La Cina e la religione dell’occidente


Indice

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi».
Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città.
La potenza cinese nel 2019.
Partire dai proverbi
Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino.
L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian.

I protagonisti

Religione, un termine senza ideogramma.
Incomprensioni e conflitti
Una questione non solo «romana».
Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica.
L’ospite non gradito.
L’incontro e il dialogo.

Note culturali

Cina e religione.
Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica.
Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?.

La Cina in Italia.

Appendice.

 


Testi di Vittoria Pollini, dossier a cura di Paolo Moiola


Il cielo sopra Pechino

Cristianesimo e fede nel Paese di mezzo

Chinese President Xi Jinping (C) – (Xinhua/Wang Ye)

La religione, dall’Impero al Partito

Cina e Santa Sede sono a un crocevia dove si decide il futuro del cattolicesimo nell’«ex Impero celeste» e dell’umanità cinese con i suoi legami sociali, politici, pedagogici. Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio» (e non pubblico) per introdurre elementi stabili di collaborazione e per il riconoscimento dei vescovi. Un cammino iniziato più di 400 anni fa su vie di conciliazione tentate da alcuni uomini di pace come il missionario gesuita Matteo Ricci (Li Madou) e il mandarino ebreo Ai Tian. Il loro messaggio parla all’oggi partendo da un passato che non va dimenticato. Anche dagli stessi cinesi emigrati in Italia.

Il tema al centro di questo dossier è il dialogo tra Occidente (in particolare, la Santa Sede) e Cina. Dialogo che, nei secoli XVI e XVII, sarebbe potuto essere fruttuoso se non fosse scivolato su fraintendimenti e interruzioni a causa di reciproche diffidenze.

Matteo Ricci, missionario gesuita del 1600, durante il suo viaggio in Cina incontrò a Pechino il funzionario mandarino Ai Tian, di religione ebraica, che aveva l’incarico di verificare l’identità monoteista di Li Madou (nome cinese del Ricci), soprattutto la sua non appartenenza a religioni allora bandite dall’Impero. Con intelligenza e umiltà entrambi compresero che la via per il riconoscimento della reciproca identità religiosa avrebbe facilitato l’amicizia fra Oriente e Occidente.

Nota per i lettori: per completezza, per desiderio dell’autrice, ma anche per motivi di mera curiosità intellettuale, in questo dossier abbiamo utilizzato gli ideogrammi cinesi; accanto a essi il lettore trova la traslitterazione in pinyin e, infine, la traduzione in lingua italiana. Facciamo notare che, al contrario delle nostre parole, tra gli ideogrammi cinesi non si utilizzano spazi.

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi»

Va poi ricordato che i rapporti tra Santa Sede e Cina, dall’Ottocento a oggi, hanno attraversato alterne vicende: dalle guerre dell’oppio al protettorato francese delle missioni, dall’invasione giapponese della Manciuria al massacro di Nanchino, dalla Rivoluzione culturale di Mao alla rivoluzione della soft power dell’attuale presidente Xi Jinping.

In alcuni proverbi di saggezza orientale (chengyu, in cinese) si legge che la pace è possibile solo se si tiene conto delle difficoltà, delle possibilità di scambio e di intesa culturale e linguistica fra le istituzioni religiose e governative e anche fra le persone comuni. È in questa prospettiva di apertura alla lingua dell’altro che la gente, le comunità, le persone tengono vivo il valore della diversità nel dialogo.

In Cina, oggi più che mai, è vivo il dibattito fra autorità cinesi – responsabili dell’«Associazione patriottica cattolica cinese», fondata nel 1958, che non riconosceva l’autorità del papa e controllata dall’ufficio degli «Affari religiosi» gestiti dal «Dipartimento di lavoro del Fronte unito», a sua volta dipendente dal «Comitato centrale del Partito comunista» – e chiesa cattolica «sotterranea» fedele al papa, non riconosciuta dallo stato e quindi clandestina.

Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Con questo atto […] le parti hanno concordato il metodo di una soluzione condivisa: la Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica, mentre il governo cinese da parte sua accetta che la decisione finale, con l’ultima parola sulla nomina, spetti al Pontefice e che la lettera di nomina dei vescovi sia rilasciata dal Successore di Pietro»1. L’accordo pone le basi per risolvere l’annosa questione delle nomine episcopali delle circa 150 diocesi cinesi e sana la situazione di sette vescovi non ancora riconosciuti da Roma, anche se la garanzia di una vera libertà religiosa in Cina è ancora molto lontana.

Ma c’è anche un altro soggetto da considerare in questa storia. Si tratta della società cinese e anche della stessa umanità ( = rén, termine polisemantico: umanità, persone, gente, popolo, società) cinese oggi descritta dagli antropologi come amante del cambiamento, obbediente al Partito, ma anche profondamente e radicalmente operativa sul piano religioso: al proverbiale senso pratico della rén, oggi, si unisce un nuovo ed inaspettato desiderio di sognare e di ricerca di libertà spirituale.

Quella cinese è una società, una politica, un’economia non senza contraddizioni. È una società complessa, fortemente centralizzata, organizzata in uno stato che si estende su una superficie di oltre nove milioni di chilometri quadrati: il terzo più grande al mondo. Uno stato grande come un continente. E compatto. Anche quando si tratta di pensare, ascoltare, parlare. E di scrivere.

Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città

L’attuale presidente Xi Jinping ha intrapreso una riforma di apertura e sviluppo economico fondato sulle kāifāqū zone di sviluppo2.

Si tratta di città come Tianjin e Shanghai dove sono state introdotte imprese di proprietà straniera, istituzioni scientifiche, zone di base per sviluppare la collaborazione con i paesi esteri. Un elemento della riforma è infatti la strategia del soft power e del trasferimento tecnologico nelle aree di sviluppo: più che l’investimento nella sicurezza e nella forza militare, la diplomazia pubblica, la cultura popolare ed economica. Un secondo elemento è la percezione della povertà: chi è povero, oggi, in Cina è considerato sostanzialmente «un tale che non ha saputo riscattarsi, colui che non ce l’ha fatta ad ottenere l’assistenza sanitaria (che è a pagamento), colui che non ha accesso alla tecnologia»3 e che non può permettersi di entrare nei «grandi quartieri supermercato», che improvvisamente sono aperti nelle metropoli. Quando un uomo chiede l’elemosina per pagare l’operazione al cuore della moglie attaccata ai tubi della flebo, riceve indifferenza. Gli abitanti di questo ventunesimo secolo, infatti, non sono solo i nativi digitali che marciano verso il domani scintillante della robotica con lo smartphone in mano. Sono anche questi poveri, i quandilong, che provengono della campagna che oggi chiedono rifugio alla città4, rovesciando il mito dell’era maoista che incoraggiava invece esodo verso le campagne. Durante la «Rivoluzione culturale», il trasferimento forzato degli intellettuali verso le campagne fu imposto da Mao con un duplice scopo: da un lato modernizzare l’attività agricola – la Cina era un paese rurale – all’interno di un progetto per il quale la classe contadina doveva diventare indiscusso motore della rivoluzione, e dall’altro conformare sempre di più l’intellighenzia borghese all’ideologia del Pcc – Partito comunista cinese -, un’intellighenzia dotata fino ad allora solo di un’istruzione libresca che si doveva attrezzare con l’esperienza del lavoro fisico nei campi. Gli intellettuali erano concepiti esclusivamente in questo modo e solo così potevano diventare lo strumento di diffusione della filosofia dell’educazione secondo Mao5. Le campagne erano al cuore della propaganda maoista. Oggi i poveri che necessitano di «una rivoluzione», non sono più in campagna. Oggi sono gli anziani esiliati dal sentimento della pietà filiale di cui la società post-moderna si vergogna; sono coloro che sono scappati dai villaggi e che vivono ai bordi delle metropoli.

Per strada, oggi, è difficile resistere alla smemoratezza. L’individuo cinese, uomo o donna che sia, considerato innanzitutto un’unità lavorativa nella Cina comunista, catapultato poi nella frenesia dell’apertura economica inaugurata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta, si dimentica della storia e «come il bambino è destinato a prendere la forma spirituale e intellettuale che gli darà l’ambiente e l’educazione. Tutto lo sforzo del Partito comunista cinese è stato quello di creare una totale smemoratezza nei cinesi»6.

Religioni in Cina

La potenza cinese nel 2019

La Cina di oggi è un paese con cui l’Italia (grande come la sola provincia di Zhejiang, luogo da cui – come vedremo – provengono molti migranti cinesi), deve imparare ad interfacciarsi.

È una nazione sempre più simile – per abitudini sociali – all’Europa e all’America: è il paese in cui non si ha più fretta di sposarsi e di avere figli; in cui, dal 2016, si decide di investire nelle riserve auree e in altri metalli preziosi più che nei titoli di stato e nelle valute estere (troppo soggette a fluttuazioni commerciali repentine). Addio, quindi, al trattato di Bretton Woods7, ed anche addio allo strapotere del dollaro e di altre monete estere. Sono la Bank of China e l’Hsbc Bank che decidono giorno per giorno il tasso di interesse nel cambio. Ed è consigliabile, per chi volesse fare il turista in Cina, imparare a utilizzare «We-chatPay», un’applicazione dello smartphone, con cui si effettuano i pagamenti mediante ricarica,  anche solo per affondare i kuaizi (le bacchette cinesi) nella fumante ciotola di jiaozi (ravioli) da acquistare in rosticceria.

La Cina è oggi economia, impresa, turismo (si prevede che, entro il 2030, diventerà il primo paese al mondo per frequentazioni turistiche). È il paese in cui il partito unico resta il Pcc, ma in cui tra la gente si respira una vena spontanea di democrazia: persone sempre disposte all’autocritica, che non giudicano in base a categorie professionali e individualistiche il valore del lavoro, ma in base alla qualità della tecnologia e al livello di cooperazione; il paese dell’educazione secondo i principi confuciani, non della religione trascendentale. In Cina le università si inseriscono nella normalità delle strade, davanti ai parchi, nei pressi degli enormi parcheggi dei supermercati, come parte dell’habitat urbano: 34 sono i campus cinesi che si posizionano tra le prime 500 università al mondo per qualità di certificazioni e rapporto laurea-occupazione.

È il paese dove la società matriarcale delle etnie Moso e Na non solo sopravvive tra lo Yunnan e il Sichuan8, ma vive serenamente come depositaria di tradizioni. Qui la donna è legittima ereditaria di tutti i beni di famiglia. È una società, in queste due regioni della Cina, nella quale la Natura è intesa al femminile e dove non esiste una parola per la violenza di genere. Le donne godono di particolari diritti nella sfera sentimentale, sono svincolate dagli obblighi del matrimonio, vengono valorizzate come madri e sono guida della società; anche durante la politica del figlio unico che imponeva per legge l’aborto soprattutto nel caso di figlie femmine.

Ad oggi la Cina è la più grande produttrice di giochi online, ma anche il primo paese che sta studiando un sistema per limitare ad 1-2 ore l’uso-abuso di videogiochi per minori. È il paese che sta tentando una coesistenza imprenditoriale con l’acerrimo nemico, il Giappone. A ottobre 2018 la visita ufficiale di Shinzo Abe nella Repubblica Popolare, dopo quasi tredici anni, ha evidenziato che l’interdipendenza commerciale e di impresa fra i due paesi è di altissimo livello, anche se manca la fiducia politica reciproca.

È giunta l’ora, ormai, in cui anche l’Europa, l’Italia, l’Occidente distratto imparino a farsi delle domande sui protagonisti di questo scenario Cina-Giappone, in una prospettiva tutt’altro che lineare, attenti all’attualità dei processi, e non semplicemente alla cronologia di fatti. Perché l’Occidente possa pensare il futuro delle relazioni con la Cina, però, occorre che ripensi a quelle passate.

Partire dai proverbi

Il chengyu è un’espressione proverbiale idiomatica composta di quattro ideogrammi. Nel chengyu, che usa la metafora e che può apparire linguaggio criptico, c’è sempre un significato pratico.

Il chengyu cinese 安不忘危 (Ān bù wàng wéi) «Vi può essere pace solo se non ci si dimentica dei pericoli»,può essere una utile chiave di lettura degli scenari che si aprono nel 2019 per le relazioni tra Cina ed Occidente. La pace va conquistata. Non è scontata, non è un regalo dell’Impero Celeste o una concessione dell’Occidente: per custodirla è necessario mettersi in gioco da entrambe le parti, tenendo conto dei rischi.

La costruzione di un legame fra Cina e Occidente, la 关系, la guānxì, richiede un interlocutore dell’ex Impero Celeste che non sia solo la Santa Sede. Per cogliere i segni dell’epoca che stiamo vivendo, può essere utile un viaggio indietro nel tempo per ritrovare così quell’incontro fra il gesuita Matteo Ricci e il mandarino Ai Tian, vissuti oltre quattrocento anni fa. Un incontro gravido d’insegnamenti utili per noi oggi.

Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino

Allo scalo nella capitale Pechino devi scendere con i bagagli, fare il controllo, compilare il cartoncino giallo senape dove dichiari – come straniero – i tuoi dati, la tua nazionalità, il motivo della tua permanenza, il luogo in cui alloggerai.

Non è diretto l’imbarco dei bagagli da Pechino per qualsiasi altra città cinese. Figuriamoci se questa si trova nello Henan, estremo Nord Est del Paese di mezzo. E fin qui nulla di nuovo.

Sul retro del cartoncino, si trovano invece le «important notices», gli avvisi importanti. Come straniero (= 外国人 = Wàiguó rén) nella traduzione in inglese si diventa un «alien». A Pechino gli «aliens» devono registrarsi entro 24 ore (al massimo 72 ore, se si è in zone rurali). Se gli aliens non alloggiano in hotels, bed and breakfast o altro devono al più presto registrarsi alla stazione di polizia. Non possono viaggiare o muoversi (si intende anche a piedi) sprovvisti di passaporto e permesso.

Zhengzhou è la città più importante dello Henan. È qui che, all’ingresso della chiesa, si può leggere: «È vietato garantire l’educazione religiosa cattolica ai minori di 18 anni». Il giorno di Pasqua del 2018 la polizia ha fatto irruzione durante la celebrazione e ha ordinato ai bambini di uscire dalla chiesa. Il vescovo di Zhengzhou era allora riconosciuto ufficialmente solo dalla Santa Sede ma non dal governo. E tantomeno dal Pcc.

Da Zhengzhou, poi, si prende il treno per Kaifeng: sessanta chilometri di ferrovia ad alta velocità. Kaifeng, situata nello Henan, la provincia attraversata dal Fiume Giallo, è una cittadina postmoderna di oltre quattro milioni di abitanti. Fu capitale durante la dinastia Song. All’epoca, Kaifeng era una splendida città fortificata con una forte presenza ebraica.

A Kaifeng, nel 1605, iniziò la storia di incontro e dialogo fra il cinese ebreo Ai Tian, funzionario mandarino dell’impero e il cattolico italiano Matteo Ricci, teologo, cartografo che difese i riti degli antenati seguendo l’insegnamento di Confucio.

Per recuperare una riflessione sul dialogo Cina-Occidente, iniziamo dalla loro storia.

L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian

La ragione per la quale, nel 1605, Ai Tian, ebreo cinese di Kaifeng e funzionario amministrativo, intraprese il viaggio fu l’incarico istituzionale di verificare l’identità religiosa di Matteo Ricci. Un incarico che nessuno prima – all’interno della comunità di Kaifeng – si sarebbe mai sognato di ricevere dall’Impero Centrale.

A quell’epoca, 中国 (pronuncia secondo pinyin: zhōngguó = Paese di mezzo)9, lo «stare in mezzo»  (termine composto di = zhōng = centro, mezzo e di = guó = paese, nazione) della Cina imperiale era anche «uno stare amministrativo», non ancora repubblicano-popolare.

L’autorizzazione a risiedere in Cina era concessa solo ai membri di religioni dell’Occidente riconosciute dall’Impero, quali erano cristianesimo, ebraismo, islam. Ai Tian doveva incontrare Matteo Ricci per conto dell’imperatore Wanli (1563-1620) e verificare l’effettiva appartenenza ad una delle religioni ufficialmente riconosciute come forestiere e autorizzate a convivere con il confucianesimo. Il viaggio fu da «ordalia»10 poiché non esistevano indizi sull’identità di Ricci. Occorreva «affidarsi» alle sorti, occorreva rischiare. L’unico modo per verificare che Ricci non fosse legato a religioni malviste dall’impero era quello di incontrarlo e vagliare la sua fede monoteista. Matteo Ricci (Li Madou) era, prima di tutto, per Ai Tian, un uomo europeo: girovago, forse monoteista, non confuciano.


I protagonisti

Le dinastie imperiali

  • L’imperatore Kangxi, al potere dal 1661 al 1722

    221-207 a.C. QIN SHI HUANGDI – L’imperatore che pose fine al periodo degli Stati combattenti e che realizzò il sogno di fondare il primo Impero Celeste.

  • 618-907 d.C. Dinastia TANG – È la dinastia per la quale assunse maggior rilievo il ruolo dei mandarini (questo termine ha un’origine portoghese). I mandarini sono ufficiali, consiglieri, capi amministrativi addetti al controllo del potere centrale su una vastità territoriale che è continentale. Per diventare mandarino, occorreva superare degli esami.
  • 960-1279 Dinastia SONG – I Song istituzionalizzarono il sistema degli esami e il meccanismo di selezione di tutti i funzionari amministrativi. Istituirono anche la fasciatura dei piedi. Furono anni di grande prosperità in cui fiorì l’arte, la cultura, la tecnologia. L’epoca della dinastia Song fu caratterizzata anche dalla guerra. Per brevi periodi, Kaifeng fu capitale in modo intermittente a causa di questi conflitti. Nel 1126 Kaifeng cadde nelle mani dei Jurchen (Mongoli), prima identificati come nemici invasori non cinesi che spinsero i Song a stanziarsi a Sud, con capitale Linan, attuale Hangzhou.
  • 1264-1368 Dinastia YUAN – Nel 1258 Gengis Khan invase il territorio dei Song Meridionali, occupò Hangzhou e distrusse definitivamente i Song.
  • 1368-1644 Dinastia MING – Nel 1555 un esploratore portoghese, Duarte Barbosa, iniziò a pubblicare in Occidente alcuni documenti in cui appariva per la prima volta il termine Cina. Ufficialmente nel Trattato di Nerchinsk (1689) viene utilizzato questo termine dalla sua derivazione persiana o sanscrita. Fu alla corte dell’imperatore Wanli della dinastia Ming che Matteo Ricci rimase ammirato dalla sapienza dei mandarini ed anche dal sistema degli esami che era meritocratico. Ricci proveniva infatti da un’Europa dove i titoli dei principi venivano ereditati di padre in figlio, e non certamente seguendo il criterio di sensibilità per la scienza e di rispetto dell’intelligenza. Dell’incontro avvenuto nel 1605 a Pechino fra Ai Tian e Matteo Ricci non rimasero molte tracce anche a causa dell’alluvione del Fiume Giallo nell’anno 1642.
  • 1636-1912 Dinastia QING – Fu l’ultima dinastia della Cina imperiale. Il più noto tra i suoi imperatori fu Kangxi che governò dal 1661 al 1722.

Ai Tian, l’ebreo

Ai Tian (艾田), mandarino di Kaifeng. Poco si conosce di questo funzionario amministrativo dell’Impero Celeste. Era ebreo e il suo compito era di verificare l’identità monoteista di Matteo Ricci, la sua non appartenenza agli «adoratori della Croce» (*), una setta che aveva sostenuto l’invasione mongola nei secoli precedenti. L’incontro istituzionale fu un dialogo fra persone e la fiducia che ne sortì permise a Ricci di ottenere la stanzialità come missionario straniero nell’Impero. Fu Ai Tian, fu lui che avvisò il padre missionario gesuita della presenza degli ebrei a Kaifeng, nello Henan. Nei suoi appunti Matteo Ricci lo descrisse così: «Un giudeo di Natione e professione» che avrebbe dovuto verificare qual era la legge di provenienza di Li Madou. Ai Tian non si dovette augurare l’appartenenza di Ricci alla legge del popolo invasore. Piuttosto, dal suo primo incontro, si convinse che questo missionario scienziato venuto da lontano doveva proprio essere della stessa legge mosaica.

Quando – era il 1605 – Ai Tian fece visita a Matteo Ricci, nella capitale che era stata trasferita a Pechino almeno trecento anni prima anche a causa dell’invasione dei Jurchen, gli disse che a Kaifeng c’erano degli «adoratori della Croce». Il segno della Croce proteggeva i bambini, benediceva le bevande e il cibo. Un rito di protezione diffuso soprattutto nel Sichuan e nel Sud della Cina. Furono i Jurchen, i Mongoli che invasero Kaifeng e che avevano conosciuto il cristianesimo di Nestorio, a portare il culto degli adoratori della Croce.

La storia di Ai Tian – funzionario sconosciuto, mai citato nei libri di storia occidentale – è raccontata nel Prologo di «Mandarins, Jews and Missionaries – The Jewish experience in the Chinese empire» di Michael Pollak, con i contributi di Timoteus Pokora (Repubblica Ceca) e di René Goldman (Canada).

(*) Il loro culto è il cristianesimo nestoriano. I Nestoriani credono che Gesù Cristo sia due persone; credono che Maria sia solo Madre della Persona Cristo (Christotókos), negano che sia Madre del Figlio di Dio (Theotókos). Tale religione era pertanto «straniera» per i cinesi altrettanto quanto l’ebraismo e l’islam. Tuttavia gli adoratori della Croce furono avvertiti con timore perché furono i Mongoli a trasportare dalla Persia il culto nestoriano. Il pericolo di un ritorno degli invasori mongoli non era sparito durante i Ming. Da non dimenticare che, quando in Cina c’erano i Mongoli della dinastia Yuan (1264- 1368), il papa tentò più volte di usarli per un’alleanza con i crociati e vincere sui musulmani. Senza risultato.

Matteo Ricci, il gesuita

Matteo Ricci (玛窦 = Li Madou) nacque nel 1552 a Macerata. Iniziò la scuola dei gesuiti all’età di nove anni. I primi cristiani ad arrivare in Cina furono i nestoriani che, tra il 365-980 d.C., avevano fondato alcune comunità. Poi arrivarono i francescani dal 1245 -1368, periodo in cui la Cina subì l’invasione dei Tartari. Non restano però tracce significative di questi passaggi. La Compagnia di Gesù fece il suo primo ingresso in Cina nel 1552, con il suo fondatore, Francesco Saverio.

Ricci iniziò il suo viaggio nel 1598 verso Pechino ma non vi arrivò subito. Rimase a Nanchino fino al 1601. Fu in quell’anno che venne invitato a Pechino, alla corte dell’imperatore Wanli, dinastia Ming.

Matteo Ricci non entrò in Cina con un visto a scopo missionario. Sin dall’inizio comprese che, per introdurre il cristianesimo nel grande «Paese di mezzo», non bastava evangelizzare secondo i metodi tradizionali di missione.

Ben presto avrebbe dovuto imparare a «stare» dentro l’impero celeste, conoscere le tradizioni, i riti. Solo risiedendo stabilmente in Cina, sarebbe stato possibile il dialogo con una tradizione di simboli e di ideogrammi che non si possono semplicemente scomporre, ma che si devono comprendere per aprire il pensiero di volta in volta a sintesi più alte, nella traduzione. Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610.

 

Martino Martini, un altro missionario gesuita in Cina

Gesuita, storico, scienziato, cartografo, Martino Martini (匡国 = Wèi Kuāng Guó), nato a Trento nel 1614, fu un volto di pace, consapevole del rischio che una mancata

conciliazione tra Cina e Occidente avrebbe potuto avere. Dopo gli studi nella sua città natale, entrò nella Compagnia di Gesù. Fu lui stesso che chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario in Cina. Nel 1640 avvenne il suo primo ingresso in Cina, a Macao. Successivamente fu a Nanchino e ad Hangzhou. Fu il primo che compilò una grammatica cinese secondo canoni occidentali. Il suo ingresso nell’Impero Celeste coincise con il passaggio fra le due dinastie, Ming e Qing. Al suo arrivo in Cina, trovò una situazione complessa. La capitale della dinastia Ming, Pechino, era caduta nelle mani dei ribelli di Li Zecheng. Il malcontento era causato dalle malattie (tra cui il vaiolo) e altre piaghe economiche (aumento delle tasse) di cui soffriva il mondo delle campagne.

Ci furono poi i Manciù che invasero il paese fino alla provincia di Zhejiang. Martini venne riconosciuto come «dottore della Legge divina, proveniente dal Grande Occidente» anche durante l’assedio della futura dinastia Qing.

L’opera di Martini che difese la pratica dei riti e il culto degli antenati fu la Brevis Relatio de Numero et Qualítate Christianorum apud Sinas (Bruxelles 1654), indirizzata alla Sacra Congregazione De Propaganda Fide.

Il missionario fu richiamato a Roma nel 1651 nella veste di delegato delle missioni superiori cinesi. Il suo viaggio fu lungo: attraversò le Filippine, presentò le sue informazioni all’imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando III d’Asburgo prima di giungere a Roma, nel 1655.

Nella storia della Chiesa, il 1645 fu l’anno che segnò l’inizio della «controversia dei riti», il cui esito fu l’immediata condanna del papa Innocenzo X, dopo la denuncia di Juan Bautista Morales, domenicano. L’ordine di Sant’Ignazio, cui Martini apparteneva, cercò di porre riparo a questa controversia sortita con una denuncia proprio con il lavoro missionario di Martini che convinse il successore di Innocenzo X, Alessandro VII, della giustezza delle tesi e dei percorsi di missione in Cina da parte dell’ordine dei gesuiti. Purtroppo la testimonianza di Martini che ritornò poi in Cina, ad Hangzhou (dove nel 1661 morì) non bastò a spegnere la controversia che divenne una diatriba per interessi di fede, tecnico-scientifici, economici. Ancora cinquant’anni dopo la questione divise l’imperatore cinese Kangxi (1654-1722) e il papa Clemente XI (1649-1721) che continuò a sostenere la linea dura dei domenicani e dei suoi predecessori. A questa situazione, si aggiunse come aggravante l’interesse del re francese Luigi XIV alla questione dei riti. Il re inviò missionari gesuiti francesi fra cui il vicario apostolico Maigrot del Fujian. La Francia aveva colto la decadenza del Portogallo nelle rotte commerciali e la controversia teologica potè facilmente diventare espediente per la disputa pubblica che si allargò anche alle missioni straniere.

All’interno dello stesso ordine, i gesuiti dovettero difendersi dall’accusa di eresia e di idolatria poiché sostenevano il dialogo con il confucianesimo cinese.


Religione, un termine senza ideogramma

Almeno fino alle guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860), la Cina resterà l’Impero Celeste. All’interno di esso, la parola «religione» non trovava ancora una traduzione ideografica: non aveva cittadinanza culturale nella lingua scritta.

Occorrerà attendere il passaggio tra Ottocento e Novecento per arrivare all’introduzione di un termine: 宗教 (zōng jiào composto di = zōng = antenato e di = jiào = insegnamento). Dove l’ideogramma jiào è polisemico: insegnamento, trasmissione di conoscenze e abilità, addestramento, culto.

L’esito fallimentare dell’incontro fra Cina e Occidente fra il Seicento e il Settecento produsse una frattura gravida di conseguenze. Una frattura che si sarebbe potuta evitare se si fosse tenuto conto delle tradizioni e delle fatiche, dei tentativi di comunicazione fra Ricci e Ai Tian. Il loro dialogare di fronte all’icona di Maria e Gesù con gli apostoli e gli evangelisti portò infatti a prospettive di conciliazione e al completamento della stesura del trattato Dell’Amicitia (iniziato a Nanchino nel 1595) di Matteo Ricci. Tuttavia, questo non bastò ai successivi imperatori e rappresentanti della Santa Sede che si abbandonarono alla disputa e alle ragioni della guerra, piuttosto che alle motivazioni della pace.

Un secolo dopo l’incontro tra Ricci e Ai Tian, fu l’illusione epocale dell’imperatore Kangxi che portò al fallimento del dialogo. Nel 1700, all’inizio della sua ascesa politica, Kangxi aveva celebrato e promosso l’apertura delle frontiere dell’Impero Celeste: una sfida al futuro che trovava la sua condizione di base nello scambio culturale fra istituzioni e gesuiti che abitavano la capitale. Questo obiettivo non aveva trovato, tuttavia, risonanza e sintonia nel mondo cattolico e a Roma. La crisi europea post Riforma e Controriforma aveva assopito l’interesse per la cultura e la conoscenza del Paese di mezzo, nonostante la positiva riflessione del Concilio di Trento e lo sforzo da parte di alcune istituzioni ecclesiastiche di uscire dal contrasto tra diritto canonico e diritto positivo della società secolarizzata11.

Incomprensioni e conflitti

Nel 1692, l’imperatore Kangxi aveva invitato alla sua corte studiosi e missionari; aveva concesso loro la libertà di culto e il permesso di praticare i riti cristiani. Questa concessione di «pax augustea» fra culti e riti in una versione orientale non fu accettata da tutti nel mondo cattolico.

In Cina e a Roma iniziarono una serie di dispute fra le congregazioni e, in particolare, fra i gesuiti presenti in Cina e gli altri ordini. I riti che venivano contestati erano soprattutto i riti funebri che, in Cina, venivano officiati seguendo pratiche come l’offerta di cibo, di beni materiali (ad esempio, il denaro che veniva fuso o comunque incenerito). L’invocazione dei defunti attraverso le tavolette su cui era incisa la genealogia familiare non era considerata degna di valore spirituale. Ciò che veniva contestato era l’ambiguità del termine 天主 = tiānzhŭ = Signore del Cielǒ, che compariva nelle iscrizioni proprio come segno di compatibilità fra la religione cristiana e rito confuciano: il Signore del Cielo venne malamente interpretato come il capo supremo di cielo e terra dall’interlocutore occidentale che lo identificò come un pericoloso Imperatore avido e invadente nei confronti della religione cattolica, minoritaria in Cina. Furono soprattutto gli ordini di domenicani e francescani e alcuni missionari sotto il protettorato francese che evidenziarono la seduzione spirituale dei riti12.

Il vicario apostolico del Fujian nel 1693 scrisse il primo decreto che proibiva l’uso dei nomi Tiān (Cielo) e Shàngdi (Signore supremo). Nel 1704 la Commissione del Sant’Uffizio di Roma inviò la costituzione apostolica Cum Deus Optimus in cui si decise che le tavolette in pietra dove venivano ritratti gli avi defunti adottate dai cattolici dovevano omettere gli ideogrammi finali di «luogo dell’anima». Gli ideogrammi erano stati interpretati dagli avversari dei riti come 迷信 (= míxìn = credenza superstiziosa), quasi che l’anima fosse presente sulla tavoletta. Di qui la reazione di Kangxi che nel 1706, sostenuto dai gesuiti a corte, emise a sua volta un decreto che regolava rigidamente la presenza dei missionari cattolici.

Ci furono poi diversi tentativi di dialogo, ma papa Clemente XI nel 1715 emise la bolla Ex Illa Die che ribadiva e confermava tutte le proibizioni ed esigeva un giuramento dai missionari, abolendo di fatto una prima apertura tollerante di papa Clemente IX nel 1669. L’ultima parola da Roma fu nel 1742 quando con la bolla Ex quo singulari papa Benedetto XIV impose l’obbedienza e proibì ulteriori discussioni. La soppressione della Compagnia di Gesù voluta dai re europei nel 1747 tolse poi di mezzo i paladini del dialogo.

Una questione non solo «romana»

Questa concezione fraintesa di («cielo») non solo vedeva contrari i gesuiti (che a corte avevano a che fare con la parte più colta e istruita della società cinese), ma anche la comunità ebraica di Kaifeng che fino ad allora aveva convissuto in modo pacifico con la comunità dei cattolici, pur rispettando i tre insegnamenti (buddhismo, taoismo, confucianesimo). Questa rifiutò l’interpretazione che equiparava il termine 天主 (= tiānzhŭ = Signore del Cielo) al significato di «signore-capo». Per loro il Signore del Cielo non era da identificare con un Imperatore supremo, capo del Cielo su una terra ridotta ad uno squallido materialismo. E si poteva essere fedeli al Cielo, pur rispettando le autorizzazioni imposte dall’imperatore e dal potere centrale di Pechino.

L’attribuzione del Signore-Capo del Cielo era una lettura occidentale che non teneva conto della storia di Kaifeng. Ed era proprio la religione straniera che presumeva di interpretare i riti senza conoscere le persone.

Tale visione del mondo negava la storia della comunità che, fino a quel momento, aveva trovato sintesi coerenti di vita e di prassi fra l’ebraismo e l’insegnamento di Confucio. Si confinava, così, il confucianesimo sul precipizio di un’illusione, di un paganesimo che non riconosceva possibilità di dialogo e di rapporto fra società cinese e religioni monoteiste. Venivano così frantumati i valori della pietà filiale.

I protagonisti di questa controversia non furono solo l’Impero Celeste di Kangxi e la Santa Sede con i suoi vescovi. C’erano comunità, persone, valori, tradizioni, economie, legami (关系, guānxì) che si erano instaurati nella diversità̀ dei tre Sanjiào (= i tre insegnamenti cioè confucianesimo, taoismo, buddhismo) e delle tre religioni monoteiste che avevano imparato a stare insieme. Purtroppo, furono esse che si trovarono travolte dall’effetto valanga di questa disputa.

Lo scontro di civiltà che ne derivò, ancora una volta, non venne previsto. Ma arrivò nel 1938. A Kaifeng. Fu infatti nel Novecento, durante il conflitto sino-giapponese, che il Giappone, alleato dei nazifascisti europei, invase l’ex capitale della dinastia Song, defraudando la storia della sua cultura e approfittando della debolezza interna dell’imperatore cinese Po Yi. Attraverso un censimento, e quindi attraverso un controllo militare delle persone residenti a Kaifeng, i giapponesi presero il controllo degli abitanti e della loro religione. Kaifeng morì spiritualmente, poiché molti ebrei si trasferirono e furono costretti dalle circostanze a vendere la loro Torah e le suppellettili della sinagoga.

(Photo by GREG BAKER / AFP)

Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica

Kaifeng, 8 dicembre 1938. Siamo alla fine dell’anno in cui l’armata giapponese ha fatto la sua marcia verso la città. In quello stesso anno Sogabe e Mikami, membri dell’intelligence giapponese, stanno violentando l’intera Cina. Iniziano il loro dominio a livello giuridico e amministrativo con l’imposizione di un controllo sugli abitanti di Kaifeng per verificare quanti ebrei ci fossero nella comunità con un censimento giustificato da «ragioni di sicurezza» nei confronti di un popolo che, in Occidente, era stato designato come «pericoloso nemico» dal nazismo. Quale occasione migliore di seduttiva complicità con la Germania per la politica giapponese: la sicurezza diviene il pretesto per legittimare l’invasione del «Paese di mezzo».

Fino ad allora, gli ebrei non erano mai stati perseguitati in Cina. L’antisemitismo era sconosciuto anche al Giappone. Furono i nazisti a disprezzare gli asiatici perché inferiori alla razza ariana. Il progetto nipponico aveva il principale obiettivo di impadronirsi delle risorse naturali cinesi, necessarie per lo sviluppo della propria industria. Il panasiatismo nipponico fu un progetto alternativo al colonialismo occidentale in Cina.

Dal versante occidentale si aggiunse la real politik nazista che imponeva agli stati amici l’applicazione delle leggi razziali e le pratiche di sterminio. La scommessa con l’hate speech panasiatico del Giappone, complice della Germania di Hitler, divenne la base più sicura, il tavolo su cui negoziare la posta in gioco: dare legittimità al potere del Mănzhōuguó, lo stato fantoccio della Manciuria, per deporre definitivamente la dinastia Qing e distruggere la Repubblica popolare nascente. Proprio non si poteva immaginare nulla di più facile per i nipponici.

Nel 1938 era passato un solo anno dal massacro di Nanchino. Nel ’37, oltre 300mila civili erano stati trucidati, oltre 20mila donne violentate. Non bastò la «zona di sicurezza» di John Rabe, imprenditore filonazista della Siemens, a favorire il salvataggio di migliaia di civili. Rabe decise di aprire la fabbrica per accogliere donne e bambini, abitanti della città in quella notte del 13 dicembre 1937. I morti di Nanchino sono rimasti nel silenzio e nell’anonimato per troppi anni nei cicli di una storia senza pace, come quegli ideogrammi finali di «luoghi dell’anima» cancellati dalle tavolette degli antenati.

Solo recentemente, a ottant’anni di distanza, nelle librerie di Nanchino si trovano testi, lettere e scritti che documentano lo stupro. Ad oggi le autorità giapponesi non hanno dato segnale ufficiale di riprendersi dalla «dimenticanza». L’olocausto asiatico continua a rimanere nell’oblio.

A Kaifeng, nel 1938, le autorità giapponesi, oltre ad assicurarsi il riconoscimento dell’alleanza con la Germania, intendevano anche «dare ragioni oggettive» di sicurezza alla guerra e di legittimazione alla politica di invasione della Manciuria. Già dal 1895, i militari giapponesi avevano iniziato a costruire una propria identità nazionale, fondata su un’idea di straniero, opposto all’autoctono del Sol Levante. Ciò che caratterizzava lo straniero non poteva definire ciò che era giapponese: in questo contesto, la Cina fu vista come «società di banditi», barbara che avrebbe infestato «la civiltà mondiale». Obiettivo del progetto panasiatico nipponico era seguire il colonialismo occidentale e sabotare l’immagine della civiltà cinese, anche dall’interno (approfittando del clima di guerra interna fra esercito del Guomindang ed esercito comunista).

Allargandoci a uno sguardo antropologico, comprenderemo ben presto che la posizione di quell’invasore fu molto distante da quella dell’ospite «non ancora autorizzato» quale fu Matteo Ricci: qualitativamente lontano dalle mire espansionistiche dell’invasore giapponese, qualitativamente diverso il suo volto, orientato alla via dell’inculturazione e non al colonialismo. Quando ancora a Kaifeng si poteva respirare un clima che metteva in circolo la cultura, i linguaggi, le religioni, per custodire il futuro. Senza usurparlo.

L’ospite non gradito

Nel 1600 Ai Tian fu animato, prima di tutto, da una ragione13: quella di controllare ciò che l’arrivo di Matteo Ricci avrebbe potuto provocare come impatto nell’ordinata capitale. Ma fu mosso anche da un sogno. Un sogno che aveva iniziato a realizzarsi già prima della partenza: un desiderio di successo e visibilità verso il servizio civile dell’Impero Centrale e l’ambizione di controllo su un fenomeno inaspettato. Li Madou: un cristiano, non un ebreo, un monoteista ma non un confuciano, un missionario e non un funzionario; per Ai Tian, rappresentava un uomo che probabilmente era stato costretto ad allontanarsi dall’Europa e a errare per la Cina fino a giungere alla capitale.

Un passaporto identitario, quello di Matteo Ricci tracciato da Ai Tian, molto diverso da quello proposto nei libri della storia italiana, europea ed occidentale.

Matteo Ricci: teologo e cartografo, fu il pioniere che entrò in conflitto col «Vaticano» per difendere le pratiche degli antenati, tipiche del confucianesimo. Ricci fu il primo anello di congiunzione tra la cultura europea rinascimentale e quella cinese: resta comunque tra i pochi stranieri a figurare nell’«Enciclopedia nazionale» della Cina.

Fu il primo missionario che ottenne dall’Imperatore l’autorizzazione a fondare una chiesa a spese dell’erario: resta il primo europeo che si vestì da mandarino perché aveva colto che la trasmissione del suo messaggio cristiano sarebbe stato poi diffuso dalla classe dirigente agli ultimi della storia non solo con le lettere e le parole.

Per Ai Tian il viaggio fu un passaggio da una periferia come Kaifeng alla capitale dell’impero dove sopravviveva una colonia monoteista (la piccola chiesa di San Giovanni Battista nella quale viveva Ricci): una comunità ecclesiale avvertita «come una bizzarra intrusa», all’interno della capitale dell’Impero Celeste e che, dal punto di vista dell’ordine amministrativo, doveva essere autorizzata alla stanzialità.

Prima dell’incontro, lo stesso Ricci non avrebbe mai immaginato la presenza di ebrei in Cina. Viceversa, Ai Tian avrebbe potuso solo ipotizzare che quel cristiano europeo fosse un esponente di una setta: Ricci era un monoteista, non un cinese, non confuciano e neppure ebreo. Per Ai Tian, l’aver ottenuto il permesso di sostare nella capitale dell’Impero Celeste era l’unico punto di privilegio riconoscibile nel volto del suo interlocutore extracontinentale.

Un funzionario ambizioso incrocia, dunque, la sua noiosa vita di burocrate con quella di un reietto, uno dei tanti ospiti indesiderati, un letterato giunto a Pechino dopo un lungo percorso da Occidente ad Oriente. Non un esiliato, non un rifugiato, non un naufrago. L’espressione riferita a Ricci è di ospite non gradito, «uno degli ospiti indesiderati»14.

Il lettore non può, a questo punto, dimenticare un altro chengyu cinese: jiē fēng xĭ chén15

che significa «far entrare il vento per lavare la polvere». Esso chiarisce bene il gioco delle parti: l’espressione di benvenuto rivolta all’ospite, ricorda anche al padrone della dimora che occorre «fare entrare il vento» affinchè la casa si possa lavare dalla sua stessa polvere. L’ospite, seppure indesiderato, porta qualcosa di nuovo. Fu forse questa ispirazione che aprì il dialogo fra i due.

L’incontro e il dialogo

L’incontro fra Matteo Ricci e Ai Tian avviene così: davanti al dipinti della Madonna con Bambino e di san Giovanni Battista, disposti ai lati dell’altare della piccola chiesa di San Giovanni Battista, a Pechino.

L’interpretazione di quei dipinti è la prima occasione di traduzione. Mancata, sospesa, fraintesa e infine aggiustata. Non è costume del popolo di Kaifeng venerare le immagini. Quando Ai Tian vede Matteo Ricci-Li Madou che si genuflette davanti alla maternità, lo imita «assumendo che i due individui rappresentati fossero Rebecca e i suoi figli Jacob ed Esaù, con cortesia seguiì il costume»16.

È il culto degli antenati della tradizione confuciana che induce Ai Tian, ebreo, a vedere i suoi patriarchi e a compiere il gesto di genuflettersi. Si trattava della maternità cristiana, ma ma lui vi scorse Rebecca con Giacobbe e, nell’altro dipinto, Esau. Rebecca resta comunque un’antenata di Maria. Matteo Ricci non vede un’incongruenza nell’interpretazione dei simboli e delle immagini. Poi Ai Tian osserva i quattro evangelisti e si domanda se quelle figure possano essere quattro dei dodici figli del bambino ritratto sull’altare. Li Madou non lo corregge, pensa solo che c’è stata una confusione fra evangelisti ed apostoli: in fondo i dodici apostoli possono essere interpretati simbolicamente come i figli spirituali di Cristo.

Fu questo il primo incontro, la prima mediazione culturale che seppe realizzarsi tramite il fascino suscitato dall’arte in ciascuno dei due interlocutori. Uomini esploratori, liberi di entrare nei significati della traduzione e capaci di disvelare strade nuove attraverso la curiosità, capaci di mantenere il respiro davanti a ciò che «non è ancora» compiuto e di conservare il timore, quel timore che ciò che si attende dalla storia, in un attimo può scomparire e diventare «un non più».

Cosa rimane, nella nostra normale quotidianità, dopo aver rispolverato questa vicenda attraverso il libro di Michael Pollak Mandarins, Jews, and Missionaries, dedicato alla testimonianza del passaggio e della stanzialità della comunità ebraica nell’impero cinese? Una testimonianza che ha conservato il sapore della dimensione esperienziale, di vita. Posso tentare di rispondere che cosa ha significato per me, nel mio lavoro di mediatrice culturale e lo faccio partendo da un altro chengyu. Dal linguaggio metaforico dei proverbi, da parole che parlano all’anima popolare, si può infatti imparare a tradurre l’inesauribile ricchezza di umanità, presente nella nostra esistenza, in azione concreta.


Note culturali

La Cina e il culto degli antenati

Dal suo inizio, la dinastia Shang (XVI-XII secolo a.C.) praticava la divinazione con le iscrizioni incise sulle ossa dei buoi o sui carapaci che venivano fatte screpolare nel fuoco. I segni dell’ignipuntura venivano poi interpretati a seconda della preghiera che veniva realizzata durante la loro invocazione. Li si pregava, ad esempio, di far scendere la pioggia, di far cessare un’epidemia, di allontanare i nemici. L’equilibrio fra i vivi discendenti e i defunti avi è di natura omeostatica: il debito dei posteri nei confronti dei predecessori viene sciolto nel momento in cui si mantiene la promessa di comportarsi bene sulla terra, senza farli arrabbiare e il mantenimento in vita sulla terra avviene attraverso la generazione della prole. Il debito con gli antenati si contrae e si riscatta periodicamente con offerte e sacrifici, soprattutto durante la festa. Le tavolette funerarie sono racchiuse in urne di pietra. In passato, in occasione di tutti i grandi eventi del regno e di tutte le solennità della vita di palazzo, un lettore veniva a renderne conto, con voce possente. Delle gocce di sangue, venivano versate nei punti delle tavolette dove si presupponeva ci fossero le orecchie e la bocca del defunto. Ancora oggi, secondo la tradizione, le famiglie preparano per la notte di Capodanno (cade sempre tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio) un altare con l’incenso e le offerte sul quale mettono i ritratti degli antenati, e le «tavolette degli antenati» con i nomi della genealogia della propria famiglia. Dopo aver bruciato tre fasci di incenso ci si inchina davanti agli antenati, vengono recitate le preghiere e si fanno le offerte per un raccolto proficuo nel prossimo anno. Infine, le immagini di carta e il denaro offerto vengono bruciati: il fumo trasporta le preghiere della famiglia al Cielo.

Nella stele di Kaifeng, anno 1489 – oggi conservata nel Kaifeng Museum of Jewish History – si trova l’iscrizione in ideogrammi da cui si deduce che l’insegnamento delle Sacre Scritture è compatibile con l’insegnamento confuciano. Evidentemente già da allora la traduzione dell’iscrizione espose gli israeliti ad una sinizzazione. Un’iscrizione su pietra, un segno ideografico, una scrittura che non doveva morire. Il culto degli antenati dialoga con la religione delle Sacre Scritture partendo dal mito. Il patriarca Abramo viene da Pangu, creatore, all’inizio di Tutto. È da un uovo che contiene il Caos che Pangu viene creato. Ma è necessaria una rottura del guscio, da parte del gigante Pangu dall’interno: una volta divenuto adulto dalla rottura dell’involucro, il tuorlo diviene la Terra e l’albume il Cielo. Il corpo del gigante ha continuato ad allungarsi generando montagne e fiumi finchè è sparito interamente come corpo ed è divenuto creato. Si comprende bene da questo mito che, all’origine, l’universo e il modo di percepirlo da parte dell’umanità ha come punto di contatto il riconoscimento di un’osmosi di rapporto fra Cielo e Terra. Anche il ruolo del sacrificio e degli antenati risente di questa concezione immanente della realtà.

«Servire i morti come si servono i vivi, non usare la scusa della scomparsa dei capostipi antenati sulla terra che vedi per smettere di pregare… continuare a servire i dimenticati come se fossero gli ultimi sopravvissuti… offrire buoi, offrire capre a seconda della stagione, in legame con te». Così si legge nella stele.

La scelta dell’immanenza del pensiero fra mito e cosmogonia cinese trova qui la sua radice culturale e nella pratica rituale comunitaria dello sciamanesimo. Ma non entra in collisione con le religioni della Bibbia.

Il Signore del cielo

Il carattere Tiān significa «cielo», ma è polisemico e quindi suscettibile di possibili interpretazioni. Nella controversia sui riti che si accese nel settecento, venne frainteso come «paradiso terrestre»: una terra del cielo potenzialmente seduttiva e spiritualizzata, in cui i riti sono interpretati secondo un principio di realtà che gioca al ribasso nella traduzione poiché non considera la possibilità di una conciliazione fra le tradizioni e le identità culturali. L’ideogramma 主 zhǔ si traduce con «signore, padrone, capo». La combinazione polisemantica dei due ideogrammi può dare luogo ad una traduzione deviante: il «signore del cielo» era diventato il «capo del cielo» secondo la Congregazione dei riti e l’espressione era scomoda sia per l’orecchio di alcuni ordini religiosi e per Clemente XI sia per lo stesso imperatore Kangxi. Si liquidò, per una scelta semplicistica ed anche per interessi economici, la traduzione facendo coincidere il signore del cielo con il capo-sovrano del cielo, l’Imperatore. C’era infatti il re Luigi XIV di Francia che in quegl’anni, a seguito del declino del Portogallo, aveva intuito la possibilità di allargare il proprio dominio commerciale in Estremo Oriente. Il re comprese bene che inviare missionari della Società delle missioni estere di Parigi avrebbe facilitato questo percorso. Il vicario apostolico che fece guerra ai gesuiti e alla tolleranza nei confronti del culto degli antenati, adottata dai successori di Matteo Ricci, fu il francese Charles Maigrot. Nella sua interpretazione imprecisa di 天主 Tiānzhǔ, l’imperatore celeste, il titolo non poteva essere applicato a Dio e, allo stesso tempo, all’imperatore, «capo» di un «cielo-paradiso» un po’ troppo edonistico e terrestre per poter essere annoverato fra le categorie dello Spirito delle religione cristiana monoteista.

Poco importò ai custodi della purità del linguaggio religioso il significato epocale che quei due ideogrammi avrebbero potuto aprire alla comunicazione fra Occidente ed Oriente. Poco importò loro il percorso storico delle comunità cristiane, ebraiche, confuciane, taoiste, buddhiste che fino ad allora avevano convissuto insieme secondo pratiche, liturgie e socialità. Chi condannò i riti, rifiutando a priori lo scontro-incontro culturale con la traduzione, fece un‘operazione molto simile a quella illusoria di liquidare una tradizione culturale un po’ troppo lontana per essere presa sul serio. E non tenne conto di aver derubato due civiltà.


Cina e religione

Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica

Papa Clemente XI

Kangxi (1654-1722) è l’imperatore della «controversia sui riti» con la Santa Sede. Nel 1692 promulga l’«Editto di Tolleranza religiosa» che autorizza la conversione al cristianesimo e concede il diritto di costruire chiese e predicare pubblicamente. Un missionario gesuita, Martino Martini (riquadro a pagina 38, ndr), fa discendere il nome Cina dalla dinastia 秦 (= Qin) la stessa dinastia che nel 220 a.C aveva realizzato il sogno di unificare il regno degli Stati Combattenti. A differenza dei missionari francescani e domenicani che volevano vietare il culto degli antenati, i gesuiti hanno un approccio di comprensione. È proprio Martino Martini ad essere inviato a Roma per chiarire la controversia dei riti e della traduzione di «Signore del Cielo». Questa azione viene pesantemente contestata da altri missionari presenti in Cina e il vicario apostolico della provincia di Fujian (Sud Est del paese), Charles Maigrot della Società per le Missioni estere di Parigi, proibisce di iscrivere ed incidere sulle tavolette dei defunti l’espressione «sede dell’Anima». Questo divieto viene poi ufficializzato da papa Clemente XI con la costituzione apostolica Cum Deus Optimus del 1704. Nel 1742 papa Benedetto XIV conferma questa proibizione.

La grande paura di Kangxi è quella di venire sopraffatto dalla superiorità tecnica europea: in breve tempo, l’imperatore cambia la sua politica di tolleranza nei confronti dei missionari cristiani presenti in Cina, demarcando in modo molto netto il rifiuto del cristianesimo. L’identità cristiana viene fatta coincidere con quella dell’intruso occidentale, imperialista, assetato di colonialismo.

  • 1839-1842 e 1856-1860 – Con i Trattati Ineguali delle Guerre dell’Oppio, le missioni cattoliche finiscono sotto il protettorato della Francia, con i loro cristiani stranieri e da autoctoni. Il papa Leone XIII non osa inviare il suo nunzio apostolico in Cina.
  • 1900 – Odio xenofobo verso i cattolici. La rivolta dei Boxer uccide missionari e semplici cristiani. Cristo è identificato come un uomo con la pancia piena nei manifesti dei rivoluzionari, simbolo del capitalismo e dell’occidente che avanza.
  • 1912 – Repubblica cinese di Sun Yat Sen: abolizione della legge che impone alle donne la fasciatura dei piedi.
  • 4 maggio 1919 – Rivoluzione degli studenti che si ribellano alla politica imperialista e all’imposizione del Trattato di Versailles: gli studenti sono contro la risposta del governo cinese che cedeva lo Shandong alle potenze coloniali, in primis al Giappone.
  • 1937 – Nanchino, la capitale del nazionalismo cinese, cade davanti ai giapponesi. È un massacro. Solo il 13 dicembre di quell’anno, nella sola Nanchino si stima che siano stuprate tra le 20.000 – 80.000 donne. Era già cominciato il progetto di panasianesimo imperiale del Giappone che trovava nella Germania nazista il suo principale alleato.
  • 1938 – Dopo il massacro di Nanchino, i giapponesi arrivano a Kaifeng già da giugno. L’esercito nazionalista cinese del Guomingdang, guidato da Chiang-Kai-Shek, deve allearsi con l’acerrimo nemico interno, il Partito comunista cinese, per fermare i giapponesi.
  • 1939 – Papa Pio XII dichiara compatibili fede cristiana e riti confuciani e autorizza la traduzione in cinese della liturgia.
  • 1949 – Fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). Negli anni Sessanta la direzione del partito era assolutamente contraria alla Chiesa cattolica. Il partito sfrutta la lotta contro la «superstizione religiosa» per potersi rafforzare.
  • 1957 – Fondazione dell’«Associazione patriottica dei Cattolici cinesi» con l’appoggio dell’«Ufficio governativo degli Affari religiosi» della Rpc. Circa tre milioni di cattolici cinesi aderiscono. Desiderano l’indipendenza della Cina. Lottano contro l’imperialismo, contro la miseria, contro il capitalismo. Sono per la fine di tutte le superstizioni, per l’uguaglianza fra gli uomini, per il presidente Mao. Sono sotto la guida del Pcc.
  • 1976 – Fino al 1976, anno della morte di Mao e della fine della «Banda dei quattro», per il Pcc i vescovi «controrivoluzionari» e «illegittimi» sono quelli che hanno relazioni con gli imperialisti americani e che tentano di restaurare «la dominazione reazionaria del Vaticano».
  • 1978 – È l’anno di Deng Xiaoping e della politica di 开发展 apertura allo sviluppo economico. Le cose cambiano con la liberalizzazione delle attività commerciali. Anche da parte del popolo cinese nei confronti delle comunità cattoliche. Innanzitutto sono tollerate le chiese.
  • 1981 – Giovanni Paolo II rivolge a Manila un saluto a tutti i cattolici della Cina. In quello stesso anno, il Vaticano viene accusato di interferire sul riconoscimento dell’arcivescovo di Canton. A seguito ci sono consacrazioni di vescovi della Chiesa patriottica senza la consultazione della Santa Sede. Questa situazione porta il cardinal Rossi, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ad autorizzare i vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» a ordinare altri vescovi, se necessario, senza previa intesa con Roma. Questo privilegio (già concesso in passato per i paesi europei sotto il regime comunista) porta però all’inasprimento dei rapporti fra vescovi «clandestini», «ufficiali» e «patriottici».
  • 22 settembre 2018 – Tra Vaticano e Pechino viene firmato un accordo provvisorio.

Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?

«I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono, in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini e interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».

Così recita l’articolo 36 della Costituzione cinese. Le religioni ufficialmente riconosciute sono: buddhismo, taoismo, islamismo, protestantesimo, cattolicesimo.

Nel 2008, anno delle Olimpiadi cinesi, molti vescovi e sacerdoti della Chiesa clandestina sono posti agli arresti domiciliari o costretti «all’ozio forzato» prendendosi delle vacanze ed è loro proibito di incontrarsi anche con membri provenienti dall’estero in occasione dei giochi olimpici. Trattamento diverso per chi ha visitato il villaggio olimpico di Pechino dove sono stati costruiti appositi spazi di «spiritualità e preghiera» con rigorosa attenzione al cibo offerto secondo le fedi: cristiana, buddhista, musulmana, ebraica, indù. Trattamento di privilegio per gli ospiti stranieri. Evidente che, una volta, terminati i giochi olimpici, questa «liberalità di facciata» è finita.

Si arriva così al 22 settembre 2018 con la firma dell’Accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi. Nella Nota informativa si legge: «Al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina, il Santo Padre Francesco ha deciso di riammettere nella piena comunione ecclesiale i rimanenti Vescovi «ufficiali» ordinati senza mandato pontificio: (segue il nome di sette vescovi)» (vedi nota 1).

I vescovi definiti «ufficiali» fino a quel momento sono quelli scelti dalle autorità cinesi senza o in opposizione al consenso della Sede apostolica. In realtà molto pochi – sette -, perché di fatto molti dei vescovi «ufficiali» avevano già chiesto in segreto l’approvazione papale. Tale accordo va ora tradotto nella realtà storica che è ricca di sfaccettature.

Per ora, stando all’accordo, i candidati dell’episcopato verranno scelti dal basso, cioè dai rappresentanti delle diocesi e con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica. Alcune linee guida cominciano a dischiudersi, ma occorre poi la pazienza di stare dentro le contraddizioni della quotidianità e della storia.

Infatti, l’identità dei vescovi non è sempre categorizzabile secondo questo binomio: legittimo-illegittimo. E l’altro interlocutore è il Pcc che, secondo ragioni di convenienza, ha – in un passato recentissimo – chiamato i vescovi legittimi (approvati da Roma) come «controrivoluzionari» (in epoca maoista) o «clandestini» ed alcune comunità cristiane come «eretiche».

Ancora lungo e difficile è il cammino verso la libertà di professione dell’insegnamento cristiano e della fede nel Paese di mezzo. Non può sfuggire che ad oggi nelle diocesi di Luoyang e Xinxiang le chiese cattoliche sono state demolite, che a Puyang i presidenti dei Consigli Pastorali sono stati forzati dal governo ad indicare identità e professione, unità lavorativa e certificato di famiglia dei membri della comunità. Ed ancora che nella diocesi di Kaifeng, come a Zhengzhou, si legge all’entrata lo slogan: «Avvertimento contro il culto – Campagna di educazione nella Chiesa cattolica: nei luoghi di attività religiose non si deve predicare ai minori».

La questione della croce. In un paese grande e variegato come la Cina non c’è uniformità sul tema. Di norma (ma non sempre), è possibile l’esistenza di croci – anche esterne – in edifici autorizzati. Rispetto al segno della croce è proibito sia privatamente che pubblicamente, perché in Cina non è concesso a nessuno di vivere la propria fede (forestiera, cioè estranea ai tre insegnamenti originali che restano confucianesimo, taoismo e buddhismo, in particolare il primo) se non in chiese ufficialmente riconosciute dal Partito.

Confucius (551BC – 479BC) Bronze Statue – Locke, CA


La Cina in Italia

I ragazzi della provincia di Zhejiang

安不忘危 Ān bù wàng wéi:
non dimenticare il pericolo; non c’è pace se c’è
dimenticanza. La pace è nelle dinamiche
della storia, non è statica.

A Rimini, quando chiedo ai ragazzi della provincia di Zhejiang17 se hanno mai letto di Li Madou e Ai Tian sui loro banchi di scuola mi rispondono che la storia si studia dalla seconda media. E si parte da Mao: 1949. E poi si ritorna frettolosamente alle dinastie imperiali. Ma il percorso che va dalla caduta degli Han orientali alla dinastia Tang e poi anche oltre fino ai Qing, è sospeso dai banchi di scuola. Non perché proibita, quella storia, ma perché ormai è l’idolo della tecnologia liquida che impone i programmi di studio. Facili, veloci, efficienti. Semplificativi. Non c’è il tempo di attraversare le cause, i processi, le dinamiche e non c’è spazio per entrare nei significati, per interpretare i simboli in unità di senso. La storia diventa una materia sconosciuta. Aliena.

Chen Jūn Yŏng arriva in una scuola del riminese all’età di dodici anni nell’anno 2009. Il suo nome Jūn Yŏng corrisponde ai due ideogrammi di 君勇 cioè valoroso e coraggioso. Secondo la legge italiana (Dpr 394/99), Yŏng viene inserito in una classe seconda media: spiego alla famiglia che in Italia non è possibile che i ragazzi frequentino una classe troppo bassa. È questo, invece, che la famiglia chiede.

Secondo loro Yŏng deve prima apprendere tutti i segni alfabetici della lingua italiana e le loro combinazioni. Solo più tardi potrà frequentare la scuola dove si studiano le discipline: storia, geografia, scienze. Spiego che, in Italia, la normativa tutela lo sviluppo psicofisico degli alunni che devono studiare con i pari, i propri coetanei. Inoltre, considerata l’affluenza di numerosi alunni non madrelingua italiana, sono previsti nella scuola, piani di studio personalizzati e corsi di lingua base di italiano.

«Io non ho religione»

Al momento dell’iscrizione, mi accorgo che non basta alla mamma di Yŏng leggere la traduzione del modulo alla domanda sulla scelta della religione cattolica. «Religione cattolica» è tradotto con 天主教 tiānzhŭ jiào in cui 天主 tiānzhŭ è il «signore del Cielo». In alcuni moduli viene tradotto semplicemente 宗教 Zōngjiào, religione (= Zōng = antenato + jiào = insegnamento), mentre in realtà dovrebbe essere 基督教 jīdūjiào l’insegnamento di Cristo, la religione cristiana.

La madre di Yŏng è mia coetanea, ha frequentato le medie in Cina. Quando le chiedo se è religiosa, lei mi risponde: 我没有教 Wŏméiyŏu jiào («Io non ho religione»).

La generazione dei genitori di Yŏng migra anche perché porta con sé il desiderio di migliorare la propria condizione con i guadagni all’estero e poi reinvestire in patria: passaggio questo, che svela anche le contraddizioni «fra un nuovo coraggioso mondo generato dalle riforme di mercato operate da Deng Xiaoping con l’apertura al capitale, alle idee, alle immagini»18 ma che – come tutti i progressi troppo rapidi – celano fallimenti sul piano sociale ed educativo. Hanno vissuto quegli anni Ottanta lì, gli anni Ottanta della loro infanzia. Ne vedono la fallimentare illusione quando si accorgono che il loro lavoro sottopagato e sancito dalla guānxì da fratello maggiore a fratello, da cinese a cinese, si riconsegna alla logica del profitto passando per classi dirigenti italocinesi di commercialisti e avvocati, medici e magistrati, disposti a coprire facilmente «il paradiso fiscale» di denaro liquido proveniente dal lavoro del capitale umano sfruttato.

Un sabato pomeriggio dai carabinieri

Il sabato pomeriggio di un novembre malinconico del 2013, poche settimane dopo la fiera di San Martino di Santarcangelo di Romagna, la madre di Yŏng mi chiama per chiedere di accompagnare lei e suo figlio a fare una denuncia di aggressione avvenuta davanti alla scuola.

Non è per il lavoro di mediazione nella scuola che mi chiama. Avrebbe potuto mantenere la riservatezza di fronte a me, ai professori, ai banchi dei bianchi «che olezzano di formaggio» e che sono sempre pronti ad etichettare «sì… ma voi cinesi, il commercio, l’illegalità, la contraffazione». Avrebbe potuto trovare facilmente aiuti dai suoi connazionali, «i giovani generazione-banana». Figli di migranti, gialli fuori e bianchi dentro, che parlano bene italiano… bene nel senso che sono molto veloci nell’esposizione, che non parlano per monosillabi, che centrano tutte le erre…  perfetti nella traduzione. La donna però, non fa questa scelta.

Le dico che non posso fare quel genere di mediazione, perché è al di fuori di quelli che sono «i miei mandati istituzionali» (le autorizzazioni di Ai Tian non sono poi del tutto passate, anche sul versante occidentale). Ma poi lei mi dice: «安不忘危 Ān bù wàng wéi. Non c’è pace senza previsione di guerra, non c’è pace se manca il coraggio per la verità. E non c’è coraggio se non si osa sognarla, la pace. Ogni giorno. Non c’è pace nella misura in cui ti dimentichi di quali siano i rischi».

Per lei, come madre che deve accompagnare suo figlio aggredito da compagni di scuola davanti ai carabinieri. Rischi forse molto diversi dai dubbi di ieri, quelli che avranno attraversato il pensiero e la decisione di Li Madou davanti ad Ai Tian: restare senza scappare; ascoltare; i dubbi e i timori, ma restare; avere il coraggio di stare in mezzo.

La madre di Yŏng teme che, se non c’è una persona italiana, non verrà creduta e nemmeno ascoltata. Non teme solo questo. Alcuni suoi connazionali residenti nella comunità della nostra civilissima Italia sono stati insultati e maltrattati. A Roma, Prato, Reggio Emilia.

Il sistema di 关系 guānxì (ovvero – come già abbiamo spiegato – i legami che si stabiliscono nelle comunità cinesi) accorcia le distanze in un territorio. Si sa, fra i migranti cinesi per i quali le guānxì, le relazioni, i legami sono il principale e più attendibile modo di comunicare. Si sa che in Italia è così: quando si denuncia qualcuno che non è un tuo connazionale rischi di non essere creduto. E magari anche pestato. Alcuni membri della comunità sono stati picchiati da «certe forze dell’ordine» che avrebbero dovuto solo raccogliere la testimonianza e verificare «le autorizzazioni a stare»: oggi quell’autorizzazione è il documento di permesso soggiorno.

«Certi carabinieri funzionari dell’ordine pubblico – ribadisce la madre di Yŏng – 没有教 Méiyŏu jiào, non hanno insegnamento».

Anche se hanno più possibilità di trasporto e comunicazione, certi detentori che abusano del loro potere non si metterebbero mai in viaggio come fece invece Ai Tian davanti a «un ospite indesiderato», stanziatosi nella capitale, quale era stato Matteo Ricci. E nemmeno quei carabinieri sarebbero stati capaci di rimanere fermi davanti al dubbio, per giungere ad una verità più profonda. Non abbastanza fermi davanti al dubbio, come rimase fermo Matteo Ricci, accettando il rischio di essere espulso dall’impero per un mancato permesso.

Il viaggio e il valore della diversità

Entrambi, Ai Tian e Li Madou, l’ebreo cinese di Kaifeng e il gesuita italiano di Macerata, seppero restare custodi di un’insufficienza di fronte alla traduzione e resero possibile l’incontro di due mondi proprio perché mantennero viva la curiosità per «l’assolutamente diverso», l’uno dell’altro, che veniva incontro. Nel dialogo, non cedettero alle lusinghe di preconcetti e di linguaggi tecnicisti che avrebbero facilmente creato distanze interpretative, con inimicizia e diffidenza. Seppero, pur nei loro silenzi, guardare alle analogie, alle immagini; seppero cercare la traduzione, pur non conoscendo bene l’uno la lingua dell’altro. Seppero rimanere aperti al futuro, anche se mancavano le parole del passato poiché quell’incontro fu il primo inedito, storico. Fra un funzionario mandarino confuciano ebreo e un missionario, gesuita, cattolico, italiano. Oggi si è più vicini grazie alle connessioni internet, si viaggia con più rapidità, si può disporre in pochi secondi di tutte le traduzioni negli spazi virtuali del web, tuttavia con più facilità si edificano prigioni di comunicazione davanti allo schermo di un computer. Manca il coraggio di intraprendere un viaggio, il coraggio di vivere il valore della diversità nel dialogo, di incontrare l’identità «assolutamente altra» assumendosi tutti i rischi che una mancata tensione verso una cultura di pace può causare.

La guerra è già oggi scontro di civiltà. E la pace richiede responsabilità e risposte da parte di tutti.

Tempi inediti ci attendono per vivere il coraggio «in quel punto zero in cui si apre a sorpresa il Cielo»19. Non serve, come mi ha insegnato Jun Yŏng, essere degli eroi per «stare dentro» a una cultura di pace, viverla in una dimensione esperienziale, in un gesto, in una parola, in un rapporto umano nella normalità che ciascuno di noi è, con tutti i limiti del nostro «essere persone».

A volte, forse, basta solo avere il coraggio di sorprenderci davanti alle nostre mancanze, e cambiare sguardo: sorprenderci al punto da uscire da noi stessi per diventare partecipi della bellezza del Cielo e anche su questa nostra amata Terra – direbbe l’ebreo di Kaifeng – mettersi in viaggio per amare l’«emèt», cioè la verità (in lingua ebraica).

Vittoria Pollini


Appendice

Storia degli ideogrammi cinesi

Le tre più antiche forme di scrittura del mondo sono: i caratteri cuneiformi dei Sumeri, i geroglifici degli egiziani e gli ideogrammi dei cinesi. Fra le tre, solo gli ideogrammi sono ancora in vita ed in uso. Gli ideogrammi sono anche caratterizzati da uno stretto legame con i pittogrammi. Ogni forma di scrittura ha avuto origine da forme pittografiche. La scrittura cinese conserva la sua peculiare originalità perché non si è mai diretta verso una trascrizione fonetica come invece è accaduto con le lingue occidentali.

Il 1949 è l’anno di fondazione della Repubblica popolare cinese. Solo nel 1956 fu ufficialmente stabilito che il 普通话 (pǔtōnghuà = lingua comune) sarebbe stato l’idioma nazionale. Nell’epoca delle dinastie, la «lingua comune» era patrimonio esclusivo di chi possedeva gradi di istruzione elevata ed apparteneva alle classi privilegiate. Nel 1911, anno di fondazione della Repubblica Nazionalista di Sun Yat-Sen, la lingua nazionale era ancora solo il 国语 (guóyǔ= lingua nazionale, cinese mandarino meno classicheggiante rispetto alla lingua 官话 guānhuà = la lingua dei funzionari amministrativi dell’epoca imperiale), una lingua più vicina al 白话 báihuà = il vernacolare, la lingua colloquiale dialogica dell’epoca imperiale che veniva trascritta nelle opere minori, non nella stesura dei 经 jìng, i libri dei classici.

Questa lingua 白话(= báihuà), la lingua chiara (白 = bái = chiaro, bianco), era la lingua del dialogo «caratterizzato dalla bianca chiarezza», non rappresentava ancora la lingua parlata dalla popolazione, che – per la maggior parte – si esprimeva in forme dialettali.

Occorre dunque attendere il 1956 per assistere alla riforma della lingua che prevede l’adozione di un sistema di traslitterazione fondato sull’alfabeto latino detto 拼音 (= pinyin, letteralmente significa «annotazione piana di suoni»). Il pinyin è attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe.

Le 400 sillabe del pinyin sono la base per la lettura fonetica degli oltre 40.000 ideogrammi cinesi attualmente presenti nel Dizionario Kangxi. Oggi, la soglia di alfabetizzazione minima della popolazione cinese si posiziona sulla conoscenza di almeno 2000 caratteri/ideogrammi. Si può chiaramente comprendere che le 400 sillabe tonali del pinyin non trovano corrispondenza univoca negli oltre 40.000 ideogrammi e nelle loro combinazioni: si tratta appunto, di un sistema convenzionale di note fonetiche che «si appoggiano» sugli ideogrammi per supportare l’occhio occidentale nella lettura. Ma la conoscenza degli ideogrammi e la loro memorizzazione, il loro inscindibile legame con la scrittura, ha un’altra storia.

Note

(1) Il comunicato ufficiale: Nota informativa sulla chiesa cattolica in Cina del 22/09/2018, reperibile su press.vatican.va.  Il commento su avvenire.it: Stefania Falasca, Santa Sede e Cina, firmata la storica intesa, 22 settembre 2018.

(2) Si veda il glossario sul sito della rivista.

(3) Così la professoressa Zhang di Scienze Giuridiche, che insegna cinese agli studenti stranieri a Nanchino.

(4) È l’espressione che – negli anni Sessanta – indicava coloro che abitavano nei rifugi di paglia. Si veda Dentro la Cina rossa di Virgilio Lilli, Mondadori editore 1961, cap. 3 pp. 76-103.

(5) A partire dagli anni Cinquanta, ci fu nella Rpc una massiccia espansione dell’istruzione di base. Il governo si interessò attivamente alla condizione educativa in un contesto in cui i contadini, quasi del tutto incapaci di leggere e scrivere, cominciavano a formare le prime cooperative rurali. Gli intellettuali divennero il principale strumento di diffusione della filosofia dell’educazione e prassi maoista: non dovevano solo alfabetizzare, ma dovevano imparare dalla popolazione rurale il valore del lavoro fisico. Furono nel contempo strumenti e vittime della Rivoluzione Culturale. Molti intellettuali vennero anche uccisi dalle Guardie Rosse.

(6) Ibidem, Virgilio Lilli, pag. 16.

(7) Il trattato di Bretton Woods del 1944.

(8) Sono due province cinesi, rispettivamente a Sud Ovest e centro del paese.

(9) Il pinyin (拼音) è l’attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere dell’alfabeto latino che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe. Fu Mao Tse Dong a ufficializzare questo sistema nel 1956. C’era stato già nel 1859 un tentativo di «romanizzare» la lingua cinese attraverso il sistema Wade-Giles che fallì poiché risultava troppo pressapochista. Più dettagli nel riquadro di pag. 46 e sul sito.

(10) «Ordalia»: Giudizio di Dio, verifica – attraverso dure prove – dell’innocenza o colpevolezza altrimenti non regolabili con mezzi umani. È chiamato anche duello di Dio.

(11) Si veda in proposito Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.279-288. «La scienza canonista perse la sua funzione fondamentale di generatrice di diritto». Le istituzioni ecclesiastiche subirono un’accelerazione verso due direzioni: imitazione della società statale da un lato e, all’opposto, sforzo di creare una dimensione normativa che si potesse sottrarre alla dimensione positiva dello stato.

(12) Sul significato di seduzione spirituale si legga Pavel Florenskij, Le porte regali, nell’edizione italiana Adelphi, gennaio 2012. Si veda anche il glossario.

(13) Si veda il prologo in Mandarins, Jews and Missionaries- The Jewish experience in the Chinese empire, di Michael Pollak, ed. Society of America, 1980.

(14) Ibidem, pag.4: «Eppure Ai Tian stava pianificando una visita alla piccola colonia (di Kaifeng) da parte di un contingente di ospiti (venuti dalla lontana Europa), un contingente di ospiti che si era stabilito recentemente a Pechino». Da queste poche righe si intende che – almeno nella fase preliminare all’incontro con Matteo Ricci – Ai Tian considerava l’arrivo degli stranieri d’Occidente in Cina come un rifiuto degli stessi nel loro paese d’origine. Ai Tian sapeva che Matteo Ricci non era stato invitato dall’imperatore ed aveva inizialmente immaginato che i viaggiatori forestieri fossero stati allontanati dalla madrepatria per una qualche ragione «non autorizzati» più a stare. Da questo punto di vista, il compito di Ai Tian non sarebbe stato solo quello di verificare l’identità dell’ospite sgradito ma anche quello di cercare di capire perché fosse indesiderato in patria. Fu quindi il dialogo fra i due che chiarì la sorte di Matteo Ricci. Una volta riconosciutane l’identità religiosa (era comunque un fedele della religione dei patriarchi), Ai Tian pensò di pianificare una visita alla colonia ebraica di Kaifeng.

(15) La traduzione del chengyu è «accompagnare il vento» (si sottintende: «facendolo entrare nella propria casa») per lavare la polvere (della propria dimora). È un chengyu, un’espressione a quattro ideogrammi con significato particolare. Proverbiali gocce di saggezza che sciolgono importanti nodi conflittuali nella comunicazione. Chi padroneggia bene i chengyu, oltre ad essere un grande saggio, è capace di elevare il pensiero alla metafora e di concretizzare il pensiero in situazioni di vita.

(16) Ibidem, Mandarins, Jews and Missionaries.

(17) Provincia a Sud Est della Cina, una provincia grande come l’Italia. Sono del distretto di 青田 Qīngtián, i genitori di Yŏng. Mi spiegano che, oggi, Qīngtián è diventata una colonia commerciale, una metropoli grazie anche agli investimenti degli attuali postmoderni 华侨 = huáqiáo, i cinesi d’oltremare che ritornano a casa a fare le ferie ad agosto. Quando le fabbriche a Forlí, Cesena e Rimini chiudono, sono finalmente liberi di andare «a rinfrescare lo spirito
(神经 = shénjīng). Si dirigono velocemente a Bologna con i loro Suv o Wuling per acquistare l’ultimo biglietto last minute AirChina. Lo 神经 (shénjīng) è da ritrovare nella loro Zhejiang. Lo shénjīng non è solo il sistema nervoso: è prima di tutto il respiro che alita sulla parola affinché il pensiero scorra meglio. In un’intervista-dialogo fra generazioni a suo figlio Zhenyu, scrive Ai Cui, signora che esce dalla strada «quando vai in Cina, le parole scorrono meglio, ti porti indietro quello spirito, di nuovo, poi finalmente ti rialzi. Quello spirito combattivo che ti porti, di nuovo ti fa rialzare».

(18) Secondo Jonathan Noble, la politica di Deng Xiaoping di liberalizzazione economica e commerciale, la politica del 开放 kāifàng, non bastò però al progresso di civile economia perché non fu supportata dalla trasmissione e traduzione dei valori estetici, etici, culturali che fanno la storia di un paese.

(19) Scrive il teologo Herbert Lauenroth: «È nel punto zero che si apre a sorpresa il Cielo [ …] Solo l’esperienza umana della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo, un tempo in voga, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto il coraggio di esistere». Pag. 164-165 del suo articolo Nell’era della paura, in Gen’s, rivista di vita ecclesiale n°4 ed. 2016.


Hanno firmato questo dossier:

  • Vittoria Pollini, 朵朵波林老 (Duǒduǒ Bōlín lǎoshī) Laureata in filosofia presso l’Università di Bologna e in lingua e letteratura cinese presso l’Università di Kunming, Yunnan (Cina), è mediatrice culturale. Frequenta la Cina dal 2008. Il suo ultimo viaggio risale a gennaio 2019. Lavora nella progettazione di piani di comunicazione interculturale e facilitazione linguistica; collabora nelle scuole per servizi di traduzione e interpretariato cinese-italiano. Vive e lavora tra Cesena e Rimini.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC,
    墨流拉期刊, MC 编辑(Bǎoluó Mòliúlā – qíkān jìzhě, MC biānjí bù).



Carta d’identità: taiwanesi

Testo Mirco Elena |


La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.

Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.

Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.

Tsai Ing-wen, prima donna presidente di Taiwan, osserva l’addestramento dell’esercito taiwanese (25 maggio 2017/ AFP PHOTO / SAM YEH

Più giapponesi che cinesi

Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.

Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.

Taipei, © Tsaiian

Piccoli esempi di quotidianità taiwanese

Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.

La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.

Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).

Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.

© Mirco Elena

Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)

Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.

© Mirco Elena

La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.

Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.

Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.

Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.

Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.

Mirco Elena
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.

(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.

(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.

(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.

(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».

© Mirco Elena


La situazione religiosa

La libertà è un mosaico

Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.

Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.

L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.

La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).

Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.

Pa.Mo.

Comunita? filippina nella cattedrale di Hsinchu. © Ugo Pozzoli




Una matrigna (troppo) possessiva


Testo di MIRCO ELENA; foto di MIRCO ELENA e AfMC |


Nel 1949 le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek furono sconfitte da quelle comuniste di Mao Ze Dong. I nazionalisti si rifugiarono sull’isola di Taiwan, da poco liberata dal dominio giapponese. Da allora Taiwan e Cina popolare non hanno mai firmato una tregua. Pechino considera l’isola una «provincia ribelle». Nel frattempo lo stato taiwanese, pur riconosciuto da pochi paesi, ha raggiunto un notevole livello di sviluppo.

Tra i tanti luoghi del nostro pianeta ove le tensioni politiche potrebbero portare a uno scontro militare su grande scala, spicca sicuramente Taiwan per la sua storia drammatica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, si ebbe in Cina la ripresa del conflitto civile che divideva da tempo i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) e i comunisti di Mao Ze Dong. Lo scontro fratricida era stato momentaneamente sospeso per fare fronte comune all’invasione giapponese, ma riprese nel 1946, poco dopo la sconfitta dell’esercito nipponico. Temprati da molti anni di lotta, i comunisti ebbero la meglio e, nel 1949, costrinsero gli avversari del Kmt a ritirarsi dal continente e a rifugiarsi, assieme a due milioni di profughi politici, sulla piccola isola che si trovava poco al largo delle coste della provincia del Fujian. Qui giunta, l’armata in rotta impose la legge marziale1, applicata con il pugno di ferro dal suo leader, il «generalissimo» Jiang Jieshi (da noi meglio noto come Chiang Kai-shek). Egli rimase al potere fino al 1975, anno della sua morte. A tutt’oggi non è mai stata firmata ufficialmente una tregua tra i due contendenti, né tanto meno la pace.

Un governo autoritario e anticomunista

Nel 1945, la gran parte della popolazione taiwanese parlava correntemente il giapponese2. Nell’ottobre di quell’anno, dopo la resa dei Giapponesi, il territorio dell’isola fu affidato dall’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) al governo della «Repubblica di Cina» che era in lotta con la «Repubblica popolare» che aveva la propria capitale a Pechino. Fu inevitabile qualche problema comunicativo, dato che a Taiwan il giapponese era stato per decenni la lingua ufficiale, mentre la popolazione parlava dialetti hoklo, hakka o idiomi aborigeni. Da parte loro, i nuovi occupanti, arrivati dal continente, parlavano prevalentemente dialetti di Pechino e di Shanghai. Dopo il «massacro 228»3 del febbraio ‘47, il cinese mandarino divenne la lingua ufficiale dell’amministrazione statale e l’unica impiegata nell’insegnamento, mentre l’uso pubblico di altre lingue fu pesantemente sanzionato.

La politica fortemente anticomunista di Chiang Kai-shek gli procurò per molti anni l’appoggio politico incondizionato e gli aiuti economici degli Stati Uniti e di tutte le potenze occidentali, che vedevano in lui il governo legittimo di tutta la Cina. Solo nel 1979 gli Usa instaurarono relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare. Nel frattempo (1971) Taiwan aveva perso il proprio seggio all’Onu e nel Consiglio di sicurezza, seggi che vennero ambedue trasferiti al governo di Pechino.

Per quasi quarant’anni Taiwan fu governata in modo autoritario da leader tutti nati sul continente, in una realtà sociopolitica piuttosto differente da quella isolana. Ogni protesta venne repressa con la violenza. Poi, lentamente, a partire dal 1987 si verificò un processo di liberalizzazione che nel 2000 portò per la prima volta alla vittoria elettorale di un partito diverso dal Kmt: quello Progressista democratico. Ma se il Kmt aveva sempre sostenuto l’unità di tutta la Cina, includendo quindi il grande territorio continentale, il nuovo governo sembrava invece intenzionato a dichiarare l’indipendenza completa dell’isola. Ciò causò forti tensioni con Pechino, che minacciò di attaccare militarmente l’isola, considerata una provincia ribelle. Non era la prima volta che Pechino mostrava i muscoli. A queste minacce gli Stati Uniti, alleati di Taiwan per la comune ideologia anticomunista, avevano sempre risposto ribadendo il loro impegno a difesa dell’isola, arrivando anche a far passare le loro possenti portaerei nello stretto di Formosa che separa i due rivali. Nel 2000 la situazione si risolse fortunatamente in modo pacifico, ma fu chiaro che la questione dell’indipendenza dell’isola poteva costituire un casus belli capace di provocare un conflitto su grande scala. Notiamo anche come nel 2005 il parlamento cinese abbia approvato la cosiddetta legge antisecessione, che autorizza il governo ad usare la forza militare nel caso l’isola ribelle dichiari l’indipendenza.

La complessa situazione sino-taiwanese si può riassumere, almeno nei suoi aspetti essenziali, in alcuni punti che proviamo a descrivere.

Il peso della storia

Negli scorsi due secoli l’interazione della Cina con il mondo esterno, in particolare occidentale e giapponese, non è certo stata felice. Ha subito aggressioni e invasioni militari, perdite territoriali e trattati iniqui, obbligo di legalizzare l’importazione di oppio x riequilibrare la bilancia dei pagamenti altrui4. La proverbiale lunga memoria cinese fa sì che il ricordo di queste vicissitudini sia ancora vivo. Questo aiuta, almeno in parte, a spiegare il difficile rapporto odierno che intercorre tra Pechino e Washington e di cui accenniamo nel seguito.

Due regimi autoritari

Cina e Taiwan hanno entrambe avuto regimi autoritari che, se da una parte hanno represso violentemente qualunque richiesta democratica, negli ultimi decenni hanno anche garantito un progresso economico impressionante.

Se a tutt’oggi la Cina è ancora caratterizzata da un regime totalitario, Taiwan si è incamminata su un positivo percorso di democratizzazione che ne ha ormai fatto un esempio per tutto il mondo. Le elezioni si svolgono regolarmente e hanno garantito una salutare alternanza dei partiti al potere.

Grande famiglia

La Cina vanta una civiltà antichissima e prestigiosa, che ha esportato filosofia e scrittura (in una parola sola: «cultura») in tutto l’estremo oriente. Come tale si ritiene un po’ «l’ombelico del mondo», almeno di quello dell’Asia dell’Est. Per i suoi governanti e anche per i normali cittadini, quindi, può risultare difficile capire ed accettare che una piccola popolazione come quella di Taiwan5 possa non desiderare di far parte della grande famiglia, specie in un momento come quello attuale, nel quale la Cina è diventata una grande potenza, rispettata dal mondo intero.

No all’indipendenza

Si può pertanto capire come la pretesa ideologica di avere una Cina unificata, comprendente la parte continentale e l’isola, sia ancora saldissima a Pechino (mentre è passata del tutto in secondo piano a Taiwan). L’unificazione di tutte le popolazioni parlanti i vari dialetti cinesi e la completezza territoriale vengono viste come il passo finale del recupero di dignità nazionale, dopo i tristi eventi del passato che avevano fatto «perdere la faccia» a questo paese (e per la cultura cinese non c’è cosa peggiore). Il partito comunista cinese (che ormai di comunista ha ben poco, ma questo è un altro discorso) e quasi tutta la popolazione sinica del continente (martellata per decenni dalla propaganda ufficiale) sono convinti che una ipotetica dichiarazione di indipendenza taiwanese sia del tutto inaccettabile e che essa debba essere impedita a qualunque costo, anche arrivando a scatenare una guerra.

Qualche anno fa, parlando con giovani universitari cinesi, a cui avevo chiesto cosa avrebbero fatto nel caso in cui Taiwan avesse dichiarato l’indipendenza da Pechino, mi colpì molto sentirmi dire all’unisono «ci arruoliamo come volontari per andare a combattere per l’unita della patria». Non ci fu modo di farli recedere da questa posizione, nemmeno facendo notare loro che, stante l’ancora enorme vantaggio militare che gli Stati Uniti possiedono sulla Cina, ciò avrebbe comportato pesantissime distruzioni per il loro paese, e un probabile blocco del suo sviluppo economico. Ma niente e nessuno poteva scalfire il sentimento patriottico di costoro. E questi giovani rappresentavano l’elite colta e preparata del paese, non il popolino, così facile a farsi influenzare dalla propaganda governativa.

Pechino: integrità territoriale e sviluppo economico

La Cina, governata quasi sempre durante la sua plurimillenaria storia da regimi totalitari, è riuscita a modernizzarsi nel giro di pochi decenni e a trarre dalla miseria più nera centinaia di milioni di cittadini. Nel corso degli ultimi secoli, molto raramente ha intrapreso azioni aggressive nei confronti degli stati vicini e non ha mai avuto particolari tendenze espansioniste, mirando invece a mantenere la propria integrità territoriale, spesso minacciata dalle potenze occidentali e dal Giappone, e concentrandosi su un accelerato sviluppo economico.

Il ruolo degli Stati Uniti

Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, temendo l’espansione del comunismo, appoggiarono senza esitazioni il regime del Kmt, a prescindere dalla natura dittatoriale, violenta e repressiva che lo stesso ha mantenuto fino al 1987. Questo comportamento non era propriamente consono al propagandato impegno americano per la democrazia e i diritti umani (valori che oltretutto si incolpava la Repubblica popolare di non possedere).

Gli Stati Uniti hanno esercitato una fortissima influenza politica, economica e culturale su Taiwan. Molti taiwanesi hanno studiato o lavorato negli Usa e non sono poche le persone appartenenti all’elite governativa, militare ed economica in possesso della doppia cittadinanza. È forse per questo che taluni di questi sono visceralmente anti-Pechino, e sono favorevoli ad opporsi con ogni mezzo militare alle pressioni cinesi, disposti anche ad una guerra totale pur di mantenere l’indipendenza dell’isola, che sarebbe però presumibilmente ridotta ad un cumulo di macerie. Viene da sospettare che persone di questo tipo abbiano posizioni così estreme in quanto, in tale sfortunato caso, loro potrebbero comunque sempre tornare a vivere in America.

Aggiungo un piccolo aneddoto: nel corso di un convegno, un tecnico che lavora nel settore armiero sostenne il concetto che i taiwanesi avrebbero un «diritto umano» a dotarsi di ogni genere di armamenti, anche dei più distruttivi.

Nell’ottica di Pechino è indubbio che gli Usa abbiano ripetutamente interferito nelle loro questioni interne: Pechino considera che il rapporto con Taiwan rientri in quell’ambito. L’ingerenza americana non sarebbe che l’ultima in ordine di tempo, dopo quelle avvenute nel passato da parte di molte potenze europee (Italia inclusa) e del Giappone. Anche per questo motivo, gli interventi americani rivestono particolare importanza, riaprendo la piaga delle antiche umiliazioni e dei tanti soprusi subiti. Dall’altro lato l’utilità per gli Usa di disporre di un fidatissimo alleato a poche centinaia di chilometri dalle coste cinesi è evidente, specie dal punto di vista militare. Per gli Usa, Taiwan è come un’inaffondabile portaerei da cui poter influenzare, spiare, attaccare il territorio estremo asiatico e chiaramente hanno tutto l’interesse a che questa situazione si prolunghi il più possibile.

Differenze e timori

II tre decenni trascorsi dall’inizio del processo di liberalizzazione a Taiwan hanno fatto sì che, specialmente le nuove generazioni, si siano abituate a vivere in democrazia e ad apprezzarne i vantaggi, in termini soprattutto di libertà di parola, espressione e movimento.

Notevole è la differenza con la situazione politica della Cina continentale, ove il regime è totalitario, non accetta nessun dissenso, limita la libertà di stampa, incarcera chi vuole. Sulla base di queste grandi differenze, è facilmente comprensibile come quella parte di popolazione taiwanese più affezionata all’ideale democratico veda con grande preoccupazione la possibilità di un’annessione da parte di Pechino.

Mirco Elena
(prima parte- continua)




Cina: Calcio, se Pechino porta il pallone


Acquisto di squadre europee e italiane. Ingaggi di giocatori e allenatori famosi. Il tutto mettendo sul piatto investimenti milionari. La Cina è entrata nel business del calcio con la forza della sua potenza economica. Cosa sta dietro un fenomeno che ha assunto proporzioni gigantesche? Una cosa è certa: la passione calcistica del presidente Xi Jinping non spiega tutto.

Il calcio moderno è un prodotto britannico della seconda metà del XIX secolo. Il calcio antico invece fu inventato nella Cina imperiale di qualche millennio fa, con il nome di cuju (??). A quei tempi non era visto come un gioco competitivo a squadre, ma solo come un tipo di allenamento adatto per i soldati. Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Tuttavia il calcio, come noi lo abbiamo sempre inteso in Europa o in Sud America, non ha mai attecchito veramente né nella Cina antica né nella Cina moderna. Solo di recente, a partire dalla primavera del 2015, grazie alle politiche governative promosse da Pechino a favore del gioco del calcio e al diretto interessamento di grandi gruppi economici cinesi pubblici e privati, su tutti il gruppi Wanda, Suning, Alibaba, Evergrande, la passione del calcio giocato sembra cominciare molto lentamente a conquistare i cuori e le menti dei giovani cinesi.

((Xinhua/Li Xiang)

Ma spendere non basta

Nel 1930 si ebbe la prima edizione del Campionato del Mondo di calcio. La grande Italia di Pozzo lo vinse nel 1934 e nel 1938. Poi fu la volta, molti anni dopo, degli azzurri guidati da Bearzot nel 1982 e di quelli allenati da Lippi nel 2006. Detto ciò, pensiamo che solo nel 2001 la squadra nazionale cinese è riuscita a qualificarsi alla fase finale di un Campionato del mondo, che in quell’occasione si tenne per la prima volta in Asia, diviso tra Giappone e Corea del Sud. Tuttavia, la nazionale cinese venne subito eliminata, perdendo le prime tre partite. Un altro dato: solo nel 2013 fu vinta la prima Coppa dei campioni asiatica da parte di una squadra professionista cinese, il Guangzhou Evergrande della città di Canton, nel Sud della Cina.

Il fenomeno calcistico cinese si sta sviluppando in parallelo alla crescita economica del paese e in conseguenza dell’introduzione nella Cina comunista dei primi istituti giuridici e delle prime pratiche proprie del capitalismo. Il calcio dei professionisti in Cina è stato quindi istituito solo nel 1994. Il primo contatto diretto tra calcio cinese e calcio italiano si ebbe nel 2000, quando il giocatore Ma Mingyu venne ingaggiato dalla squadra del Perugia. Ma solo nel 2004, con l’istituzione della Super League, il campionato di serie A cinese passò da attività di dilettanti a lavoro da professionisti.

In ogni caso, prima di poter affermare che il popolo cinese sia diventato un popolo di calciofili e aspiranti campioni del pallone passeranno probabilmente ancora molti anni. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, tutto questo investire capitali e parlare di calcio potrebbe essere semplicemente un fuoco di paglia, come ad esempio fu del tentativo, portato avanti fra gli anni Settanta e Ottanta, di far appassionare gli statunitensi al gioco del calcio.

Nel frattempo, quest’anno il calciomercato cinese si è rivelato il quinto più ricco al mondo, dopo quelli relativi ai campionati inglese, tedesco, spagnolo, italiano, con un esborso da parte delle squadre cinesi di quasi 545 milioni di dollari, una cifra triplicata rispetto a un anno prima.

Un tifoso d’eccezione: Xi Jinping

Il presidente della Repubblica popolare, nonché segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha più volte ribadito che il grande sogno cinese di rinascita patriottica non è per nulla slegato dal gioco del calcio. A partire da una visita ufficiale in Corea del sud nel 2011, quando era ancora vicepresidente, prospettò al mondo un triplice obiettivo per la Cina: qualificarsi per un Mondiale, ospitare un Mondiale e vincere un Mondiale entro il 2050. Costruire le premesse per la vittoria della Coppa del Mondo di calcio entro il 2050 sarebbe la ciliegina sulla torta dei festeggiamenti previsti nel 2049 per l’anniversario dei cento anni della dichiarazione di indipendenza del paese, avvenuta sotto la guida di Mao Zedong nel 1949.

La direzione è quindi tracciata e tutti devono agire uniformandosi a questa linea politica. Il calcio non è solo un passatempo per il pubblico o un business fruttuoso per gli investitori e gli sponsor, ma in Cina diventa un fatto politico e sociale di fondamentale importanza. Si tratta del grande sogno del rinascimento cinese.

Nei soli ultimi due o tre anni, tra campagna acquisti di giocatori, acquisto di squadre di calcio estere – tra cui Manchester City, Wba, Aston Villa, Birmingham, Wolverhampton, Atletico Madrid, Espanyol, Granada, Sochaux, Auxerre, Nizza, Lione e le italiane Inter e Milan -, e l’ammodernamento delle infrastrutture, si sono già spesi diversi miliardi. E siamo solo agli inizi. Ma coloro che ne hanno saputo approfittare più di altri sono i cosiddetti immobiliaristi. Cioè tutti quegli imprenditori che si sono arricchiti con la speculazione edilizia, la quale ha come controparte le realtà governative ad ogni livello. Infatti i terreni in Cina sono statali e per renderli edificabili servono i permessi amministrativi. Così gli immobiliaristi sono tra gli imprenditori più ricchi, ma anche quelli più dipendenti dai rapporti con la politica. Non stupisce quindi che nella China Super League, il campionato di serie A in corso, 11 squadre su 16 abbiano proprietari i cui affari sono riconducibili anche al settore immobiliare.

Lippi e gli altri: tanti stranieri, pochi nativi

Nel 2011 per le squadre di calcio cinesi si aprì il mercato degli acquisti all’estero. Il primo giocatore straniero ad essere ingaggiato fu il centrocampista argentino Dario Conca, che giocava nella serie A brasiliana, il quale venne acquistato dalla squadra cinese del Guangzhou Evergrande con un ingaggio milionario. Ovviamente le immense disponibilità valutarie, anche in valuta estera, che caratterizzano ancora oggi l’economia cinese, da quel momento cominciarono ad essere investite nel nascente mondo del calcio cinese. Così un solo anno più tardi, nel 2012, anche Marcello Lippi, di fronte all’offerta di parecchi milioni, accettò di fare l’allenatore del Guangzhou Evergrande, riportando diverse vittorie sia in campionato che nelle coppe, come la vittoria, ricordata sopra, nella Champions League asiatica nel 2013. Attualmente Lippi allena la nazionale cinese.

Altri giocatori e tecnici italiani lo hanno seguito nella nuova avventura. Parliamo tra i primi di Gilardino, Cannavaro e Diamanti. Nel 2016 un altro importante allenatore italiano, Alberto Zaccheroni, approda al massimo campionato cinese nella squadra del Beijing Guoan. Ai cinesi serviva avere in casa buoni esempi di calcio giocato e altrettanti buoni modelli tecnici e tattici, da cui imparare e prendere spunto per migliorare le prestazioni sul campo. I campioni e gli allenatori stranieri ingaggiati a suon di milioni da parte loro non hanno deluso le aspettative. Così nel mondo del calcio cinese si è avviato un volano positivo fatto di investimenti, di ingaggi e di buoni giocatori e tecnici venuti dall’estero, brasiliani, francesi, italiani, africani, giapponesi, sudcoreani. Tra i tanti, troviamo anche Oscar, Hulk, Alex Teixeira, Jackson Martinez, Ramires, Gervinho, Guarin, Burak Y?lmaz, Lavezzi, Tevez, Felipe Scolari e l’italiano Pellè. Tuttavia quello che ancora manca non è tanto la bravura degli stranieri, ma la qualità dei nativi. Insomma alla Cina manca un numeroso e forte vivaio di giocatori giovani nati e cresciuti in Cina.

Scuola calcio, campi e corruzione

Nonostante i cospicui investimenti, la mancanza di talenti cinesi si fa sentire in modo negativo nel calcio cinese, soprattutto durante le partite della nazionale, che, dopo il 2 a 2 con la Siria (giugno 2017), è già praticamente eliminata dalla corsa di qualificazione al Campionato del mondo del 2018, che si terrà in Russia. Per ovviare alla mancanza di talenti tra le fila dei giovani cinesi, il vicepresidente della Federazione calcistica cinese, Wang Dengfeng ha dichiarato che è operativo un piano nazionale per legare l’attività calcistica ai piani di educazione dei giovani studenti nelle scuole, con l’annuncio della creazione entro il 2025 di cinquantamila scuole di calcio o meglio veri e propri collegi super attrezzati e con partnership straniere, ognuno dei quali sarà in grado di formare un migliaio di nuovi giocatori; col fine di portare a cinquanta milioni il numero di giocatori di calcio in Cina, di cui almeno centomila di livello. Si procederà anche alla costruzione di 70 mila nuovi campi sportivi nelle contee sparse per tutto il paese.

Dove girano molti soldi però la corruzione è in agguato. La Cina in questo non fa certo differenza rispetto a tutti gli altri paesi. Per combattere i fenomeni devianti legati allo scambio di «favori» e di mazzette, il presidente Xi Jinping già dal suo insediamento, come vertice politico della Repubblica popolare cinese, ha dichiarato la caccia aperta alle cosiddette «tigri», cioè gli alti funzionari corrotti nel partito e nell’amministrazione; alle «mosche», i medi e piccoli funzionari corrotti e infine alle «volpi», cioè tutti quelli che sono scappati all’estero col maltolto.

Buchi di bilancio e nuove regole

Anche il sogno, legato alla diffusione del gioco del calcio nel paese, rischiava di trasformarsi in un incubo. Infatti come un treno, che sta per deragliare, i denari spesi negli acquisti all’estero e negli ingaggi dei giocatori stranieri sono cominciati ad apparire davvero eccessivi, anche per le ricche tasche cinesi. Il calcio non è diverso da qualsiasi altro settore economico e dovrà uniformarsi alle stesse limitazioni e agli stessi controlli delle autorità governative. Così di fronte a un buco complessivo di 670 miliardi di dollari, non si può far altro che constatare che a fronte di miliardi di investimento ancora non si producono utili. Ognuna delle sedici squadre che partecipano alla Super League ha, in media, una perdita finanziaria di 74 milioni di dollari. La responsabilità di tutto ciò è anche da ascrivere all’incapacità dimostrata dalle squadre di fidelizzare i tifosi e di sviluppare il settore del merchandising. Su queste basi l’Amministrazione generale dello sport cinese ha dettato nuove regole, imponendo, oltre a un tetto per le spese durante il calcio mercato, anche il limite di cinque stranieri in squadra, di cui solo tre schierabili durante la partita, e due giovani cinesi con meno di ventitré anni, uno dei quali da schierare dal primo minuto. Una stretta governativa è stata data anche all’esportazione dei capitali fuori dalla Cina, creando anche difficoltà alle normali transazioni per l’acquisto di squadre e giocatori.

Tuttavia, come ricorda Pan Gongsheng, vice governatore della Banca centrale cinese, le autorità governative non hanno deciso di bloccare i capitali finalizzati al potenziamento del settore calcistico, ma hanno semplicemente cercato di razionalizzare il settore sotto l’aspetto finanziario e di sensibilizzare gli imprenditori legati al calcio sulla fondamentale prospettiva di avere un modello di bilancio sostenibile sul medio-lungo periodo. Ma anche evitare che, con la scusa degli investimenti, si nascondano capitali all’estero, creando fondi neri fuori dalla possibilità di controllo della pubblica amministrazione.

Una tradizione non si costruisce a tavolino

Il calcio non fa parte della tradizione cinese. Il governo sta tentando di farne un’industria prima ancora che una consuetudine popolare. La strada si prospetta lunga e tortuosa. La ricchezza non sempre va a braccetto con il genio calcistico. Per vedere i primi campioni cinesi dovremo aspettare almeno una generazione e non è detto che provengano dalle accademie del calcio progettate dai burocrati di stato.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)