Il ruolo della Cina e i primi passi di Biden

testo di Chiara Giovetti |


Il disinteresse della scorsa amministrazione Usa per la cooperazione ha contribuito all’espansione dell’influenza cinese, specialmente nelle organizzazioni internazionali. L’aiuto allo sviluppo, ma soprattutto gli investimenti cinesi, infatti, sono in forte crescita già da un ventennio. Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, dovrà trovare una mediazione fra la fermezza verso Pechino e il riparare e ricostruire quanto cambiato o demolito da Trump.

Quattro delle principali quindici agenzie delle Nazioni Unite hanno un cittadino cinese come direttore o segretario generale: al primo mandato sono Fang Liu, che guiderà l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) fino al prossimo luglio, e Qu Dongyu che sarà fino al 2023 il direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si concluderà invece alla fine di quest’anno il secondo mandato di Li Yong all’Agenzia per lo sviluppo industriale (Unido), mentre Houlin Zhao, riconfermato nel 2018 alla testa dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), occuperà la posizione fino alla fine del 2022.

Una maggior presenza di una potenza come la Cina nelle istituzioni internazionali è del tutto fisiologica; ma per farsi un’idea del peso che Pechino sta acquisendo basta pensare che le altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia hanno loro cittadini alla guida di una sola agenzia ciascuno@.

Honk Hong /AfMC

Centri d’influenza

Le agenzie Onu non sono molto note ai non addetti ai lavori, ma il loro operato riguarda ambiti con i quali milioni di persone vengono a contatto quotidianamente e non solo nei paesi in via di sviluppo. L’Unione internazionale per le telecomunicazioni, ad esempio, ha fra i suoi incarichi quello di elaborare le norme tecniche per il funzionamento delle reti dell’informazione e della comunicazione senza le quali, si legge sul sito dell’organizzazione, «non sarebbe possibile fare una telefonata o navigare in Internet. Per l’accesso a Internet, la compressione vocale e video, le reti domestiche e molti altri aspetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, centinaia di standard Itu consentono ai sistemi di funzionare, a livello locale e globale»@.

Un esempio delle diatribe che possono sorgere intorno ai temi di cui si occupa l’Itu si è avuto assistendo allo scontro fra l’amministrazione guidata da Donald Trump e la Cina a proposito delle tecnologie di telefonia mobile e cellulare di quinta generazione, o 5G, e del ruolo che l’azienda cinese Huawei ha nella produzione della componentistica e nella costruzione dell’infrastruttura necessaria a far funzionare queste tecnologie. I timori avanzati dal governo statunitense, spiegavano in un articolo del 2019 Alberto Belladonna e Alessandro Gili del centro di ricerca Ispi, riguardavano principalmente la possibilità che i dispositivi Huawei vengano usati per attività di «sorveglianza o spionaggio sulle reti digitali americane» e il fatto che «utenti, aziende e istituzioni sempre più interconnesse saranno più vulnerabili a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese». A questo, sottolineavano gli autori, va aggiunta la competizione relativa alla definizione delle norme di riferimento: «l’International telecommunication union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori»@.

A prendere posizione a favore di Huawei è stato proprio il direttore dell’Itu, Houlin Zhao: quelle statunitensi sono preoccupazioni generate dalla politica e dagli interessi commerciali, ha detto il funzionario cinese, non dalla presenza di prove concrete.

Il pasticcio alla Fao

Anche la Fao, precisa un’analisi di Colum Lynch e Robbie Gramer apparsa nel 2019 sulla rivista Foreign Policy, ha un ruolo importante che riguarda tutti i paesi del mondo, non solo quelli a basso e medio reddito. L’agenzia, infatti, contribuisce a definire la regolamentazione internazionale per la sicurezza degli animali e la salubrità del cibo, e svolge un ruolo chiave nell’elaborazione di risposte alla fame globale, ai cambiamenti climatici causati dalla produzione alimentare e alle esigenze delle agroindustrie@.

L’elezione a direttore della Fao di Qu Dongyu è stato un altro evento indicativo dell’intenzione della Cina di ottenere più posizioni di potere nelle agenzie Onu, e avrà conseguenze anche sulla nomina del prossimo direttore del World food programme (Wfp, Programma alimentare mondiale), l’agenzia che si occupa di assistenza alimentare e che dal 1982 è guidata da un cittadino statunitense. Sarà il direttore della Fao, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a scegliere nel 2022 il prossimo direttore del Wfp e ad «approvare tutte le nomine del personale di alto livello presso l’agenzia, complicando i futuri sforzi degli Stati Uniti per mantenere il loro ruolo dominante».

L’elezione di Qu – figlio di un coltivatore di riso e biologo con alle spalle anche una solida carriera in scienze agrarie e ambientali – è la conseguenza di tre fattori, il primo dei quali è la campagna elettorale molto decisa che la Cina ha fatto per il proprio candidato. Foreign Policy riporta un articolo della Cnn secondo il quale nel febbraio del 2019, pochi mesi prima dell’elezione del direttore generale, un alto funzionario cinese si è recato in Camerun per annunciare la cancellazione di 78 milioni di dollari dal debito del paese africano con Pechino. Un mese dopo il candidato camerunese alla direzione della Fao si è ritirato, facendo sospettare a molti osservatori un legame fra i due eventi.

Il secondo fattore è la confusa e maldestra gestione della vicenda all’interno dell’amministrazione Trump, dove si è consumato uno scontro fra i funzionari più vicini all’ex presidente – cristallizzati sull’appoggio a un candidato debole come l’ex ministro dell’agricoltura georgiano Davit Kirvalidze – e i funzionari più aperti a considerare altri profili da sostenere. Il terzo fattore è stato la mancanza di collaborazione, se non l’aperta ostilità, fra gli Usa di Trump e i paesi europei, compatti invece nel sostegno alla candidata francese, l’agronoma Catherine Geslain-Lanéelle.

«La leadership cinese non è intrinsecamente cattiva», ha spiegato a Foreign policy kristine Lee, del centro studi Center for a new American security, «in una certa misura, gli Stati Uniti dovrebbero essere contenti che Pechino stia cercando di assumersi maggiori responsabilità nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che sta abusando di questa responsabilità. I funzionari cinesi riferiscono a Pechino e prima di tutto servono gli interessi ristretti del Partito comunista cinese, invece di promuovere veramente il multilateralismo e rafforzare la trasparenza e la responsabilità alle Nazioni Unite».

Piazza Tienanmen a Pechino /AfMC

L’aiuto cinese e la nuova agenzia

Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 la cooperazione allo sviluppo internazionale della Cina ha raggiunto 4,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2017. Un miliardo e quattrocento milioni sono andati alla cooperazione multilaterale, cioè alle banche di sviluppo regionale, specialmente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), e alle agenzie delle Nazioni Unite@.

Il dato Ocse è inferiore a quello fornito dall’Agenzia per la cooperazione giapponese, secondo la quale l’aiuto (stimato) della Cina è aumentato da 5,1 miliardi di dollari nel 2015 a 5,9 sia nel 2018 che nel 2019. L’aiuto sarebbe costituito da donazioni bilaterali e prestiti senza interessi per circa la metà, mentre un quinto andrebbe in prestiti agevolati del governo cinese ai paesi beneficiari e il restante 30% in contributi alle organizzazioni internazionali@.

Il dato più alto è quello calcolato dal sito Aiddata, che considera però anche gli impegni dichiarati (commitments) e non soltanto i fondi effettivamente sborsati; secondo Aiddata l’aiuto cinese è aumentato da un miliardo e 300 milioni del 2000 ai 6,9 miliardi del 2014, con una punta di quasi 14 miliardi nel 2009. Nel quindicennio, quindi, la Cina avrebbe fornito aiuti allo sviluppo per 81 miliardi. Nello stesso periodo, il dato per gli Usa – principale donatore mondiale – è di 366 miliardi di dollari@. La China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University presenta invece cifre più basse, che vanno dai poco più di 600 milioni del 2003 ai 3 miliardi del 2019@.

Il motivo delle discrepanze tra i dati delle diverse ricerche è che la Cina non riporta i propri dati a nessun ente internazionale e tutte le stime si basano dunque su complesse ricostruzioni che raccolgono e incrociano i dati pubblicati da ministeri, ambasciate, aziende, banche e altri enti cinesi con quelli messi a disposizione dalle agenzie Onu e da altre organizzazioni alle quali la Cina contribuisce. Tutte le stime dell’aiuto cinese, comunque, puntano nella direzione di una crescita decisa.

Inoltre, la Cina ha creato nell’aprile 2018 l’Agenzia cinese di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Cidca). Secondo diverse analisi, fra cui quelle del centro di ricerca Brookings@ e del Centro per lo sviluppo globale@, l’agenzia è nata con lo scopo di riorganizzare e dare maggiore coerenza alla cooperazione allo sviluppo cinese. Fino al 2018 era l’ufficio per l’aiuto estero del ministero del Commercio a fare da coordinatore, ma i progetti e gli interventi veri e propri venivano affidati a numerosi ministeri e istituzioni finanziarie cinesi, generando così una dispersione delle responsabilità sulla gestione dei fondi e notevoli difficoltà di coordinamento.

Se, da un lato, Cidca ha effettivamente un ruolo centrale nella definizione della strategia e nella formulazione dei progetti, oltre che nel monitoraggio di lungo termine alla fine degli interventi; la gestione dei fondi e le fasi centrali della progettazione rimangono al ministero del Commercio. Per il momento, quindi, l’agenzia appare come la faccia della cooperazione cinese da mostrare ai partner internazionali più che l’ente che effettivamente organizza e gestisce i fondi dell’aiuto.

Per farsi un’idea del ruolo di Cidca basta pensare che i fondi su cui ha contato nel 2019 sono stati, secondo Brookings, l’equivalente di 18 milioni di dollari, a fronte dei 2,63 miliardi ancora gestiti dal ministero del Commercio per aiuto allo sviluppo. Nello stesso anno Usaid, l’agenzia per la cooperazione degli Stati Uniti, ha amministrato 20 miliardi di dollari dei circa 35 destinati all’aiuto allo sviluppo nel bilancio americano.

Il grosso dei flussi finanziari della Cina a sostegno dello sviluppo è sempre stato e continua a essere costituito non dal cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, o Oda nell’acronimo inglese), ma da quelli che, nella classificazione dell’Ocse, si chiamano altri apporti del settore pubblico (Oof, Other financial flows). Sono transazioni che comprendono una percentuale di dono – cioè di fondi che non devono essere restituiti al donatore – inferiore a quella che l’Ocse richiede per classificarli come aiuto@ e operazioni finanziarie bilaterali che hanno principalmente uno scopo di facilitazione delle esportazioni. Secondo Aiddata, questi flussi cinesi sono stati pari a 216,3 miliardi di dollari complessivi fra il 2000 e il 2014, mentre quelli degli Usa sono stati di 28,1 miliardi.

Casa Bianca. /AfMC

L’amministrazione Biden

I primi atti del nuovo presidente americano Joe Biden per quanto riguarda la cooperazione internazionale sono stati di decisa rottura rispetto alla precedente amministrazione. Biden ha ordinato il rientro degli Usa nel trattato di Parigi sul clima e ha annullato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità@.

Tuttavia, secondo Devex, piattaforma online che si occupa di sviluppo@, alcune iniziative lanciate dall’amministrazione Trump hanno buone probabilità di rimanere in piedi, a cominciare dalla riforma di Usaid e dalla Development finance corporation (Dfc), l’ente che usa fondi pubblici per sostenere gli investimenti privati americani in paesi a basso e medio reddito. La Dfc, spiega Daniel Kilmann del Center for a new American security@ disporrà di più risorse, rispetto agli enti che l’hanno preceduta, per «stimolare la partecipazione del settore privato nei progetti all’estero» e va utilizzata in modo efficace se si vuole competere con la Cina e la sua iniziativa nota come Nuova via della seta. Ma, puntualizza Devex, i sostenitori della cooperazione ritengono anche fondamentale assicurarsi che siano le esigenze dello sviluppo e non gli interessi economici e di politica estera a guidare la strategia della Dfc.

Chiara Giovetti




Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino

testo e foto di Piergiorgio Pescali | A cura di Paolo Moiola |


Indice


Le scelte di Pechino

Unità e armonia: lo stato viene prima

Il paese deve muoversi all’unisono e sotto la stessa direzione. Gli obiettivi da perseguire sono gli stessi ovunque. Per questo non sono ammissibili spinte separatiste come ad Hong Kong, in Tibet e nello Xinjiang.

Nell’ottobre 2012 il New York Times pubblicò un articolo che rendeva noti documenti fuoriusciti dal Partito comunista cinese in cui si denunciava che la famiglia del primo ministro Wen Jiabao e il premier stesso avevano accumulato un’immensa fortuna pari a 2,7 miliardi di dollari. Wen Jiabao avrebbe dovuto lasciare la carica di primo ministro il marzo successivo (2013), quindi la fuga di documenti sembrava poco significativa. In realtà questo scoop funzionò da volano a un emergente Xi Jinping per fare piazza pulita di una classe politica cinese che, sin dal IV Plenum del XI Congresso del Pcc del settembre 1979, stava lasciando sempre più spazio ai privati.

Un mese dopo lo scoop del New York Times, Xi Jinping venne nominato segretario del Partito comunista cinese, presidente della Commissione militare centrale e, nel marzo 2013, presidente della nazione, ruoli che occupa tuttora.

Conversazione tra uomini al mercato degli animali di Hotan, città agricola nel bacino idrografico del Tarim, in gran parte occupato dal deserto di Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

La Cina di Xi Jinping

In sette anni Xi Jinping ha stravolto la Cina riproponendo una nazione al centro dell’economia mondiale, ha lanciato Pechino verso una contrapposizione militare nel settore dell’Oceano Pacifico e ha realizzato con successo ciò che Mao Zedong aveva iniziato negli anni Sessanta: diventare, specialmente per le nazioni asiatiche, un polo d’attrazione alternativo sia agli Stati Uniti che alla Russia.

Tutto questo è stato possibile concentrando su un unico nucleo il fulcro decisionale del paese. Comunque la si voglia guardare, Xi ha mosso, almeno sino a oggi, con sapienza e cinismo i propri pezzi sulla scacchiera geopolitica mondiale. Il pensiero di Xi Jinping, ufficializzato dal 19° Congresso del partito nel settembre 2017, ha elevato il presidente cinese a nuovo timoniere. Non un nuovo Mao, come spesso lo si preferisce definire, ma una nuova guida che miscela con attenzione il totalitarismo maoista con l’iniezione di liberismo economico introdotta da Deng Xiaoping. Carburando con cura le due idee, diluendole con mirati interventi economici statali, il razzo cinese lanciato da Xi è riuscito a decollare superando anche le prove più critiche che si sono via via frapposte: il programma nucleare nordcoreano, la crisi con gli Stati Uniti e, ultima in ordine cronologico, il coronavirus.

Per permettere la gestione ottimale della spinta economica e politica cinese al di fuori dell’orbita nazionale, occorre in primo luogo che tutto il paese cooperi all’unisono per gli stessi obiettivi e sotto un’unica direzione. Ogni tentativo di deriva nazionalista, di autonomia più accentuata, di critica verso la cabina di comando, potrebbe interrompere il flusso di carburante o il giusto equilibrio dei vari elementi, e deviare il missile cinese dalla propria traiettoria rischiandone la distruzione.

In un discorso chiave tenuto all’Università di Pechino il 4 maggio 2014, il presidente cinese affermava che «i valori fondamentali che la nostra nazione e il nostro stato devono difendere sono quelli di prosperità, democrazia, civiltà e armonia; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia al fine di coltivare e mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo. Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti allo stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti alla società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti al cittadino».

La risposta alle rivolte centrifughe

Quelle parole invocavano maggiore unità dei cinesi a tutti i livelli (e, al tempo stesso, una maggiore responsabilità dello stato), ma anche la consapevolezza che, in un paese così diversificato, multiculturale e multireligioso come la Cina, occorreva sacrificare parte della propria libertà per progredire nel campo economico e sociale. Non era un concetto nuovo: la socializzazione e la cooperazione collettiva sono alla base dei valori asiatici, ma la volontà di democrazia, di benessere individuale, di edonismo portata dalle aperture politiche avvenute sin dagli anni Ottanta, avevano sfaldato parte di queste fondamenta e rischiavano di privare il gigante cinese delle solide basi su cui era stata costruita la nazione dopo l’avvento di Mao Zedong.

Da qui alle repressioni delle rivolte centrifughe nelle aree più delicate, come il Tibet, la Mongolia interna e Hong Kong, il passo è breve.

Tra tutte queste richieste di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza, e il loro conseguente soffocamento, quella dello Xinjiang è la meno conosciuta al di fuori della Cina per i non addetti ai lavori. La storia che lega Hong Kong all’Occidente ha permesso ai media di cavalcare l’onda delle proteste, mentre la grande diffusione di pratiche legate al buddhismo e la fortuna della figura del Dalai Lama hanno permesso di mantenere vive le manifestazioni a favore del popolo tibetano. La stessa attenzione non è stata concessa agli Uiguri, la cui lotta non appassiona gli animi di chi accusa Pechino di ledere i diritti umani e di opprimere le istanze autonomiste di interi popoli.

Piergiorgio Pescali

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Lo Xinjiang

  • Divisione amministrativa: regione autonoma dello Xinjiang.
  • Superficie: 1,66 milioni km2, con un’estesa parte desertica (deserto del Taklamakan).
  • Abitanti: 24,5 milioni.
  • Gruppi etnici (2018): Uiguri (46,4%), Han (39%), Kazaki (6,5%), Hui (4,5%), altri (Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli; 2,67%).
  • Segretario Pcc locale: Chen Quanguo.
  • Città principali: Ürümqi (capitale), Kashgar.
  • Religione principale: islam (63%), praticata dagli Uiguri e dagli Hui.
  • Economia: agricoltura e allevamento, industria estrattiva (gas, petrolio, carbone, berillio, mica); produzione di energia solare, eolica e idroelettrica.
  • Siti web: www.globaltimes.cn;
    www.uyghurcongress.org;
    https://uhrp.org.

Yurte della popolazione di etnia kirghiza lungo la Karakorum Highway, a pochi chilometri dal confine con il Pakistan. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e attualità dello Xinjiang

Una frontiera tormentata

È il territorio più esteso e meno popolato della Cina, della quale fa parte dal 1884 con due (brevi) pause. Dal 1955 regione autonoma, un tempo trascurata, oggi lo Xinjiang è di fondamentale importanza.

Xinjiang – 新疆, «nuova frontiera» – è un toponimo relativamente recente, coniato tra il XVIII e il XIX secolo dalla dinastia Qing e inizialmente riferito a cinque regioni situate lungo le frontiere dell’impero. Solo nel 1884 venne a identificare quella che oggi è la regione più grande e meno popolata della nazione cinese. Nei secoli precedenti, il territorio era noto con il nome persiano di Turkestan, «luogo abitato dai turchi». Non una nazione, ma un’area occupata da un coacervo di popoli che assimilarono usanze e lingue di genti provenienti dalle steppe mongoliche di cui una parte, a partire dal I millennio a.C., si spostarono verso Ovest sino a raggiungere l’attuale Turchia

Le diverse popolazioni mantennero peculiarità che ancora oggi le differenziano tra loro: Kazaki, Kirghizi, Uiguri, Uzbeki, Kazari, Hazari. Erano per la maggioranza popolazioni nomadi, dedite alla pastorizia, eccellenti cavallerizzi che mantennero gelosamente la propria indipendenza per coalizzarsi tra loro solo in occasione di pericoli provenienti dall’esterno. In questo modo, almeno sino a pochi decenni fa, non vi fu nessun impero o stato centralizzato chiamato Turkestan. Certo, nel corso dei secoli, popoli turchi e turcofoni formarono imperi che, seppur molto fluidi nella loro amministrazione e nei loro confini, riuscirono a ritagliarsi grandi fette di territorio minacciando e sconfiggendo regni regolati secondo gestioni più ortodosse. Nessuno di questi imperi, però, si diede un’amministrazione centralizzata, se non dopo aver assorbito le caratteristiche della gerenza che avevano sconfitto. Il più delle volte, compiute le conquiste e gli obiettivi concordati tra i vari clan, ognuno di questi tornava poi a reggersi secondo regole e consuetudini proprie.

In questa situazione assai mutevole e incerta, tra l’inizio del VII e la metà del IX secolo d.C., un impero dominato dagli Uiguri, una delle tante stirpi turco-mongoliche, giunse a occupare il territorio tra i monti Altai e i monti della catena del Tien Shan includendo il bacino del Tarim. Per due secoli il khaganato (cioè il territorio governato dal khan, re, imperatore) uiguro gareggiò con la Cina dei Tang e con l’impero tibetano per il dominio dell’Asia orientale, ma l’organizzazione militare ed economica degli Han alla fine ebbero la meglio. Gli Uiguri si stanziarono nelle regioni attorno al deserto del Taklamakan sovrapponendosi alle popolazioni indoeuropee già presenti nell’area e sviluppandosi attorno a due centri culturali: Turpan a Nord e Kashgar a Sud.

Uiguri: una lingua, una religione

Proprio attorno alla città di Kashgar, tra il X e il XIII secolo, si affermarono quelli che sarebbero poi diventati due ingredienti essenziali dell’anima uigura moderna e che sono, ancora oggi, strettamente legati tra loro: la religione islamica e la lingua. Nel 934, dopo che il khan Abdulkarim Satuq Bughra si convertì all’islamismo, la nuova religione iniziò ad espandersi su tutto il territorio soppiantando il buddhismo. Al tempo stesso si venne a formare una lingua locale uigura che, pur mantenendo radici turcofone, adottò caratteri arabo persiani. Sei secoli più tardi, Afaq Khoja sviluppò il movimento sufi Naqshbandiya, fondato nel XIII secolo a Bukhara da Abd al-Khaliq Ghijduvani. Il sufismo si innestò nella religione islamica uigura sino a modellarne la dottrina e la visione del potere. Da una parte confermò e rafforzò la grande tolleranza religiosa e culturale già presente tra gli Uiguri e dall’altro invocò un regime di vita più austero per la classe nobile e amministratrice del paese. In una popolazione che faceva del nomadismo il proprio stile di vita, la frugalità espressa dal Naqshbandiya si inseriva a pennello.

In mancanza di un sentimento nazionalista, la lingua e la religione divennero gli elementi coesivi del popolo uiguro e la leva su cui i vari movimenti indipendentisti e autonomisti premettero per contrastare le interferenze esterne. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi il governo centrale di Pechino vede proprio in queste due espressioni culturali i due cardini contro cui focalizzare la sua repressione.

L’interno di una casa uigura nei pressi di Kashgar, la principale città nel deserto del Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

Anno 1884: l’annessione cinese

Nella storia dello Xinjiang un altro fattore determinante è la sua posizione geografica: un’immensa regione di sutura tra la Cina e l’Asia centrale, solcata dalle numerose vie commerciali che collegavano le coste orientali dell’Asia con le rive del Mediterraneo. Queste rotte, che nel 1877 il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen chiamò «Via della seta», si incontravano a Kashgar per poi diramarsi in una miriade di direzioni. Marco Polo, uno dei tanti mercanti che l’attraversò lasciandone ampia testimonianza ne Il Milione accennò anche a una comunità di cristiani nestoriani, presenti nella regione sin dal VI secolo e che sarebbe rimasta attiva fino al XIV secolo. Gli imperi europei e del Centro Asia vedevano lo Xinjiang come regione nevralgica, se non da sottomettere, almeno da sorvegliare per tenere sotto controllo la Cina; dal canto loro gli Han guardavano all’area come a una zona cuscinetto per respingere eventuali rivalse di altri. Al centro di questa regione c’era il cuore arido e terrificante del deserto del Taklamakan, uno dei luoghi più ostili in cui l’uomo potrebbe vivere e che molti definiscono come «il luogo dove si entra, ma da cui non si esce» (in realtà, il significato etimologico è incerto e varia da «posto abbandonato» a «posto di rovine»). Il deserto, frequentemente spazzato dai violenti venti del buran, occupa un quinto dell’intera provincia attuale dello Xinjiang (337mila km2 su 1.665mila km2) e le sue temperature oscillano tra i 40 gradi estivi e i -20 in inverno. Sino all’arrivo del treno, degli aerei e delle automobili, le difficili condizioni del Taklamakan erano un valido baluardo naturale che ponevano quasi al sicuro la Cina da un’invasione proveniente da Occidente. Nel 1895 lo svedese Sven Hedin fu il primo esploratore occidentale ad attraversarlo, ma dei quattro uomini, otto cammelli, tre montoni, dieci polli, un gallo e due cani che partirono da Kashgar, solo Hedin, un altro carovaniere e un cammello riuscirono a raggiungere il fiume Khotan-Daria.

Dal 1759 i Qing iniziarono a espandersi verso occidente inglobando sempre più vaste regioni e trasferendo nelle aree da loro controllate, specialmente nel Nord della provincia, popolazioni mongole e han. Il tentativo di ribellione dell’uzbeko Yakub Beg, all’inizio appoggiato da Russia e Gran Bretagna che speravano di poter gestire il nuovo stato entrando nel subcontinente cinese, si esaurì nel 1884 con la definitiva annessione dello Xinjiang all’impero Qing.

Fu certamente un intervento militare, ma gran parte della popolazione accolse il ritorno dei cinesi con sollievo dopo che Yakub Beg aveva respinto le offerte russe e britanniche di costruire strade che collegassero l’area con l’Asia centrale e meridionale gravando i commercianti di ulteriori tasse, e aveva imposto una sharia più restrittiva.

Il dominio cinese sullo Xinjiang continuò anche dopo il crollo dei Qing e l’avvento della repubblica. L’indebolimento della Cina a causa della colonizzazione giapponese permise al nascente movimento nazionalista uiguro di creare una prima Repubblica islamica del Turkestan orientale, che ebbe vita effimera (1933-1934) e una più longeva seconda Repubblica del Turkestan orientale di ispirazione vagamente socialista e appoggiata da Stalin (1944-1949) in funzione anticinese.

La vittoria delle forze comuniste guidate da Mao Zedong su quelle nazionaliste di Chiang Kai-shek riportò le truppe cinesi nello Xinjiang ribadendo il dominio di Pechino sulla regione. Per lo Xinjiang, che dal 1955 divenne regione autonoma, si chiuse un ciclo storico e se ne aprì un altro.

La moschea Id Kah, a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli Uiguri, dal 75 al 46 per cento

Il processo di trasferimento di popolazioni Han e Hui, già iniziato sotto i Qing, venne potenziato da Mao Zedong inaugurando così il primo dei tanti problemi che, sommati l’uno all’altro, avrebbero scatenato il risentimento degli Uiguri nella provincia.

Nel 1949 la popolazione totale dello Xinjiang ammontava a 4.333.000 abitanti, di cui il 75% Uiguri, 7% Kazaki, 6% Han e il restante 12% suddiviso tra Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli e Hui. Questi ultimi, pur essendo musulmani, appartengono all’etnia han e rimangono fedeli al governo centrale. Sono quindi spesso considerati dagli Uiguri come una sorta di cavallo di Troia, di collaborazionisti, diffidati dai loro correligionari.

La frontiera comune con l’Unione Sovietica, amica di nome, ma ritenuta pericolosa da Pechino che non aveva dimenticato l’appoggio dato da Mosca alla Repubblica del Turkestan orientale e la necessità di controllare un territorio non ancora completamente assoggettato, indusse il timoniere ad inviare, oltre ai circa 200mila militari di stanza nella provincia, altri 175mila lavoratori appartenenti ai Bingtuan, i Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang a cui si aggiunsero 300mila giovani con le loro famiglie e 200-250mila lavoratori «volontari» ed un numero imprecisato fra tecnici, insegnanti e antirivoluzionari.

Il flusso migratorio continuò a ondate alterne; non fu mai costante e anzi, in alcuni periodi (dopo il fallimento del Grande balzo economico all’inizio degli anni Sessanta e poi subito dopo la morte di Mao negli anni Ottanta), il saldo fu addirittura leggermente negativo. Alla ricerca di nuove prospettive economiche e attirati dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, molti giovani han, ma anche uiguri, preferirono lasciare lo Xinjiang per trasferirsi nelle città orientali.

La prima grande ondata migratoria si verificò alla metà degli anni Sessanta, quando, dopo il primo test atomico, si diede impulso al programma nucleare cinese. Migliaia di persone vennero spedite nella provincia e nel poligono di Lop Nur dove, dal 1964 al 1996, gli scienziati cinesi fecero esplodere 45 bombe, di cui 23 in superficie (un recente rapporto del dipartimento di Stato Usa afferma però che test a basso livello sarebbero ancora in corso). Tra il 1964 e il 1980 la popolazione immigrata crebbe molto più di quella uigura. Nel 1964 la popolazione dello Xinjiang ammontava a 7,4 milioni di abitanti, di cui 4 milioni Uiguri (54%), 2,4 milioni Han (32,8%) e 271mila Hui (3,6%). Nel 1982 su 13 milioni di abitanti, 6 milioni erano Uiguri (45,8%), 5,3 milioni Han (40,4%) e 567mila Hui (4,3%).

Il rapporto tornò a invertirsi nel decennio seguente, quando, nel 1990 la percentuale di popolazione di etnia han era scesa al 37,6% (5,7 milioni Han su 15,2 milioni di abitanti) e, viceversa, quella uigura era salita al 47,5% (7,2 milioni Uiguri). Con l’inizio della nuova industrializzazione dello Xinjiang che coincise con il passaggio dal XX al XXI secolo, la politica di reinsediamento voluta da Pechino riportò il rapporto Han e Uiguri ai livelli degli anni Ottanta rimanendo così stabile sino ad oggi.

Nel 2018 su 24,9 milioni di abitanti, il 46,4% erano Uiguri, il 39% Han e il 4,54% Hui, e il tasso di crescita demografica dovuta alla natalità era calato dal 10,71‰ del 2010 al 6,13‰ (contro un tasso nazionale del 3,81‰). In particolare, la natalità degli Uiguri nel 2018 era pari al 10,69‰ contro il 9,42‰ degli Han.

I soli numeri però non bastano per descrivere l’enorme differenziazione territoriale rappresentata nello Xinjiang. La regione è etnicamente spaccata in aree nelle quali vivono precisi gruppi di popolazioni. Se gli Han sono concentrati principalmente nelle zone che fanno capo a Urumqi, la città più grande e capoluogo della regione dello Xinjiang, gli Uiguri si disperdono attorno alla città meridionale di Kashgar, loro capitale storica e culturale, e a Hotan e Aksu. Più a Nord, al confine con il Kazakhstan nei distretti di Altay e Tacheng troviamo i Kazaki, mentre gli Hui vivono nel distretto di Ili e mischiati agli Han.

Sono divisioni che rispecchiano gli stanziamenti ancestrali, fissati ancora prima dell’arrivo dei Qing, e che generalmente non seguono un disegno geopolitico storicamente determinato o una precisa volontà di segregazione economica. Anzi, è esattamente l’opposto: è lo sviluppo economico dello Xinjiang che si è modellato sulla base della dispersione etnica.

La costosa strada del nucleare

Lo Xinjiang è la provincia più povera della Repubblica popolare e, fino alla fine degli anni Ottanta, anche tra quelle che ricevevano meno sovvenzionamenti statali. Pechino la considerava solo un ottimo cuscinetto per ammorbidire le tensioni con gli stati limitrofi, in particolare l’Unione Sovietica. Inoltre, l’esiguità della popolazione, in contrasto con l’ampiezza del suo territorio e la grande quantità di superfici disabitate, rendevano lo Xinjiang la base ideale per la ricerca e lo sviluppo nucleare. Il già citato poligono di Lop Nur fu il primo grande nucleo industriale che attirò investimenti economici da Pechino verso la periferia del paese e anche il primo argomento di scontro con gli Uiguri. Oggi i disastri ambientali e umani causati da questa corsa al nucleare cinese sono evidenti: una ricerca effettuata da Jun Takada della Sapporo Medical University ripresa anche dall’Iaea e dal Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization – Organizzazione per l’applicazione del Trattato per il bando completo della sperimentazione nucleare) e pubblicata da Scientific American, stima che circa 194mila persone sarebbero morte nello Xinjiang a causa dell’esposizione a radiazioni dovute ai fallout nucleari e che altre 1,2 milioni avrebbero assorbito radiazioni tali da poter provocare danni genetici, leucemie e cancri. Inoltre il poligono di Lop Nur ospita ancora oggi parte delle scorie nucleari non solo degli esperimenti militari, ma anche dei quarantasei reattori in funzione nel paese (nel 2041 è previsto lo stoccaggio di tutti i rifiuti nucleari cinesi in un impianto in corso di costruzione nel deserto del Gobi).

Fedeli islamici nella moschea Altyn, a Yarkand, città-oasi che prende il nome dall’omonimo fiume, affluente del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Pechino e il pericolo islamico

 

Solo dopo gli anni Novanta il «caso Xinjiang» scoppiò in tutta la sua dirompenza: mentre in Occidente si festeggiava la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss, Pechino si preparava a fronteggiare la minaccia terroristica causata dai buchi neri lasciati dalle amministrazioni delle nuove entità nazionali con le quali lo Xinjiang si trovò a condividere i propri confini. I nuovi paesi, infatti, non avevano nessun controllo del proprio territorio, e cellule armate organizzate vi avevano stabilito i loro rifugi sicuri.

La Cina dovette fronteggiare una minaccia che considerava ancora più grave di quella tibetana perché minava l’impianto unitario dello stato, e lo faceva trovando linfa in quel crogiolo di ideologie e di melting pot religioso che andava sotto il nome di jihad islamica. I gangli della rivolta uigura si ramificavano all’esterno dei confini nazionali insinuandosi tra le pieghe di una rivendicazione di autonomia nazionale che fino ad allora era stata solo un accenno. Il nascente movimento autonomista tradusse le richieste sociali del popolo uiguro in una letteratura separatista puntellando le sue rivendicazioni sulle uniche due caratteristiche che identificavano una improbabile nazione uigura: l’islam e la lingua.

Pechino reagì nel modo più sbagliato: sperando di tranciare il cordone ombelicale con il nazionalismo e il movimento armato, chiuse gran parte delle moschee e vietò l’insegnamento della lingua uigura nelle scuole. Il risultato fu, come era da aspettarsi, una controreazione ben più violenta anche da parte di quella fetta di popolazione che guardava con diffidenza l’estremismo e il fanatismo.

Questo slideshow richiede JavaScript.

Le (troppe) organizzazioni uigure

Nel tentativo di catalizzare l’interesse internazionale sulla questione uigura nacquero diverse organizzazioni, alcune delle quali appoggiate – per motivi politici o strategici – da altre nazioni, in particolare Stati Uniti e Turchia. Quest’ultima si inserì nelle pieghe della dissoluzione sovietica riproponendosi come guida culturale e politica dei popoli panturchi dell’Asia centrale. L’idea di Ankara di espandere la propria influenza su una regione di cui ritenne avere dei diritti di discendenza genetica e linguistica trovò sfogo nella protesta uigura. Circa 40mila Uiguri ancora oggi vivono in Turchia, paese che ha sempre storicamente appoggiato i movimenti nazionalisti ospitando leader leggendari some Yusup Alptekin ed Emint Bugra. Seguendo l’emigrazione turca in Germania, anche la diaspora uigura ha spostato il proprio centro dirigente nel paese europeo esprimendosi in una miriade di movimenti che fanno capo al World Uyghur Congress e all’East Turkestan Information Center (Etic). Le forti divisioni in seno alla comunità uigura facilitano però il compito cinese di deplorare le organizzazioni nazionaliste e denunciare attività illegali.

Gli Stati Uniti, invece, conobbero un’immigrazione uigura solo a partire dagli anni Novanta del XX secolo. A differenza della Turchia, l’ospitalità di Washington si esprime maggiormente in termini politici e di diritti umani esponendo come figura di punta Rebiya Kadeer, appoggiando e finanziando movimenti estremamente politicizzati e anticinesi come la Uyghur American Association e la Uyghur Human Rights Project.

Pechino, dal canto suo, ha sempre cercato di contrastare queste attività extraterritoriali associandole al pericolo, più o meno reale, di un terrorismo di matrice islamica.

Sin dal 1990 le autorità cinesi denunciano numerosi incidenti collegandoli al separatismo uiguro. Tra questi diverse bombe esplose su autobus di linea, assalti a stazioni di polizia, a stazioni ferroviarie, a centri commerciali, scontri organizzati tra manifestanti e forze dell’ordine. La maggior parte di questi atti violenti sono attribuiti all’East Turkestan Islamic Movement (Etim), un gruppo separatista di ispirazione jihadista formatosi nel 1988, ma di cui non è mai stata chiarita la genesi e la storia e che nel 2004 fu iscritto nella lista delle organizzazioni terroristiche dalle Nazioni unite. Il 6 novembre 2020, quando ormai era chiara la vittoria presidenziale di Biden, l’amministrazione Trump, in un ultimo rigurgito anticinese, ha deciso di depennare l’Etim dalla lista nazionale di movimenti del terrore con la motivazione che l’organizzazione non dava più segni di attività da almeno dieci anni. La mossa è stata naturalmente deplorata dalla Cina la quale meno di ventiquattr’ore dopo, attraverso il Quotidiano del Popolo, organo del Pcc, ha salutato la dichiarazione di Trump «Ho vinto io queste elezioni e anche di molto» con l’emoticon ridens accompagnata da un esplicito «HaHa!».

Pochi giorni dopo, al meeting dello Shanghai Cooperation Organization (Sco), ha chiesto agli stati membri (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Russia) un livello di cooperazione e solidarietà più forte per opporsi alle interferenze provenienti dall’esterno.

Mercato degli animali a Hotan, centro agricolo nel bacino del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Case uigure contro case han

Nell’ottica di Pechino, il modo migliore per indurre gli Uiguri ad accettare la presenza del governo centrale e abbandonare le richieste di maggiore autonomia (o indipendenza) era quella dello sviluppo economico. Nel 1999 venne così inaugurato il Great Western Development, un programma di iniziative sociali, culturali ed economiche che avrebbe dovuto dare un forte impulso di modernizzazione all’intera provincia dello Xinjiang. Iniziarono ad essere costruite nuove infrastrutture, venne potenziata la linea ferroviaria, furono realizzate autostrade e nuovi aeroporti internazionali mentre attorno alle città sorsero fabbriche e industrie. Il governo investì in Xinjiang, nei primi dieci anni del XXI secolo, più che in qualunque altra provincia cinese. Inutilmente. Gli Uiguri, così come avevano fatto i Tibetani, accolsero il Great Western Development come un progetto per accelerare la distruzione della loro cultura.

Le vie di comunicazione? Un modo per spostare più velocemente i reparti dell’esercito per soffocare ogni tentativo di protesta secondo gli Uiguri. E in parte era vero.

Le fabbriche? Un modo per arricchire gli Han e gli Hui, visto che la gestione era affidata a loro e si preferiva assoldare manodopera che non fosse uigura. E in gran parte era vero.

Il potenziamento dell’istruzione scolastica? Un modo per costringere gli Uiguri a imparare il mandarino per svilire e dimenticare la propria lingua e le proprie radici. Parzialmente vero.

A Kashgar sorse un movimento che ebbe risonanza anche all’estero per arrestare la demolizione di edifici tradizionali abitati dagli Uiguri. Erano case singole in legno per lo più fatiscenti, fredde d’inverno e torride d’estate, senza rete idrica e fognaria. In cambio l’amministrazione cittadina concedeva a ogni famiglia uigura un appartamento nuovo dotato di tutti i confort moderni: corrente elettrica, bagno in casa, riscaldamento, ampie finestre, ascensori. Dal punto di vista cinese era un’offerta vantaggiosa che non si poteva rifiutare. Ma le case che venivano distrutte erano le case in cui gli Uiguri amavano abitare perché consentivano loro di instaurare un rapporto sociale porta a porta; in quelle case, vecchie, a volte pericolanti, con spifferi da tutte le parti si erano succedute generazioni di famiglie. In questa lotta, in questo modo di vedere il futuro e la socializzazione c’era tutto il divario e l’incomprensione tra le due culture: gli Han modellavano il futuro dello Xinjiang (e, quindi, anche degli Uiguri) secondo il loro modo di vedere, sulla base delle loro esigenze e di quelle nazionali. Logico, allora, che non ci fosse alcun incontro tra le diverse comunità.

Cammelli nella città vecchia di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Chen Quanguo, dal Tibet allo Xinjiang

Un ulteriore drastico cambio della politica cinese nello Xinjiang avvenne tra il 2013 e il 2016. La prima data corrisponde all’ascesa di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare. Egli da allora avocò a sé sempre più poteri. La seconda data vide la nomina di Chen Quanguo a segretario del Partito comunista locale. Chen Quanguo si era fatto le ossa nel Tibet dove aveva rafforzato il sistema di sicurezza e di sorveglianza aumentando la presenza della polizia e dell’esercito, ma introducendo anche il sistema della sorveglianza di quartiere: semplici cittadini, possibilmente dello stesso gruppo etnico che doveva essere controllato, erano investiti del ruolo di vigilante riferendo tutto quanto accadeva attorno a loro. Il cambio al vertice del potere nello Xinjiang era assolutamente funzionale agli ambiziosi programmi lanciati a partire dal 2013 da Xi Jinping: la Belt and Road Initiative (Bri, nota come «nuova Via della seta») e il rilancio economico della Cina guardando con maggiore attenzione al rispetto ambientale.

La proposta della Bri era stata avanzata dal presidente cinese in due importanti conferenze: prima quella tenuta nell’Università Nazarbayev, in Kazakhstan (non a caso paese confinante con lo Xinjiang) nel settembre 2013, e poi al parlamento di Giacarta nell’ottobre dello stesso anno. Nella prima si prospettava una serie di collegamenti via terra con l’Europa e il Medio Oriente; nella seconda si lanciava l’idea di nuove rotte marittime verso l’Africa e l’Europa. Nel 2015 le due iniziative vennero accorpate nella Belt and Road Initiative e accolte nello statuto del Partito comunista cinese durante il 19° Congresso del partito nell’ottobre 2017.

Lo Xinjiang diventava, dunque, il baricentro necessario al programma di sviluppo e di espansione dell’economia cinese nel Medio Oriente e in Europa voluto da Xi Jinping per trasformare la Cina in una nazione forte dal punto di vista economico, militare, culturale, sociale, politico e diplomatico.

Per sostenere la propria espansione, il sistema produttivo cinese aveva disperata necessità di trovare fonti energetiche. Dall’inizio degli anni Novanta, lo Xinjiang si era rivelato una delle principali sorgenti da cui ricavare energia senza rivolgersi fuori dai confini nazionali. In pochi anni, la «Nuova frontiera» si trasformò, da arida terra e utile baluardo contro eventuali invasioni provenienti da Occidente, a uno dei cofani più preziosi a cui attingere per far funzionare la macchina economica.

Oggi la regione autonoma è il primo produttore nazionale di petrolio (22% dell’intera produzione cinese), di gas naturale (23%), di carbone (38%), di berillio (usato nell’industria nucleare e aerospaziale), di mica (usata nel settore edilizio e in agricoltura). È il secondo produttore in Cina di energia eolica (20%) ed energia solare e il quarto produttore di energia idroelettrica (5%).

Secondo la road map di Xi, le infrastrutture già esistenti dovrebbero fare da supporto per un ampliamento delle iniziative economiche e commerciali inserite nella Bri. Una ragnatela di oleodotti, gasdotti e reti ferroviarie attraverseranno lo Xinjiang per diramarsi a Nord verso la Russia e a Ovest verso il Mar Caspio, il Medio Oriente, l’Iran e l’Europa. Pur essendo lontano da ogni sbocco marino, dallo Xinjiang parte il corridoio economico Cina-Pakistan, un progetto da 57 miliardi di dollari che collegherà la Cina con il porto di Gwadar e con l’Iran per permettere alla provincia di aprire una via verso l’Oceano Indiano e attingere direttamente al petrolio iraniano.

È quindi iniziata un’intensa campagna di investimenti statali e di propaganda per favorire l’arrivo di industrie straniere e private, con il risultato che, dal 2012 al 2018, il Pil dello Xinjiang è aumentato del 38% (da 750 a 1.220 miliardi di yuan). Oggi una dozzina di industrie europee – tedesche, spagnole, ceche, slovacche, ungheresi e bulgare – hanno uffici, rapporti commerciali o stabilimenti nello Xinjiang.

Piergiorgio Pescali

Ronda di militari per le strade di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.


La deriva tecnologica

Quando sorvegliare diventa oppressione

Forze di polizia, ma anche controlli biometrici e intelligenza artificiale. Nello Xinjiang si stanno sperimentando tecniche di tracciamento e identificazione molto invasive.

Affinché i progetti di sviluppo vadano a buon fine, occorre che lo Xinjang sia stabile e sicuro. E in questo campo l’esperienza di Chen Quanguo, segretario del Partito nella regione autonoma, è esattamente quel che Xi Jinping cerca. Alla fine del 2016, gli uffici della Pubblica sicurezza dello Xinjiang hanno iniziato a reclutare Uiguri come assistenti di polizia. I candidati venivano allettati dagli alti stipendi (sino a tre volte quello che guadagnava mensilmente un uiguro). Inoltre, l’altissima disoccupazione giovanile, in particolare tra neolaureati nelle università provinciali garantiva un ampio e costante bacino di manodopera da cui attingere tra gli strati medio alti della popolazione.

Molti di coloro che sono stati scelti per il nuovo lavoro si sono ritrovati a controllare direttamente i loro stessi conterranei scendendo nelle strade, frequentando i mercati, sorvegliando i vicini di casa o di quartiere. Si sono spesso dovuti spendere a convincere i loro conoscenti, amici, parenti ad accettare la campagna «Diventare una famiglia», lanciata da Pechino, e ospitare nelle loro stesse case quadri di partito per almeno cinque giorni ogni due mesi. Questi quadri hanno il compito di verificare l’affidabilità delle famiglie e di identificare eventuali elementi sospetti.

Altri Uiguri, invece, sono stati assoldati per una nuova mansione: esaminare e ispezionare filmati, fotografie, intercettazioni audio e video dei loro conterranei.

Chen Quanguo ha inaugurato un nuovo modo di controllo della popolazione utilizzando le più sofisticate tecnologie, compresi i controlli biometrici, e l’intelligenza artificiale (Ai). Lo Xinjiang sembra sia il test preliminare prima di allargare questo sistema di controllo sulle zone più calde della Cina, come Hong Kong.

Parte integrante del processo è un’infrastruttura di aziende hi tech di cui fanno parte, seppur indirettamente, anche aziende europee. La Hikvision, l’azienda specializzata in video sorveglianza e che ha installato telecamere usate dalla polizia nello Xinjiang, ha collaborazioni con la Sony, la Intel, la Texas Instruments. La China Electronic Technology Group, l’azienda che detiene la Hikivision, ha stretto legami commerciali con la Siemens nello sviluppo di tecnologie avanzate nella digitalizzazione, nel networking e nell’automazione. La Xiamen Meiya Pico Information Co, una compagnia del Fujian, ha ideato la «MFsocket», l’app che rileva immagini, audio, geolocalizza, individua contatti telefonici e registra numeri in entrata e in uscita. Dal 2019 si è specializzata anche in Ai e big data e, dal 2004 a oggi, ha addestrato cinquantamila ufficiali del ministero della Pubblica sicurezza nel programma National Cyber Police Training Center oltre che in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia, Sri Lanka, Russia, Hong Kong, Singapore, Brasile.

Un venditore di «naan» (pane uiguro) nel quartiere uiguro di Kashgar, in via di demolizione per lasciare posto a nuovi complessi residenziali di stampo cinese. Foto Piergiorgio Pescali.

Terrorismo e campi di rieducazione

Accanto al controllo, al tracciamento e all’identificazione tecnologica dei cittadini, Chen Quanguo ha perfezionato e potenziato ciò che già da tempo esisteva: i campi di rieducazione, di cui Chen non è né l’ideatore e neppure l’iniziatore. Gli ormai celebri Xinjiang papers, pubblicati dal New York Times e che avrebbero svelato l’esistenza di campi di detenzione per i cittadini riottosi alle leggi emanate dal governo, hanno solo rivelato ciò che da tempo si sapeva. Già alla fine degli anni Novanta, si parlava diffusamente di zone, campi, villaggi dedicati alla rieducazione e dove confluivano quelli che il governo chiamava «terroristi» o banditi che erano stati «deviati» dai «tre demoni»: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. All’inizio del XXI secolo era stata ufficializzata la politica del «Colpisci duro, massima pressione» ipotizzata nel 1999 da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro saggio Guerra senza limiti.

Nel 2006, la Laogai Research Foundation affermava che nello Xinjiang esistevano 69 istituti penali in cui gli internati erano obbligati a lavorare per conto di fabbriche, fattorie sia private che statali, tre campi di internamento riservati ai giovani e dieci campi di rieducazione tramite il lavoro. Gli Xinjiang papers, oltre a confermare questo arcipelago Laogai, hanno fatto scalpore perché erano carteggi fuoriusciti direttamente dal Partito comunista. Secondo i documenti, dal 2017 più di un milione di persone sarebbero state trasferite in un migliaio di campi all’interno dello Xinjiang. Questi erano suddivisi in quattro categorie: campi di rieducazione a bassa sicurezza, campi di rieducazione, centri di detenzione e campi di detenzione di massima sicurezza. Negli anni precedenti, gli attentati terroristici attribuiti agli Uiguri non solo erano aumentati, ma avevano valicato anche i confini dello Xinjiang. Nel 2013 un’auto con tre Uiguri a bordo si era scagliata contro gruppi di turisti in piazza Tienanmen uccidendo due persone e ferendone una quarantina; nel 2014 otto attentatori dello Xinjiang, muniti di coltello, erano entrati nella stazione ferroviaria di Kunming causando la morte di 33 persone e ferendone 140. Nel frattempo, all’interno della provincia si susseguivano altri atti terroristici: nel solo 2014 in totale ci furono una quarantina di morti e più di 100 feriti in diverse azioni compiute da Uiguri.

È in quell’anno che il governo ha deciso di intensificare quello che esso stesso definisce «programma di rieducazione». Pechino, dopo un primo blando tentativo di negare la realtà dei campi, ha ammesso la loro esistenza trovandone la giustificazione nella sicurezza nazionale: è innegabile, infatti, che dal 2017, anno in cui è stata rafforzata la politica di Xi Jinping e di Chen Quanguo, le violenze nello Xinjiang sono pressoché scomparse. Secondo le ormai numerose testimonianze raccolte da autori e ricercatori (molti dei quali con trascorsi decisamente ostili alla politica cinese), i cittadini sospettati di essere «infettati» da uno o più dei «tre demoni» hanno le seguenti caratteristiche: sono di etnia uigura, un’età tra i 15 e i 55 anni, disoccupati, credenti praticanti, hanno almeno un parente in uno stato straniero e hanno visitato o tentato di visitare uno dei 26 paesi considerati politicamente delicati. Particolarmente sotto osservazione sono i villaggi più poveri e isolati. La vita nei campi varia a seconda della persona che la racconta. Per alcuni, i campi sono caratterizzati dalle condizioni più misere e derelitte, una vita fatta di ingiustizie, violenze gratuite, torture, esecuzioni sommarie. Secondo altri, nei campi si vivono invece giornate abbastanza serene, passate effettivamente a studiare e lavorare nelle quali non manca anche il tempo libero.

Dopo essere stata per lungo tempo, terra ignorata e isolata, oggi lo Xinjiang da nuova frontiera si è trasformata in una nuova porta attraverso cui dovrebbe passare il futuro sviluppo economico non solo cinese, ma di tutta l’Asia.

Tuttavia, affinché questo progetto possa essere accolto positivamente, ci sarebbe bisogno che venga costruito coinvolgendo in modo attivo e propositivo tutti gli attori a cui Pechino afferma di rivolgersi.

Piergiorgio Pescali

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.


Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

  • PIERGIORGIO PESCALI – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
  • A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Una statua di Mao Zedong, il «grande timoniere», a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.




L’occidente  e l’enigma cinese

testo di Paolo Moiola |


Quello che fu il «Celeste impero» è un paese continente difficile da decifrare senza qualche solida conoscenza. Per guardare oltre le accuse odierne e gli antichi stereotipi, ci siamo fatti aiutare da due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni. Perché con la Cina – volenti o nolenti – tutti noi dobbiamo fare i conti. Adesso.

Per gli occidentali comprendere e relazionarsi con la Cina è sempre stato complicato. Lo era ai tempi dell’impero. Lo è ancora di più da quando il partito comunista è andato al potere e il paese ha accresciuto in maniera irrestistibile la propria forza economica e la propria influenza internazionale. Le imprese e i capitali cinesi sono ormai radicati in moltissimi paesi dell’Africa e dell’America Latina. Mentre un suo gigantesco progetto infrastrutturale, noto come nuova Via della seta (ufficialmente, Belt & Road Initiative), sta cercando di fare breccia in Europa. Insomma, oggi Pechino lotta per strappare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale. Di tutto questo abbiamo parlato – separatamente – con due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni, giornalisti e scrittori con una lunga esperienza in Cina.

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Una Cina «perfetta»

«Mi raccomando: non scrivere che sono sinologo perché sarebbe una bugia. Il mio livello di mandarino è basic, il che significa che mi faccio capire e capisco qualcosa, ma purtroppo (almeno per ora) nulla di più».

Michelangelo Cocco vive a Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. È direttore esecutivo del Centro studi sulla Cina contemporanea (Cscc) e scrive per Il Messaggero, dopo essere stato corrispondente da Pechino per il Manifesto. Da poco è uscito il suo libro «Una Cina “perfetta”. La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale» (Carocci, 2020).

«Il titolo fa riferimento al tentativo del Partito – in particolare attraverso la rinnovata centralità dell’ideologia e del controllo della popolazione mediante strumenti high tech – di dar vita a una governance “perfetta” del XXI secolo: favorire una gigantesca modernizzazione del sistema economico cinese, promuovere una cultura ambientale, garantire a tutti “una vita migliore”, come ha promesso Xi Jinping. Una governance “perfetta” per un paese continente pieno di problemi e contraddizioni: è questa la sfida epocale lanciata da un Partito che da 70 anni è sempre più la guida dell’economia e della società cinese».

Parlare oggi di «perfezione» è dura, viste le accuse di responsabilità per la diffusione del Sar-CoV-2, il «virus cinese» come lo chiamava l’ex presidente Usa Trump.

«Eventuali responsabilità cinesi – commenta Michelangelo – al momento sono estremamente difficili da accertare, anche perché gli scienziati non hanno ancora chiarito definitivamente dove e in quali circostanze si è sviluppato e trasmesso all’uomo questo nuovo coronavirus. Ciononostante un gruppo di governi (statunitense, britannico, brasiliano), che hanno negato a lungo la gravità della pandemia, l’hanno poi utilizzata a fini politici, per accusare la Cina con la quale – ormai da un paio d’anni – è in corso uno scontro che investe tutti gli ambiti: tecnologico, commerciale, politico, e valoriale. Probabilmente le autorità dello Hubei hanno reagito all’epidemia in ritardo, negandola in un primo momento e censurando i medici che avevano lanciato l’allarme sulle polmoniti misteriose. Ma tutta la polemica che si è scatenata – in un contesto ormai polarizzato Cina versus Occidente – non ha alcun valore scientifico. Si tratta di una battaglia politica che aggrava tensioni preesistenti, che ha pregiudicato quella che sarebbe stata un’utilissima cooperazione sanitaria internazionale e che impedirà qualsiasi indagine indipendente sul Sars-CoV-2».

I tre pilastri del nuovo Impero cinese

Prima dell’arrivo del Covid-19, nell’immaginario collettivo occidentale la Cina non era più quella delle campagne, ma quella moderna, ipertecnologica e simil-occidentale delle sue grandi città. Cioè, provando a sintetizzare, i pilastri del marxismo e del confucianesimo innestati nel cosiddetto «socialismo di mercato». Chiediamo a Michelangelo Cocco se questa sia un’interpretazione corretta.

«Diciamo che il “socialismo di mercato” – affermatosi “definitivamente” dopo la repressione di piazza Tiananmen (era il 1989) e dopo il viaggio al Sud di Deng Xiaoping del 1992 – ha introdotto, in un paese ufficialmente socialista, dosi sempre più massicce di capitalismo. Tuttavia, a un certo punto – approssimativamente durante il decennio 2003-2013 (con Hu Jintao presidente e Wen Jiabao primo ministro) -, il Partito ha capito che, alle riforme di mercato e al deficit ideologico, andava posto un limite, altrimenti il sistema sarebbe crollato per le tensioni create dalle disuguaglianze crescenti e dal distacco tra il Partito e la società. Xi Jinping ha assunto il compito – in maniera esplicita a partire dal XIX Congresso del 2017 – di riprendere il controllo sull’economia e sul popolo. Il pendolo Stato-mercato con Xi ha oscillato decisamente più dalla parte del primo, anche se il mercato resta un elemento imprescindibile dell’economia cinese. Attraverso un potente mix ideologico fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, la leadership ha riaffermato la propria autorità sul Partito, ricompattandolo, e sta provando a ridare un certo inquadramento ideologico-patriottico a una società che, fino a poco tempo fa, era attratta soprattutto dalle opportunità di avanzamento sociale (che, peraltro, oggi si stanno restringendo)».

il presidente cinese Xi Jinping con António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Foto: Yun Zhao / UN Photo.

Non soltanto Hong Kong

La cronaca delle recenti rivolte nell’ex colonia britannica di Hong Kong ha riportato alla luce anche i conflitti nella regione autonoma del Tibet e nel Xinjiang a maggioranza islamica. «Anche se si tratta in tutti e tre i casi di periferie ribelli all’interno del nuovo Impero cinese, sono tre situazioni molto diverse – spiega Michelangelo -. Il Tibet e il Xinjiang esprimono un nazionalismo debolissimo e, di fatto, non hanno rappresentanti riconosciuti, né all’interno della Cina né all’estero. In questa situazione, ritengo che il Partito potrà portare avanti – a ritmo accelerato, approfittando dell’attuale vantaggio – le sue politiche di assimilazione culturale e di controllo del territorio di queste due immense regioni frontaliere, povere e scarsamente popolate ma che, assieme, rappresentano un terzo del territorio del paese.

Diverso è invece il discorso per Hong Kong, una regione amministrativa speciale piccola, ricca e densamente popolata. Qui la società è fortemente polarizzata: una parte sta con Pechino, l’altra contro. I contestatori dell’ordine costituito sono spesso giovanissimi e di ceto medio alto, hanno i loro partiti e movimenti politici, comunicano col resto del mondo e sono riusciti ad attirare la simpatia e l’appoggio delle democrazie liberali per la loro causa. Nonostante la recente approvazione della Legge sulla sicurezza nazionale, le tensioni con questa parte importante della società dell’ex colonia britannica potrebbero rappresentare una “nuova normalità” in una Hong Kong profondamente divisa e destinata a diventare meno rilevante da un punto di vista economico per la Repubblica popolare, “sostituita” da Shanghai o dalla confinante Shenzhen».

Il volto espressivo di una donna tibetana. Foto: Smokefish – Pixabay.

«La nuova Silicon Valley è cinese»

A Pechino è rimasto per quasi 10 anni. Nella capitale cinese – era il 2008 – è stato cofondatore di China Files, agenzia editoriale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. «Quando non lavoravo come giornalista, mi divertivo a fare l’allenatore dei bambini in una scuola di calcio locale», ricorda con una punta di nostalgia. Rientrato in Italia per motivi personali, oggi Simone Pieranni è caporedattore al Manifesto e da poco ha pubblicato «Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina» (Laterza, 2020). Lo disturbiamo mentre è alle prese con i suoi due gemelli di quindici mesi.

Da Huawei a Tiktok: tecnologia e controllo

«Red mirror», il suo terzo lavoro dedicato alla Cina (d’imminente uscita anche in Francia e in America Latina), inizia descrivendo una giornata a Pechino usando il cellulare e WeChat (Weixin, in mandarino), un’applicazione della multinazionale cinese Tencent.

«Sono arrivato in Cina nel 2006 – racconta Simone – e in pochi anni mi sono ritrovato a fare tutto con il cellulare. Il libro nasce dall’esperienza di quanto è accaduto in quel paese a livello tecnologico».

Già, la tecnologia cinese. È contro di essa che si sono scagliati Donald Trump (la vicenda del social TikTok è emblematica) e, a ruota, il premier inglese Boris Johnson. Stati Uniti e Gran Bretagna spingono gli alleati a respingere l’avanzata tecnologica cinese e in particolare quella del gigante Huawei. Anche se – almeno finora – i maggiori scandali legati allo spionaggio digitale sono nati proprio nei paesi accusatori, con la National Security Agency statunitense (scandalo Datagate del 2013) e la britannica Cambridge Analytica (scandalo del 2018).

«Il pericolo dietro Huawei – conferma il nostro interlocutore – è identico a quello delle grandi aziende americane o occidentali. Qualunque sia l’impresa che gestisce i dati, c’è sempre il rischio di un utilizzo fuorilegge delle informazioni raccolte. Sulla Cina – questo è vero – si innescano però altre dinamiche che rendono tutto ancora più complicato. Inutile nascondersi dietro a un dito, la scelta è e sarà politica».

«Socialismo di mercato»

La strada dei barbieri a Kashgar, capitale dello Xinjiang, stato a maggioranza islamica. Foto: F. Charton / UN Photo.

Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del «socialismo di mercato».

«Un apparente ossimoro – spiega Pieranni -, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro».

Secondo Pieranni, l’economia spiega anche perché le situazioni di crisi interne al paese – Tibet, Hong Kong e Xinjiang – rimangono circoscritte e senza conseguenze pesanti per Pechino.

«Il Tibet è praticamente dimenticato. Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale (che di fatto riporta la città dentro all’ordinamento cinese) e qualche protesta, è ormai un elemento acquisto. La regione dello Xinjiang invece mette a nudo la nuova Cina, iper tecnologica e iper controllante. Tuttavia, è una situazione che si protrae da anni e che è riemersa di recente soltanto perché utilizzata da Trump in chiave elettorale. Purtroppo, nessuno ha veramente interesse a chiedere spiegazioni alla Cina, dato che sono ancora troppi i vincoli economici che legano il paese asiatico al mondo occidentale».

Pechino e la Chiesa di Roma

Abbiamo visto che dipanare l’enigma cinese non è facile e, in questo senso, i mezzi di comunicazione non aiutano.

Chiediamo a Simone se, secondo la sua prospettiva privilegiata, i media italiani e occidentali in generale parlino in maniera corretta e veritiera della Cina o prevalgano invece maschere ideologiche e preconcetti.

«Difficile – spiega – fare un ragionamento generale, perché esistono eccezioni. Però possiamo dire che i media mainstream hanno un atteggiamento, se non pregiudiziale, piuttosto superficiale sulla Cina, creando nello spettatore e nel lettore la necessità di vedere tutto o bianco o nero. Sono i media che creano le tifoserie. Purtroppo, sulla Cina accade così da tempo».

Tifosi. Proprio come avviene per la Chiesa di papa Francesco: o sei con lui o contro di lui. A metà ottobre, gli Usa dell’ex presidente Trump e del suo segretario di stato Mike Pompeo avevano cercato d’interferire in maniera pesante sulle relazioni tra il Vaticano e la Cina che stavano lavorando per rinnovare l’accordo provvisorio del 22 ottobre 2018 sul processo di nomina dei vescovi.

Sul Corriere della Sera del 2 ottobre, Ernesto Galli della Loggia aveva parlato di «una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi» da parte di un «papa terzomondista». Vaticano e Cina non hanno badato alle critiche e, alla scadenza, hanno rinnovato l’accordo.

«Mi si perdoni l’iperbole – chiosa Pieranni -, ma io penso che sia il rapporto tra due organismi politici molto simili. Si tratta di due istituzioni che ragionano con tempi molto più lunghi di qualsiasi governo al mondo, hanno gli stessi modi, talvolta, di gestire questioni interne e sono molto abituati a “segreti”. Credo sia realpolitik: la Chiesa sa che in Cina la crisi dei valori favorisce l’evangelizzazione; la Cina sa che un accordo con la Chiesa la mette al riparo da certe critiche occidentali».

Paolo Moiola

Repubblica popolare cinese

  • Superficie:
    9,5 milioni di chilometri quadrati (quarto paese più vasto al mondo dopo Russia, Canada e Stati Uniti).
  • Popolazione:
    1,4 miliardi di persone (primo paese al mondo).
  • Sistema politico:
    Repubblica popolare a partito unico
    (Partito comunista cinese).
  • Economia:
    socialismo di mercato; 2° Prodotto interno lordo (Pil) al mondo dopo quello degli Stati Uniti.
  • Etnia principale:
    Han (92 per cento) e altre 55 etnie ufficiali.
  • Lingua ufficiale: mandarino.
  • Religioni:
    ateismo (ufficiale); taoismo, buddhismo, islam, cristianesimo (tra il 3 e il 5 per cento).
  • Criticità interne: Tibet, Xinjiang, Hong Kong.
  • Info in italiano: www.cscc.it; www.china-files.com.
  • Pa.Mo.

Dall’Impero alla Cina comunista

  • Immagine storica di Mao Zedong, il «grande Timoniere». Foto: Anefo.

    1912 – Dopo 2mila anni, cade l’Impero cinese.

  • 1927-1949 – Guerra civile cinese.
  • 1949 (ottobre) – Dopo la sconfitta dei nazionalisti, Mao Zedong fonda la Repubblica popolare cinese.
  • 1949 (dicembre) – I nazionalisti, sconfitti dai comunisti di Mao, si ritirano sull’isola di Taiwan, da allora «provincia ribelle» secondo Pechino.
  • 1950 – L’esercito di Mao occupa il Tibet.
  • 1989 (aprile-giugno) – Rivolta e repressione di piazza Tiananmen.
  • 1997 (luglio) – Hong Kong passa dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese.
  • 2013 (marzo) – Inizia la presidenza di Xi Jinping.
  • 2019 (marzo) – L’Italia firma un Memorandum d’intesa con la Cina sulla «Belt and road initiative» (Bri), popolarmente nota come «nuova Via della Seta».
  • 2019 (novembre) – Primi casi di Covid-19 nella provincia di Hubei (Wuhan).
  • 2020 (20 settembre) – L’amministrazione Trump vieta in Usa le applicazioni cinesi TikTok e WeChat.
  • 2020 (22 ottobre) – Viene rinnovato l’accordo (provvisorio e segreto) tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi.

Pa.Mo.

La copertina del libro «Red Mirror» di Simone Pieranni.

La copertina del libro «Una Cina “perfetta”» di Michelangelo Cocco.

 




Tra persecuzioni e rinascite

testo di Giorgio Bernardelli |


Dall’Henan nel 1870 a Canton oggi. La missione che più di ogni altra ha segnato la storia del Pime (Pontificio istituto missioni estere) compie 150 anni. Dalla Cina colonia di allora alla Cina colonialista di oggi, seminare il Vangelo è sempre una sfida tra difficoltà e persecuzioni.

Mai come durante questo 2020 la Cina è stata al centro dell’attenzione del mondo: dalle notizie legate al Covid-19 fino allo scontro tutto digitale su 5G e Tik Tok, la geopolitica ha passato ai raggi X ogni mossa di Pechino. Mentre il duro confronto con i giovani dei movimenti pro democrazia a Hong Kong ha mostrato tutte le contraddizioni del modello cinese.

In Cina da 150 anni

In questi stessi mesi, anche il Pontificio istituto missioni estere si è trovato a guardare alla Cina, ma da un altro punto di vista: nel 2020 cadono, infatti, i 150 anni dall’arrivo dei primi quattro missionari dell’istituto nella Cina continentale.

Dall’Henan – la regione «a Sud del fiume (Giallo)», immenso territorio nell’area interna considerata la culla della civiltà cinese – cominciò, infatti, nel 1870, la missione che più ha segnato la storia del Pime. Un tessuto di uomini, strutture, diocesi create quasi da zero, ma soprattutto di relazioni con le persone che nel giro di qualche decennio diedero vita a quel legame profondissimo tra il Pime e la Cina che nemmeno il Calvario durissimo vissuto dai cristiani in questo grande paese durante tutto il Novecento sarebbe riuscito a interrompere.

Passando per Wuhan

Era stata Propaganda Fide a chiamare nel vicariato apostolico dell’Henan l’allora Seminario lombardo per le missioni estere, il primo nucleo milanese del Pime, fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850.

La guida ecclesiale di quel territorio era stata affidata al trentottenne padre Simeone Volonteri, un missionario cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali e con una prima conoscenza del mondo cinese alle spalle, maturata in dieci anni di missione a Hong Kong, dove il Pime era già arrivato nel 1858.

Con lui, per la nuova missione nella Cina continentale, partirono anche padre Angelo Cattaneo, bergamasco, padre Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese.

L’8 febbraio 1870 lasciarono Hong Kong alla volta di Shanghai; da lì, poi, risalito per un primo tratto lo Yangtze – il «fiume Azzurro» -, sbarcarono nell’Hubei, nel porto di Hankow, che è poi la parte più antica di Wuhan, la città che la pandemia di questi mesi ci ha fatto conoscere.

Fino a Jingang

Hankow a quel tempo era l’ultimo porto di approdo per i piroscafi e, per questo motivo, era il grande crocevia per quanti si addentravano nelle province interne della Cina. Da lì, dunque, i missionari italiani impiegarono altri venticinque giorni di navigazione sul fiume Han, un’affluente dello Yangtze, per raggiungere l’Henan. Lo fecero a bordo di due piccole barche trascinate da terra con le funi per risalire controcorrente, mentre loro trascorrevano il proprio tempo sottocoperta studiando il cinese.

Solo il 19 marzo sarebbero infine sbarcati a Lahoekou, da dove raggiunsero Jingang, la cittadina nei pressi di Nanyang dove aveva sede la missione ereditata dai missionari Lazzaristi.

Un’antica comunità

Che cosa trovarono allora i missionari del Pime nell’Henan?

Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone tra i quali esisteva già una piccolissima comunità di circa tremila cristiani.

Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare in questa regione dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che, per secoli, a Kaifeng (a circa 300 km da Nanyang, ndr.), sempre nello Henan, erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero (come testimoniato dalla celebre stele di Xi’an).

Nel Settecento, poi, ai Gesuiti erano subentrati i Lazzaristi che, nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo per reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee -, avrebbero pianto nell’Henan due martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840.

Nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero. Ma nelle province come l’Henan, lontane da Pechino, a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani non era mutato.

Un contesto difficile

I missionari dell’allora Seminario lombardo per le missioni estere sapevano quindi che la missione alla quale erano stati chiamati non sarebbe stata facile.

Vestiti con abiti cinesi, con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate e una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo».

Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo.

Da stranieri si trovavano inoltre a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso, nel 1873, dovette affrontare una pubblica umiliazione quando, recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai Lazzaristi a Nanyang, ma mai utilizzata a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.

Carità e saggezza

In un contesto così difficile, fu il cuore generoso dei missionari a scardinare i pregiudizi.

Accadde in particolare durante una terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa in Italia. Fu questo a cambiare radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, oltre alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo della regione – che ebbe sempre molta cura nel tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Per esempio, fu tra i primi vescovi cattolici in Cina ad alzare la voce contro la piaga del commercio dell’oppio, alimentato dagli interessi europei. Il missionario arrivò persino a scrivere a Propaganda Fide chiedendo un pronunciamento chiaro di condanna da parte della Santa Sede; una presa di posizione che sarebbe però arrivata solo dopo qualche anno.

Nello Shaanxi

Parallela a questa prima presenza nell’Henan, se ne aggiunse poi presto un’altra nel vicino Shaanxi. Una missione legata, questa volta, al Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’istituto romano fondato da mons. Pietro Avanzini che, nel 1926, Pio XI avrebbe unito al Seminario lombardo, dando vita al Pontificio istituto missioni estere.

Questo secondo gruppo di missionari giunse nel vicariato di Hanzhong nel 1887, sempre con il compito di far crescere una Chiesa dal volto cinese.

I primi martiri

Nello Shaanxi sarebbe però cominciata per il Pime anche l’esperienza del martirio in Cina. Capitò nel contesto della rivolta dei Boxer che nel 1900 scatenò in tutto il paese un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. Nel vicariato di Hanzhong fu colpito a morte padre Alberico Crescitelli, missionario campano originario di Altavilla Irpina, giunto in Cina dodici anni prima, e che sarebbe figurato tra i 120 martiri cinesi canonizzati da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2000. Una morte violenta che non fermò la dedizione del Pime al popolo cinese. Al contrario: le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati a servizio della gente, continuarono a crescere, accompagnati dall’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti locali capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura, e anche da uno sguardo attento alla bellezza della cultura e delle tradizioni cinesi, come testimoniano – ad esempio – le splendide fotografie di padre Leone Nani, che ha lasciato con le sue lastre uno spaccato straordinario della Cina rurale dell’inizio Novecento.

Uccisi ed espulsi

Accanto a Crescitelli anche altri missionari del Pime in Cina sarebbero stati chiamati a donare la propria vita per il Vangelo: padre Cesare Mencattini nel 1941 nell’Henan, e poi mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng, nel 1942, ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella, straziati e gettati ancora vivi in un pozzo. E padre Emilio Teruzzi, sempre in quello stesso 1942, anno drammatico per la presenza del Pime in Cina.

Tutti e sei questi missionari caddero vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta tra nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, e le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione.

Uccisi prima della prova che sarebbe poi arrivata con la vittoria di Mao e della Cina comunista.

All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, per tutti i missionari del Pime in Cina, arrivò il tempo più difficile: la persecuzione, i processi popolari, le violenze fisiche e psicologiche in carcere. Fino alle espulsioni a frotte tra il 1951 e il 1954.

Erano quelli gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione e nazionalità scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.

I frutti che rimangono

Con il 1954 si chiuse dunque la presenza fisica del Pime nella Cina continentale. Ma che cosa sarebbe rimasto di quanto seminato dai 263 missionari dell’istituto che avevano svolto il loro ministero nelle province dell’Henan e dello Shaanxi nei 74 anni trascorsi dall’arrivo di padre Volonteri e dei suoi compagni?

Nonostante il tentativo del regime comunista di cancellare le tracce degli «stranieri», e la persecuzione ancora di più dura patita dai cristiani negli anni della Rivoluzione Culturale, i frutti della loro testimonianza non svanirono.

I primi ad accorgersene sono stati i confratelli che, a partire dagli anni Ottanta, quando da Pechino sono cominciate a giungere le prime aperture per le comunità cristiane, sono potuti tornare a visitare l’Henan e lo Shaanxi.

Figure come padre Giancarlo Politi (scomparso lo scorso anno) e padre Angelo Lazzarotto, con i loro viaggi, hanno potuto toccare con mano quanto, nonostante la tempesta immane abbattutasi su queste Chiese, la memoria dei missionari fosse rimasta viva.

Con emozione, per esempio, il Pime ha potuto apprendere che nella cittadina di Zhoukou – dove in un pozzo secco erano state nascoste le spoglie dei quattro missionari dell’istituto uccisi insieme nel 1942 -, i cristiani locali avevano costruito una nuova chiesa proprio in corrispondenza di quel luogo di cui non si era persa la memoria. Esattamente come nella Roma degli inizi del cristianesimo si costruivano altari sulle reliquie dei primi martiri.

Uscire dalle catacombe

La missione del Pime in Cina negli anni più recenti è stata quella di accompagnare nelle poche modalità concretamente possibili la vita delle comunità che, un passo alla volta, provavano a uscire dalle catacombe. Ad esempio attraverso il racconto delle storie dei tanti sacerdoti, religiosi e laici cinesi che avevano subito ogni sorta di persecuzione nel furore ideologico della Rivoluzione Culturale, ma anche aiutando la Santa Sede a ricostruire la fotografia di ciò che restava delle diocesi cinesi; premessa indispensabile per quel cammino di unità tra i cattolici in Cina che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno auspicato e che l’accordo voluto da Francesco con il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, pur con tutte le sue difficoltà, sta faticosamente cercando di promuovere.

Le suore di San Giuseppe

Anche dentro la cosiddetta «Chiesa ufficiale» – pienamente riconosciuta da Pechino – ci sono segni che parlano dell’eredità lasciata dai missionari del Pime.

Ne è un esempio la congregazione delle Suore Missionarie di San Giuseppe, un istituto femminile fondato nell’Henan da un missionario del Pime – padre Isaia Bellavite -, che quest’anno ha festeggiato il suo centenario.

Queste religiose, in origine, erano un gruppo di donne che nella zona di Anyang nel 1920 si erano prodigate per il servizio a chi aveva perso tutto durante un’alluvione devastante del fiume Giallo. In quel frangente, padre Bellavite intuì quanto preziosa sarebbe potuta essere per l’evangelizzazione una congregazione di suore cinesi: un ordine religioso locale, in grado di arrivare anche là dove il missionario straniero non avrebbe mai potuto accedere. Quando arrivarono gli anni della repressione comunista con l’espulsione dei missionari, le suore furono disperse, e ciascuna tornò alla propria famiglia; ma alcune di esse, in maniera nascosta, sono rimaste fedeli per decenni alla propria vocazione, e quando è stato possibile, hanno ridato vita alla loro comunità.

A quel punto la sorpresa dello Spirito è stata vedere anche giovani ragazze cinesi unirsi a loro.

Così oggi le Suore Missionarie di San Giuseppe sono una congregazione locale della diocesi di Anyang, un ordine che conta 127 religiose, impegnate nella pastorale ma anche nel servizio agli ammalati in una piccola clinica oftalmica che avevano aperto già negli anni Trenta e che è stata loro restituita dalle autorità locali.

Nel segno della carità

Nel segno della carità si inserisce anche un altro legame tra il Pime e la Cina continentale cresciuto negli ultimi anni: l’amicizia con Huiling, un’ong al servizio dei disabili, fondata e animata da una donna cattolica cinese, Teresa Meng Weina, e oggi indicata come un modello dalle stesse autorità cinesi.

In oltre trent’anni, Huling ha infatti aperto più di cento centri in tredici metropoli cinesi, con trecento operatori che assistono oltre mille disabili. Un cammino che i missionari del Pime da Hong Kong hanno costantemente sostenuto, in alcuni casi anche tornando per lunghi periodi in Cina a condividerne l’esperienza.  Da questa collaborazione sono nati anche progetti particolarmente significativi per la promozione della cultura della disabilità: una fattoria dove i portatori di handicap di Huiling lavorano alla periferia di Guangzhou (la città che in Occidente chiamiamo Canton), o una compagnia teatrale che porta in tutta la Cina il messaggio di questa realtà.

Per questo motivo, proprio al cammino di Huiling il Pime ha voluto che fosse legato il ricordo dei suoi 150 anni in Cina, attraverso una raccolta fondi intitolata «AvviCINAbili senza barriere» promossa in Italia. Un modo concreto per andare oltre la retorica sulla Cina come grande potenza, e per ripartire invece dal volto di chi è fragile, il più adatto a gettare ponti anche nei contesti più difficili.

Per tornare a incontrare – anche in un contesto così segnato da paure e contrapposizioni – un’altra Cina, più vicina al tesoro straordinario scoperto nel 1870 dai primi missionari nell’Henan, e provare a scrivere insieme alle comunità cristiane locali una nuova pagina di speranza per il mondo intero.

Giorgio Bernardelli




Tre libri sul futuro prossimo e su quello possibile

Globali e monastici


a cura di Sante Altizio |


Dalla Cina delle nanotecnologie alla vicenda di Silvia Romano, passando per le regole (economiche, oltre che spirituali) dei santi Francesco e Benedetto. Tre libri che raccontano quanto la storia a volte corre più veloce del calendario.


Red mirror

Le cose accadono, ma, a volte, corrono a velocità doppia. «Red Mirror» di Simone Pieranni (La Terza, 2020), è il nostro punto di partenza.

Pieranni (autore di diversi articoli per MC, ndr) è un giornalista che ha vissuto in Cina, la visita e continua a studiarla. Ha fondato un’agenzia di comunicazione con gli occhi puntati su Pechino, «China files», che da anni informa in modo puntuale e originale su quell’importante area del mondo.

Con Red Mirror, 224 pagine dense come marmellata di fichi, Pieranni apre la finestra su una realtà che fatichiamo ancora a mettere a fuoco: lo sviluppo cinese della nano tecnologia, della realtà aumentata, dell’intelligenza artificiale. Ciò che qui pensiamo sia futuro, lì è presente. Il nostro futuro esiste già e lo stanno vivendo, in anteprima, centinaia di milioni di persone a otto ore di aereo da noi.

È tutto talmente già avviato, consolidato e acquisito, che la Cina non è più il luogo dove si copia la tecnologia occidentale, ma il mercato dove gli occidentali scoprono (e comprano) le ultime novità hi tech.

Il riferimento alla quasi omonima serie tv, Black Mirror, è tutto meno che casuale, perché il saggio di Pieranni parte proprio dall’oggetto che è diventato la nostra protesi naturale: lo smartphone.

In Cina, se vuoi condurre un’esistenza quotidiana normale, devi scaricare sullo smartphone (Huawei, ma non solo, i colossi da quelle parti sono tanti) WeChat, un’app che si è trasformata in browser e con la quale puoi fare tutto. «Tutto» in senso stretto, non in senso lato. Anche l’elemosina.

Ovviamente con tutto il corollario di controllo sociale, che in Cina è vissuto con meno ansia rispetto a noi.

Strano? Folle? No. È il nostro futuro prossimo.


Meno è di più

L’Europa non è più il centro del mondo e, in attesa che il futuro prossimo cinese arrivi, è importante fare i conti con il presente di casa nostra, con la crisi strutturale che ci perseguita dal crollo della Lemann Brothers, e capire se e come possiamo costruirci un domani migliore.

Un’analisi molto intrigante arriva dal giornalista economico Francesco Antonioli. Per la rinnovata Edizioni Terra Santa, guidata ora dalla brava Roberta Russo, ha scritto Meno è di più (2020), con un sottotitolo che la dice lunga: Le Regole monastiche di Francesco e Benedetto per ridare anima all’economia, alla finanza, all’impresa e al lavoro.

La premessa di Antonioli è semplice: o ripensiamo l’economia, o implodiamo.

L’idea nasce dalle parole e dai documenti di papa Francesco, che hanno, va da sé, una matrice religiosa, ma indicazioni profondamente laiche.

Dobbiamo costruire un’economia di socialità che, con meno impatto, crei più ricchezza. Intendiamoci: nulla a che vedere con la «decrescita felice» che qui viene smontata grazie alle parole di Stefano Zamagni, economista da sempre attento alle dinamiche dell’economia globale e alla difesa di chi ne subisce gli effetti deleteri.

Ma come costruire questo diverso cammino? Riprendendo in mano le regole di San Francesco e San Benedetto.

Il terzo capitolo, solo per fare un esempio, s’intitola «San Francesco precursore di Steve Jobs?». Il secondo, invece, individua nella regola benedettina la guida perfetta per formare il management, costruire un’efficace policy aziendale, migliorare la qualità del prodotto, coinvolgere i dipendenti nelle scelte imprenditoriali.

Può sembrare un gioco provocatorio, ma non lo è: i monasteri dei secoli intorno all’anno Mille erano fabbriche, aggregazione, centri di pensiero e cuore dell’economia.

In quelle regole c’è il segreto per ripartire, per ri-animare l’economia mettendo al centro l’uomo.

Antonioli ha lavorato per lungo tempo al Sole 24 ore, è stato tra i fondatori dell’inserto Nord Ovest, ma ha anche al suo attivo libri su papa Francesco e Piergiorgio Frassati, sulle innovative scelte imprenditoriali di Andrea Illy e, tra non molto, sulla storia della Fondazione Agnelli. Di lui ci si può fidare.


Silvia, Diario di un rapimento

Chiudiamo il cerchio con un instant book che mostra quanto sia aggrovigliato il gomitolo della globalizzazione: Silvia Romano. Diario di un rapimento (2019), di Angelo Ferrari, pubblicato da People, una piccola casa editrice fondata due anni fa da Pippo Civati, Francesco Foti e Stefano Catone, che sta costruendo un catalogo di tutto rispetto.

Angelo Ferrari è stato il giornalista che più da vicino e con maggiore attenzione ha seguito, per il Desk Africa dell’Agenzia Italia, il rapimento in Kenya di Silvia Romano. Il libro, uscito poche settimane prima della liberazione della giovane milanese, è una raccolta dei tanti articoli scritti da Ferrari durante la prigionia della ragazza. Una piccola antologia di articoli che porta in sé, nello scoramento che a volte li pervade sotto traccia, un’ammissione dolorosa: di ciò che capita lontano dal cortile di casa, a noi non importa nulla. Silvia è stata rapita, separata dai suoi affetti per un tempo che le sarà sembrato eterno; è tornata (per fortuna) cambiata (poteva essere altrimenti?), e tutti ne hanno parlato, ma le ragioni che stanno a monte dell’esperienza di Silvia pochi le hanno indagate.

Angelo Ferrari fa parte di un piccolo collettivo di giornalisti italiani che si chiama Hic sunt leones, l’Africa che non ti immagini (www.dallapartedinice.org) che prova a far breccia nel nostro muro d’indifferenza. Per fortuna non demordono.

Tra il miracolo tecnologico cinese, la crisi d’identità dell’economia occidentale e il rapimento di una ragazza italiana in Kenya, un filo sottile che percorre le tre storie c’è: il mondo è globale, ma il centro della globalizzazione non è più qui.

Assistere da spettatori passivi è una pessima idea.

Sante Altizio




Hong Kong: La promessa e il tradimento

La storia non si cancella: fino al 1842, Hong Kong apparteneva alla Cina. Nel 1997 è tornata sotto il controllo di Pechino con uno status speciale. Un modello oggi compromesso dalle rivolte popolari e dal pugno duro della Cina.

Nel 1842, a Nanchino, Gran Bretagna e impero cinese firmarono un accordo che poneva termine alla prima guerra dell’oppio iniziata tre anni innanzi. Londra impose alla Cina l’apertura di porti tramite cui le compagnie vittoriane avrebbero potuto commerciare con l’entroterra e il Pacifico, il pagamento dei danni di guerra, un risarcimento per l’oppio confiscato agli inglesi e, soprattutto, la cessione definitiva e perpetua dell’isola di Hong Kong.

Il trattato di Nanchino fu il primo di una lunga serie di accordi iniqui che, con l’intervento di altre potenze occidentali (coinvolsero anche Giappone e Corea), segnarono l’inizio della dominazione britannica sulla regione di Hong Kong. Nel 1860 la Union Jack sventolò anche su Kowloon (l’area settentrionale), e nel 1898 il Regno Unito ottenne, con la seconda convenzione di Pechino, anche il controllo sui cosiddetti Nuovi Territori, questa volta concessi in affitto a Londra per 99 anni. Solo nel 1984 il premier cinese Zhao Ziyang e il primo ministro britannico Margareth Thatcher si accordarono affinché l’affitto fosse esteso su tutta la colonia. Londra avrebbe quindi rinunciato al possesso dell’intera area di Hong Kong una volta scaduto il contratto (1898-1997). Da parte sua, la Cina promise di concedere a tutti i territori di cui avrebbe ripreso possesso ampia autonomia secondo un modello ideato dal presidente Deng Xiaoping, denominato «un paese, due sistemi». Secondo questa formula, la «regione ad amministrazione speciale di Hong Kong» (Hong Kong special administrative region, Hksar) sarebbe stata sottoposta alla sovranità cinese. Pechino avrebbe controllato la politica militare e estera, mentre il governo locale avrebbe amministrato la regione secondo criteri di autonomia economica, giuridica e istituzionale per cinquant’anni a partire dal 1° luglio 1997, giorno in cui Hong Kong sarebbe stata riconsegnata alla Repubblica popolare cinese.

Un pendolare legge una copia del Apple Daily su un treno di Hong Kong l’11 agosto 2020, il giorno dopo l’arresto di Kong Jimmy Lai, proprietario del quotidiano, magnate dei media e sostenitore dei movimenti pro-democrazia. Due settimana dopo, il 26 agosto, vengono arrestati anche due deputati dell’opposizione. Foto di Isaac Lawrence / AFP.

La «legge di base»

Venne redatta la Hong Kong Basic law – legge di base, una sorta di Costituzione -, che avrebbe dovuto garantire ai cittadini dell’ex colonia britannica i diritti concepiti nel 1984. Il governatore avrebbe assicurato il rispetto della legge sotto il controllo di un Consiglio esecutivo e di un apparato giudiziario che operavano in piena indipendenza. Per alcuni versi la Basic law funzionò, seppur a singhiozzo: gli abitanti di Hong Kong godevano di diritti che ai loro concittadini in altre regioni della Cina erano negati o ristretti. Le libertà di stampa e di critica venivano rispettate, compresa la possibilità di manifestare contro le decisioni del governo locale o di ricordare la repressione di Tienanmen avvenuta nel 1989. Pechino, seppur storcendo il naso, sopportava.

Del resto, anche la Hong Kong britannica non era stata un esempio di democrazia: allo sfrenato liberismo economico si contrapponeva una legge coloniale che impediva alla quasi totalità della popolazione di partecipare alle elezioni. Questa segregazione politica venne ereditata e perpetuata da Pechino: nonostante la Basic law preveda che a Hong Kong ci sia il suffragio universale, ancora oggi meno dell’1 % dell’elettorato (circa milleduecento persone) ha diritto a scegliere il governatore tra una rosa di candidati che deve essere preventivamente approvata dal governo centrale. Anche i diciotto consigli distrettuali in cui è divisa la Hksar, che dovrebbero consentire ai cittadini una partecipazione amministrativa, sono visti con sospetto dagli abitanti in quanto vengono considerati alla stregua di tentacoli di Pechino per tenere sotto controllo politico la regione.

Forze di polizia schierate per le strade di Hong Kong per contrastare i manifestanti. Foto di Etan Liam.

La protesta e l’avvento di Xi jinping

Dopo il 1997, a differenza di quanto accadeva nel periodo britannico, i cittadini di Hong Kong iniziarono a interessarsi maggiormente alla politica e a impegnarsi nel controllare l’operato del governatorato.

Il Partito comunista cinese tentò in più modi di entrare a far parte di questo interesse cercando di indirizzare i movimenti giovanili verso la propria ala, ma tutti questi sforzi non produssero risultati.

Nel 2014 le prime proteste del movimento Occupy iniziarono a scuotere la vita sociale di Hong Kong. Il motivo delle contestazioni verteva sulle nuove norme introdotte da Pechino riguardo la candidatura e l’elezione del governatore che, una volta scelto, prima di entrare in carica avrebbe dovuto essere approvato dal governo centrale. Era una chiara violazione della Basic law, ma qualche mese prima, in occasione dell’anniversario delle proteste studentesche del 4 maggio 1919, Xi Jinping, da poco eletto presidente della Repubblica popolare, aveva tenuto un discorso all’Università di Pechino affermando che «Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti a livello dello stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti a livello della società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti a livello del cittadino».

Carrie Lam, la controversa governatrice di Hong Kong. Foto di Seb Daly / RISE via Sportsfile

Parlando agli studenti di Pechino, Xi Jinping lanciava un segnale anche ai giovani di Hong Kong: era il primo passo verso quella che sarebbe stata la nuova politica di Pechino verso la Hksar. Separando democrazia, potere legislativo e giudiziario, Xi Jinping poneva le basi per un cambio radicale nei rapporti con l’ex colonia britannica. Al popolo (cittadino) era chiesto solo di essere fedele ai principi di unità (patriottismo), lealtà (affidabilità) e armonia (amicizia). La politica doveva essere lasciata al partito. Non a caso, sempre nello stesso discorso, Xi ricordava le guerre dell’oppio, le stesse che portarono alla cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna, come causa prima della disgrazia nazionale.
I princìpi cinesi dovevano essere rispolverati e rivisti in chiave moderna, così come il confucianesimo, il ruolo del funzionario e del Partito comunista. Il primo (confucianesimo) garantiva le virtù tradizionali su cui la nuova Cina doveva puntellare la propria rinascita, mentre il funzionario, legato indissolubilmente al partito, doveva assumere un ruolo di guida. Un nuovo timoniere.

E Xi Jinping incarnava questa figura di novello timoniere: il 1° ottobre 2019, settantesimo anniversario della proclamazione della Repubblica popolare cinese (1949), si presentò indossando la casacca maoista. Accanto a lui c’era Carrie Lam che, dal 2017, proprio grazie a quella legge contestata dal movimento Occupy, era governatrice di Hong Kong e fedelissima di Xi.

Era il compimento di un percorso iniziato nel 2014, rafforzato nel 2017 quando il XIX Congresso del Pcc aveva ufficializzato il «Pensiero di Xi Jinping», e che nel 2018 aveva trovato la sua apoteosi legale con l’emendamento costituzionale che poneva un uomo solo al comando della nazione.

Xi Jinping si poneva, dunque, come l’anello di congiunzione tra la Cina socialista di Mao Zedong e la Cina prospera ed economicamente forte di Deng Xiaoping. Questa saldatura non poteva che unire anche Hong Kong alla madrepatria ancora più saldamente di quanto fosse stato fino ad allora.

Un gruppo di manifestanti pro-Cina festeggia con bandiere e brindisi l’approvazione della legge cinese sulla sicurezza nazionale (30 giugno 2020). Foto di Anthony Wallace / AFP.

La legge di estradizione

Nel febbraio 2019 Carrie Lam propose una legge sull’estrazione che allargava anche alla Repubblica popolare la possibilità di estradare cittadini colpevoli di reati gravi quali omicidio, violenza sessuale, ma non per reati a sfondo economico e politico.

Gli studenti iniziarono a scendere in piazza temendo che la legge potesse essere usata da Pechino per richiedere l’estradizione di dissidenti politici rifugiatisi a Hong Kong o per limitare i diritti umani e politici dei cittadini della Hksar.

A fine 2015 l’autonomia giuridica e istituzionale di Hong Kong era già stata scossa con la scomparsa di cinque importanti librai della città di cui, in seguito, si seppe erano detenuti in prigioni cinesi, con il divieto di pubblicare vignette satiriche riguardanti il corpo della polizia e l’appello fatto alla televisione locale, la Rthk, di non trasmettere interviste inerenti ai diritti umani. Logico, quindi, che la legge sull’estradizione scalfisse ulteriormente quell’idea di autonomia regionale tanto cara ai suoi abitanti. In più, la governatrice Carrie Lam era vista come l’alter ego di Xi Jinping. Il suo passato politico l’aveva vista confrontarsi duramente con i leaders del movimento Occupy chiudendo ogni forma di dialogo. Già da allora, ancora prima di essere eletta a governatrice, era chiaro che la sua politica era di applicare alla lettera i precetti dell’«Arte della guerra» di Sun Tzu: non battersi mai direttamente contro i nemici lasciando piuttosto che si fiacchino da soli.

La legge venne poi ritirata il 23 ottobre 2019, ma nel frattempo i manifestanti avevano allargato le loro richieste chiedendo le dimissioni di Lam, il suffragio universale per l’elezione del Consiglio legislativo e del governatore, il rilascio dei manifestanti arrestati, un’inchiesta sulle violenze perpetrate dalla polizia.

Ormai, però, il dado era stato tratto: le riforme cinesi erano state avviate e Xi Jinping non aveva intenzione di arrestarle.

La pandemia da Sars-CoV-2 ha dato inaspettatamente una mano ai governi di Pechino e Hong Kong togliendo i manifestanti dalle piazze per poi lasciare via libera al varo – a fine giugno 2020 – della contestatissima «Legge di sicurezza nazionale» e, infine, posticipare di un anno le elezioni legislative previste inizialmente per il 6 settembre.

Joshua Yong, il giovanissimo (è nato nel 1996) leader dei contestatori, mostra la domanda di candidatura alle elezioni; successivamente, queste sono state posticipate dalle autorità di un anno (al 5 settembre 2021) adducendo a motivo il Covid-19. Foto di Anthony Wallace / AFP.

Giugno-agosto 2020: la legge e gli arresti

Proprio la Legge sulla sicurezza nazionale, redatta in tutta segretezza quando il governo centrale aveva capito che le idee del partito comunista non avrebbero potuto attecchire in un substrato culturale arato e fertilizzato da decenni di liberismo economico, ha riavviato le polemiche dell’opposizione dividendo nettamente il mondo politico internazionale. I paesi occidentali, con Regno Unito e Stati Uniti in testa, hanno fortemente criticato la legge, i paesi asiatici, africani e alcuni latinoamericani guidati dalla Russia, l’hanno invece appoggiata.

I 66 articoli della legge, il cui contenuto non era noto neppure a Carrie Lam sino alla sua ufficializzazione, racchiudono punti che puniscono con la prigione a vita reati più gravi come il tentativo di minare l’autorità del governo centrale, il terrorismo (la cui voce comprende anche il danneggiamento dei trasporti pubblici), la cooperazione con forze straniere e la secessione. Tutti coloro che si rendono colpevoli dei crimini ascritti alla legge, potranno essere processati in Cina, e Pechino si riserva anche il diritto di decidere l’interpretazione della legge in caso questa non sia chiara. A Hong Kong si stabilirà un ufficio di sicurezza con personale cinese sotto l’autorità del governo centrale e nella Commissione di sicurezza nazionale di Hong Kong un posto sarà riservato a un consigliere nominato da Pechino.

Queste misure hanno portato molti analisti a definire chiusa la stagione «un paese, due sistemi» e convinto alcuni dei leader della rivolta a sciogliere i loro movimenti. È stato il caso, ad esempio di «Demosistō», fondato il 10 aprile 2016 da Joshua Wong (nato nel 1996) e Agnes Chow (anche lei del 1996), ufficialmente sciolto il 30 giugno 2020.

Da parte sua, la Cina – e con essa Carrie Lam – afferma che nulla è cambiato e cambierà nella legislazione dell’Hksar ammonendo i governi critici verso il suo operato, di non interferire con gli affari interni.

E proprio l’accusa di collaborazionismo con organizzazioni straniere è stata usata per compiere il primo arresto eccellente in ottemperanza alla legge. Il 10 agosto è stato infatti incarcerato Lai Chee-Ying, meglio noto come Jimmy Lai, editore e finanziatore di numerosi gruppi pro democrazia e proprietario della famosa catena di abbigliamento Giordano. Il 26 agosto e il 6 settembre sono stati arrestati molti altri oppositori.

Un incredibile alveare d’abitazioni, l’altra faccia della metropoli asiatica. Foto di Philippssal – Pixabay.

La tecnologia contro la galassia del dissenso

A proposito dell’interferenza straniera, i media pro Cina sono andati a nozze quando una sparuta, ma organizzata, minoranza di manifestanti ha invocato l’intervento di Trump-Usa-Gran Bretagna a difesa della democrazia ad Hong Kong sventolando bandiere a stelle e strisce o del Regno Unito. La stampa occidentale ha dato a questi gruppuscoli più peso di quanto ne abbiano avuto localmente, ma in questo modo Pechino ha avuto buon gioco nel presentare l’intero movimento di protesta come diretto e orchestrato dall’esterno.

In realtà, le anime dell’ondata di dissenso che sta ancora oggi agitando le acque del «porto profumato» (questo il significato del nome «Hong Kong») sono molteplici: dagli ultraliberisti agli ultranazionalisti, dai gruppi di «sinistra» ai nostalgici del colonialismo. Non vi è un vero e proprio centro direzionale, una leadership univoca: tutto è atomizzato, un’onda fatta da miriadi di gocce che si infrange contro gli scogli dei due poteri che regnano a Hong Kong: quello centrale di Pechino e quello locale. Non esiste neppure una linea programmatica: tutto si decide tramite Facebook, WeChat, WhatsApp, Line e l’agenda è decisa ora per ora.

«Siamo acqua, siamo hongkongers!», è il motto che unisce la maggior parte dei movimenti. Adattarsi alle situazioni istante per istante per essere pronti a penetrare i più piccoli anfratti e, da lì, proprio a causa di questa estrema mobilità e difficoltà di prevederne le mosse, le autorità hanno predisposto una delle più sofisticate reti di riconoscimento facciale e di tracciatura al mondo, collegandosi al modello già in uso nello Xinjiang e in altre provincie più delicate della Cina. Ecco, dunque, il motivo dell’accanimento dei dimostranti contro le telecamere e le webcam che tutto registrano e tutto controllano ad Hong Kong.

Nel frattempo, un’altra nazione, la cui storia condivide un passato travagliato con la Repubblica popolare, sta guardando con interesse ciò che accade nell’ex colonia britannica: Taiwan. Se davvero – come affermano molti analisti – il modello «un paese, due sistemi» sta fallendo ad Hong Kong, l’unificazione di Taipei con Pechino potrebbe allontanarsi ancor più di quanto sia distante attualmente.

Piergiorgio Pescali

Una spettacolare veduta della Hong Kong notturna. Foto di Skeeze – Pixabay.

 




«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




La Cina è grande, ma non ha spazio per noi

testo di Luca Lorusso |


Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.

Un dialogo con due perseguitati

«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».

L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.

foto in CC da evanse1_flickr – https://www.flickr.com/photos/145837323@N08/39243506842/

Fedeli a Dio Onnipotente

Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.

Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.

Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).

Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».

Reclusione arbitraria

Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].

Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.

In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.

Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».

Una vita latitante

Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».

La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.

«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.

In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.

Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».

Paura di tornare

La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.

Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.

foto in CC da guandoandelei_flickr – Una cristiana indonesiana femminile espresse i suoi sentimenti dopo aver creduto in Dio Onnipotente – https://www.flickr.com/photos/160458804@N06/32309036097/in/photostream/

La storia di Vivian

Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».

Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».

Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.

Pregare nascosti

«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.

Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».

Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.

Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».

Richiesta di asilo

Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».

Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».

Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».

Rischio espulsione

«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.

La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».

«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».

Luca Lorusso

Archivio MC sui richiedenti asilo cinesi in Italia:
Luca Lorusso, Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione, in MC agosto 2019.


La Chiesa di Dio Onnipotente

La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.

Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.

La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.

Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.

La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.

La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.

La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.

Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.

Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.

Teologia

Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.

Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.

Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.

Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.

L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.

Cdo e comunisti

La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.

Le persecuzioni

A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».

Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».

Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».


Due libri per conoscere:




Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione

Testo di Luca Lorusso


Quella cinese è la terza comunità extra Unione europea in Italia: 277mila a fine 2017. Tra questi, i rifugiati e richiedenti asilo sono sempre stati poche decine. Fino al 2015, quando il loro numero è cresciuto d’improvviso. Motivo: le persecuzioni religiose in patria. In Italia nove domande d’asilo su dieci vengono rigettate, a volte per semplice incomprensione del fenomeno.
Ne abbiamo parlato con l’associazione A buon diritto e con Massimo Introvigne, esperto di nuovi movimenti religiosi e di persecuzioni in Cina.

«Sia la mia religione, sia le chiese domestiche sono proibite [in Cina] e le persone vengono arrestate e picchiate», dice Quian (nome di fantasia), donna cinese di 49 anni, al funzionario italiano che la interroga per valutare la sua richiesta di protezione internazionale in Italia. «Nel 2009 mi sono ammalata, una parente mi ha fatto avvicinare alla religione del Quan Neng Shen, mi ha dato il testo sacro, da lì ho scoperto che l’uomo è stato creato da Dio, e ho cominciato a credere. Tutte le malattie che avevo sono passate […], ho cominciato a parlare della Bibbia ai miei parenti e agli amici. Dal dicembre 2012 […] il governo ha cominciato a perseguitarci […]. Quando hanno scoperto che appartenevo a questa religione hanno iniziato a fare una cattiva propaganda negativa, dicendo che appartenevo a una setta. Mio marito […] mi ha picchiata e non mi ha più creduto, abbiamo litigato, abbiamo divorziato […]. Sono andata in una casa di accoglienza che riuniva persone dello stesso credo; ci riunivamo e recitavamo il nostro testo sacro. Un giorno, insieme a una sorella, sono stata arrestata. […] Ci hanno portate in cella, il mattino dopo sono venuti e ci hanno chiesto a che religione appartenessimo, noi non abbiamo risposto, ci hanno picchiato sul volto e sulle gambe. Nel pomeriggio del secondo giorno hanno pagato la cauzione di mille yuan e siamo state scarcerate. […] Ho pagato e mi hanno fatta uscire, quei poliziotti erano corrotti».

Il 4 luglio 2016, quando Quian affronta il colloquio con la Commissione territoriale che giudicherà la fondatezza della sua richiesta d’asilo, la donna è in Italia da quasi un anno. Le tre ore di domande in italiano e di risposte in mandarino, mediate da un interprete, condurranno la commissione a rigettare la sua richiesta.

Il successivo 8 novembre Quian viene informata dell’esito. Esattamente come succede a 9 richiedenti asilo cinesi su 10, entro 30 giorni dovrà ricorrere in tribunale, altrimenti verrà espulsa.

Incense Jing’An Temple (Shanghai). / www.flickr.com/photos/onourtravels/6322706753/

Fenomeno nuovo

Il 2016 è l’anno del picco: ben 870 nuove domande d’asilo di persone cinesi. Il numero non è elevato, ma impressiona se confrontato a quelli degli anni precedenti: 355 nel 2015, 85 nel 2014 e mai sopra le 45 prima del 2014. Mentre nel 2017 e nel 2018 saranno rispettivamente 315 e 365.

Di questo aumento improvviso si rendono conto alcuni soggetti che operano nell’ambito del diritto d’asilo. Tra questi l’associazione A buon diritto (www.abuondiritto.it) con sede a Roma che, non solo registra l’aumento dei richiedenti asilo cinesi, ma sottolinea la specificità del fenomeno in un rapporto del 2017 intitolato Manicomio religioso.

Di persone provenienti dalla Cina ce ne sono molte in Italia. È una comunità straniera «antica», registrata fin da inizio ‘900. Oggi è la terza comunità extra Ue, dopo Marocco (391.388) e Albania (382.829), per numero di permessi di soggiorno rilasciati: 277mila a fine 2017 (ultimo dato Istat disponibile). I richiedenti asilo cinesi però sono sempre stati pochissimi.

https://www.flickr.com/photos/roel1943/33079021915/

«Manicomio religioso»

«A buon diritto ha una serie di sportelli legali su Roma. La responsabile dell’area legale aveva iniziato a notare l’aumento del numero di persone di nazionalità cinese che venivano a chiedere consulenza. Parliamo del 2015-16. Erano soprattutto ragazze che facevano il passa parola e venivano a informarsi su che cosa fosse la domanda di protezione internazionale, come potessero farla e quali fossero i loro diritti», ci dice Francesco Portoghese, uno degli estensori del rapporto pubblicato nel giugno 2017, operatore legale che si occupa di diritto d’immigrazione e d’asilo per A buon diritto.

«L’arrivo di due donne cinesi nel 2015 è stata un’assoluta novità – è scritto nell’introduzione del report -, fino a quel momento per noi l’Asia era rappresentata dai pakistani, dagli afghani e dai bengalesi. […] Da subito lo strumento utilizzato fu google traduttore senza il quale sarebbe stato impossibile anche solo immaginare la loro richiesta. […] La sorpresa arrivò quando sullo schermo apparve in italiano la frase da loro digitata in cinese, che diceva letteralmente “chiediamo un manicomio religioso”. […] probabilmente la parola era stata tradotta dal cinese in asylum e da qui in italiano in manicomio». Le due ragazze chiedevano protezione internazionale per motivi religiosi.

«Con questa sorta di equivoco linguistico abbiamo poi giocato per fare il titolo del report – aggiunge Portoghese -. Quando chiedevamo quali fossero i motivi della domanda di protezione, loro ci rispondevano sempre “motivi religiosi”».

Todenhoff-Uyghur girl https://www.flickr.com/photos/90987386@N05/8266389125/

Culti vietati e perseguitati

Tutti i casi seguiti dall’associazione di Roma riguardano persone perseguitate per il loro credo. «Non c’è un riconoscimento sostanziale della libertà di religione in Cina – continua Francesco Portoghese -. Nonostante nella sua Costituzione sia prevista, vi è un articolo del codice penale cinese, il 300, che mette al bando diversi culti ritenuti pericolosi». Quando una persona è indiziata di fare parte di un credo religioso vietato «possono scattare anche misure restrittive della libertà personale, come ad esempio l’arresto, e, nel cento per cento dei casi delle persone che ci hanno raccontato le loro storie, non c’è stata la possibilità per loro di vedere un avvocato, di comparire davanti a un giudice. Venivano prese e portate dentro prigioni o strutture per limitare la loro libertà. Alcune hanno riferito anche di essere state percosse in maniera molto violenta».

Portoghese ci racconta che dalle storie riportate dai cinesi richiedenti asilo, emergono due forme di persecuzione subite: «Una fisica: la violenza perpetrata da parte delle forze dell’ordine. E una psicologica: perché una volta che il tuo nome si conosce, non puoi più stare tranquillo, sai che in un modo o nell’altro potranno arrivare a te o alla tua famiglia. Ed è anche questo il motivo per cui a volte queste persone tranciano di netto i legami famigliari e abbandonano il paese».

Muslim Market in Xi’an China https://www.flickr.com/photos/bryonlippincott/41695069100/

I «mercati» religiosi in Cina

Per capire meglio la questione delle religioni perseguitate in Cina, abbiamo parlato con Massimo Introvigne, considerato uno dei maggiori conoscitori a livello internazionale di quelli che lui chiama «nuovi movimenti religiosi»: «Mi occupo della questione tutti i giorni. Ho recentemente scritto un libro per Elledici sulla Chiesa di Dio onnipotente: la chiesa cinese che attualmente conta il maggior numero di richiedenti asilo in Italia». L’avvocato torinese, fondatore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni, www.cesnur.org), ci spiega che i culti professati in Cina si possono suddividere in tre gruppi, chiamati dal sociologo Fenggang Yang «mercato rosso, grigio e nero». Del «mercato rosso» fanno parte le cinque associazioni patriottiche alle quali è consentito operare pubblicamente sotto il controllo del Pcc, il partito comunista cinese: la Chiesa delle tre autonomie (che raggruppa i cristiani protestanti), l’associazione buddista, quella islamica, quella taoista e la chiesa cattolica patriottica (della quale abbiamo parlato recentemente nel dossier MC marzo 2019, ndr).

Le religioni del «mercato nero» sono quelle presenti nella lista dei cosiddetti xie jiao (cioè degli «insegnamenti non ortodossi», tradotto spesso con «sette malvagie»), considerate pericolose per il governo ed esplicitamente vietate e perseguitate.

I culti del «mercato grigio» sono tutti gli altri, tra cui, ad esempio, la chiesa cattolica sotterranea.

Se i membri di un xie jiao rischiano il carcere, oltre a torture e vessazioni arbitrarie da parte delle autorità, anche i fedeli del «mercato grigio», da poco più di un anno subiscono limitazioni sempre più frequenti alla loro libertà di culto: chiese, templi, moschee non riconosciuti, che erano sopravvissuti per la tolleranza di alcune autorità locali, ora vengono chiusi in gran numero.

Massimo Introvigne, tra le altre cose, ha fondato nel maggio 2018 un quotidiano online sulla libertà religiosa in Cina: bitterwinter.org. In esso sono frequenti i resoconti di chiese, templi, moschee distrutti, di arresti di massa e detenzioni arbitrarie, di torture subite da membri dei culti xie jiao. Anche a causa del comprensibile uso di pseudonimi da parte degli articolisti (una quarantina dei quali – ci informa Introvigne – sono stati arrestati), la verificabilità delle notizie è difficile, ma la lettura di diversi rapporti di Amnesty international, Human right watch, Pew research center e altri, nonché del Report on international religious freedom 2018 del Dipartimento di stato Usa, uscito a fine giugno, che cita tra le fonti proprio Bitter Winter, affiancata all’opacità che circonda la vita del paese asiatico, rendono credibili molti di quei racconti.

Rifugiati cinesi nel mondo

L’aumento del numero di cinesi richiedenti asilo per motivi religiosi non è un fenomeno solo italiano, ma mondiale.

«Nel 2018, i cinesi che nel mondo hanno chiesto asilo per ragioni religiose è stato di 2.571 – ci informa Introvigne, citando dati dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati -. Il numero complessivo di nuovi richiedenti asilo cinesi è stato di 21.754». Circa un cinese su dieci che l’anno scorso ha fatto richiesta di protezione internazionale nel mondo, quindi, non aveva motivi di persecuzione etnica o politica, ma religiosa.

Questi dati, che riguardano le nuove richieste d’asilo del solo 2018, non sono da confondere con i dati complessivi che riguardano anche i rifugiati già riconosciuti e tutti i richiedenti asilo in attesa già da prima. A fine 2018, infatti, i cinesi rifugiati nel mondo erano in totale 212.050, quelli richiedenti asilo 94.367.

«Ho tenuto la relazione introduttiva a un incontro alle Nazioni Unite, qualche settimana fa a Ginevra, sui rifugiati provenienti dalla Cina in tutto il mondo. Il fenomeno è esploso negli ultimi anni, in particolare dopo il 2014, con un picco nel 2018. L’anno scorso, la Cina è diventata il nono paese al mondo per numero complessivo di rifugiati, e questa è una novità, perché per molti anni non figurava tra primi venti».

Pare che nel 2019 il numero di persone in fuga stia scendendo. Questo, per Introvigne, probabilmente a causa dell’avanzamento delle tecnologie usate dal governo per impedire, ad esempio, il rilascio tramite la corruzione di passaporti regolari.

https://www.flickr.com/photos/160462434@N06/45923920154/

Accoglienza schizofrenica

In Italia e in Europa, viene accolta in prima istanza circa una richiesta d’asilo su dieci, mentre in altri paesi l’accoglimento è maggiore.

«L’atteggiamento nei confronti dei rifugiati per motivi religiosi, nel mondo, è abbastanza schizofrenico – afferma Introvigne -, nel senso che vari paesi hanno atteggiamenti diversi. Canada e Usa hanno una percentuale di accoglimento delle domande dell’80 per cento, la Nuova Zelanda si avvicina al 100 per cento. Giappone e Corea, invece, non accolgono quasi nessuno. Il Giappone, su 20mila domande negli ultimi cinque anni, ne ha accolte 19. Non dalla Cina, ma da tutto il mondo. La Corea tende ad accogliere solo quelli della Corea del Nord. L’Europa è un po’ nel mezzo».

Ma perché allora i 6.095 cinesi che hanno fatto domanda d’asilo politico in Europa nel 2018, non sono andati in Canada, negli Usa o in Nuova Zelanda, dove è più facile ottenere asilo? «Negli Usa è più facile ottenere asilo – risponde Introvigne -, ma è molto più difficile ottenere il visto».

Per quanto riguarda il picco di richieste del 2016 in Italia, in effetti, un elemento importante da tenere in conto è quello che il nostro paese nel 2015 rilasciava il visto turistico con molta facilità in occasione del Giubileo straordinario e dell’Expo di Milano.

«Non escludo – aggiunge Introvigne – che nel caso della Chiesa di Dio onnipotente ci sia anche un’idea di distribuirsi nel mondo per fare attività missionaria, benché al momento essa non abbia dato grandi risultati».

https://www.flickr.com/photos/malcsb/3708167965/in/photostream/

Insufficienza d’informazioni

Il caso dei richiedenti asilo cinesi in Italia può essere un punto di osservazione interessante per capire qualcosa di più su come vengono valutate le domande di protezione internazionale. Al netto delle storie di persecuzione palesemente false, infatti, molti dinieghi sembra siano dipesi più dalle informazioni parziali in possesso delle commissioni territoriali, e dalle traduzioni cinese-italiano, a volte molto carenti, che dalle storie personali dei richiedenti.

A giudicare dagli atti di diniego, come quello consegnato a Quian nel novembre 2016, in alcuni casi l’asilo pare essere stato negato anche a causa delle informazioni parziali o vecchie in possesso dei funzionari sulla Cina e sui movimenti religiosi perseguitati: «La riunione a Ginevra di cui ho parlato, aveva anche lo scopo di migliorare le banche dati di informazioni sulle minoranze religiose in Cina usate dalle commissioni. Erano, infatti, molto vecchie – conferma Introvigne -. Per esempio sulla Chiesa di Dio onnipotente e sugli Uiguri (minoranza musulmana perseguitata dal Pcc, – vedi i link a fine articolondr) dicono cose che erano vere dieci anni fa, se lo erano».

Un altro problema è poi quello della lingua: «L’asilo viene negato in parte per difficoltà di comunicazione – prosegue lo studioso torinese -. Per esempio, abbiamo notato che la qualità degli interpreti utilizzati dalle commissioni è molto bassa. In Italia è un problema particolare, perché sono pagati poco. Io conosco una ragazza a Torino che lo fa molto bene, per passione. Ma se uno non lo fa per passione, è chiaro che preferisce fare l’interprete per una multinazionale cinese.

C’è poi anche un problema culturale, nel senso che queste persone spesso non sanno come raccontare la loro storia in un modo coerente e credibile a chi non è abbastanza informato. Questo è un problema che riguarda tutti i rifugiati. Nel caso dei cinesi che, in Italia, sono in gran parte della Chiesa di Dio onnipotente, fino a qualche tempo fa nessuno sapeva di cosa si trattasse. Si andava su internet e si trovavano informazioni derivate dalla propaganda cinese. Questa cosa è migliorata con la comparsa, ad esempio, del mio libro, che ho depositato in parecchie cause».

La questione dei passaporti

Un altro problema, legato al tema delle informazioni sulla Cina, è quello del passaporto. Come mai, si domandano i funzionari italiani, e lo domandano in modo insistito ai richiedenti asilo, le autorità cinesi hanno rilasciato un regolare passaporto a un perseguitato?

«La questione del passaporto va studiata molto attentamente – risponde Introvigne -. Possiamo provare a dare delle risposte. La prima è che molti scappano prima di essere scoperti e quindi è chiaro che non figurano in nessun data base di ricercati. Qui si pone un problema di interpretazione delle leggi sui rifugiati: il perseguitato non è solo quello che è già stato arrestato, ma anche quello che, se fosse scoperto, sarebbe arrestato. L’altro fattore è che in Cina ci sono milioni di casi di corruzione ogni anno. Comperarsi un passaporto credibile non è difficile. È vero che il riconoscimento facciale, che le impronte digitali, rendono la cosa ogni anno un po’ più difficile, ma è anche vero che, pagando, tutto si può alterare. Si può acquistare, ad esempio, la complicità di uno che a una certa ora all’aeroporto non ti controlla.

Quello che secondo me spiega la questione passaporti è la massiccia corruzione. Pagando il giusto a un poliziotto corrotto, non c’è tecnologia che tenga».

Il terrore della delazione

Secondo gli ultimi dati analizzati dal Pew research centre risalenti al 2016, la Cina è il paese al mondo nel quale sono maggiori le restrizioni alla libertà religiosa da parte del governo, mentre l’ostilità sociale, da parte dei privati cittadini, è tra le più basse. Non si registra un numero elevato di episodi di intolleranza o violenza privata nei confronti dei membri delle minoranze religiose. Per questo forse il governo deve ricorrere a incentivi economici per indurre le persone a denunciare i membri delle religioni vietate: «Ci sono delle taglie economicamente interessanti per chi denuncia un appartenente a uno xie jiao. Sono più alte per i leader, ma esistono anche per i semplici fedeli», conferma Introvigne.

Quando i cinesi fuggono dal loro paese per timore di essere arrestati e arrivano in Italia, sono generalmente molto spaventati e vivono nel costante timore della delazione. «È chiaro che quando uno arriva – ci dice Introvigne -, ha molta paura e una tendenza un po’ paranoica a vedere agenti cinesi dappertutto che “mi spiano, mi vogliono rimandare in Cina, metteranno in pericolo i miei famigliari”. Dopo un po’ che vive in Italia, però, e dice qualche parola in italiano, comincia a prendere un po’ di sicurezza».

Praticanti del Falun Gong che dirigono l’attenzione ai problemi dei diritti umani in Cina https://www.flickr.com/photos/infomatique/3741254945/in/photostream/

La rete comunitaria

Normalmente, comunque, fanno in fretta a inserirsi nella comunità dei loro concittadini. Dice Francesco Portoghese: «La comunità cinese presenta molte peculiarità, prima di tutto perché c’è una forte componente di persone cinesi arrivate in Italia per lavoro. C’è una rete etnica molto presente. Le persone, anche prima di ottenere la protezione, erano già in contatto con altri connazionali, tanto è vero che in alcuni casi rifiutavano anche di entrare nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo, preferendo dimorare da amici. Questo da un certo punto di vista ha rischiato di creare una sorta di ghettizzazione perché erano persone terrorizzate che si fidavano, ma neanche tanto, solo dei loro connazionali, e avevano molte difficoltà a rapportarsi con le forze dell’ordine per il semplice fatto di vedere una persona in divisa, e quindi era molto difficile approcciarle». Introvigne, sulla vita dei richiedenti asilo cinesi in Italia, aggiunge: «Diciamo che i richiedenti asilo cinesi un lavoro lo trovano, magari non completamente regolare. Perché poi, nella comunità cinese, c’è quello dello stesso paese o della stessa etnia che ti dà un lavoro in nero. È evidente però che, anche se possono vivere in Italia in modo irregolare, si battono per ottenere almeno una protezione sussidiaria. Tra l’altro i membri della Chiesa di Dio onnipotente e anche degli Shouters (altro movimento religioso cinese, ndr), hanno una morale tradizionale protestante fondamentalista, per cui a loro non piace violare la legge. Se potessero avere un lavoro regolare, non clandestino, sicuramente preferirebbero. E poi è una comunità che non pesa sullo stato, che ha delle forme di aiuto interne, nella quale chi è benestante aiuta gli altri. Sono comunità autosufficienti. E da questo punto di vista sono dei buoni cittadini».

Rompere i legami famigliari

Nei loro racconti, i richiedenti asilo cinesi spesso parlano della necessità di rompere tutti i legami con le loro famiglie rimaste in Cina. Nel report di A buon diritto viene raccontato di una donna che, per mantenere la propria fede, è scappata dalla Cina lasciando in patria il figlio tredicenne senza nemmeno avvisarlo, e troncando ogni contatto.

«Questo è un tasto doloroso – afferma Introvigne -. Spesso cercano di evitare i contatti per paura di mettere nei pasticci i propri famigliari. C’è chi telefona ma cerca di evitare qualunque argomento sensibile perché sa che esiste una sorveglianza, e c’è chi non telefona neppure.

Di tornare, naturalmente, non se ne parla. Primo perché in Italia, con il decreto sicurezza, se uno torna anche per una breve visita dopo aver ottenuto asilo, glielo tolgono, ma poi perché ci sono diversi casi di persone che pensavano di non essere note al Pcc come membri della Chiesa di Dio onnipotente o di un altro gruppo, e che, invece, tornati in Cina, magari per un’operazione chirurgica che lì costa meno, sono stati arrestati. Il che conferma che una sorveglianza della Cina sui profughi all’estero c’è».

La religione è un pretesto?

Leifeng Pagoda in Hangzhou. /  https://www.flickr.com/photos/onourtravels/6322741761/in/photostream/

Nel report di A buon diritto si esprime il dubbio che la persecuzione religiosa, a volte, possa essere falsa e che venga usata come pretesto per ottenere lo status di rifugiato e aggirare così la chiusura degli ingressi in Italia stabiliti con il decreto flussi, oppure per nascondere un fenomeno di tratta di persone: «Sì, ci sono stati anche dei casi di prostituzione – afferma Introvigne -. Prostitute che sono entrate con false storie di persecuzione religiosa. Questo è sempre possibile. Quindi, il consiglio che, da una parte, si può dare alle commissioni territoriali e, dall’altra, si può dare ai movimenti religiosi, è di affinare un sistema di certificazione di chi è membro del movimento e di chi non lo è. Ci sono stati casi, ad esempio in Australia, in cui la stessa Chiesa di Dio onnipotente ha smascherato dei falsi rifugiati che dicevano di essere suoi membri».

Quando le commissioni che devono verificare se il richiedente è veramente membro di un movimento religioso perseguitato, fanno domande sulla sua teologia, ma basandosi su informazioni spesso vecchie o parziali, il rischio di sbagliare è alto. Sono diversi i casi nei quali le risposte dei cinesi richiedenti asilo erano giuste, ma non combaciavano con le informazioni a disposizione della commissione.

L’obbligo di proteggere

Nel clima di aspra propaganda sui migranti che si respira in Italia, può essere utile soffermarsi su una tipologia così particolare di persona: il rifugiato per motivi religiosi. Se non altro per constatare che il fenomeno «immigrazione» è complesso e vario, almeno quanto sono complesse a varie le singole storie personali di quelli che chiamiamo «immigrati».

«Sappiamo che in Italia, nei confronti dei rifugiati non c’è un atteggiamento di accoglienza, e nell’opinione pubblica vi è una grandissima confusione tra rifugiati e immigrati, mentre è chiaro che sono due categorie giuridiche diverse – afferma Introvigne -. Esiste il problema, come ci ricorda papa Francesco, di accogliere gli immigrati, però, mentre accogliere gli immigrati è una questione politica, accogliere i rifugiati è un obbligo che deriva dai trattati internazionali che abbiamo sottoscritto».

Luca Lorusso


Su Cina e cristianesimo

Sugli Uiguri, vedi su MC




Stati Uniti versus Cina: la lotta per la supremazia


Testo di Francesco Gesualdi


Trump accusa la Cina di pratiche commerciali sleali. Per questo ha adottato dazi sui prodotti cinesi, innescando una guerra commerciale che ha conseguenze mondiali. Quella tra Stati Uniti e Cina è una lotta tra giganti, a cui nulla importa delle persone e del Creato. Nel frattempo, l’Italia…

Uno degli elementi di complicazione del capitalismo è che le imprese non sono un corpo omogeneo. Unite dal medesimo obiettivo di fare profitto, si dividono in mille rivoli quando veniamo alle strategie. Grandi contro piccole, finanziarie contro produttive, locali contro globali, sono solo alcune delle contrapposizioni in campo. Ogni gruppo tenta di far prevalere il proprio interesse e, a seconda di quale si impone, il capitalismo cambia forma. Senza mai arrivare a un assetto definitivo perché la lotta è continua. Talvolta il cambiamento è così repentino che non facciamo in tempo a capire cosa è successo che già è in corso un nuovo mutamento. E, a rendere le cose ancora più complicate, ci sono i calcoli della politica che oltre a voler soddisfare le esigenze dei potentati economici hanno interesse a sopire le frustrazioni popolari per garantirsi un largo consenso. Ed ecco il riemergere di nazionalismi e posizioni di indiscussa fede mercantilista che, attribuendo la responsabilità di tutti i mali agli stranieri, pretendono di risolvere i problemi nazionali semplicemente spuntando rapporti più favorevoli nei confronti del resto del mondo. Magari cominciando a erigere muri contro chiunque pretenda di entrare in casa sua senza essere stato espressamente invitato.

I rappresentanti di questo nuovo corso sono Le Pen, Salvini, Orban, ma soprattutto Donald Trump che è stato anche il più audace in campo economico.

Produzione e posti di lavoro

Il paese contro il quale il presidente americano si è scagliato di più è stato la Cina accusandolo di avere fatto perdere agli Stati Uniti oltre tre milioni di posti di lavoro. In effetti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono passate da 2 miliardi di dollari nel 1979 a 636 miliardi nel 2017. E se, nel 2000, gli Stati Uniti registravano un deficit commerciale verso la Cina (differenza fra importazioni ed esportazioni) pari a 84 miliardi di dollari, nel 2017 lo troviamo a 375 miliardi di dollari.

Ciò che Trump ha sempre omesso di dire è che gran parte della crescita delle esportazioni cinesi è pilotato dalle stesse imprese statunitensi che hanno eletto la Cina a principale paese in cui spostare la produzione. Valga come esempio la Nike che, in Cina, dispone di 116 terzisti su un totale di 527 imprese appaltate a livello mondiale. Oppure Apple, che in Cina annovera 380 terzisti sul migliaio che registra a livello planetario.

Sia come sia, già in campagna elettorale Trump aveva promesso battaglia alla Cina con un’accusa durissima lanciata in un comizio del 2 maggio 2016: «Non possiamo continuare a permettere alla Cina di saccheggiare la nostra nazione, perché questo è ciò che sta facendo. Stiamo assistendo alla più grande rapina della storia mondiale». E una volta vinte le elezioni, appellandosi alla Sezione 301, la legge Usa che consente agli Stati Uniti di porre limitazioni alle importazioni provenienti dai paesi che adottano pratiche sleali, Trump ha decretato aumenti doganali sui prodotti provenienti dalla Cina.

Al primo provvedimento, adottato nell’aprile 2018, ne sono seguiti altri, per cui si è messa in moto un’escalation della quale al momento è difficile prevedere gli esiti, perché ad ogni iniziativa statunitense la Cina reagisce con contromosse uguali e contrarie. Al di là di questa contrapposizione, è importante sottolineare che la questione commerciale è usata come pretesto per mettere i puntini sulle «i» su una serie di altre questioni, anch’esse di importanza strategica per le imprese statunitensi.

Le accuse e i dazi punitivi

Tre le questioni di fondo: la proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici, l’accesso al mercato cinese.

La proprietà intellettuale è un tema che sta molto a cuore alle imprese americane basate sull’innovazione. In particolare quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica, della chimica, della farmaceutica, dei macchinari. La loro espansione si basa sulla capacità di elaborare prodotti nuovi, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, per cui è di vitale importanza che nessuno possa utilizzare le loro scoperte o le loro invenzioni senza licenza, che poi significa autorizzazione a pagamento. Per capire quanto sia potente la lobby dell’innovazione tecnologica, basti dire che uno dei 15 trattati istitutivi dell’Organizzazione mondiale del commercio è dedicato proprio alla proprietà intellettuale con lo scopo di definire i principi a cui ogni stato deve uniformarsi quando legifera in materia. Naturalmente la regola d’oro è che nessuna impresa può usare l’invenzione messa a punto da un’altra impresa senza contratto di licenza. E i risultati si vedono: la proprietà intellettuale smuove ogni anno svariate centinaia di miliardi di dollari a livello mondiale, con gli Stati Uniti in cima alla lista dei beneficiari. Nel 2017, le licenze sui brevetti hanno generato a favore delle imprese statunitensi incassi per 128 miliardi di dollari, di cui  8,8 miliardi da imprese cinesi. Il governo statunitense, tuttavia, ritiene che la cifra copra solo una piccola parte dei benefici realmente goduti dalle imprese cinesi, perché gran parte delle innovazioni sarebbero copiate in maniera abusiva procurando alle imprese americane un danno per 50 miliardi di dollari. Di qui i dazi punitivi contro la Cina.

La seconda accusa rivolta alla Cina è che sostiene in maniera eccessiva con aiuti statali le proprie imprese. La prova sarebbe contenuta nel documento di programmazione economica adottato dal governo cinese nel 2015, noto come Made in China 2025. Il piano, che si pone l’obiettivo di trasformare la Cina in un leader mondiale in alcuni settori chiave come i semiconduttori, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’energia rinnovabile, l’auto elettrica, il materiale biomedico, prevede di farlo attraverso una serie di misure che le autorità americane bollano come concorrenza sleale. Non solo perché le imprese cinesi possono godere di sovvenzioni pubbliche nell’ambito della ricerca, ma anche perché sarebbero previste delle procedure di acquisto che privilegiano le imprese nazionali a detrimento di quelle estere.

La terza accusa, infine, è che la Cina continua ad imporre troppi limiti e vincoli alle imprese estere che vogliono entrare nel capitale delle imprese cinesi. Uno degli obblighi più odiosi, a detta delle autorità americane, è quello di dover condividere i segreti industriali. Dunque, la questione tecnologica torna e ritorna, facendoci capire che è il vero nodo attorno al quale ruota l’intero contenzioso fra Cina e Stati Uniti, come del resto è confermato anche dal caso Huawei.

Il caso Huawei

Fra le più grandi multinazionali del mondo attive nel campo delle telecomunicazioni, delle reti e dei dispositivi informatici, c’è la Huawei, un’impresa cinese a proprietà collettiva, addirittura posseduta dai lavoratori stessi. Ma il condizionale è d’obbligo visto la cortina di segretezza che avvolge la Cina. Nata come impresa privata nel 1987, Huawei ha avuto uno sviluppo rapidissimo, con filiali sparse in tutti i continenti. Si narra, ad esempio, che sia di Huawei la tecnologia usata nei 16 mila uffici postali distribuiti in Italia. Uno degli ambiti in cui Huawei sta avanzando di più è quello del 5G anche detto «internet delle cose», la tecnologia dell’avvenire che permetterà di controllare a distanza elettrodomestici e macchinari nelle nostre case, uffici, stabilimenti.

Huawei è nel mirino del governo americano già dal 2012, con l’accusa di spionaggio e pirateria industriale. Ma recentemente è stata anche accusata di mantenere relazioni economiche con l’Iran contravvenendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Per questo il 1° dicembre 2018, Meng Wanzhou, alto dirigente di Huawei, è stata arrestata mentre era di passaggio in Canada e successivamente estradata negli Usa, dove dovrà rispondere di 13 capi d’accusa che vanno dallo spionaggio alla truffa finanziaria. Non contento, Trump ha anche chiesto ai paesi occidentali in rapporti commerciali con Huawei di sospendere qualsiasi relazione economica con questa impresa.

Dunque i rapporti fra Cina e Usa sono al calor bianco e non per qualche manciata di miliardi di import export, ma per il dominio dell’economia mondiale che si gioca su due piani: la supremazia tecnologica e la capacità di dominare le rotte commerciali.

L’Italia sulla «Via della seta»

Il tema delle rotte commerciali ci porta al progetto cinese inizialmente chiamato «Via della seta» e poi ribattezzato Road and Belt Initiative (in sigla Rbi) che potremmo tradurre come «Progetto di cintura stradale». Un progetto faraonico che ha il duplice scopo di rafforzare la rete stradale che collega la Cina all’Europa e quindi all’Asia Occidentale e di rafforzare le infrastrutture marittime dei paesi asiatici, africani ed europei. Il tutto per permettere alla Cina di espandere i suoi rapporti commerciali (come nella mappa sotto lo sguardo del presidente Xi Jinping).

Il costo totale del progetto, spalmato in più anni, è stimato in 8.000 miliardi di dollari e sarà sostenuto in parte dai governi che aderiscono all’iniziativa, in parte dal governo cinese. Più in particolare il governo cinese partecipa sia con investimenti diretti che con prestiti. Al 2017 si stima che il governo cinese abbia investito nel progetto 350 miliardi di dollari di cui 70 sotto forma di investimenti diretti e 280 sotto forma di prestiti. Su proposta del governo cinese, nel 2015 è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) come ulteriore strumento di finanziamento delle opere progettate nell’ambito della Road and Belt Initiative. A essa partecipa anche l’Italia per il tramite di «Cassa depositi e prestiti», che detiene il 2,58% del capitale sociale della banca pari a 2,5 miliardi di euro. Ed è stato proprio per rafforzare questo rapporto di collaborazione che, a marzo a Roma (e poi ad aprile a Pechino), il governo italiano ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un Memorandum d’intesa. «Le parti – è scritto nel documento – esploreranno modelli di cooperazione di reciproco beneficio per sostenere la realizzazione del maggior numero di programmi inseriti nella Rbi». Beneficio che, nel caso della Cina, si traduce nell’interesse a rafforzare la propria presenza nelle società che gestiscono  porti e autostrade d’Italia, senza dimenticare che già detiene il 5% di Società autostrade e il 49% della società che gestisce il porto di Vado presso Savona. Quanto all’Italia il suo interesse è sia industriale che finanziario. Da un punto di vista industriale l’interesse è quello di fare realizzare ai cinesi opere che altrimenti non potrebbero decollare per mancanza di fondi italiani. Un esempio è l’ampliamento del porto di Trieste. Da un punto di vista finanziario è quello di aprire nuove opportunità di affari per il sistema bancario italiano. E poi, chissà, se la Cina diventasse amica potrebbe anche comprarsi un po’ di debito pubblico italiano, considerato che già possiede il 5,6% del debito pubblico americano (circa 1.100 miliardi di dollari).

Lotta tra giganti

In conclusione, ha ragione l’America o la Cina? In una logica di espansione hanno ragione entrambi. L’America, che rappresenta chi è già gigante, vuole mantenere il primato imponendo al mondo intero le regole del gioco che vanno bene ai giganti. La Cina, che sta cercando di diventare gigante, vuole raggiungere il primato con metodiche di concorrenza protetta. Tutt’intorno i paesi minori come l’Italia che, non sapendo come finirà, cercano di essere amici dell’uno e dell’altro, godendo intanto di ciò che la situazione può dare. Il problema è che ciò che conta, ossia la dignità delle persone e la tutela del Creato, non è al centro dell’attenzione né di una parte, né dell’altra.

Come paesi minori, forse è proprio questo che dovremmo fare: sperimentare nuove formule economiche non orientate alla conquista, ma alla tutela delle persone e della sostenibilità in spirito di cooperazione e solidarietà. Ma, per riuscirci, dobbiamo uscire dalla logica delle bandiere e dell’accumulazione ed entrare in quella del rispetto.

Francesco Gesualdi