registrato non una crescita bensì una diminuzione della temperatura media della Terra pari a 0,2 gradi nonostante il continuo aumento delle emissioni di CO2 e che negli ultimi cento anni cambiamenti climatici si sono verificati prima che il cosiddetto effetto antropogenico (cioè l’effetto derivato dalle attività umane) esercitasse un’influenza significativa sull’ambiente. Questo non toglie che le emissioni di CO2 vadano limitate, sostiene lo studioso, che però è critico rispetto ad alcune scelte di politica energetica come quelle europee, a suo dire coercitive e costose, mentre l’investimento tecnologico in settori come quello del gas naturale ha permesso agli Stati Uniti non solo di creare business e posti di lavoro ma anche di diminuire le emissioni.

Infine, i critici più o meno feroci del cambiamento climatico o della sua gestione hanno trovato pane per i loro denti allo scoppiare del cosiddetto Climategate del 2009, quando l’hackeraggio di un server della Climate Research Unit dell’Università dell’East Anglia, Regno Unito – una delle istituzioni più autorevoli per quanto riguarda gli studi sul clima – rese pubbliche migliaia di email che i ricercatori britannici si erano scambiati fra loro e con il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, l’ente che nel 2007 vinse insieme al vicepresidente americano Al Gore il premio Nobel per la pace per l’impegno sul clima. Le email rubate vennero poi caricate su un server in Russia e da lì diffuse; dai messaggi emergeva, secondo i detrattori, la consapevolezza da parte dei ricercatori di non disporre di dati certi sul riscaldamento globale e la decisione di manipolarli per mostrare, invece, un aumento brusco delle temperature che confermasse la tesi antropogenica.

Alla pubblicazione delle email e allo scandalo che ne derivò fecero poi seguito otto inchieste – fra le quali quella della Camera dei Comuni britannica, della statunitense Agenzia per la protezione dell’ambiente e di diversi altri enti governativi e di ricerca – le cui conclusioni scagionavano i ricercatori britannici dall’accusa di aver falsificato i dati.

Le due facce di Soros

Una delle più recenti polemiche che ha investito i sostenitori della tesi del cambiamento climatico dovuto all’uomo e della necessità di affrontarlo è quello della provenienza dei finanziamenti al gruppo ambientalista di Al Gore, la ex Alliance for Climate Protection oggi Climate Reality Project. Il sito DCLeaks a giugno scorso ha fatto trapelare documenti riservati della Open Society Foundations che dimostrano l’appoggio di questa alle organizzazioni di Gore. E la Open Society Foundations è di George Soros, potentissimo e discusso magnate della finanza che da diversi decenni è molto attivo come filantropo e finanzia, fra gli altri, prestigiosi think tanks come Inteational Crisis Group o lo European Council on Foreign Relations.

La notizia che Soros ha sostenuto i gruppi di Gore (e altri enti simili) non è nemmeno una notizia, per la verità, poiché la scelta del magnate in favore della lotta al cambiamento climatico era nota da tempo; tuttavia questa informazione si è poi raccordata con quella dell’appoggio dell’uomo d’affari sia alla campagna presidenziale di Hillary Clinton sia a quelle di Barack Obama, e ha scatenato gli scettici del cambiamento climatico nel sostenere che quella del clima è una battaglia orchestrata ad arte dai poteri forti intenzionati ad usare l’allarmismo sul riscaldamento globale causato dal CO2 per creare consenso su politiche energetiche ben precise. Non bastasse, è dell’agosto 2015 la notizia che Soros ha continuato ad investire proprio in aziende produttrici di combustibili fossili, aprendo la strada alle ipotesi più disparate sulle reali intenzioni del finanziere americano: vuole semplicemente far soldi sfruttando gli ultimi colpi di coda di industrie destinate a chiudere, sostiene qualcuno; vuole dare il colpo di grazia all’industria del carbone per accelerare il passaggio alle energie pulite, sostengono altri.

Insomma, il tema è difficile e va ben oltre la già non immediata comprensione da parte del pubblico di fenomeni complessi come quelli climatici e tocca interessi giganteschi. Ad oggi, diversi studi hanno analizzato le varie ricerche sul riscaldamento globale e il risultato è stato che nella comunità scientifica l’accordo sul fatto che il riscaldamento globale è causato dall’uomo è del 97 per cento.

Fra i tentativi di dare una forma divulgativa a ciò che è accaduto al pianeta nei secoli dal punto di vista climatico va segnalato quello del sito di fumetti on line Xkcd (xkcd.com) che cita fonti usate anche dal sito SkepticalScience (www.skepticalscience.com), attivo nel cercare di spiegare la letteratura scientifica sul clima nel modo più fruibile possibile.

Chiara Giovetti




Mondo: salvare il clima

 


Nel dicembre 2015 si è tenuta a Parigi la Cop21, la ventunesima conferenza internazionale sul clima. Da essa è uscito l’Accordo di Parigi, con alcuni obiettivi che la comunità globale dovrà raggiungere per limitare i danni climatici. Alle dichiarazioni entusiastiche di molti si sono affiancate quelle scettiche di molti altri. E a margine della Cop21 si sono registrate assemblee e iniziative alternative: testimonianze di resistenza a un sistema che sembra proprio non voler cambiare.

«Volere è potere», si dice, quindi nell’attuale scenario ambientale e climatico il «non volere» finisce per essere un crimine. E nella storia delle negoziazioni per il clima, il non volere è stato protagonista di molti, troppi summit inteazionali. La Cop211, svoltasi a Parigi lo scorso dicembre 2015, ha rappresentato per molti un’occasione (forse, l’ultima) per prendere decisioni concertate per tempo, allo scopo di cercare di mitigare gli effetti del cambio climatico attraverso una riduzione dei livelli di emissione di anidride carbonica.

Tappe importanti di una lunga serie di summit

Quella di Parigi è stata l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di summit, cominciata dopo la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, quando venne stilata la Unfccc (la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici). Nella città brasiliana si era giunti a un accordo a livello globale di collaborazione per «conservare, proteggere e ristabilire la salute e l’integrità dell’ecosistema della Terra». La prima Cop si tenne a Berlino nel 1995 allo scopo di definire i principali obiettivi di riduzione delle emissioni. Nel 1997 la conferenza riunita a Kyoto produsse il noto «Protocollo», documento che negli anni ha subito un progressivo affievolimento. La mancata volontà di impegnarsi in un piano comune e vincolante fu in qualche modo «sancita» dall’uscita degli Usa dal Protocollo nel marzo 2001, anno in cui, a novembre, si sarebbe tenuta la Cop7, a Marrakesh: gli Stati Uniti, pur rappresentando un quarto delle emissioni complessive del pianeta, uscirono dal Protocollo di Kyoto in disaccordo sui meccanismi della sua attuazione. Con la sua ratifica da parte di un gran numero di paesi, tuttavia, il Protocollo entrò in vigore nel 2005. Esso obbligava i paesi industrializzati a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni di gas serra in misura non inferiore al 5% rispetto a quelle del 1990. Con l’accordo di Doha del dicembre 2012 l’estensione del protocollo si sarebbe prolungata fino al 2020. Nel 2009 la Conferenza delle Parti di Copenaghen partorì quello che venne poi chiamato un non accordo, che ribadiva l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura sotto i 2 gradi Celsius di media a livello globale ma che faceva sparire impegni concreti nella riduzione delle emissioni.

Il mondo è cambiato

Nel 2010, nel momento dell’approvazione del secondo periodo di implementazione, il Protocollo vide l’abbandono di Russia, Giappone, Nuova Zelanda e del Canada, che rifiutavano, un’altra volta, «impegni vincolanti». In effetti, il mondo che si era incontrato nel 1992 e aveva poi firmato il protocollo a Kyoto nel 1997, nel frattempo, era molto cambiato. Alla fine del 2015, a Parigi, alcuni paesi come Cina, India e Brasile che a Kyoto erano stati inseriti un una lista conosciuta come Non Annex 1 (e chiamati «paesi in via di sviluppo»), si sono presentati come potenze mondiali indiscusse a livello economico, produttivo e di potere politico. A questi paesi, Kyoto non aveva assegnato vincoli di riduzione di emissioni, mentre ai paesi industrializzati dell’Annex 1 sì. Con il passare degli anni, i vecchi paesi industrializzati come gli Usa hanno cominciato a richiedere impegni di riduzione anche ai nuovi paesi industrializzati. E i criteri coi quali definire «responsabilità» e «capacità» dei vari paesi di adottare tali impegni a nome di una solidarietà internazionale, sono divenute il nodo gordiano delle negoziazioni.

Il mercato delle emissioni

Questa è la principale (pesante) eredità ricevuta dalla Cop21 di Parigi, che si aggiunge a molte altre questioni spinose sui meccanismi di implementazione dell’accordo. La società civile e accademica, le comunità indigene, campesine, i piccoli agricoltori, etc. hanno criticato pesantemente strumenti come i Meccanismi di sviluppo pulito, o il Redd2, che hanno messo nelle mani del mercato la possibilità di decidere cosa fare e da parte di chi. Che il mercato sia l’attore più opportuno ed efficiente per gestire la crisi climatica è già di per sé discutibile; quando poi si giunge persino a un mercato finanziarizzato del clima (come nel caso dei Redd, appunto), dei diritti d’emissione e consumo, la situazione giunge all’assurdo.

Il debito climatico

Tuttavia, dopo l’evidente fallimento di Copenaghen e le non decisioni prese nelle successive riunioni, c’è chi ha applaudito l’accordo approvato a Parigi lo scorso 12 dicembre: dalle imprese transnazionali al segretario generale delle Nazioni unite, al delegato Usa John Kerry, a vari ministri francesi fino ai nostri presidente del Consiglio e ministro dell’Ambiente. Secondo questi ultimi, nell’Accordo di Parigi l’Italia è stata protagonista, e gli italiani possono essere soddisfatti perché «siamo nella storia». Il ministro Galletti sembra tuttavia parlare di una storia futura, ideale e con tanti «se», mentre pare non prendere in considerazione la storia già avvenuta, quella che ha visto i paesi di vecchia industrializzazione accumulare un debito ecologico e climatico nei confronti del resto del mondo. La giustizia climatica, che ogni accordo sul clima dovrebbe avere come obiettivo, non può esimersi dal fare i conti con il tema del debito climatico. L’effetto serra è un processo che si conosce dalla fine dell’800, soprattutto grazie al lavoro del chimico svedese Svante Arrhenius. Sono però dovuti passare decenni perché il tema diventasse politico, e fosse discusso per la prima volta in una riunione governativa a Villacco, Austria, nel 1985, e poi nei rapporti dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul Cambio Climatico), e in infinite pubblicazioni accademiche. Ci si ricorderà forse del botta e risposta tra gli ambasciatori di Usa e Bolivia a Copenaghen nel 2009. Lo statunitense Todd Ste, mentre riconosceva il pesante ruolo storico del suo paese nelle emissioni di gas serra, rifiutava l’obbligo di compensarle e negava l’esistenza di un debito.

Pablo Solon, allora, gli ricordò che i ghiacciai boliviani si stavano sciogliendo riducendo le fonti d’acqua del suo paese, e gli chiese chi, secondo lui, dovesse far fronte al problema. Dopo di che gli fece notare che in quella sede non si stavano additando colpevoli, ma attribuendo responsabilità.

Il gruppo di ricerca dell’Ejatlas, con la collaborazione del collega svedese Rikard Warlenius, ha pubblicato una mappa tematica del «debito climatico» (vedi in questa pagina in alto). In essa si evidenzia la responsabilità di una parte di mondo nel totale delle emissioni globali. La stessa parte che oggi si rifiuta di prendere impegni vincolanti. E quando parliamo di «paesi» ci riferiamo sì alla popolazione media, ma anche e soprattutto all’élite benestante, alle imprese di quelle zone di mondo in cui i benefici della ricchezza si concentrano.

La tecnologia ci salverà?

Ma perché l’accordo di Parigi è stato accolto come un successo dai politici e dal settore del business e da altri no? Cos’ha di tanto sbagliato? E, infine, è proprio tutto da buttare?

Il documento in effetti raccomanda di rimanere «ben al di sotto dei 2 gradi Celsius» di aumento della temperatura, e aspira persino a raggiungere la soglia di 1,5. E questo è da accogliere come un successo. Tuttavia, le modalità che suggerisce per raggiungere tale obiettivo prevedono ancora quei meccanismi di mercato di cui si è parlato sopra, o strumenti altamente tecnologici capaci di rimuovere dall’atmosfera l’anidride carbonica di troppo. Ma su quest’ultimo punto ci domandiamo se davvero si voglia far fronte alla crisi climatica appellandoci a una tecnologia (probabilmente energivora) che deve ancora essere testata. Non sarebbe meglio un ripensamento radicale del cammino fatto finora?

Secondo Kevin Anderson del Tyndall Centre, un centro di ricerca inglese sui cambiamenti climatici, «se vogliamo essere seri sul tema del cambio climatico, il 10% della popolazione globale responsabile per il 50% delle emissioni totali deve tagliare in modo drastico il suo consumo di energia».

Molti dubbi sull’accordo

Per aggiungere ulteriori dubbi sull’accordo raggiunto, possiamo ancora chiederci, come fa l’analista uruguayano Gerardo Honty, perché le imprese del petrolio e le grandi multinazionali hanno applaudito alla sua firma. Sicuramente vi hanno visto una garanzia per la civiltà dei combustibili fossili: nulla viene messo in dubbio, nessun cambio radicale in vista. Il che viene anche confermato dal consenso di paesi grandi consumatori dell’oro nero, come Cina e Stati Uniti.

Naomi Klein, autrice di ricerche e pubblicazioni importanti su potere corporativo e ambiente, nel suo ultimo libro This Changes Everything, ha fatto notare che termini come «combustibili fossili», «petrolio», «carbone» non appaiono nel testo finale dell’accordo di Parigi, né tantomeno concetti come «debito climatico». È preoccupante, poi, la cancellazione di riferimenti ai Diritti umani e alle popolazioni indigene, se non nel timido preambolo. E come se non bastasse, ci vorrà un bel po’ di tempo perché questo accordo possa entrare in vigore, forse appena nel 2020.

Ci troviamo dunque tra le mani un testo che non affronta le questioni chiave, che non mette in discussione i meccanismi di ingiustizia che favoriscono l’accumulazione di capitale, gli accordi commerciali che aumentano da un lato la ricchezza estrema e dall’altro la povertà e la violenza. La crescita economica perseguita attraverso estrazione di risorse, produzione e consumo continua a essere indicata come la via per raggiungere lo sviluppo. Un retorico appello allo spirito di cooperazione e solidarietà internazionale lascia ai singoli governi la possibilità di adottare misure volontarie di riduzione delle emissioni. In pochi a Parigi hanno presentato obiettivi volontari di riduzione ragionevoli, e si è calcolato che anche se essi venissero rispettati, la temperatura si alzerebbe comunque di 3°C.

Piccole rivoluzioni in atto

Spesso ci aspettiamo che sia un’idea brillante, un’ideologia che possa spiegare tutto, una formula da applicare al mondo intero per fare una «rivoluzione» a cambiare le cose per raggiungere un mondo migliore. Se però poi il cambiamento non arriva, ci demoralizziamo e ci pare che le vie d’uscita siano inesistenti. L’antropologo David Graeber, in un suo saggio del 2004, invitava però a vedere nelle tante azioni quotidiane, vicine a noi o lontane, una rivoluzione già in atto. Anzi, tante piccole rivoluzioni. E a Parigi se ne sono viste tante. Pur nella loro diversità culturale, politica ed ecologica, tutte mostravano strade alternative proprio a quei governi a cui la volontà e il coraggio mancavano.

Rappresentanti dei gruppi indigeni dell’Isola della Tartaruga (così veniva chiamata l’America Settentrionale) hanno portato con sé testimonianze della resistenza nei loro territori contro le perforazioni per fracking, a causa delle quali l’acqua, la terra e l’aria sono state inquinate provocando malattie croniche ad adulti e neonati. In Canada, la popolazione Wet’suwet’en resiste contro la costruzione del Pacific Trails Pipeline (Ptp), un oleodotto construito da Lng Canada, Shell Canada Limited, Mitsubishi Corporation, KoreaGas (Kogas) e Petrochina, che dovrebbe trasportare le sabbie bituminose della regione dell’Alberta al Pacifico, per essere poi esportate. Dal 2012 affrontano con i loro corpi i macchinari che giungono per disboscare, danno il benservito a funzionari delle imprese e del governo che cercano di comprare il loro assenso, richiedono a chiunque voglia entrare nei loro boschi di identificarsi e dichiarare le proprie intenzioni. Bloccando l’accesso stradale, fermano (per il momento) un processo estrattivo altamente inquinante, e per nulla efficiente. L’accampamento, conosciuto ormai come Unist’ot’en yintah, sfida il governo canadese a una ridefinizione di sovranità, rivendica il legittimo diritto di dire la propria su decisioni importanti. E ha ispirato Naomi Klein e altri nell’usare un nuovo termine, Blockadia, per definire resistenze fisiche, decise, coraggiose, e condivise tra molte comunità in tutto il mondo. Resistenze a un modello estrattivo e a una logica di violenza e di imposizione di una sola via di sfruttamento. Una resistenza che semplicemente dice «no», neanche a fronte di compensazioni monetarie.

Un monito per l’economia globale

A Parigi, lo stesso «no» intransigente, fermo e solenne, l’hanno detto in tanti. E per renderlo ancora più visibile, in molti sono andati a dirlo in canoa la domenica 6 dicembre. L’iniziativa, curata dalle reti di Indigenous Environmental Network e Amazon Watch ha portato rappresentanti dei popoli indigeni dal territorio di Sarayaku dell’Amazzonia ecuadoriana, dagli Stati Uniti e dal Canada a navigare la Senna, fino ad arrivare al centro della capitale francese. Le bandiere ricordavano i molti territori violentati e le comunità che dignitosamente resistono e lanciano allarmi dalle periferie di questa economia estrattiva. I loro «no» sono un monito all’economia globale: per sopravvivere dobbiamo cambiare rotta, lasciare i combustibili fossili nella terra, ridurre significativamente il consumo e soprattutto fare la pace, tra gli esseri umani e con la terra, perché senza pace con essa non ci sarà pace nelle nostre società.

Alla loro voce si sono unite comunità, collettivi, associazioni e Ong di tutto il mondo, presenti a Parigi, sia negli eventi paralleli patrocinati dall’Onu vicino alla sede dei negoziati, sia nelle centinaia di iniziative, workshop, conferenze, spazi di convivialità e scambio realizzati nel quartiere parigino di Montreuil.

Lo si è ribadito anche durante il Tribunale dei Diritti della Natura, una corte etica che ha lavorato duramente negli ultimi due anni per realizzare udienze in Ecuador, Perù, Australia e Stati Uniti. Personalità di grande spessore internazionale su temi della difesa dei diritti umani e dell’ecologia, come l’ex ministro dell’Energia dell’Ecuador Alberto Acosta, il senatore argentino Feando «Pino» Solanas, e Nnimmo Bassey della Ong Friends of the Earth Inteational, hanno ascoltato dodici testimonianze di comunità che soffrono per gli impatti delle attività petrolifere di Chevron-Texaco e di Bp, della costruzione di dighe idroelettriche in Brasile, del fracking negli Stati Uniti, e così via. La sentenza del tribunale ha condannato tali fatti in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, un documento approvato nel 2012 dall’Assemblea legislativa boliviana prima del summit sul clima Rio+20, e che ha ricevuto l’appoggio e la firma di migliaia di sostenitori in tutto il mondo. Dalle parole dello stesso Alberto Acosta: «Fermare il cambio climatico e le aggressioni alla Natura va oltre le riunioni governative e richiede che il movimento sociale globale più potente della storia metta in connessione le differenti lotte per la giustizia ambientale, economica, femminista, indigena, urbana e operaia. Questo implica cornordinare le alternative anti coloniali, anti razziste, anti patriarcali e anti capitaliste verso una alternativa di civilizzazione».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas

Note:

1- La Cop21 è stata la 21a sessione annuale della Conferenza delle parti della Unfccc – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 -, coincisa con l’11a sessione della riunione delle parti del protocollo di Kyoto del 1997.

2- Meccanismi di sviluppo pulito: i paesi industrializzati che devono ridurre le emissioni possono acquisire «crediti di emissione» tramite progetti produttivi a basse emissioni in paesi in via di sviluppo (attuati da aziende private o pubbliche del proprio territorio). I crediti di emissione possono anche essere venduti ad altri paesi.
Redd (Reducing Emission From Deforestation and Forest Degradation): è una tipologia di progetti che mira a ridurre le emissioni di gas serra tramite la protezione delle risorse forestali e la riforestazione. La creazione di zone protette espelle intere comunità che, in modo sostenibile, traggono sostentamento dalle risorse forestali.

Scheda Ejatlas: Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il secondo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas).Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

  • www.ejatlas.org
  • www.ejolt.org
  • http://atlanteitaliano.cdca.it