Dare uno schermo alla pace


La prima edizione del festival di cinema e nonviolenza, «Give peace a screen», è stato un successo: 1.848 cortometraggi di registi da 111 paesi del mondo per raccontare drammi, gioie e modi per fare la pace.

Gli inizi sono sempre difficili, scriveva Chaim Potock. Ma sono anche strabilianti, entusiasmanti. Ispiranti. Specie se si tratta della nascita di un nuovo festival.

Il Centro studi Sereno Regis si occupa di cinema dal 2010 lavorando sulla relazione tra cinema e nonviolenza.

Esiste un cinema di pace? Che promuova la risoluzione creativa e nonviolenta dei conflitti? Si può educare alla pace con il cinema?

Abbiamo posto la domanda a registi di tutto il mondo, organizzando il festival Give peace a screen (Gpas), per capire se è possibile «dare uno schermo alla pace», darle voce, farla vivere nelle immagini di un film.

Non ci aspettavamo una risposta così importante: 1.848 cortometraggi da 111 paesi. Un panorama stupefacente sulla nostra contemporaneità: dalla guerra in Ucraina agli sfruttamenti minerari in Turchia, dal recupero dei bambini-soldato colombiani al dramma dell’utero in affitto scelto per sopravvivenza.

Mostrare un mondo che urla

Il lavoro di selezione è stato duro. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico 137 lavori di giovani registi: la visione di un mondo che urla, lotta, si ribella, e, soprattutto, desidera la pace.

Il programma è stato presentato al pubblico dal 19 al 22 ottobre 2023 a Torino: un successo, ma soprattutto l’apertura di un canale di dialogo con il mondo tramite il racconto di drammi, gioie e diversi modi di fare la pace.

Perché fare un festival significa fare rete con il mondo. Significa sostenere il regista camerunese scappato da casa a causa delle scorribande delle milizie islamiste; aiutarne uno turco al quale la polizia ha sottratto i suoi hard disk; tradurre in italiano decine di opere di registi senza risorse economiche. Significa creare una rete di solidarietà per mostrare al pubblico come si può parlare di pace in mezzo ai conflitti.

Al Give peace a screen è andato in scena il mondo che vuole la pace, che si ribella al silenzio imposto dai regimi (è un caso che la nazione più rappresentata sia stata l’Iran, con 223 cortometraggi?), che cerca di far conoscere le ingiustizie affinché si possa partecipare, solidarizzare, intervenire.

La forza dei cortometraggi

La prima edizione del festival è stata dedicata alla «costituzione del mondo», per celebrare i 75 anni della Carta fondamentale italiana: i cortometraggi sono stati proposti secondo gli articoli delle Costituzioni attualmente in vigore nel mondo, per sottolineare come sia necessario dare loro un’attuazione completa, creare un nuovo patto tra gli esseri umani che contempli anche un nuovo «accordo» con la natura.

Un evento speciale l’ha inaugurato: l’opera Migrants, del pluripremiato regista iraniano Masoud Ahmadi, una lirica e coreografica visione del dramma delle migrazioni moderne.

Il festival ha ospitato anche il documentario di Lorenzo Muscoso, Io e Paolo, emozionante ricordo di Salvo Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1992.

Give peace a screen è stato chiuso dall’ultimo lavoro di Adonella Marena, film maker ambientalista recentemente scomparsa, montato dal figlio Davide Balistreri: Gli altri animali, una riflessione sul nostro rapporto con i «non umani».

«Questo festival è la dimostrazione che il cortometraggio è uno strumento che sempre più persone usano per denunciare ingiustizie, documentare sfruttamenti e violenze, all’interno della società e sulla natura», afferma Loredana Arcidiacono, coordinatrice di Gpas per i documentari: «È uno strumento economico che si può girare con un telefono, e la sua brevità diventa risorsa, perché costringe alla chiarezza espositiva».

I premiati

Tre giurie diverse hanno attribuito alle opere in gara tre premi da 1.000 euro.

La prima ha assegnato l’ormai tradizionale premio Gli occhiali di Gandhi a La voix des autres, di Fatima Kaci, Francia, 2023: «Perché accade di rado di incontrare film come questo che incantano, inducono a riflettere e sono costruiti alla perfezione».

Il premio Aurora alla miglior sceneggiatura è stato assegnato a The borders never die, di Hamidreza Arjomandi, Iran, 2023, «per l’idea efficace di intrecciare crudo realismo e dimensione onirica».

Il premio Pertinace alla miglior regia è stato assegnato a Things unheard of, di Ramazan Kılıç, Turchia, 2023: «Per la grande capacità di dirigere attori giovanissimi e rendere lieve una situazione drammatica».

La giuria del premio, La pace preventiva, ha assegnato la vittoria a Out of the lines, di Sajjad Aslani, Iran, 2023, «perché interpreta perfettamente il concetto di pace preventiva e regala in un minuto il pathos e l’energia dei grandi film».

È stata attribuita una Menzione d’onore a Danpatra, di Abhijit Dagaduji Chavan, India, 2022, «per il coraggio di anteporre l’urgenza dell’educazione al rispetto dovuto alla religione». E una Menzione d’onore a Ezequiel Baraja, di Juan Fernández Gebauer, Argentina, 2021, «perché evidenzia il valore dello sport come motore di riscatto sociale, strumento di consapevolezza individuale e di libertà».

La giuria ha assegnato il Premio Adonella Marena sul tema della sostenibilità a Magos das plantas di Diogo Linhares, Portogallo, 2023, «perché attraverso le parole di un personaggio semplice e profondo, pone in evidenza il legame fisico che c’è, ma viene ignorato, tra piante e umani». Una Menzione d’onore a Dear Animal, di Younes Kafashian, Iran, 2023: «Una storia tenera e ironica che non ha bisogno di parole per illustrare un atto di amore, e insieme un insegnamento, da un anziano a un giovane». Altra Menzione d’onore a The Fledgeling, di Murtaza Ansari, Pakistan, 2023: «È sufficiente un minuto per esprimere il contrasto tra la violenza del gesto umano e la tenerezza delle creature indifese. Un flash semplice ed emozionante».

Un tesoro da valorizzare

Il festival non finisce: i 1.848 cortometraggi arrivati costituiscono un tesoro prezioso che sarà utilizzato per serate a tema e dedicate ai paesi che hanno partecipato.

Soprattutto, il Give peace a screen, ci auguriamo, diventerà un appuntamento fisso nel panorama cinematografico torinese.

Dario Cambiano

Centro Studi Sereno Regis




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio




Immagini e storie

testo di Sante Altizio |


Dopo un anno di Covid, l’industria del cinema è in serio affanno, ma non il desiderio di produrlo e di fruirne. E di storie da scoprire e dalle quali lasciarsi coinvolgere ce ne sono molte.

Cinema, anno buio

Scrivere di cinema in piena emergenza sanitaria suona stonato, che più stonato non si può.

Il 2020, per chi ricava il proprio reddito da ciò che si proietta sul grande schermo, è stato un anno a dir poco terribile.

Dopo un inizio che faceva sperare in un anno da record, la chiusura forzata delle sale cine-matografiche, iniziata a marzo, e ancora in corso mentre scriviamo, ha sancito un crollo del 90% degli incassi rispetto al 2019. Un dato empirico su tutti: il profilo twitter di Cinetel, che monitora il box office italiano, ha cinguettato l’ultima volta il 9 marzo 2020 così: «05/03-08/03 -95,41% vs stesso weekend 2019. Dal 1° gennaio +5,43% rispetto anno precedente».

È trascorso un anno da allora, e oggi siamo alle macerie per esercenti, attori, sceneggiatori, registi, case di produzione, distributori.

Se poi leggiamo questi numeri da Torino, dove vivo, tutto assume il tono del grottesco.

Per ricordare il ventennale del Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, e la nascita della Film Commission Torino Piemonte, la capitale dei Savoia, avrebbe dovuto celebrare la settima arte con «Torino, città del cinema 2020». Un anno di eventi già programmati.

In giro ci sono ancora dei manifesti affissi e dimenticati.

Uno scenario apocalittico.

Botox

Eppure qualcosa si è mosso, e qualcosa vale la pena segnalare come segno di speranza per il futuro prossimo del cinema.

Prendiamo il Torino Film Festival (Tff), per giocare ancora in casa. Dal 20 al 28 novembre si è celebrata la sua edizione numero trentotto. Ovviamente in streaming, ed è andata benissimo.

Oltre 18mila biglietti venduti e 133 film in programma. Incasso superiore ai 100mila euro.

Insomma: la voglia di cinema è immune al virus. C’è luce in fondo al tunnel.

Al Tff, che rimane una delle più importanti vetrine del cinema indipendente d’Europa, ha vinto Kaveh Mazaheri, un giovane regista iraniano, al suo esordio su palcoscenici importanti.

Il suo film si intitola Botox, è una storia familiare a tinte thriller. Per la critica, ci troviamo di fronte a un talento degno dei Fratelli Coen. Per alcuni, e credo con ragione, Botox è un Fargo, girato tra le fredde montagne iraniane.

Il cinema iraniano non lo si scopre oggi, ma con Botox arriva l’ennesima conferma: là dove la vita è più difficile, la libertà in pericolo, l’espressione artistica repressa, nasce il cinema migliore.

Il sito specializzato MyMovies segnala che il film di Mazaheri non è ancora disponibile in streaming, ma lo sarà presto. Di sale, ovviamente, non si parla.

Cholitas

Rimanendo in ambito streaming, va segnalata la nascita di una piattaforma cinematografica totalmente gratuita, amerigofilm.it. Si tratta di uno spin off del Nuovi mondi film festival che da dieci anni si tiene nel piccolo comune montano di Valloriate (Cn), nell’alta Valle Stura, a due passi dal confine francese.

Il Nuovi mondi, che passa per essere il più piccolo festival di cinema di montagna del globo, è diventato un appuntamento imperdibile per i veri cinefili.

Il patrimonio che negli anni il festival ha accumulato grazie al concorso, è stato pubblicato su amerigofilm.it e offerto gratuitamente al pubblico.

Il nome Amerigo non è una scelta casuale: Amerigo Vespucci, navigatore, esploratore, cartografo, cinque secoli fa, fu il primo a rendersi conto che aveva di fronte a sé il nuovo mondo. «Visto il momento così particolare che stiamo vivendo – afferma Fabio Gianotti, direttore del festival – abbiamo pensato di condividere con il nostro pubblico, ma non solo, il nostro viaggio alla scoperta di mondi nuovi. Oggi, crediamo, sia una vera priorità. Il mondo che abbiamo conosciuto fino al marzo scorso è cambiato profondamente, e non è ancora chiaro cosa ci aspetta domani».

L’ultima edizione del festival si è tenuta a fine settembre, in presenza, nella finestra estiva che ci ha illuso che il peggio fosse passato. Ha vinto, quasi a furor di popolo, Cholitas, degli spagnoli Pablo Iraburu, Jaime Murciego. Il film strappa lacrime e sorrisi a ripetizione. È la storia di cinque donne indigene boliviane che decidono, a discapito della tradizione, dei mariti, di ciò che può dire la gente, di scalare l’Aconcagua, poco meno di 7000 m, la vetta più alta delle Ande, situata in Argentina. Lo decidono e lo fanno. Parliamo di una storia vera, di un film documentario di grande qualità, che ha vinto diversi premi in pochi mesi.

Las Cholitas sono diventate un caso e ora sono diventate un’icona per generazioni di donne andine. Ognuno ha gli/le influencer che si merita.

Tra qualche settimana potremo vedere Cholitas gratuitamente su amerigofilm.it.

Radici e le migrazioni

Chiudiamo con uno sguardo al piccolo schermo e alla tv generalista (sempre più assediata dalle piattaforme on demand). Su Rai3 dal 2011, la domenica, all’ora di pranzo, andava in onda Radici. L’altra faccia dell’immigrazione.

Davide Demichelis, autore e conduttore di valore, ripercorre a ritroso il viaggio che alcuni migranti, donne e uomini residenti in Italia, hanno fatto per arrivare nel nostro paese. Lo percorre assieme a loro, verso le loro radici, per scoprire insieme cosa si sono lasciati alle spalle.

La media di spettatori sfiora il 4% di share, parliamo di circa 700mila persone che, seguendo il programma, dimostrano interesse verso un tema nodale della nostra contemporaneità. Eppure, dal 2018 la produzione di nuove puntate si è interrotta e da domenica 24 gennaio anche la messa in onda delle repliche è stata stoppata. Oggi si possono guardare tutte le stagioni dal 2011 al 2018 su Raiplay, ma cosa aspetta la Rai a produrre nuove puntate?

Sante Altizio




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello




L’Africa in scena


Il cinema africano cresce. I temi trattati sono impegnati: dalla migrazione al rapporto con l’Europa, l’Aids e i conflitti generazionali. La tradizione e la modeità. E spunta il tema dell’integralismo islamico. Dai festival nel continente africano alle sale europee. Ma è un cinema non sempre compreso.

La bandiera nera del califfato sventola sulla mitica città di Timbuktu, al centro del Sahara dove per secoli si sono incrociate le carovane tuareg che trasportavano da una costa all’altra del continente africano tonnellate di oro e avorio e migliaia di schiavi neri. Nella città capitale della cultura i jihadisti hanno raso al suolo i mausolei dei profeti islamici e bruciato i manoscritti quattrocenteschi, mentre le donne sono costrette a vendere il cibo al mercato, oltreché avvolte nei veli, anche con le mani guantate. Fare musica non è permesso, giocare al pallone in un polveroso spiazzo tra le case nemmeno. Il jihad non lo consente.
E non consente neppure che il  pastore e la sua compagna vivano sotto la stessa tenda senza essere sposati. Per questo motivo saranno lapidati.

È questa la scena su cui si chiude «Timbuktu», del regista mauritano Abderrahmane Sissako. Uno dei pochi film di produzione africana che sia riuscito a conquistare il pubblico europeo nei canali tradizionali delle prime visioni. In Francia l’hanno visto un milione di spettatori, in Italia ha incassato 70 mila euro nel primo fine settimana, 428 mila in totale, una performance più che modesta in sé, ma in grado di generare fiducia nei progressi di un cinema prodotto in Africa da registi africani.

«Timbuktu» è stato persino indicato nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 per il miglior film straniero, «dramma poetico e struggente con cui Sissako mostra come il jihad porti dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Il regista rappresenta una comunità di islamici moderati forse un po’ idealizzata e facile da amare. Pur nella tragicità delle situazioni, riesce a coniugare realismo e lirismo, non negandosi neppure un’inaspettata vena di humour che ricorda il cinema del regista palestinese Elia Suleiman. Si apprezza soprattutto l’appassionata difesa delle donne, prime vittime dell’integralismo». Sono parole scritte da Roberto Nepoti su La Repubblica, nel febbraio 2015, quando il film approdò sugli schermi italiani. «Roba da matti. Questo filmino di un regista mauritano, dal nome impossibile, corre all’Oscar per il miglior film straniero. Nobili gli intenti, mortale la noia» fu, negli stessi giorni, il commento di Massimo Bertarelli su Il Gioale.

Certo la noia può fare capolino, se si giudica questa pellicola con gli stessi criteri di un «cinepanettone» (peraltro anche quest’ultimo ne può provocare altrettanta) e se non si conoscono i ritmi di vita di un mondo dove silenzi, spazi e tempi sono dilatati al massimo rispetto a quelli cui siamo abituati noi europei. In Africa l’impatto del film è stato forte: il regista Abderrahmane Sissako è stato consulente del premier della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz e per questo è stato accusato di parlare dei crimini del Califfato in Mali, anziché riversare il suo sdegno politico sulla schiavitù ancora praticata proprio in Mauritania da un regime giudicato corrotto e repressivo dall’autorevole sito «Mondafrique.com». Intanto però i numerosi premi inteazionali conquistati da «Timbuktu», tra cui sette César, gli Oscar francesi, hanno portato il cinema dell’intero continente alla ribalta mondiale. Intanto, al successivo Fespaco di Ouagadougou, nel 2015 non si voleva ammettere il film al festival stesso, proprio per la paura di dividere anziché unire. E invece Timbuktu vi ha vinto pure due premi (miglior arredamento e migliore musica).

Il festival

Già, Fespaco ancora una volta alla ribalta, perché se finalmente si parla con ottimismo di cinema africano lo si deve soprattutto a questa rassegna del cinema panafricano che tiene banco ogni due anni nella capitale del Burkina Faso, dal 1969, e che nel prossimo 2017 affronterà la sua 25° edizione. Obiettivo: «Far capire agli africani di non cercare altrove ciò che hanno già», ovvero quel patrimonio culturale millenario che va oggi espresso secondo nuove regole. Lo affermò il senegalese Sembène Ousmane, lo scomparso decano dei cineasti africani, presenza fissa di quel festival che da 40 anni ormai proietta a ogni edizione centinaia di film e documentari nel centro della capitale, in periferia, in zone rurali, nelle scuole e nelle arene all’aperto sempre affollate da burkinabè e da stranieri.

Il festival è un momento importantissimo di incontro anche per gli addetti ai lavori che ne approfittano per fare sfoggio di abiti eccentrici a rimarcare diversità e analogie tra produzioni che hanno avuto la loro culla nel Sahel, tra Senegal e Burkina Faso, e che ancora oggi distinguono la loro cinematografia da quella del Maghreb, pur tutte francofone, a quelle anglofone di Sudafrica ed Etiopia, e lusofona dell’Angola. Prima di questa nuova vitalità il cinema africano affrontò (e subì) le produzioni di stampo coloniale e poi etnografico, sino a darsi un’identità con un film da tutti i critici ormai riconosciuto come modello di nuove consapevolezze, quell’«Afrique sur Seine», fatto da africani per africani, che nel 1955, come si intuisce dal titolo, con una pur incerta qualità raccontò la vita dei neri esiliati a Parigi. Gli anni ’70 portarono poi nel cinema subsahariano, concepito soprattutto in Senegal, occasioni di crescita complessiva di mentalità e di rinnovo nell’estetica e nella narrazione, tanto che nei successivi anni ’80 si videro nelle sale generi diversi da quelli trattati sino ad allora, ovvero parodie weste, commedie, melodrammi, film d’azione, musical, diretti – altra novità – anche da registi donna.

L’Africa reale

Le tematiche sono oggi innanzitutto sociali, politiche, di denuncia, di riflessione sulle guerre e sulle riconciliazioni nazionali, di rielaborazione del passato storico e della colonizzazione, sul dialogo con l’Europa come momento di incontro e scontro tra le culture, di indagine sui meccanismi del potere, sui conflitti generazionali e famigliari tra genitori e figli, sulle morti per Aids. C’è attenzione per l’eterno dilemma di conciliare tradizione e innovazione, per il ruolo fondamentale delle religioni, per l’emancipazione femminile, per le migrazioni con camere in presa diretta sulla realtà quotidiana.

I problemi più rilevanti sul tappeto restano quelli del finanziamento, i più urgenti da risolvere. Falliti, una ventina di anni fa, alcuni tentativi velleitari di fare da sé, oggi la stragrande produzione è francofona con sostegni economici che giungono da radio e tv francesi appoggiati dall’Unione europea. L’obiettivo odierno è però svincolarsi dai possibili condizionamenti che questa scelta comporta e raggiungere l’autosufficienza attraverso partenariati privati e contemporanee agevolazioni statali su tasse e diritti di ripresa. Serve insomma professionalizzare tutto il settore con la creazione di centri di formazione per cineasti e attori, affiancati da strutture proprie di distribuzione delle pellicole utili a svincolarsi dalle majors interessate prima di tutto a creare profitti.

Il Fespaco fortunatamente non è la sola manifestazione cinematografica del continente. A Zanzibar, di fronte alle coste della Tanzania, di cui l’isola costituisce parte integrante, siamo giunti alla 19° edizione dello Ziff, lo Zanzibar Inteational Film Festival, il più importante evento culturale dell’Africa orientale, noto anche come Festival of Dhow Countries, ovvero la rassegna del paese dei sambuchi,  sempre ricca di eventi collaterali pensati per la popolazione locale con riflessioni sulla condizione femminile e giovanile in genere. Vi partecipano anche film mediorientali e indiani con proiezioni nella suggestiva capitale Stone Town e nelle isole di Pemba e Unguja che pure non possiedono sale cinematografiche.

Anche in Italia

Il film vincitore del Fespaco partecipa di diritto al Festival del cinema africano di Verona, un’iniziativa voluta dai missionari Comboniani di Nigrizia, e ormai consolidata in Italia, per far luce su quel mondo spesso, come già detto, in crisi di visibilità. In Italia un altro aiuto viene da Milano, che da 25 anni propone ai Bastioni di Porta Venezia il Festival del cinema africano, d’Asia e di America Latina. Tra gli obiettivi della rassegna del Coe (Centro Orientamento Educativo), ci sono, citiamo testualmente: «Approfondire la conoscenza dei temi e dei linguaggi delle cinematografie meno conosciute e mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti; veicolare un’immagine dell’attualità e della cultura d’Africa, Asia e America Latina, attraverso il punto di vista dei registi locali; proporre un’alternativa concreta alla cultura e all’informazione corrente dei mass media in rapporto al Sud del Mondo; dare un’opportunità ai registi di entrare in contatto con le istituzioni europee di produzione e distribuzione cinematografica; stimolare uno scambio culturale tra gli artisti, il pubblico, i giornalisti e i professionisti del settore degli audiovisivi; favorire relazioni di scambio tra le istituzioni, i festival, gli organismi europei impegnati nella promozione della cinematografia africana; creare un luogo di riflessione annuale sulle nuove tendenze e prospettive del cinema del Sud del mondo; offrire alle comunità straniere in Italia un’opportunità d’incontro con la propria cultura d’origine; sollecitare nelle scuole l’introduzione degli audiovisivi come strumenti didattici per l’educazione all’immagine e per l’approccio interculturale».

Insomma un insieme di buone intenzioni e pratiche che si sono materializzate strada facendo anche in tante altre città e che fioriscono ogni anno soprattutto tra la fine primavera e l’estate. A Torino nel maggio scorso si è parlato di migranti con la rassegna voluta dal Csa, Centro piemontese di Studi africani, intitolata la «Diaspora dei giorni nostri», con la proiezione di quattro film che raccontano di identità perdute, nostalgia, ma anche di opportunità per un riscatto, dei registi Alain Gomis, Haile Gerima, Ahmed El Maanouni, Pocas Pascoal. E da Torino a fine maggio scorso è anche partita un’importante rassegna itinerante con 20 tappe in otto regioni per presentare 20 titoli tra lungometraggi e cortometraggi, foiti dal catalogo Coe, l’unico in Italia esclusivamente dedicato a film realizzati da registi provenienti dai tre continenti, selezionati o premiati proprio al festival  milanese. La rassegna si chiama «Sconfinamenti. Le culture si incontrano al cinema» ed è organizzata da Engim Internazionale Piemonte in collaborazione con Pianeta Africa.

Due esempi

Nella pellicola di Gomis, «Tey, aujourd’hui», coproduzione franco senegalese del 2012, un giovane uomo di ritorno a Dakar dall’America in cui avrebbe potuto avere un futuro certo, pur sano nel fisico, sente di essere giunto all’ultimo dei suoi giorni, e lo sanno anche amici, conoscenti e persino le autorità locali che in municipio gli confezionano una festa d’addio. Satchè, il protagonista, viene salutato dai familiari radunati nel patio di casa tra lacrime e preghiere, gli amici lo avvolgono del loro affetto mentre percorre le vie della sua infanzia. Lo zio, che celebra funerali, lo dispone sulla terra compiendo le stesse operazioni che farà sul suo cadavere. Il suo primo amore lo scaccia rimproverandogli l’abbandono, così come la moglie prima lo respinge perché non può accettare la cruda realtà, e poi lo accoglie nel suo letto.

Un’altra parabola su aspettative, ritorni e speranze deluse è «Teza», coproduzione franco tedesca ed etiope. Anberber, studente etiope di belle speranze si laurea medico in Germania, ha la fidanzata tedesca, così come l’ha il suo amico Tesfaye. Quando Menghistu prende il potere, i due uomini, impegnati politicamente a sinistra, salutano il nuovo regime marxista come il rinnovamento tanto auspicato e tornano in patria, dove saranno clamorosamente delusi dal corso degli eventi. Tesfaye, che per gli ideali ha abbandonato in Europa anche il figlio, perderà la vita colpito dal repressivo regime, e Anberber si salverà attraverso l’amore per una donna ripudiata dalle regole della tradizione e per il suo dedicarsi all’insegnamento nei villaggi restituendo ai locali il sapere che lui aveva avuto il privilegio di acquisire.

L’Africa è dunque oggi scenario per rappresentare i luoghi dove agiscono gli individui, non più esotico sfondo. Ci sono villaggi da cui ci si sposta per andare a vivere in città o a cercare fortuna in Europa e in Usa, toccando i temi del viaggio come riscatto, ma anche come raggiungimento di una meta non sempre soddisfacente, piena di trappole, imprevisti, desideri non avverati che fanno talvolta rimpiangere, idealizzandola, la protezione della casa d’origine irrimediabilmente perduta. Un cinema finalmente maturo capace di riservarci molte piacevoli sorprese.

Mario Ghirardi*

  • Gioalista ed editore con esperienza trentennale nel campo dell’informazione locale. Ha partecipato a progetti di cooperazione in Sahel. Attualmente è docente di corsi di formazione universitaria in criminologia.



La nobiltà umana di Ettore Scola

 

Se dovessi definire il carattere di una persona di grande talento, eppure generosa fino all’umiltà, citerei immediatamente Ettore Scola, che forse ha formato il proprio modo di essere con l’abitudine di scrivere per gli altri, imparata nei suoi primordi di soggettista e sceneggiatore, quando scrisse, per esempio, «Un americano a Roma», il film che lanciò Alberto Sordi, diretto da Steno, il padre dei fratelli Vanzina.

Ma questa riflessione è ancor più commovente, se penso che Scola, maestro di quella che hanno chiamato «la commedia all’italiana», ha scritto con Maccari, per Dino Risi, «Il sorpasso», la fotografia più precisa dell’Italia del boom economico e della voglia di stare al mondo in qualunque modo dopo una grande tragedia come la seconda guerra mondiale.

Ettore, che era arrivato a Roma da un paesotto dell’Irpinia, Trevico, così come Sergio Leone e i De Laurentiis da Torella dei Lombardi, aveva fin da subito, da giovane redattore del Marc’Aurelio, rivista satirica, sposato la collaborazione con chi gli stava vicino, il piacere di costruire insieme un’idea, un racconto, la capacità di lavorare in gruppo e di consegnarsi spesso ai sogni degli altri.

È per questo che il suo addio al mondo non ha portato solo il rammarico per una grande intelligenza e un grande talento che ci hanno lasciati, ma anche la nostalgia di una persona dal cuore nobile.

Mi è rimasta impressa la disponibilità con cui si mise a disposizione del regista brasiliano Walter Salles e mia per tratteggiare la figura del giovane Che Guevara, che ci accingevamo a studiare nella sua complessità per il film «I diari della motocicletta» che poi fu un successo. Era la storia del viaggio giovanile dell’eroe argentino attraverso il continente latinoamericano.

Ricordo, in particolare, il primo pomeriggio in cui, sul terrazzo di casa mia, praticamente, Ettore ci mise a lezione proponendoci poi un finale in cui era riuscito a riunire semplicemente tutto quello che il Che era diventato nel mondo e in quell’epoca. I due ragazzi, Eesto Guevara e Alberto Granado, al termine del loro viaggio, si lasciavano durante una manifestazione giovanile a Caracas e nell’immagine successiva «riapparivano» alla testa di un corteo di protesta di coetanei ventenni di tutto il mondo sventolando una bandiera con l’immagine dello stesso Che, proposta da un ragazzo con la faccia dell’eroe argentino.

Poi Salles scelse un finale un po’ più semplice, ma la suggestione fu fortissima.

Ettore Scola sapeva domandarsi nei suoi film le cose apparentemente più elementari, anche se incastrate nei dubbi più profondi che un uomo intelligente si pone. Memorabile il tenerissimo dubbio di un proletario innamorato (Marcello Mastroianni), iscritto al partito comunista, nel film interpretato anche da Monica Vitti e Giancarlo Giannini, «Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca»: doveva considerare disdicevole il fatto che un militante come lui si facesse distruggere dall’amore? In caso contrario, il partito avrebbe capito?

Era la grande dote di un cineasta, non a caso adorato in Francia, e dei suoi fedelissimi compagni di «scrittura», Age e Scarpelli, quella di tentare di dar risposte, facendo finta di niente, su dubbi apparentemente irrisolvibili della società che si ricomponeva nella stagione del Dopoguerra.

Per avere la conferma di quello che affermo, basta ricordare opere come: «C’eravamo tanto amati», «Brutti, sporchi e cattivi», «La terrazza», ma anche i suoi due capolavori: «La ciociara», con Sofia Loren, e «Una giornata particolare», con la stessa Loren e Marcello Mastroianni, due opere in cui la vita è raccontata con la forza inesauribile del nuovo cinema neorealista. In particolare nel secondo film, dove una semplice radiocronaca di Guido Nodari, la voce ufficiale del regime, rende l’idea di un paese prigioniero del fascismo, senza mai far vedere la tragedia incipiente, ma ascoltando la cronaca di una sofferenza che sta per spiegare tutto.

D’altronde Ettore Scola non si fece mai sfuggire, sia che facesse parodia, ironia o cronaca, l’occasione di documentare quello che stava accadendo.

Ricordo in questo senso il suo coraggio nell’andare con altri colleghi come Monicelli a documentare il G8 di Genova, la vergogna del comportamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che pretendevano verità.

«Ho maledetto tutte le sigarette che ho fumato nella mia vita mentre, correndo nella polvere espulsa dalle strade battute dalle forze dell’ordine, tentavo di essere coerente con me stesso nel filmare quello che il sistema non voleva fosse visto» – mi disse qualche giorno dopo quando qualcuno tentava di sostenere che la protesta fosse dovuta a pochi facinorosi.

Lui sì, poteva essere candidato quattro volte all’Oscar per il miglior film straniero e nello stesso tempo documentare i guasti di una democrazia malata che non bisognava nascondere. Ci mancherà.

Gianni Minà