Quello che fu il «Celeste impero» è un paese continente difficile da decifrare senza qualche solida conoscenza. Per guardare oltre le accuse odierne e gli antichi stereotipi, ci siamo fatti aiutare da due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni. Perché con la Cina – volenti o nolenti – tutti noi dobbiamo fare i conti. Adesso.
Per gli occidentali comprendere e relazionarsi con la Cina è sempre stato complicato. Lo era ai tempi dell’impero. Lo è ancora di più da quando il partito comunista è andato al potere e il paese ha accresciuto in maniera irrestistibile la propria forza economica e la propria influenza internazionale. Le imprese e i capitali cinesi sono ormai radicati in moltissimi paesi dell’Africa e dell’America Latina. Mentre un suo gigantesco progetto infrastrutturale, noto come nuova Via della seta (ufficialmente, Belt & Road Initiative), sta cercando di fare breccia in Europa. Insomma, oggi Pechino lotta per strappare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale. Di tutto questo abbiamo parlato – separatamente – con due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni, giornalisti e scrittori con una lunga esperienza in Cina.
Una Cina «perfetta»
«Mi raccomando: non scrivere che sono sinologo perché sarebbe una bugia. Il mio livello di mandarino è basic, il che significa che mi faccio capire e capisco qualcosa, ma purtroppo (almeno per ora) nulla di più».
Michelangelo Cocco vive a Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. È direttore esecutivo del Centro studi sulla Cina contemporanea (Cscc) e scrive per Il Messaggero, dopo essere stato corrispondente da Pechino per il Manifesto. Da poco è uscito il suo libro «Una Cina “perfetta”. La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale» (Carocci, 2020).
«Il titolo fa riferimento al tentativo del Partito – in particolare attraverso la rinnovata centralità dell’ideologia e del controllo della popolazione mediante strumenti high tech – di dar vita a una governance “perfetta” del XXI secolo: favorire una gigantesca modernizzazione del sistema economico cinese, promuovere una cultura ambientale, garantire a tutti “una vita migliore”, come ha promesso Xi Jinping. Una governance “perfetta” per un paese continente pieno di problemi e contraddizioni: è questa la sfida epocale lanciata da un Partito che da 70 anni è sempre più la guida dell’economia e della società cinese».
Parlare oggi di «perfezione» è dura, viste le accuse di responsabilità per la diffusione del Sar-CoV-2, il «virus cinese» come lo chiamava l’ex presidente Usa Trump.
«Eventuali responsabilità cinesi – commenta Michelangelo – al momento sono estremamente difficili da accertare, anche perché gli scienziati non hanno ancora chiarito definitivamente dove e in quali circostanze si è sviluppato e trasmesso all’uomo questo nuovo coronavirus. Ciononostante un gruppo di governi (statunitense, britannico, brasiliano), che hanno negato a lungo la gravità della pandemia, l’hanno poi utilizzata a fini politici, per accusare la Cina con la quale – ormai da un paio d’anni – è in corso uno scontro che investe tutti gli ambiti: tecnologico, commerciale, politico, e valoriale. Probabilmente le autorità dello Hubei hanno reagito all’epidemia in ritardo, negandola in un primo momento e censurando i medici che avevano lanciato l’allarme sulle polmoniti misteriose. Ma tutta la polemica che si è scatenata – in un contesto ormai polarizzato Cina versus Occidente – non ha alcun valore scientifico. Si tratta di una battaglia politica che aggrava tensioni preesistenti, che ha pregiudicato quella che sarebbe stata un’utilissima cooperazione sanitaria internazionale e che impedirà qualsiasi indagine indipendente sul Sars-CoV-2».
I tre pilastri del nuovo Impero cinese
Prima dell’arrivo del Covid-19, nell’immaginario collettivo occidentale la Cina non era più quella delle campagne, ma quella moderna, ipertecnologica e simil-occidentale delle sue grandi città. Cioè, provando a sintetizzare, i pilastri del marxismo e del confucianesimo innestati nel cosiddetto «socialismo di mercato». Chiediamo a Michelangelo Cocco se questa sia un’interpretazione corretta.
«Diciamo che il “socialismo di mercato” – affermatosi “definitivamente” dopo la repressione di piazza Tiananmen (era il 1989) e dopo il viaggio al Sud di Deng Xiaoping del 1992 – ha introdotto, in un paese ufficialmente socialista, dosi sempre più massicce di capitalismo. Tuttavia, a un certo punto – approssimativamente durante il decennio 2003-2013 (con Hu Jintao presidente e Wen Jiabao primo ministro) -, il Partito ha capito che, alle riforme di mercato e al deficit ideologico, andava posto un limite, altrimenti il sistema sarebbe crollato per le tensioni create dalle disuguaglianze crescenti e dal distacco tra il Partito e la società. Xi Jinping ha assunto il compito – in maniera esplicita a partire dal XIX Congresso del 2017 – di riprendere il controllo sull’economia e sul popolo. Il pendolo Stato-mercato con Xi ha oscillato decisamente più dalla parte del primo, anche se il mercato resta un elemento imprescindibile dell’economia cinese. Attraverso un potente mix ideologico fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, la leadership ha riaffermato la propria autorità sul Partito, ricompattandolo, e sta provando a ridare un certo inquadramento ideologico-patriottico a una società che, fino a poco tempo fa, era attratta soprattutto dalle opportunità di avanzamento sociale (che, peraltro, oggi si stanno restringendo)».
Non soltanto Hong Kong
La cronaca delle recenti rivolte nell’ex colonia britannica di Hong Kong ha riportato alla luce anche i conflitti nella regione autonoma del Tibet e nel Xinjiang a maggioranza islamica. «Anche se si tratta in tutti e tre i casi di periferie ribelli all’interno del nuovo Impero cinese, sono tre situazioni molto diverse – spiega Michelangelo -. Il Tibet e il Xinjiang esprimono un nazionalismo debolissimo e, di fatto, non hanno rappresentanti riconosciuti, né all’interno della Cina né all’estero. In questa situazione, ritengo che il Partito potrà portare avanti – a ritmo accelerato, approfittando dell’attuale vantaggio – le sue politiche di assimilazione culturale e di controllo del territorio di queste due immense regioni frontaliere, povere e scarsamente popolate ma che, assieme, rappresentano un terzo del territorio del paese.
Diverso è invece il discorso per Hong Kong, una regione amministrativa speciale piccola, ricca e densamente popolata. Qui la società è fortemente polarizzata: una parte sta con Pechino, l’altra contro. I contestatori dell’ordine costituito sono spesso giovanissimi e di ceto medio alto, hanno i loro partiti e movimenti politici, comunicano col resto del mondo e sono riusciti ad attirare la simpatia e l’appoggio delle democrazie liberali per la loro causa. Nonostante la recente approvazione della Legge sulla sicurezza nazionale, le tensioni con questa parte importante della società dell’ex colonia britannica potrebbero rappresentare una “nuova normalità” in una Hong Kong profondamente divisa e destinata a diventare meno rilevante da un punto di vista economico per la Repubblica popolare, “sostituita” da Shanghai o dalla confinante Shenzhen».
«La nuova Silicon Valley è cinese»
A Pechino è rimasto per quasi 10 anni. Nella capitale cinese – era il 2008 – è stato cofondatore di China Files, agenzia editoriale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. «Quando non lavoravo come giornalista, mi divertivo a fare l’allenatore dei bambini in una scuola di calcio locale», ricorda con una punta di nostalgia. Rientrato in Italia per motivi personali, oggi Simone Pieranni è caporedattore al Manifesto e da poco ha pubblicato «Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina» (Laterza, 2020). Lo disturbiamo mentre è alle prese con i suoi due gemelli di quindici mesi.
Da Huawei a Tiktok: tecnologia e controllo
«Red mirror», il suo terzo lavoro dedicato alla Cina (d’imminente uscita anche in Francia e in America Latina), inizia descrivendo una giornata a Pechino usando il cellulare e WeChat (Weixin, in mandarino), un’applicazione della multinazionale cinese Tencent.
«Sono arrivato in Cina nel 2006 – racconta Simone – e in pochi anni mi sono ritrovato a fare tutto con il cellulare. Il libro nasce dall’esperienza di quanto è accaduto in quel paese a livello tecnologico».
Già, la tecnologia cinese. È contro di essa che si sono scagliati Donald Trump (la vicenda del social TikTok è emblematica) e, a ruota, il premier inglese Boris Johnson. Stati Uniti e Gran Bretagna spingono gli alleati a respingere l’avanzata tecnologica cinese e in particolare quella del gigante Huawei. Anche se – almeno finora – i maggiori scandali legati allo spionaggio digitale sono nati proprio nei paesi accusatori, con la National Security Agency statunitense (scandalo Datagate del 2013) e la britannica Cambridge Analytica (scandalo del 2018).
«Il pericolo dietro Huawei – conferma il nostro interlocutore – è identico a quello delle grandi aziende americane o occidentali. Qualunque sia l’impresa che gestisce i dati, c’è sempre il rischio di un utilizzo fuorilegge delle informazioni raccolte. Sulla Cina – questo è vero – si innescano però altre dinamiche che rendono tutto ancora più complicato. Inutile nascondersi dietro a un dito, la scelta è e sarà politica».
«Socialismo di mercato»
Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del «socialismo di mercato».
«Un apparente ossimoro – spiega Pieranni -, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro».
Secondo Pieranni, l’economia spiega anche perché le situazioni di crisi interne al paese – Tibet, Hong Kong e Xinjiang – rimangono circoscritte e senza conseguenze pesanti per Pechino.
«Il Tibet è praticamente dimenticato. Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale (che di fatto riporta la città dentro all’ordinamento cinese) e qualche protesta, è ormai un elemento acquisto. La regione dello Xinjiang invece mette a nudo la nuova Cina, iper tecnologica e iper controllante. Tuttavia, è una situazione che si protrae da anni e che è riemersa di recente soltanto perché utilizzata da Trump in chiave elettorale. Purtroppo, nessuno ha veramente interesse a chiedere spiegazioni alla Cina, dato che sono ancora troppi i vincoli economici che legano il paese asiatico al mondo occidentale».
Pechino e la Chiesa di Roma
Abbiamo visto che dipanare l’enigma cinese non è facile e, in questo senso, i mezzi di comunicazione non aiutano.
Chiediamo a Simone se, secondo la sua prospettiva privilegiata, i media italiani e occidentali in generale parlino in maniera corretta e veritiera della Cina o prevalgano invece maschere ideologiche e preconcetti.
«Difficile – spiega – fare un ragionamento generale, perché esistono eccezioni. Però possiamo dire che i media mainstream hanno un atteggiamento, se non pregiudiziale, piuttosto superficiale sulla Cina, creando nello spettatore e nel lettore la necessità di vedere tutto o bianco o nero. Sono i media che creano le tifoserie. Purtroppo, sulla Cina accade così da tempo».
Tifosi. Proprio come avviene per la Chiesa di papa Francesco: o sei con lui o contro di lui. A metà ottobre, gli Usa dell’ex presidente Trump e del suo segretario di stato Mike Pompeo avevano cercato d’interferire in maniera pesante sulle relazioni tra il Vaticano e la Cina che stavano lavorando per rinnovare l’accordo provvisorio del 22 ottobre 2018 sul processo di nomina dei vescovi.
Sul Corriere della Sera del 2 ottobre, Ernesto Galli della Loggia aveva parlato di «una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi» da parte di un «papa terzomondista». Vaticano e Cina non hanno badato alle critiche e, alla scadenza, hanno rinnovato l’accordo.
«Mi si perdoni l’iperbole – chiosa Pieranni -, ma io penso che sia il rapporto tra due organismi politici molto simili. Si tratta di due istituzioni che ragionano con tempi molto più lunghi di qualsiasi governo al mondo, hanno gli stessi modi, talvolta, di gestire questioni interne e sono molto abituati a “segreti”. Credo sia realpolitik: la Chiesa sa che in Cina la crisi dei valori favorisce l’evangelizzazione; la Cina sa che un accordo con la Chiesa la mette al riparo da certe critiche occidentali».
Paolo Moiola
Repubblica popolare cinese
Superficie:
9,5 milioni di chilometri quadrati (quarto paese più vasto al mondo dopo Russia, Canada e Stati Uniti).
Popolazione:
1,4 miliardi di persone (primo paese al mondo).
Sistema politico:
Repubblica popolare a partito unico
(Partito comunista cinese).
Economia:
socialismo di mercato; 2° Prodotto interno lordo (Pil) al mondo dopo quello degli Stati Uniti.
Etnia principale:
Han (92 per cento) e altre 55 etnie ufficiali.
Lingua ufficiale: mandarino.
Religioni:
ateismo (ufficiale); taoismo, buddhismo, islam, cristianesimo (tra il 3 e il 5 per cento).
1949 (ottobre) – Dopo la sconfitta dei nazionalisti, Mao Zedong fonda la Repubblica popolare cinese.
1949 (dicembre) – I nazionalisti, sconfitti dai comunisti di Mao, si ritirano sull’isola di Taiwan, da allora «provincia ribelle» secondo Pechino.
1950 – L’esercito di Mao occupa il Tibet.
1989 (aprile-giugno) – Rivolta e repressione di piazza Tiananmen.
1997 (luglio) – Hong Kong passa dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese.
2013 (marzo) – Inizia la presidenza di Xi Jinping.
2019 (marzo) – L’Italia firma un Memorandum d’intesa con la Cina sulla «Belt and road initiative» (Bri), popolarmente nota come «nuova Via della Seta».
2019 (novembre) – Primi casi di Covid-19 nella provincia di Hubei (Wuhan).
2020 (20 settembre) – L’amministrazione Trump vieta in Usa le applicazioni cinesi TikTok e WeChat.
2020 (22 ottobre) – Viene rinnovato l’accordo (provvisorio e segreto) tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi.
Pa.Mo.
Guanxi Italia
Questo dossier introduce una tematica – i Cinesi d’Italia – di cui Missioni Consolata non si è mai occupata, se non in maniera occasionale. Lo abbiamo affidato a un giovane sinologo, Gianni Scravaglieri, che insegna la lingua cinese nelle scuole superiori della Lombardia. Queste pagine sono soltanto un inizio. È nostra intenzione tornare sull’argomento in un vicino futuro. Chi – cinese o italiano – voglia raccontare la propria esperienza scriva alla redazione. Nel frattempo, buona lettura. (pa.mo.)
Foto di Roberto Brancolini – A cura di: Paolo Moiola
Introduzione
Siamo cinesi
I lettori mi perdoneranno se, per introdurre questo dossier, partirò da alcuni ricordi personali. Molti, troppi anni fa vissi per qualche mese a San Francisco, in Califoia. Abitavo in centro, vicino a Chinatown. Era quest’ultimo un luogo che mi attraeva perché mi offriva una sensazione di esotico fino allora estranea alla mia esperienza d’italiano. Per approfondire quella sensazione, un paio di anni dopo feci un lungo viaggio in Cina, via terra e via fiume. Era trascorso un anno e mezzo dalla protesta di piazza Tienanmen (aprile-giugno 1989) e la Cina era ancora quella delle biciclette e delle campagne. Poi, nel giro di circa un decennio, tutto è cambiato in forza della globalizzazione e delle nuove dinamiche geopolitiche. La Cina è diventata la potenza industriale e commerciale che tutti conosciamo. Grandi aziende occidentali sono state comprate dai cinesi. Addirittura importanti squadre di calcio italiane sono passate nelle loro mani. In quasi ogni città del pianeta si sono costituite forti comunità cinesi, coese e laboriosissime. Con esse sono cresciuti anche miti e stereotipi. Oggi in Italia ci sono – stando ai dati Istat del 1 gennaio 2016 – 271.330 cinesi, pari al 5,4% del totale degli stranieri regolarmente registrati (5.026.153). Gli studi dicono che la grande maggioranza dei cinesi arriva dalla provincia di Zhejiang e in particolare dalla città di Wenzhou. Nelle mia piccola città natale, Rovereto, i cinesi sono poco più di un centinaio (su 5.000 stranieri), ma hanno avviato decine di attività imprenditoriali. Sono ristoratori, parrucchieri, estetisti, gestori di supermercati. Non è una leggenda metropolitana che, in generale, essi siano dei gran lavoratori, anche se spesso a scapito della concorrenza. Un taglio di capelli da un cinese costa la metà o anche meno che da un italiano. Stessa cosa vale nei ristoranti. Eppure, anche qui le cose stanno cambiando. Le cosiddette seconde generazioni parlano italiano e, pur non rinnegando le «guanxi» (il complesso sistema di relazioni familiari e sociali proprie del mondo cinese), sono più inserite nella società italiana. Magari con dubbi, perplessità, domande senza risposta, ma ci sono e vogliono progredire nel paese d’adozione, pur senza mai dimenticare la patria dei loro genitori. Anche per questo è interessante andare a leggere le esperienze riportate – in perfetto italiano – nel sito di Associna. «Nell’Italia della grande migrazione – si legge nell’ormai datato I cinesi non muoiono mai -, alla voce segni particolari, gli stranieri devono esibire indicazioni precise: sul musulmano abbiamo pregiudizi nitidi come cristalli, all’albanese imputiamo la violenza, allo zingaro i furti, al cinese rimproveriamo innanzitutto il mistero». In questi anni il rapporto con la comunità cinese ha imboccato percorsi molto diversi e certamente meno banali.
Paolo Moiola
Dai primi immigrati alle seconde generazioni
Il cuore (e il peso dei valori)
Il pensiero confuciano e il sistema delle «guanxi» rimangono centrali nella comunità cinese d’Italia. I giovani sono sicuramente più integrati dei genitori nella società d’adozione, ma il ruolo delle tradizioni resiste. Nel frattempo, con l’esplosione economica della Cina e la crisi italiana, i flussi migratori sono diminuiti. E, a volte, si sono invertiti.
I secoli di vita contadina, caratterizzati dalla precarietà del raccolto, dalla fatica nei campi, dall’assenza di giorni di riposo, dalla gestione oculata delle risorse, dal dovere dell’accoglienza, dall’assoluta necessità di aiuto reciproco, tra gli abitanti di uno stesso villaggio, hanno forgiato il carattere dei cinesi.
Alessandro Cheung: «Ci aiutiamo moltissimo tra di noi, tra parenti, tra amici. E questo è un sistema che noi chiamiamo guanxi, basate sull’onore, il rispetto, l’amicizia. Ed è per questo che noi ragazzi anche piuttosto giovani riusciamo a far partire delle aziende di una certa importanza».
Le guanxi non sono soltanto un elenco dei nomi scritti sulla rubrica del telefono. Le guanxi sono tutte quelle persone a cui posso, nel bisogno, chiedere aiuto e a cui devo, nel bisogno, dare aiuto. Nelle guanxi, con un diverso grado di priorità, rientrano i familiari, i parenti, i vicini, i colleghi, gli amici. Questo meccanismo di reciproco aiuto ha reso possibile l’immigrazione cinese in Italia e il suo successo.
Malia Zheng: «Questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, ha determinato il grande flusso migratorio in Italia: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via».
L’influenza del pensiero confuciano
Le tradizioni e i rapporti all’interno della comunità, della famiglia, tra genitori e figli, in particolare, hanno a volte pesato molto sulla personalità dei giovani delle seconde generazioni, figli degli immigrati cinesi degli anni Ottanta. Il pensiero tradizionale confuciano prescrive che i genitori debbano occuparsi dei figli e i figli debbano rispettare i genitori. In concreto ciò significa continuare i loro affari, ascoltare i loro consigli, prendendosi cura di loro nella vecchiaia o nella malattia.
Valentina: «i miei genitori vorrebbero che io continuassi la loro attività lavorativa. Stiamo aprendo un altro negozio. Io non voglio deluderli. Penso che si sono sacrificati fino ad ora per darmi un’istruzione, quindi è giusto che li ripaghi, quindi alla fine ho deciso di continuare la loro attività».
Chi non rispetta però queste regole tradizionali, in qualche modo decide di rompere un patto culturale e familiare fortissimo, rischiando di ritrovarsi senza più appoggi da parte dei genitori.
Chen Lele:«ho avuto una bellissima bambina con un ragazzo italiano. Ho perso il vostro sostegno e non immaginate quanto abbia bisogno di avervi accanto, di avere la vostra approvazione e di sentirvi felici per la donna che sono diventata».
Da dove tutto partì
Nel 1984 Wenzhou, città nella provincia costiera del Zhejiang, da cui provengono quasi il 90% dei cinesi in Italia, insieme ad altre zone economiche speciali, venne aperta agli investimenti stranieri, grazie alle riforme promosse da Deng Xiaoping. Da quel momento l’arrivo di capitali, la possibilità di lavorare e di condurre buoni affari, ma anche la possibilità di ottenere finalmente un passaporto per emigrare, divenne il tema di discussione tra amici e parenti.
La stragrande maggioranza aveva già un mestiere e non emigrò per disperazione. Il progetto era quello di andare a lavorare presso i parenti o conoscenti già presenti da tempo in Italia o in altri paesi europei, seppur in numero esiguo, dai quali ricevere un supporto concreto all’inizio, per poi tentare di aprire una piccola impresa propria. Ovviamente non per tutti fu un successo.
Yang Shi: «I miei genitori in Cina avevano una discreta posizione sociale. Appena abbiamo avuto una possibilità di andare all’estero, subito ne abbiamo approfittato. Non pensavamo di impoverirci venendo in Italia e invece ci siamo impoveriti».
In quegli anni cominciarono a emigrare venditori ambulanti, falegnami, carpentieri, piastrellisti, muratori, cuochi, camerieri, insegnanti, contabili, ristoratori, baristi, gestori di locali. In un secondo momento sarebbero arrivate le mogli, grazie alla possibilità del ricongiungimento familiare o delle non rare sanatorie decretate dal governo. Infine i figli, arrivati dalla Cina o nati qui.
Le vie del successo
Questa prima generazione di cinesi, detta di nuova immigrazione, arrivò in Italia anche per vie traverse, grazie ai soldi raccolti tra i parenti e i conoscenti. Per ripagare il loro debito, gli immigrati di Wenzhou dovettero lavorare gratis per un certo periodo nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria, di maglieria, di tappezzeria, nelle ditte per la lavorazione conto terzi di scarpe o di divani dei loro connazionali. Quando il debito veniva estinto, l’immigrato poteva cominciare a guadagnare. Inutile dire che durante questo esodo di persone si sono verificati anche casi di corruzione, di ricatto, di sfruttamento, di violenza e di truffa.
Tuttavia, l’immigrazione cinese portò sostanzialmente vantaggi all’Italia. A Prato, ad esempio,il tessile al momento dell’arrivo dei cinesi era già in crisi. Le imprese cinesi, anche grazie ai loro modi non sempre trasparenti di lavorare per conto terzi, hanno comunque ravvivato la produzione, permettendo anche oggi alle imprese e ai grandi marchi italiani del settore di avere prezzi concorrenziali su tutto il mercato europeo. Lo stesso fenomeno si è verificato a Milano, in zona Paolo Sarpi, che all’arrivo dei cinesi non era già più il vivace quartiere di negozianti e artigiani degli anni precedenti. La stessa amministrazione ha concesso ai cinesi le licenze per aprire negozi di vendita all’ingrosso sul finire degli anni Novanta, collegando il quartiere all’import-export con la Cina, che nel 2001 sarebbe entrata nel Wto. Non sono mancati momenti di conflitto tra comunità cinese e abitanti italiani del quartiere. Oggi la situazione appare sostanzialmente pacificata.
Le seconde generazioni
I giovani delle seconde generazioni in genere hanno vissuto con i genitori quando erano molto piccoli, poi rimandati in patria dai nonni per frequentare le scuole primare e imparare la lingua cinese, infine tornati in Italia, dopo qualche anno, a frequentare le scuole e ad aiutare i genitori magari nella piccola impresa familiare.
Lin Jie: «Tutto era nuovo per me: il cibo, la casa, la scuola, le facce, il colore dei capelli e degli occhi. Mi divertivo quando le maestre cercavano di insegnarmi la “R”, facendomi vedere la lingua tremante per minuti. Tuttavia avevo nostalgia della Cina, degli amici, dei compagni di scuola, della nonna, dell’alzabandiera che si faceva ogni mattina, dell’inno nazionale che alle prime note imprimeva energia, della campagna vicino a casa».
Famiglia e Cina, un legame che in questi ragazzini, seppur a volte attenuato non si è mai spezzato.
Qi Yan: «Abbiamo studiato nelle scuole italiane, abbiamo un sacco di amici italiani e ci sentiamo sempre in qualche modo legati alla Cina, un legame che difficilmente si interrompe, un legame soprattutto rafforzato dalla nostra curiosità e dall’orgoglio dei nostri genitori nell’essere cinesi».
Oggi, diventati grandi e assorbita anche la cultura italiana, in molti si ritrovano a dover rimettere insieme una identità multiforme, con l’intenzione e la difficoltà di tenere tutto insieme, quello che è Italia e quello che è Cina.
Yu Ruijue: «In Cina vengo considerata troppo italiana, in Italia mi sento troppo cinese. Delle due metà in cui il mio “io” si divide, nessuna riesce a prevalere sull’altra. Inoltre, so bene che, se mancasse anche una sola delle due, perderei inevitabilmente me stessa».
Quelli delle seconde generazioni sono in genere giovani con un diploma e sempre più spesso una laurea in tasca. Chi di loro non è riuscito o non ha voluto fare il libero professionista o il dipendente in una multinazionale, resta a lavorare nelle imprese di famiglia. Principalmente nel settore dei servizi: ristoranti, negozi di scarpe, di accessori, di vestiti, sartorie, lavanderie, tintorie, negozi alimentari, centri massaggi, bar, sala giochi, negozi di riparazione computer e cellulari.
La crisi e l’ipotesi del ritorno
Dopo la crisi del 2008 però fare affari nel nostro paese diventa sempre più difficile e anche per molti cinesi si affaccia alla mente l’ipotesi di tornare in Cina. Quelli della prima generazione, verso i sessant’anni d’età e con decenni di lavoro in Italia, potranno decidere di ritirarsi nel paese natale a passare la vecchiaia. Ma per le seconde generazioni di ventenni e trentenni, magari già con figli piccoli che frequentano le scuole italiane e con una mentalità e un modo di vivere, che negli anni si è per così dire «italianizzato», sarà molto più difficile farlo.
Mary Pan: «Se ci pensiamo bene, non possiamo fare a meno dell’Italia. Perché ci ha dato la possibilità di crescere e migliorare, sebbene con molti sacrifici».
Per le seconde generazioni anche per un altro motivo, pur volendolo, sarà complicato tornare o trasferirsi in Cina, cioè a causa del suo costo della vita e del suo dinamismo sociale.
Yan Tianyou: «In Cina la concorrenza è feroce e il nostro potere d’acquisto si è ridotto. Adesso è più intelligente investire in Italia. In Cina non posso permettermi neppure un appartamento. Inoltre i miei parenti sono tutti in Europa».
Anche per i cinesi in Cina però, con la crescita del loro tenore di vita e la crisi in Italia, che dal 2008 blocca la ripresa, emigrare come un tempo è un gioco che non vale quasi più la candela. Oggi dalla Cina e verso la Cina si spostano solo gli imprenditori in cerca di affari e investimenti, compreso l’acquisto di aziende. E anche i giovani per studiare nelle accademie o nelle università, con i programmi Marco Polo e Turandot.
Qi Yan: «Ormai i cinesi poveri non spendono più tanti soldi per venire in Occidente senza documenti, rischiando mille avversità per affrontare una vita misera e povera senza molte possibilità di fare fortuna per via della crisi economica fuori dalla Cina».
Integrazione nella globalizzazione
Per le seconde generazioni la via del successo personale passerà sempre più attraverso una maggiore integrazione nel tessuto sociale italiano, ma senza rinunciare alla loro parte di identità cinese che, in un contesto di globalizzazione delle professionalità, li può portare ad essere un ponte ideale fra i nostri due paesi amici.
Angelo Hu: «Il cambiamento è in corso grazie ai giovani delle nuove generazioni, molti dei quali vanno all’università, e che stanno uscendo dalle attività commerciali tipiche della prima immigrazione di cinesi».
In questo però il Parlamento dovrebbe dare una mano, sboccando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma ferma in Commissione affari costituzionali del Senato. L’Italia non può permettersi di deludere o di lasciarsi sfuggire questi giovani, proprio nel momento in cui diventano maggiorenni, trattandoli come semplici immigrati. L’Italia ha un debito nei loro confronti, quanto meno per la fiducia ricevuta. Anche se non nelle carte bollate, i cinesi nati o cresciuti qui sono già italiani nel cuore.
Lin Jie: «Finalmente arrivò il decreto di conferimento della cittadinanza. Dal momento in cui ho presentato la domanda mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito a identificarmi come italiano senza alcun indugio. Ogni dubbio mi svanì nell’ufficio del sindaco quando ho pronunciato queste parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». Avevo trovato la mia risposta: «Il mio cuore è italiano tanto quanto cinese».
Gianni Scravaglieri
L’associazione Associna
Per togliere le spine serve tempo e pazienza
Quando arrivarono i primi gruppi di immigrati cinesi erano gli anni Ottanta. Da allora molto cose sono cambiate: dalla lingua cinese sempre più richiesta e studiata al primo carabiniere cinese. L’immigrazione cinese in?Italia in un convegno di Associna, associazione nata nel 2005.
Il 26 marzo 2005, a poco più di vent’anni dall’inizio della cosiddetta nuova immigrazione cinese in Italia, vedeva la luce Associna, l’associazione delle nuove generazioni sino-italiane. Associazione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia, che nel tempo è diventata uno dei punti di riferimento nazionali per tutti gli attori istituzionali e privati, impegnati nella costruzione di una nuova società, più forte, più ricca, più libera e più inclusiva. A partire dal diritto di cittadinanza per tutti coloro che qui in Italia sono nati o cresciuti. Con un impegno volontario e quotidiano questi giovani sino-italiani continuano a testimoniare con le loro attività in modo vivo e tenace un punto di svolta storico e sociale, che non può più essere da nessuno cancellato: l’Italia ha dei nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto, nati da genitori stranieri, ma che stranieri non sono mai stati, che parlano italiano, amano, come i figli degli italiani, il nostro paese, la nostra cultura, le nostre città.
Certo, la vita non è tutta rose e fiori, dice un antico proverbio. E un concetto simile è riportato nel loro sito internet: «La convivenza è la rosa della società umana, bisogna sempre ricordarsi di tagliare le spine dell’egoismo e della paura del diverso». Possiamo solo aggiungere che prima di parlare di diritti e di doveri, è necessario accettare l’altro come una presenza possibile. Ancora oggi però una parte della società guarda alla diversità non come a una ricchezza, ma come a una minaccia.
La lingua cinese è sempre più studiata
Sabato 15 ottobre 2016, Associna ha organizzato a Milano il secondo Convegno Nazionale delle Seconde Generazioni sino-italiane, presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. La finalità dell’incontro è spiegata dal Presidente di Associna Prof. Gianni Lin: «Quest’anno abbiamo deciso di organizzare il nostro convegno annuale a Milano, in quanto vogliamo evidenziare il ruolo delle seconde generazioni italo-cinesi nelle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Cina. Lo scambio economico tra Lombardia e la Cina costituisce il 40% del totale italiano (45 miliardi di Euro), per cui non potevamo scegliere luogo più emblematico». I lavori della giornata sono stati aperti con i saluti iniziali di Francesco Wu, vicepresidente di Associna, e moderati da Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera.
La parola è quindi stata presa dalla professoressa Elisa Maria Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica di Milano, che ha ricordato che la lingua cinese è sempre più studiata dai giovani italiani e dagli stranieri residenti, ma anche da un crescente numero di adulti.
Iacopo Lin, il primo carabiniere cinese
L’integrazione ha bisogno del suo tempo. Dei simboli però possono favorirla in modo decisivo. Come quello di Iacopo Lin, premiato in questa occasione per essere stato il primo carabiniere della storia di origine cinese. Egli ha avuto il grande merito di eliminare la sensazione del noi e del voi riportando in primo piano il servizio allo Stato e l’amore per l’Italia.
Mentre Cristina Tajani, assessore al lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, ha sottolineato il messaggio positivo, che emerge dalle statistiche della Camera di Commercio di Milano, specialmente nei settori della moda e del design, che dimostrano come le aziende e gli investimenti dei cinesi abbiano dato respiro al tessuto economico milanese, anche sotto l’aspetto dei posti di lavoro, dopo la grave crisi che ci ha colpito dal 2008. Evidentemente la sinergia creatasi con la comunità cinese, sottolineata anche dal gemellaggio di Milano con la città di Shanghai, ha portato i suoi frutti.
Il console Meng, si è fatto portavoce di un messaggio inviato dal console generale di Milano sig.ra Wang. Il cuore del messaggio è stato rivolto al carattere tradizionalmente laborioso, intelligente, tenace del popolo cinese. Ribadendo il fatto che ogni volta che gliene viene data occasione esso applica alla vita associata, come puntualmente è anche successo in Italia con le cosiddette seconde generazioni cinesi, i suoi talenti nel campo della politica e dell’economia. Infatti i giovani cinesi delle seconde generazioni sono riusciti ad essere degli apripista per promuovere i legittimi interessi di tutti gli altri cinesi, che magari nati qui in Italia sono tuttavia ancora privi della cittadinanza italiana. Sono moltissime le aziende, legate alle seconde generazioni, che quotidianamente incrementano l’integrazione sociale, anche grazie alla loro naturale capacità di mediazione tra lingue e culture diverse. Il mutuo beneficio tra generazioni italiane e cinesi deve essere strategicamente l’orizzonte che ci guida.
Il professor Daniele Cologna, dell’Università dell’Insubria e fondatore di Codici s.c., ha aperto il suo intervento con una sorta di monito, in quanto per tutti noi le seconde generazioni cinesi sono «uno squillo di tromba», che non si può non cogliere. Abbiamo infatti bisogno di un’Italia diversa, più matura, meno infantilmente atteggiata verso la Cina. Ma ci vogliono anche delle istituzioni più sensibili alle esigenze delle seconde generazioni di immigrati, persino verso coloro, che pur essendo nati in Italia, a causa di una legge farraginosa, non possono ancora ottenere la cittadinanza. Oggi in Italia abbiamo oltre 270 mila residenti cinesi. Il tema dell’acquisizione della cittadinanza resta fondamentale, anche se non tutti coloro che ne hanno diritto iniziano le pratiche per ottenerla.
Tra la prima e la seconda generazione
Il fatto macroscopico a cui si assiste è il passaggio di testimone tra la prima e la seconda generazione nelle imprese. Mentre i cinesi arrivati nei decenni precedenti avevano un grado di istruzione basso ed erano impegnati in lavori con minimo contatto con la popolazione italiana, oggi tra i giovani delle seconde generazioni crescono i laureati che parlano sia il cinese che l’italiano. Se è pur vero che i rapporti gerarchici all’interno delle famiglie cinesi rimangono quelli tradizionali e i giovani vengano chiamati ai loro doveri familiari, è anche vero che una volta nel mondo del lavoro tendono a scegliere approcci operativi non sempre in linea ai modelli di business comunitario ed etnico dei loro genitori. Così ad esempio a Milano i giovani cinesi puntano alle imprese di servizi, rivolgendosi a una clientela trasversale, spesso proprio a quella fascia di italiani maggiormente impoveriti dalla crisi economica. A livello culturale è importante notare che le reti familiari, le cosiddette guanxi, sono al centro dei rapporti sociali sia tra cinesi che tra italiani. Soprattutto le reti informali costruite negli anni, durante il percorso scolastico, dai giovani delle seconde generazioni anche col tessuto sociale degli italiani, costituiscono una carta in più da impiegare nella costruzione di una più ampia rete di relazioni rispetto a quella a disposizione dei loro genitori. In prospettiva quindi, soprattutto per i giovani italiani che studiano la lingua cinese, si apre un mondo di collaborazione reciproca con le seconde generazioni cinesi, che li proietta a livello internazionale a relazionarsi, a livello commerciale e culturale, in modo più efficacie anche con la stessa Cina. L’ideale per i nostri giovani sarebbe proprio l’acquisizione di un trilinguismo pieno, giocato tra italiano, cinese e inglese. Pensiamo soltanto 17 miliardi di euro investiti dall’impresa cinese in Italia e dalla crescita del turismo cinese nel nostro paese.
I cinesi e il sistema bancario
Andrea Orlandini presidente e fondatore di Extrabanca, unica banca presente nel sistema economico italiano nata per dedicarsi unicamente agli stranieri. Con sedi a Milano, Prato, Brescia, Roma. Con il 70% di clienti cinesi business. Apre il suo intervento ribadendo il concetto già espresso dall’assessore Rozza sulla predisposizione dei milanesi a considerare la dedizione al lavoro il vero passaporto dell’accoglienza e dell’integrazione. In questo la comunità cinese ha sempre dimostrato di essere all’altezza della sfida con la sua proverbiale laboriosità, che si è sempre espressa nella puntualità del rimborso delle rate dei prestiti bancari. Tuttavia il rapporto che essi hanno attualmente con le banche in genere pecca ancora di una certa mancanza di trasparenza nella tracciabilità degli investimenti e nell’impiego dei prestiti. Questo comportamento non favorisce i legittimi controlli delle autorità di vigilanza ed è un fatto a cui porre al più presto rimedio, anche considerando che sempre di più l’immigrazione cinese in Italia non sarà legata alla ricerca di una occupazione, ma alla ricerca di buoni investimenti. I problemi aumentano riguardo ai correntisti cinesi e allora serve una campagna di informazione capillare su quelle che sono le regole contabili, le scadenze di legge e i corretti comportamenti da seguire nei rapporti con la banca e con il fisco. Si nota infatti che una volta ben informati i correntisti cinesi tendono a rispettare tutte le regole. Un altro aspetto è dato dalla insufficiente professionalità dei consulenti a cui si rivolgono. Infatti un buon professionista è quello che trova la forza di imporre al cliente il rispetto delle regole nell’interesse dello stesso cliente e della sua attività economica sul medio lungo periodo. Una caratteristica tipica dell’economia degli immigrati cinesi è che ad esempio in banca lavorano più donne che uomini, ciò è dato dal fatto che il cinese appena possibile vuole aprire la sua attività in proprio, da questa propensione diffusa emerge che l’imprenditore cinese è molto legato all’economia reale piuttosto che a quella finanziaria.
Riflessioni pratiche e impegni reciproci
Wang Hong – responsabile in Italia della Zheijang Rifa Precision Machinery Co Ldt -, parlando della politica di investimenti in Italia della sua multinazionale, ha sottolineato che le lor recenti operazioni di acquisizione di aziende italiane non sono rivolte alla semplice acquisizione delle tecnologie, ma in generale a un radicamento nel contesto produttivo della nostra penisola. La finalità è di sviluppare tutte le potenzialità dell’azienda acquisita, compresa la professionalità dei lavoratori italiani, che con la loro esperienza e le loro competenze si situano nella fascia alta delle professionalità. Un appunto ai lavoratori italiani viene però fatto sull’aspetto della conoscenza delle lingue, in particolare l’inglese e il cinese, la cui conoscenza darebbe a tutti i lavoratori quella marcia in più assolutamente necessaria per competere sui mercati inteazionali. L’invito esplicito è quindi rivolto alle nuove generazioni di italiani a compiere uno sforzo in più e a non limitarsi soltanto allo studio della lingua cinese, ma spingersi oltre nella comprensione della cultura cinese, la cui familiarità è fondamentale per convivere e crescere in azienda. Una riflessione è rivolta quindi agli studi universitari. Esistono delle lauree che garantiscono più di altre la possibilità di trovare un posto di lavoro, come ad esempio ingegneria, soprattutto nelle aziende con un respiro internazionale. Tuttavia resta anche chiaro che se il territorio continuerà a non offrire importanti opportunità ai giovani, essi si rivolgeranno all’estero e questo sarebbe una gravissima perdita per tutti. Italia e Cina possono quindi collaborare per mantenere aziende e lavoro sul territorio a vantaggio di entrambi i paesi. Per fare questo serve che il legame tra generazioni cinesi in Italia sia mantenuto e non disperso, poiché le tradizioni culturali, così importanti nelle nostre relazioni inteazionali, passano attraverso i legami di sangue tra genitori e figli.
Jin Yangkun, direttore generale della sede milanese della Industrial and Commercial Bank of China, la banca più capitalizzata al mondo, ha impostato il suo intervento con una panoramica complessiva. Ha sottolineato che i rapporti tra Italia e Cina sono antichi di secoli e si sono sviluppati lungo l’antica Via della Seta. Anche memore di questi legami, nel contesto odierno della globalizzazione la Cina è il terzo partner commerciale sia per l’import che per l’export dell’Italia. I settori maggiormente interessati sono quello meccanico, alimentare, della moda e del design. Per fare in modo che questi rapporti continuino sul lungo periodo bisogna creare rapporti più solidi basati sul reciproco vantaggio economico e sull’approfondimento dei rapporti umani tra le popolazioni. In Cina ad esempio c’è necessità urgente di lavorare alla costruzione di uno stato sociale, che metta in relativa sicurezza sia la sua popolazione anziana, che quella bisognosa di cure e assistenza sociale. Le eccellenze italiane nel campo sanitario e della cura alla persona, nonché la vivibilità delle medie città italiane possono diventare un modello da cui la società cinese può prendere spunto. In tutto questo i giovani di oggi in generale e in particolare le seconde generazioni si devono considerare il futuro per i rapporti tra Cina e Italia. Il loro contributo è fondamentale nella definizione di nuove idee, energie, competenze nel mondo del lavoro. A tutto ciò si aggiungono due premesse indispensabili. Da parte italiana è necessario garantire di più l’ottenimento della cittadinanza da parte dei cittadini cinesi nati o cresciuti in Italia. Da parte cinese è necessario assumere l’impegno di fare in modo che i media nazionali si occupino di più delle seconde generazioni all’estero, anche quando esse cambiano cittadinanza, valorizzandone la loro preziosissima funzione di ponte culturale ed economico tra la Cina e il mondo e l’Italia in particolare.
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Francesco Wu
Erano due etti di prosciutto spalla
Con il fratello gestisce un ristorante, ma Francesco Wu è anche presidente dell’«Unione imprenditori Italia-Cina» (Uniic). Si è fatto così conoscere che è finito sulla copertina di un noto settimanale italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.
L’ingegner Francesco Wu, giovane presidente dell’Uniic, «Unione Imprenditori Italia Cina – Nuove Generazioni», è un personaggio in vista nell’ambiente delle relazioni imprenditoriali e culturali italo-cinesi. La fiducia che negli anni ha saputo raccogliere tra i suoi connazionali residenti nel Bel Paese e tra le stesse istituzioni italiane, lo porta oggi ad essere uno degli interlocutori più affidabili e dinamici nel processo di integrazione in corso, tra società italiana e giovani delle cosiddette «seconde generazioni» sino-italiane.
I fratelli Wu, Francesco e Silvio, gestiscono a Legnano, a pochi minuti a nord di Milano, il ristorante-pizzeria Al Borgo Antico. Dal menù alla carta tipicamente italiano, compresa la cantina dei vini, si sottolinea subito un fatto importante: uscire dagli stereotipi può essere il primo passo per abbattere gli steccati della diffidenza reciproca e arricchire così la nostra società di nuove energie e nuova umanità. Così appare ovvio che la ricchezza e la varietà di cibi della tradizione culinaria italiana e cinese sono dei tesori tutti da scoprire e da gustare. Tuttavia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere i suoi talenti indipendentemente dalla sua origine etnica. Un napoletano potrebbe scegliere di cucinare riso alla cantonese e bere tè verde, così come un cinese ha deciso di cucinare pizza alle quattro stagioni e bere vino rosso.
Francesco Wu, oggi potremmo dire «come tutti noi», ha la sua pagina Facebook, sulla quale scrive e condivide con gli altri inteauti pensieri, ricordi, riflessioni, più o meno personali, ma anche occasioni pubbliche di incontro e momenti più istituzionali legati al suo ruolo di rappresentanza. L’8 ottobre del 2016 ha scritto un post, intitolato «meglio la spalla cotta che il prosciutto gran biscotto», che descrive un episodio della sua infanzia, ma che può essere preso ad esempio per cominciare a riflettere sul passato e il comune vissuto di moltissimi giovani sino-italiani delle «seconde generazioni».
Genitori e figli: fatica e impegno
Racconta Francesco Wu che quando era piccolo, durante i primi anni in Italia, i suoi lavoravano duramente ma i soldi che giravano in casa non erano molti. Per fortuna, diremmo oggi, si arrivava a fine mese, ma per farlo bisognava farsi quotidianamente i conti in tasca. Non di rado la madre lo mandava a fare la spesa, che comprendeva anche pane e prosciutto, per preparare la merenda per lui e il fratello. Siamo nella Milano del secolo scorso, zona Affori, dal macellaio che a quel tempo aveva l’attività in via Brusuglio. Qui il piccolo Francesco Wu acquistava 1-2 etti di spalla cotta, invece che del buon prosciutto di qualità, che faceva bella mostra di sé in vetrina. Troppo costoso a quel tempo per le sue tasche.
«Vedevamo tuttavia che il buon prosciutto cotto di qualità costava molto di più e non ci passava per la testa l’idea di comprae, anche perché non sarebbero bastati i soldi per comprare tutto il resto, e inoltre la mamma ci avrebbe rimproverato».
Subito seconda tappa al panificio di fronte per le tigelle modenesi. Un’ottima merenda davvero, i due fratelli ne mangiavano anche tre panini a testa. Ma come spesso accade ai bambini che nascono in famiglie popolari, non è tanto riempire la pancia il problema vero, ma soddisfare il desiderio di essere all’altezza degli altri bambini. Tutti noi sappiamo e ci ricordiamo di quanto possano essere duri i momenti di confronto, ma di quanto nello stesso tempo siano fondamentali per darci una spinta in più verso la crescita e il successo personali. Un po’ questo è accaduto a moltissimi della generazione di Francesco Wu; essere stranieri ed essere poveri, ma con la consapevolezza che la fatica e l’impegno quotidiani nel lavoro e nello studio avrebbero quasi certamente ribaltato la situazione di partenza: «…la fetta unica di prosciutto dentro i panini in gita scolastica quando i tuoi compagni avevano 2-3 fette di quello buono».
Tra le difficoltà della vita quotidiana e l’esempio dei loro genitori si è formato il carattere di molti imprenditori delle seconde generazioni sino-italiane. Negli anni è stato un imparare privo di parole, un sapere non trasmesso attraverso i discorsi, ma con l’amore dei gesti, delle abitudini, degli sguardi. I valori dei genitori sono passati ai figli in questo modo, sul senso della vita, sulla dignità del lavoro, sul valore del risparmio, sulla fatica del guadagnare.
«Senza che i genitori ci facessero tanti discorsi, anzi non li hanno mai fatti, noi imparavamo molto dalla vita e desideravamo un giorno poter comprare il prosciutto buono. Oggi sia il macellaio che il panificio hanno chiuso mentre noi abbiamo aperto nel tempo alcune attività».
Una cultura doppia è una spinta in più
Francesco Wu, come vede il rapporto tra università italiane e mondo del lavoro? Sono utili per i giovani o si potrebbe fare di più?
«Io ormai mi sono laureato da diversi anni, quindi non ho in questo momento il quadro completo della situazione. Per quello che posso vedere io, il collegamento tra università italiane e mondo del lavoro è ancora debole. Forse in miglioramento rispetto al passato; soprattutto facendo riferimento ad un’istituzione come il Politecnico di Milano, che sta facendo molto e che viene in questo seguito anche da altre realtà culturali. Ecco, da questo punto di vista c’è ancora da fare, ma siamo in costante miglioramento rispetto al passato».
Un cittadino della Repubblica popolare, che ottiene la cittadinanza italiana, perde automaticamente quella cinese. Quindi come sono visti i giovani di seconda generazione, che vivono in Italia, da parte dei cinesi in Cina?
«Allora, cominciamo col dire che sulla cittadinanza l’Italia ha ancora una legge molto arretrata. Ed è davvero un peccato che l’iter di approvazione della nuova legge si sia fermato al senato, a causa di quelle forze politiche che si contrappongono alla necessaria riforma sulla cittadinanza. Poi c’è un altro aspetto collegato alla riforma, cioè quello del diritto di voto alle amministrative. Ma tornando al punto, io penso che il governo cinese non veda di cattivo occhio chi decide di prendere la cittadinanza italiana. Anche perché è chiaro a tutti che la situazione concreta di vita delle famiglie porta ognuno a decidere il proprio futuro in base a esigenze personali e oggettive. Sicuramente il governo cinese vuole che sia chi ottiene la cittadinanza italiana sia chi non l’ha ancora ottenuta mantenga dei buoni rapporti con la Cina; senza sottostimare la propria cultura di origine, continuando a provare affetto sia per la Cina, ma anche per l’Italia. Questo è quello che desidera il governo cinese e infatti ufficialmente non mette nessun tipo di ostacolo al cambio di cittadinanza da parte dei cittadini cinesi».
Quelli della sua generazione hanno vissuto in modo diretto la vita in Cina e in Italia, di fatto avete direttamente assorbito in modo pieno entrambe le culture e siete l’ultima generazione storicamente con queste caratteristiche. Pensa che questo vi dia una marcia in più nell’essere idealmente un ponte che rafforza i legami tra i nostri due paesi?
«Io penso che chi ha ricevuto la doppia cultura, persone come me e come tanti altri ragazzi, che sono nati in Cina e cresciuti in Italia, in questo momento storico hanno una spinta in più. Perché semplicemente hanno molta più esperienza degli altri. Non è assolutamente una questione di maggiore intelligenza, ma è proprio una questione di esperienza. Magari anche esperienze difficili, sacrifici, che hanno dovuto affrontare fin da piccoli e che li hanno forgiati. Sono quindi d’accordo con lei che forse siamo l’ultima generazione ad aver vissuto questo. I giovanissimi di oggi, che sono cresciuti in Italia, in generale in un ambiente sociale più avanzato, di quello dove siamo cresciuti noi, hanno di fatto avuto meno difficoltà a viverci e da questo punto di vista, per assurdo, hanno avuto meno esperienze potenzialmente conflittuali, in grado di forgiarli; a differenza nostra, che ne abbiamo invece dovute affrontare di più. Per queste considerazioni io credo molto nell’importanza del ruolo che quelli della mia generazione ricoprono. Poi ovviamente quello che sto dicendo vale solo in generale. Ci sono infatti ragazzi giovanissimi, cresciuti in Italia, che sono molto molto in gamba, che nonostante tutte le difficoltà personali riescono a migliorarsi, e non rinunciano a fare dei viaggi in Cina e a fare esperienza diretta della cultura cinese, propria dei loro genitori».
In conclusione, dove vede i suoi figli da adulti: in Italia, in Cina o in America?
«Io sono sposato e ho due figli, che sono ancora piccoli. Il primo ha già iniziato ad andare a scuola, così cercherò di insegnargli l’importanza dello studio e l’importanza di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni. Dove lavoreranno da grandi non è assolutamente un problema per me. Potrebbero lavorare in Italia, in Cina, in Germania, negli Stati Uniti, in ogni caso dove vogliono e dove si sentono realizzati».
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Zhang Li
Rispettare la società è rispettare i genitori
Insegna lingua cinese alla Cattolica di Milano. Lavora come interprete e consulente per vari tribunali. Zhang Li racconta la sua decennale esperienza italiana.
La professoressa Zhang Li viene dalla città di Nanchino, vicino a Shanghai. È in Italia da circa dieci anni. Insegna lingua cinese all’università Cattolica di Milano. E lavora come interprete in generale e in particolare come consulente per i vari tribunali lombardi. «Ovviamente vengo chiamata quando ci sono cinesi coinvolti in problemi legali, a livelli più o meno gravi».
La mentalità confuciana
I cinesi quindi non sono tutti pacifici, onesti e dediti al lavoro. Possiamo dire così?
«Voglio prima dire una cosa. Secondo la cultura cinese non è bello parlare male dei propri compaesani, soprattutto con gli stranieri. Un fatto naturale, istintivo. Penso che anche per gli italiani è la stessa cosa. Comunque alla tua domanda devo rispondere di sì. Certo che non tutti i cinesi sono buoni, ci sono anche i cinesi cattivi. I cinesi non sono speciali, sono uguali a tutti gli altri popoli. Poi devo anche dire che l’educazione e le situazioni economiche condizionano il comportamento. I cinesi pensano che l’educazione rende le persone più buone e più forti per affrontare le difficoltà della vita, anche le difficoltà economiche».
Interessante. In che senso?
«Per la filosofia cinese, che viene principalmente da Confucio, ogni persona non è sola, come un individuo isolato, ma vive insieme alla società e ha i doveri che ci sono quando si vive in una comunità. Quello più importante è il rispetto per i genitori, perché sono loro che ci hanno dato la vita. Allora quando uno non rispetta le regole, le tradizioni, le usanze oppure ha problemi con la giustizia è come se avesse mancato di rispetto ai propri genitori, perché li ha fatti vergognare, ha dato la possibilità alla comunità di dire che loro non sono stati bravi genitori. Invece comportarsi bene significa dimostrare rispetto verso i genitori. Poi un’altra cosa che aiuta molto a non avere tanta delinquenza è il fatto che la società isola chi non rispetta le regole, quindi non è una scelta facile mettersi contro la società. Ovviamente anche in Cina non sempre questa mentalità confuciana funziona e così deve intervenire la polizia e il giudice. Ma in generale i cinesi pensano che quando interviene la polizia e i giudici significa che la società ha fallito, perché non è riuscita a fare una prevenzione morale sulle persone».
Casi di vita quotidiana
Garantendo la privacy e senza dare particolari riferimenti, potresti descriverci qualche caso di cui ti sei occupata?
«Sì, ma i casi che ho visto nel mio lavoro sono uguali ai casi che riguardano italiani o altri stranieri. Ad esempio un uomo cinese in Lombardia è stato condannato dal giudice per spaccio di droga e reati connessi a diversi anni di prigione. La storia in breve è così. Lui ha famiglia in Cina. A un certo punto decide di venire in Italia per cercare opportunità e aprire una attività commerciale. La moglie rimane in Cina e lavora in proprio come designer e arredamento di interni. Hanno dei figli e possiamo dire che sono brave persone. Però a un certo punto la moglie dice che vuole investire di più nel suo lavoro e fa pressione sul marito per guadagnare più soldi. Ma in Italia c’è la crisi e il lavoro è poco. Non è facile fare soldi. Allora a un certo punto lui arriva a pensare che vendere un po’ di droga è una buona idea. Ma le cose vanno male. Un giorno litiga per la droga con altre persone, arriva la polizia e lo arresta e poi il giudice fa il processo e lo condanna. Forse se l’uomo non viveva solo e aveva vicino dei parenti o degli amici potevano proteggerlo da queste idee sbagliate di fare soldi vendendo droga».
Hai un altro caso da raccontarci?
«Sempre in una città della Lombardia una madre cinese aveva un impegno e ha affidato il figlio piccolo di circa sette anni alla zia, mentre stava lavorando nel suo negozio di estetista. Il bambino era seduto sul divano a guardare i cartoni animati sul telefonino. A un certo punto la zia si allontana per discutere con un cliente e non guarda più il nipote. Dopo circa mezz’ora la zia torna e non vede più il nipote. Subito comincia a cercare il bambino e pensa che forse si è nascosto, ma dentro il negozio non c’è. Allora esce in strada e vede in mezzo alla strada nel traffico la macchina dei carabinieri con dentro il nipote. Va dai carabinieri e dice che il bambino è il nipote. I carabinieri cominciano a chiedere i documenti e a fare domande. Ma la zia non parla bene italiano e non capisce perché i carabinieri non le ridanno il nipote. In pratica i carabinieri giravano in macchina e a un certo punto hanno visto il bambino da solo. Allora si sono avvicinati, ma il bambino, che non parla italiano, si è spaventato ed è scappato, perché non era abituato a vedere i poliziotti. In Cina se vivi in campagna non ci sono i poliziotti per strada. Alla fine i carabinieri denunciano la zia al giudice dei minori, che dopo il processo la condanna per abbandono di minore».
Vedo dalla tua espressione che non sei molto d’accordo con la condanna. Ho visto giusto?
«Più o meno. Certamente è giusta la condanna perché il giudice ha visto cosa è successo, ha visto la legge e ha deciso. Ma se vogliamo capire di più la mentalità di quella donna cinese, dobbiamo dire che lei è abituata a vivere in campagna dove i bambini giocano fuori di casa e sono curati da tutti i vicini di casa. Anche in Italia nei paesi piccoli succede così. Abbiamo detto prima che le abitudini culturali sono importanti. Così la zia del bambino pensa di avere seguito una abitudine giusta e pensa che la condanna del giudice è sbagliata. Posso dire che la zia doveva capire che l’Italia non è la Cina e che la città non è la campagna. Quindi un lato positivo c’è se la zia del bambino ha imparato questa differenza».
Sulle tutele dei lavoratori
Ti è mai capitato un caso civile, magari una vertenza di lavoro?
«Mi ricordo un caso di lavoro, anche un po’ divertente. Un ragazzo sud americano lavorava in nero in un ristorante cinese. Un giorno litiga con il capo per lo stipendio basso. Voleva un aumento. Ma il capo dice di no. Allora il ragazzo va dai sindacati perché lavorava in nero e voleva i contributi. Il capo però ha detto di non conoscere il ragazzo e che non lavorava nel suo ristorante. Anche un testimone cinese ha detto che il ragazzo non lavorava nel ristorante. Però il ragazzo sud americano con il cellulare aveva fatto le foto e i video durante il lavoro. Adesso non so come è finita la causa, ma penso che il capo cinese è stato molto ingenuo. Forse perché in Cina ancora non c’è una grande tutela per i lavoratori. Ci sono anche in Cina delle buone leggi, ma poi spesso i capi fanno come vogliono. Però devo dire che anche il ragazzo ha sbagliato, perché non si può lavorare in nero. Lui doveva protestare subito non solo quando gli conviene, intendo moralmente non è giusto».
Per concludere, secondo la tua esperienza, cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare in generale i rapporti con i cinesi residenti in Italia?
«Allora, a parte qualche caso, non penso che le cose vanno male tra cinesi e italiani. Esiste nella lingua italiana una parola magica: comunicazione. Dobbiamo imparare prima a comunicare, perché senza comunicazione non nasce la fiducia e si rischia di andare su vie sbagliate. Così il governo, le regioni, i comuni devono informare i cinesi delle leggi e delle tradizioni italiane. Devono fare scuole di lingua italiana per i cinesi. Non è facile, ma è necessario. Adesso ci sono le seconde generazioni, i giovani cinesi che parlano bene l’italiano, hanno frequentato le scuole italiane e sono il nostro futuro. Però i cittadini italiani devono anche capire la cultura cinese. Questo è importante. Anche studiare la lingua cinese può essere utile. Come dicevamo prima, la persona cinese in generale ha paura di restare isolata dalla comunità. Così è importante che le istituzioni costruiscano una comunicazione con la comunità cinese, magari proprio con i giovani delle seconde generazioni».
Ma le sponde non si uniscono mai
L’ultima domanda. Come vedi la situazione dei bambini cinesi in Italia e come immagini il loro futuro?
«Di solito i bambini rimangono in Cina con i nonni, mentre i genitori sono in Italia per lavorare. Quando la situazione economica dei genitori migliora allora vengono portati in Italia anche i figli. Se i bambini sono ancora piccoli possono andare alle elementari con gli altri bambini italiani, perché imparano velocemente la lingua. Se invece arrivano qua già adolescenti allora è un problema grande perché devono ripartire da zero con la lingua, con le amicizie. Un’altra cosa. La maggior parte dei genitori cinesi in Italia non sono impiegati, ma fanno lavori manuali per molte ore al giorno, come dipendenti, ma anche come piccoli imprenditori. Con la crisi economica non hanno molti soldi e non possono mandare i figli alle attività di svago e culturali, molto utili per trovare amici e imparare la cultura italiana. Così dobbiamo creare delle opportunità culturali per questi bambini. Dobbiamo cominciare subito. Infatti per attraversare un fiume ci serve costruire una barca o un ponte non possiamo aspettare che le due sponde si uniscono da sole».
Gianni Scravaglieri
Curiosità / Gli ideogrammi
Vi rimandiamo al nostro «sfogliabile».
Infodossier:
Bibliografia italiana
Lidia Casti, Mario Portanova, Chi ha paura dei cinesi?, Bur 2008.
Raffaele Oriani, Riccardo Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere 2008.
Donatella Ferrario, Fabrizio Pesoli, Milano multietnica, Meravigli edizioni, 2016. Il primo capitolo di questo bel lavoro è dedicato alla comunità cinese (27.363 persone).
Filmografia
Davide Demichelis, Cina: Malia Zheng, in «Radici», serie di documentari della Rai, giugno 2013 (www.radici.rai.it).
Francesca Bono, A Bitter Story, un documentario presentato al 34.mo «Torino Film Festival» (Tff), novembre 2016; storia di un gruppo di adolescenti cinesi che vivono nei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, nelle valli occitane della provincia di Cuneo, dove la comunità cinese lavora quasi per intero nelle locali cave di pietra.
Sitografia
www.associna.com
Il sito dell’omonima associazione, in italiano e in cinese.
www.cinaforum.net
Il sito fondato da Alessandra Cappelletti, sinologa e collaboratrice di MC.
Autori
Questo dossier è stato firmato da:
Giovanni Scravaglieri – È docente di lingua e civiltà cinese nelle scuole della Lombardia. Scrive per la rubrica «Visto da Pechino» sulla testata giornalistica on line «Cinaforum.net». È tra I fondatori dell’Associazione Shuren per la diffusione della lingua e della cultura cinese in Italia.
Roberto Brancolini – Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Foto delle copertine: Chen Chen, ragazza cinese a Modena per seguire un corso universitario; giovane di origine cinese ad Assisi per un meeting organizzato dalla Tavola della Pace. L’ideogramma riportato indica il termine «guanxi», scritto in grafia tradizionale (non semplificata).