Islanda, miti e realtà. L’isola bivalente

Viaggio nell’isola del Nord Europa

Mappa con l’Islanda e gli altri paesi del Circolo polare artico.

Sommario

 

 

 



Ma non è il paradiso

Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.

L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».

L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.

Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.

I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).

Il piccolo porto di Husavik, nell’estremo nord dell’Islanda. Foto Christian Klein – Pixabay.

Le forze naturali: risorse e disastri

È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.

Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.

Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.

Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.

Le case colorate della capitale islandese Reykjavik. Foto Tom Podmore – Unsplash.

Turismo ed energia da fonti rinnovabili

Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.

Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.

L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.

Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).

Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.

Una vista spettacolare della valle di Oxnadalur con la fattoria Hals. Foto Piergiorgio Pescali.

Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola

Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.

A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.

Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.

Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».

Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».

L’impressionante volume d’acqua che forma la cascata di Dettifoss, la maggiore dell’Islanda e dell’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli islandesi e il pericolo della depressione

Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta  e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.

A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.

La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.

Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.

Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.

Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.

Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».

A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.

Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».

Gli iceberg della laguna di Jökulsárlón; il riscaldamento climatico ha liberato blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

La politica e la stretta migratoria

L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.

Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.

L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.

Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.

Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.

Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).

Padre Jacob Rolland con, sullo sfondo, la cattedrale cattolica di Cristo Re nella capitale islandese. Foto Piergiorgio Pescali.

La polemica religiosa

Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.

Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).

Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».

Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).

Un pescatore islandese mostra la preda. Foto Piergiorgio Pescali.

Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese

«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».

L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.

«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.

Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).

Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.

Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).

Un gregge di pecore a Hverir. Foto Piergiorgio Pescali.

Saghe, leggende e stereotipi

A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».

Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).

«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».

Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.

La centrale geotermica di Krafla, nel nord del Paese, appartiene alla Landsvirkjun, il più grande gestore elettrico dell’Islanda, di proprietà statale. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»

Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).

Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.

Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.

A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».

Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.

Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.

La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.

Foche nei pressi del villaggio di Djúpavík, nei fiordi occidentali. Foto Piergiorgio Pescali.

Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo

L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).

Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.

In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».

La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.

L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.

Il ghiacciaio che si getta nella laguna di Fjallsárlón; il riscaldamento climatico da una parte sta facendo ritirare il fronte del ghiacciaio, dall’altro ha permesso di liberare blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

Tra Unione europea e Cina

La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.

Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.

Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.

Piergiorgio Pescali

Il getto d’acqua del geyser di Strukkur (Geysir); erutta ogni 5-10 minuti lanciando un getto alto tra i 20 e i 30 metri. Foto Piergiorgio Pescali.


Dorsali, placche, magma, geyser

La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.

Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.

La mappa mostra le dorsali (ridges, in inglese) che attraversano o lambiscono il Paese.

Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.

Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.

I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.

Pi.Pes.


I vichinghi, «guerrieri del mare»

La tela dipinta da Oscar Wergeland nel 1877 ricorda l’arrivo dei vichinghi in terra d’Islanda.

L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.

Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.

Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.

I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.

Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.

Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.

Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.

L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.

Pi.Pes.

Sorgenti calde nell’area di Geysir. Foto Piergiorgio Pescali.


Geotermia, dall’Italia all’Islanda

La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.

Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia.  Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).

La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.

In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.

Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.

Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.

Pi.Pes.

La cattedrale della Chiesa nazionale d’Islanda nella capiatale del paese. Foto Wikimedia commons.


Chiese e fedeli

La leggenda dei «papar»

Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.

Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».

Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.

Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.

La chiesa Hallgrímskirkja, opera del noto architetto islandese Gudjon Samuelsson, a Reykjavik. Foto Piergiorgio Pescali.

Cristiano III e il luteranesimo

Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.

Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.

«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».

Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi

Mons. Dávid Bartimej Tencer, vescovo della Chiesa cattolica islandese. Foto Wikimedia commons.

In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.

Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, vescovo della Chiesa nazionale d’Islanda. Foto www.kirkjan.is.

La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.

Piergiorgio Pescali


Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.




Nemici ieri, partner oggi


Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.

«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.

Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.

La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.

L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.

Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.

Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.

La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».

I segni della guerra

Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.

Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.

E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.

Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.

I vicini scomodi

Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.

Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.

Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.

Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.

Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».

Acque contese

All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.

D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.

Guardare altrove

Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.

Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.

Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.

US Secretary of State Antony Blinken (L) meets with Vietnam’s Communist Party General Secretary Nguyen Phu Trong at the Communist Party of Vietnam Headquarters in Hanoi on April 15, 2023. (Photo by Andrew Harnik / POOL / AFP)

Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.

Fabbriche hi tech

Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.

Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.

Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.

Lorenzo Lamperti




Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

 Cina-Africa su MC

China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
  • www.china-files.com

 

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.

 

 




Pacifico: Territorio di caccia


Il Pacifico meridionale, con i suoi molteplici stati insulari, non solo è un paradiso terrestre che sta per scomparire a causa della crisi climatica, ma è sempre più teatro di contesa tra le superpotenze mondiali. Cina e Stati Uniti (con i suoi alleati) si sfidano con accordi economici e di sicurezza nell’area.

Cannoni giapponesi e carri armati statunitensi mezzi sepolti dalla sabbia e dall’acqua cristallina del Pacifico. Le coste del piccolo arcipelago di Kiribati portano ancora i segni delle battaglie della Seconda guerra mondiale. Siamo all’estremità orientale della Micronesia, una delle tre aree, insieme a Melanesia e Polinesia, in cui sono raggruppati i paesi dell’Oceania.

Luoghi spesso dimenticati e di cui si parla solo per le spiagge da sogno o per gli effetti nefasti del cambiamento climatico, qui più evidenti che altrove. Lontani dalle luci della ribalta, eppure sempre più nel cuore delle contrapposte strategie delle grandi potenze: il Pacifico meridionale sta diventando teatro della contesa geopolitica fra Stati Uniti e Cina. Non siamo solo nel cosiddetto «giardino» di casa dell’Australia, ma anche dinanzi alla porta d’accesso a quello che Washington e Tokyo amano chiamare Indo Pacifico, definizione che non piace a Pechino che preferisce anteporre «Asia» al nome dell’oceano più grande.

Honolulu, sede della base del comando del Pacifico dell’esercito americano, dista «solo» duemila chilometri da Kiribati. Proprio questo arcipelago di 120mila abitanti è stato l’ultimo «acquisto» della campagna diplomatica messa in atto nell’area dalla Cina. Il gigante asiatico ha, infatti, aperto proprio qui la sua più recente ambasciata nella regione dopo la decisione del governo locale del premier Taneti Maamau di rompere i rapporti con Taiwan, che nelle vicinanze ha tradizionalmente un gruppo sostanzioso di «amici diplomatici».

Era l’autunno del 2019. Poche settimane prima, avevano operato la stessa mossa anche le Isole Salomone, luogo chiave per capire la strategia della Repubblica popolare nel Pacifico meridionale. Nel paese celebre per la battaglia di Guadalcanal, parte della mitologia bellica a stelle e strisce, Pechino ha messo rapidamente radici. Ha costruito una grande ambasciata, strade e stadi in vista dei Pacific games (olimpiadi locali, ndr) del prossimo novembre, appuntamento sfruttato dal premier Manasseh Sogavare per rinviare le elezioni previste quest’anno.

L’avanzata cinese

Come anche altrove, Pechino ha approfittato per anni della sostanziale assenza degli Stati Uniti, distratti da quanto accadeva in Medio Oriente o in Afghanistan. Nonché più interessati a questioni interne, con un protezionismo economico che si è, per qualche tempo, accompagnato a un’introversione strategica.

Secondo i dati dell’australiano Lowy Institute, tra il 2006 e il 2017 la Cina ha speso quasi 1,5 miliardi di dollari in aiuti esteri, un misto di sovvenzioni e prestiti, per le isole del Pacifico. Negli ultimi anni di Covid-19 il flusso è rallentato, ma non verso Kiribati e Isole Salomone, «ricompensati» per la rottura dei rapporti con Taipei (capitale di Taiwan, ndr).

Proprio con le Salomone, nel 2022 sono stati siglati due accordi bilaterali molto significativi. Il primo per la costruzione di 161 torri cellulari di Huawei, il gigante tecnologico di Shenzhen su cui Washington ha emesso una serie di restrizioni già a partire dal 2020.

Il progetto delle torri è frutto di un prestito da oltre 70 milioni di dollari stanziato dalla China harbor engineering company, i cui uffici si trovano nello stesso edificio verde del ministero degli Affari esteri delle Salomone, a riprova di un rapporto a dir poco stretto.

Le reti di telefonia mobile esistenti nelle Isole Salomone coprono almeno il 94% della popolazione, ma la copertura della banda larga mobile è minore al 30%. La Cina corteggiava da anni il governo locale sull’argomento. Nel 2018, l’Australia era intervenuta all’ultimo momento con un progetto alternativo pur di impedire a Huawei di posare un cavo di comunicazione sottomarino fino alla capitale Honiara. Con il progetto delle torri, invece, si è andati fino in fondo e sono in fase di costruzione.

Chinese Foreign Minister Wang Yi (L) and Kiribatiís President Taneti Maamau shake hands during a signing ceremony at the Great Hall of the People in Beijing on January 6, 2020. (Photo by Mark Schiefelbein / POOL / AFP)

Così come nessuno ha fermato un accordo di sicurezza sottoscritto tra i due governi che consente a Pechino di inviare agenti di polizia o navi militari nel paese del Pacifico.

Washington e Canberra (capitale australiana, ndr) temono che possa essere costruita una base dell’esercito cinese in una zona considerata strategica. Le due parti hanno negato, ma dopo aver visto per la prima volta la polizia cinese addestrarsi con gli ufficiali delle Isole Salomone, Sogavare ha dichiarato: «Mi sento più sicuro».

Il suo scopo è quello di tutelarsi di fronte alle forti tensioni sociali e politiche che caratterizzano le Salomone. Nel dicembre del 2021, il governo locale della provincia di Malaita (l’isola più popolosa che si sente storicamente sottorappresentata dalle istituzioni centrali) ha ispirato rivolte di piazza contro il premier che hanno causato diverse violenze, prendendo di mira la Chinatown di Honiara.

Dopo il Covid, d’altronde, Pechino ha diluito investimenti e prestiti, ma prova a proporsi come «garante di stabilità». Tendenza accentuata dalla guerra in Ucraina e in qualche modo favorita dalle piattaforme militari promosse dagli Stati Uniti nel Pacifico, a partire da Aukus, il trattato di sicurezza che riunisce Washington, Londra e Canberra per lo sviluppo (tra le altre cose) di sottomarini nucleari in dotazione alla marina australiana.

La stabilità promessa da Pechino è innanzitutto economica, da attuarsi tramite investimenti e meccanismi di cooperazione commerciale, legati alla strategia della Nuova via della seta (Belt and road initiative), ma si parla anche di stabilità nel senso di sicurezza nazionale. Leggasi Global security initiative, il nuovo progetto multilaterale a guida cinese lanciato da Xi Jinping nel 2022. Dopo i due accordi su digitale e sicurezza, le Isole Salomone sono state ritratte dai media di stato cinesi come un modello di ciò che gli sforzi internazionali della Cina possono realizzare.

L’influenza di Pechino arriva anche altrove. Una società cinese possiede, per esempio, la principale miniera d’oro delle Figi, così come uno dei loro principali siti estrattivi di bauxite. A Palau, uno dei paesi ancora fedeli a Taipei, la Cina ha inviato uomini d’affari che si stanno ritagliando un ruolo sempre più rilevante nella vita economica e politica. Due ex presidenti del piccolo paese, così come altri politici e funzionari, sarebbero vicini ad alcune di queste figure e potrebbero spingere in futuro il riconoscimento diplomatico della Repubblica popolare.

La risposta americana

Dopo anni di avanzata semi incontrastata della Rpc, negli ultimi tempi gli Stati Uniti sono tornati a occuparsi della regione, unendosi agli sforzi dell’Australia che, oltre per i cavi sottomarini, era intervenuta nel 2021 per bloccare l’acquisizione da parte cinese di Digicel, la principale azienda di telecomunicazioni delle isole del Pacifico.

A fine settembre dello scorso anno, la Casa Bianca ha organizzato il primo summit bilaterale con gli stati insulari della regione. Dopo aver ricordato il miliardo e mezzo di dollari già speso nel decennio passato, Washington ha presentato un pacchetto di 810 milioni volto soprattutto ad affrontare il cambiamento climatico, a rafforzare l’assistenza economica, la pesca, il commercio e gli investimenti, e a fornire altro sostegno tangibile alla regione. Il piano prevede anche ulteriori fondi per un programma globale di infrastrutture e investimenti per favorire la ripresa economica delle nazioni insulari colpite dalla pandemia, ad esempio nel campo del turismo.

Se sulla spesa è difficile pareggiare la presenza cinese, gli Usa però hanno battuto qualche colpo anche a livello simbolico e diplomatico. Hanno annunciato la riapertura di una mini ambasciata a Honiara (Isole Salomone, chiusa dal 1993) e il ritorno dei corpi di pace tra Figi, Tonga, Samoa e Vanuatu. Ha nominato anche il primo ambasciatore statunitense al Forum delle isole del Pacifico, il massimo organismo politico regionale.

L’accordo prodotto dal summit è stato firmato (in modo inatteso) anche dalle Salomone, dopo che dal testo finale erano stati stralciati tutti i riferimenti alla Cina. Ai paesi del Pacifico meridionale preme, infatti, evitare di finire invischiati in uno scontro tra superpotenze. La loro intenzione è quella di non dover scegliere da che parte stare, quantomeno fino a quando sarà concesso loro. E soprattutto di ricevere aiuto concreto sulle problematiche che hanno di fronte, a partire dallo sviluppo economico e dalla minaccia sempre più impellente del cambiamento climatico (con l’innalzamento del livello del mare che rischia di sommergere le isole, ndr). Ecco allora che Washington è riuscita a ottenere la firma di Honiara e degli altri governi concentrandosi su questioni come il clima, la crescita economica e i disastri naturali.

Gli interessi dei governi locali

Dall’altra parte, dopo il caso delle Salomone, gli altri stati insulari sembrano aver capito che non conviene sottoscrivere troppo in fretta accordi legati alla sfera della sicurezza con la Cina. Dopo un primo dialogo a livello ministeriale tra Pechino e i capi dei dipartimenti di pubblica sicurezza di diversi paesi della regione, su forze dell’ordine e cooperazione di polizia, qualcosa si è fermato.

A maggio, il tour senza precedenti dell’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi nel Pacifico meridionale ha portato a diversi accordi economici, ma non a un accordo regionale sulla sicurezza che il diplomatico di Pechino aveva sottoposto agli omologhi regionali.

Solo Samoa ha dato il via libera alla costruzione di un laboratorio di impronte digitali della polizia, mentre a Tonga è arrivata luce verde per la fornitura di un laboratorio di polizia e di attrezzature per l’ispezione doganale. Ma l’accordo quadro non è stato sottoscritto. Anzi, c’è chi si è opposto apertamente. In particolare, David Panuelo, presidente degli Stati federati di Micronesia (dotati peraltro di un accordo di sicurezza con gli Usa), che in una lettera ai colleghi aveva paventato il rischio di una sorveglianza di massa cinese nella regione e lo scatenamento di «una nuova era di guerra fredda nel migliore dei casi, e una guerra mondiale nel peggiore».

A inizio 2023, le Figi non hanno rinnovato il memorandum of understading siglato nel 2011 che consentiva scambi di personale di polizia con la Cina. E lo hanno fatto con parole che saranno sembrate musica per le orecchie di Washington. «Il nostro sistema di democrazia e di giustizia è diverso, quindi ci rivolgeremo a chi ha sistemi simili ai nostri», ha affermato il premier Sitiveni Rabuka.

Ciò non significa che diversi governi non siano invece tentati dalla proposta cinese. Tanto che i leader che non hanno sottoscritto l’accordo regionale di sicurezza non hanno escluso di poterlo fare in futuro, adducendo come ragione del mancato via libera il poco tempo messo a disposizione per studiarne dettagli e implicazioni.

Usa e Australia, nel frattempo, si premuniscono. Sulle Salomone sta andando in scena quasi una corsa al rifornimento di armi. Dopo che Canberra ha fornito fucili alle autorità locali, Pechino ha inviato cannoni ad acqua. E gli Stati Uniti preparano l’invio di circa cinquemila marines in più, rispetto a quelli già presenti sull’isola di Guam, territorio americano nel Pacifico e famosa base militare. Obiettivo ufficiale: proteggere le isole del Pacifico e le rotte marittime vitali. Nella speranza che in futuro le spiagge e i mari (sempre più alti) degli stati insulari non debbano accogliere nuovi resti di cannoni e carri armati.

Lorenzo Lamperti

(220526) — HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — A ground breaking ceremony of the 2023 Pacific Games Stadium Project is held in Honiara, capital of the Solomon Islands, May 5, 2021. (Xinhua) (Photo by XINHUA / XINHUA / Xinhua via AFP)


Nuova Caledonia e Isole Marshall

Quando ti liberi, ricordati di me

La partita incrociata tra Usa e Cina sul Pacifico meridionale si gioca anche su situazioni politiche irrisolte, retaggio della guerra fredda o persino dell’era della colonizzazione occidentale.

La Cina si muove con attenzione anche su quegli arcipelaghi che ancora non sono indipendenti ma che potrebbero in futuro diventarlo. Puntando così a rimpinguare la già folta pattuglia di paesi pronti a sostenere Pechino presso gli organismi internazionali, a oggi composta in particolare dai rappresentanti africani.

Un esempio è la Nuova Caledonia, che fa ancora parte della Francia. I movimenti indipendentisti sono stati sconfitti tre volte nei referendum degli anni passati, ma non si sono ancora del tutto arresi. Essi hanno sovente una comunanza ideologica col Partito comunista cinese, con una particolare affinità creatasi presso le comunità indigene sin dai tempi in cui Mao Zedong promuoveva la Cina come guida del cosiddetto «terzo mondo».

L’arcipelago delle Isole Marshall (paese indipendente, ndr), in Micronesia, è stato invece teatro di una spy story dai connotati particolarmente intriganti. Una coppia di cittadini cinesi è stata arrestata nel 2020 con l’accusa di aver complottato per creare un mini stato indipendente su un remoto atollo delle Marshall. Secondo la giustizia statunitense, i due avrebbero pagato tangenti a parlamentari e funzionari per far sì che le proposte di legge a sostegno della creazione di uno stato indipendente venissero discusse nel parlamento locale a due riprese, nel 2018 e nel 2020. Un argomento sul quale era stato trovato almeno in parte terreno fertile, anche a causa delle ferite mai del tutto rimarginate dovute a circa quattro decenni di amministrazione statunitense, conclusasi nel 1990, durante i quali furono condotti 66 test di armi nucleari, compreso il Castle Bravo, il test atomico più grande mai condotto dalle forze militari americane. Gli abitanti degli atolli limitrofi non furono evacuati, con conseguenze sulla salute dei cittadini esposti alle radiazioni.

La sconfitta alle elezioni del 2020 della presidente uscente Heine, ferma oppositrice del progetto del ministato, sembrava poter favorire l’idea dei due cittadini cinesi. Questi, legati in qualche modo a obiettivi di Pechino, quantomeno secondo la Heine, sono stati poi arrestati in Thailandia.

Anche gli Stati Uniti, con altre modalità, utilizzano alcune divisioni interne ai paesi dell’area per fini strategici. Nelle Isole Salomone continuano per esempio a sovvenzionare il governo locale della provincia di Malaita, che durante la pandemia ha ricevuto anche aiuti sanitari da parte di Taiwan sfidando le disposizioni dell’esecutivo centrale filocinese. Durante il recente summit tra Usa e Stati del Pacifico, la Casa Bianca ha anche annunciato l’intenzione di riconoscere le Isole Cook e Niue come stati sovrani, dopo «appropriate consultazioni». Attualmente Washington riconosce le isole come territori autogestiti.

Lor.Lam.

HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — Solomon Islands Prime Minister Manasseh Sogavare (R) meets with visiting Chinese State Councilor and Foreign Minister Wang Yi in Honiara, Solomon Islands, May 26, 2022. (Xinhua) (Photo by Guo Lei / XINHUA / Xinhua via AFP)




Xi Jinping piglia tutto

Novità e conferme dal XX Congresso del Partito comunista cinese

A ottobre si è celebrato il ventesimo Congresso del Pcc che ha consacrato Xi Jinping alla guida del partito e del paese per un terzo mandato. È la prima volta dai tempi di Mao. Sicurezza e sviluppo sul lungo termine sono le priorità. E Xi fa modificare lo statuto del partito inserendo i «suoi» principi.

Ciascuna delle città scelte da Xi Jinping per la prima visita dopo aver ricevuto ognuno dei suoi tre mandati, ha un significato simbolico. Shenzen nel 2012, emblema del miracolo economico cinese. Shanghai nel 2017, luogo di fondazione del Partito comunista cinese ma anche principale porta d’accesso della Cina continentale al mondo. Yan’an nel 2022, destinazione finale della «lunga marcia» di Mao Zedong e base del partito comunista cinese dal 1935 al 1948, prima che la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek volgesse a favore dei comunisti. Per avere un indizio sulla direzione del terzo mandato di Xi Jinping bisogna partire da quello che è successo subito dopo il XX Congresso del partito, cioè dalla città scelta per la sua prima visita ufficiale. Un netto cambio rispetto alle scelte operate dopo il XVIII e il XIX Congresso. Il trionfo di Xi va ben al di là della sua scontata conferma: il presidente ha ottenuto una squadra a sua immagine e somiglianza, nonché emendamenti allo statuto del partito che elevano ulteriormente il suo status. Questo ha peraltro messo fine a una serie di prassi e regole non scritte che avevano sempre sorretto il funzionamento delle nomine e della selezione delle cariche apicali. Rendendo manifesto che Xi non solo controlla il partito: Xi ormai è il partito.

Hu Jintao

L’immagine che resterà nella mente di tutti come avvio del terzo mandato di Xi è quella di Hu Jintao, il predecessore, che viene scortato fuori dall’aula durante l’ultima sessione del Congresso. Un episodio controverso sul quale non sapremo mai tutta la verità. Forse esagerato parlare di purga per la dinamica e le circostanze, certamente, però, è riduttivo ascrivere tutto a un semplice «problema di salute», visto che l’anziano leader (il quale pare soffra di una forma di demenza senile) non sembrava d’accordo a lasciare il suo posto. Ma la vera «epurazione» è arrivata lontano dalle telecamere, ed è stata quella di Hu Chunhua. Per lungo tempo considerato un astro nascente della politica cinese, membro della Lega della gioventù comunista, feudo proprio di Hu Jintao, è stato escluso non solo dal Comitato permanente di sette membri, ma persino dal Politburo (tradizionalmente 25 membri, ora inusualmente 24, si dice, per un’esclusione dell’ultimo momento).

Attenzione però a pensare che il cambio di passo sia stato qualcosa di improvviso. Il processo di consolidamento del potere di Xi è avvenuto passo dopo passo, non è frutto di una rivoluzione inattesa. Prima le promesse di riforme economiche e il lancio della Belt and road initiative nel 2013 (la nuova via della seta, ndr), poi la rimozione del vincolo dei due mandati nel 2018. Infine, l’ingresso ufficiale nel terzo atto della «nuova era» di Xi senza che nemmeno si intraveda all’orizzonte un possibile erede.

Il 23 ottobre, quando ha calcato di nuovo il tappeto rosso della Grande sala del popolo in testa alla fila dei sette membri del Comitato permanente, il segretario generale non ha solo ufficializzato il suo terzo mandato, ma ha anche allungato le mani (incognite e imprevisti permettendo) sul quarto.

(Photo by Koki Kataoka / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun via AFP)

Xi, atto terzo

Ma come sarà il terzo mandato di Xi? Partiamo dall’economia. «Mi aspettavo qualche messaggio un po’ più favorevole alla crescita, ma credo che la preoccupazione di Xi sia soprattutto a lungo termine. Egli punta a una crescita di qualità superiore per la Cina, senza preoccuparsi troppo della traiettoria di crescita a breve termine. Questo è un po’ deludente, perché ci sono molte sfide legate alla crescita nell’immediato», dice Victor Shih Ho Miu Lam, moderatore della San Diego University e autore di diversi libri sul sistema economico e politico cinesi. Una di queste è certamente la strategia «zero Covid». In molti speravano che dopo il congresso le restrizioni si rilassassero. In un’inusuale protesta pochi giorni prima dell’appuntamento politico, a Pechino sono apparsi anche degli striscioni che criticavano direttamente il leader. Altre scritte sono apparse in diverse città cinesi. Ma Xi si è intestato il successo della gestione sanitaria che, nella narrativa di Pechino, rappresenta un segnale della superiorità del suo modello rispetto a quello occidentale, nonché la prova del rispetto dei «diritti umani». Con caratteristiche cinesi, ovviamente. Il mancato ripensamento delle politiche sul Covid è reso evidente anche dalla scelta di Li Qiang come prossimo premier. Capo del partito a Shanghai, è colui che ha gestito il disastroso lockdown dei mesi scorsi. Evento che sembrava averlo tagliato fuori dalla corsa per un ruolo di primo piano, nonostante la dimestichezza in campo amministrativo e la familiarità con i tanti investitori internazionali che popolano Shanghai, e che hanno vissuto, però, con sgomento la recente fase dei restringimenti. «All’interno del partito, Li non è mai stato squalificato, perché ha solo applicato l’approccio alla pandemia voluto da Xi. Di certo, la sua promozione è basata anche e soprattutto sulla lealtà e lo stretto rapporto che ha con Xi», dice Shih.

Tutto rientra nel mantra della «sicurezza», la parola più utilizzata da Xi nella sua relazione politica dopo le classiche «partito», «popolo» e «nazione». Un’ossessione dovuta al fatto che la Cina si sente sotto attacco sul fronte economico. Le ultime mosse di Joe Biden sui semiconduttori, infatti, hanno portato Xi a chiedere un’accelerazione sul fronte dell’autosufficienza tecnologica. Ma ha anche portato a una pioggia di promozioni per una nuova classe di «tecnocrati» con esperienza e formazione tecnologica e scientifica, in particolare nel settore dell’aerospazio. Un cambio di passo rispetto al passato. Se finora la gestione delle nomine era garantita da una serie di legami e rapporti costruiti all’interno di diverse fazioni, ora l’unica fazione rimasta è quella di Xi, e i nuovi «tecnocrati» sono figure con maggiori competenze, ma minori intrecci relazionali.

Con una Cina sotto attacco, il partito sente il bisogno di avere ulteriore controllo sociale, a partire dal fronte interno. «Sviluppo e sicurezza per Xi sono la stessa cosa. C’è bisogno di sviluppo ma anche di molta sicurezza, soprattutto controllata dal partito. Per Xi, anche se la Cina diventasse incredibilmente ricca non avrebbe senso se non fosse controllata dal partito», sostiene Shih. Ed ecco allora la presenza più massiccia dello stato nell’economia, con il settore privato e, in particolare, quello tecnologico «rettificati» per seguire le necessità strategiche della politica e geopolitica cinese.

(Photo by AFP) / China OUT

I principi di Xi

L’inserimento nello statuto del partito di altri due principi utilizzati da Xi negli ultimi anni rinforza il messaggio: con la «prosperità comune» si chiarisce che la ricchezza va redistribuita e che il partito eviterà eccessivi accentramenti di potere e ricchezze private; con la «doppia circolazione», invece, si ribadisce che il focus deve essere quello di stimolare i consumi interni e ridurre la dipendenza dalle esportazioni, e dunque dall’esterno.

È un sistema dove l’unico a mantenere il controllo è il partito, e dunque Xi. Ciò significa che, nero su bianco, Xi è il nucleo del partito. Criticarlo ora significa mettersi automaticamente fuori dal partito.

La stessa necessità di controllo esiste anche sul fronte esterno. «Xi continua a vedere complotti occidentali che cercano di minare la Cina. Per questo al congresso si è concentrato molto sui concetti di lotta e di sicurezza». Se fino a poco tempo fa i leader cinesi parlavano soprattutto di «opportunità strategiche», ora Xi parla di «pericoli» e «acque tempestose» da navigare con ambizione e mano ferma che, evidentemente, possono essere garantire solo un «timoniere» senza distrazioni interne e con una squadra compatta e pronta a combattere senza mettere in discussione la rotta intrapresa.

Oltre lo stretto

Dopo aver risolto la questione di Hong Kong e portato, come detto da Xi, l’ex colonia britannica dal «caos» alla «stabilità», il mirino si sposta al di là dello stretto (di Taiwan, ndr). L’inedito inserimento, nello statuto, dell’opposizione alla «indipendenza di Taiwan» svela che la questione di Taipei sarà una delle priorità del terzo mandato di Xi. Anche sullo stretto, la Cina si percepisce o si racconta come sotto attacco di «interferenze esterne», in particolare quelle americane. Il messaggio arrivato dal Congresso è chiaro: Pechino non arretra sul tema della «riunificazione», che considera legato a doppio filo con quello più vasto del «ringiovanimento nazionale» e della realizzazione di una società «socialista, forte e armoniosa» entro il centenario della Repubblica popolare nel 2049.

«Xi ha voluto segnalare che il tema di Taiwan avrà una priorità maggiore nei prossimi cinque anni e che ritiene urgente fare dei progressi sul percorso di unificazione», spiega Wen Ti-sung, analista dell’Australian national university.

In che modo Xi intende fare progressi? «Probabilmente attraverso l’integrazione economica e il lavoro del fronte unito, piuttosto che tramite l’uso della forza», sostiene Wen. «Xi sta segnalando la minaccia di una crescente internazionalizzazione della questione di Taiwan, che è una delle sempre sfuggenti linee rosse della Repubblica popolare. In termini militari, Pechino raddoppierà gli sforzi e la presenza sullo stretto per negare agli attori stranieri la capacità militare di intervenire in una eventuale contingenza sul posto. Cercherà di limitare la libertà d’azione dell’esercito taiwanese, istituzionalizzando la presenza al di là della linea mediana in modo da intaccare il suo morale, sperando di far capitolare le resistenze», aggiunge.

L’emendamento allo statuto potrebbe rappresentare la base per una nuova misura normativa che allarghi lo spettro dell’attuale legge anti secessione per provare a recidere i rapporti tra mondo imprenditoriale taiwanese e partito di governo in vista delle elezioni presidenziali del 2024, che saranno in sostanza presentate come una scelta tra pace (col più dialogante Kuomintang) o guerra (col Partito progressista democratico che dovrebbe candidare William Lai, figura ben più radicale dell’attuale presidente Tsai Ing-wen).

Nel frattempo, procede spedito l’ammodernamento dell’esercito, e a capo della Commissione militare centrale, presieduta sempre da Xi, sono stati posti generali con grande esperienza «taiwanese». A partire da He Weidong, che ha guidato le esercitazioni militari senza precedenti che hanno fatto seguito alla visita di Nancy Pelosi a Taipei nell’agosto scorso.

Sistemi di deterrenza

Forse la Cina non vuole la guerra, o non la vuole ancora. Ma di certo si sta preparando a combatterla qualora fosse necessario. O qualora sentisse che il tempo non è più dalla sua parte come ha sempre pensato. Non a caso il XX Congresso apre anche a un rafforzamento dell’arsenale nucleare. Xi ha infatti preannunciato «un forte sistema di deterrenza strategica». Secondo il Pentagono, la Cina potrebbe avere circa 700 testate nucleari trasportabili nel 2027 e almeno mille nel 2030.

La dottrina cinese impone di non utilizzare per primi le armi nucleari, ma Pechino vuole rafforzare la sua deterrenza mentre la rivalità con Washington sembra ormai su un piano inclinato. «In fin dei conti – avverte Shih -, la decisione di utilizzare un’opzione militare su Taiwan dipende da una sola persona, Xi Jinping, e la decisione di una sola persona, come stiamo vedendo nel caso della Russia, può essere altamente imprevedibile».

Ecco, al di là delle incognite sul fronte economico, è proprio questa la chiave per capire che cosa potrà succedere nel terzo mandato di Xi. In passato il partito ha sempre ritenuto che il tempo giocasse a suo favore. Se ora cambiasse definitivamente prospettiva, convinto da un’America che ha ormai chiarito definitivamente che considera la Cina il primo rivale strategico nel lungo termine, potrebbe diventare impaziente. E la già tanta confusione sotto il cielo, parafrasando Mao Zedong, potrebbe stavolta non portare a una situazione eccellente.

Lorenzo Lamperti

(Photo by Wang Yuguo / XINHUA / Xinhua via AFP)


Firmato il rinnovo dell’accordo con il Vaticano

L’arte del possibile

La Santa sede rinnova l’accordo con Pechino sulla nomina dei vescovi, facendo un passo avanti nei rapporti bilaterali con il gigante asiatico. Papa Francesco ha a cuore i cattolici cinesi, una minoranza importante.

Poprio nelle ore in cui a Pechino si consumava l’ultimo capitolo del XX Congresso del Partito comunista cinese, nella Città del Vaticano veniva annunciato il rinnovo dell’accordo sulla nomina dei vescovi. Si tratta della seconda conferma del primo accordo biennale firmato nel settembre 2018. Sarà in vigore dunque fino al 2024. La Santa sede ha spiegato che «si impegna a continuare un dialogo rispettoso e costruttivo con la parte cinese per una produttiva attuazione dell’accordo e un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali, al fine di promuovere la missione della Chiesa cattolica e il bene del popolo cinese». I termini dell’accordo non sono mai stati resi pubblici, creando qualche dubbio tra i critici. Anche perché le segnalazioni di rimozione di croci e chiusure di luoghi di culto sono proseguite negli ultimi anni. Nelle scorse settimane è iniziato il processo a carico di Joseph Zen, l’ex cardinale di Hong Kong che è entrato nel mirino delle autorità ai sensi della legge di sicurezza nazionale e che è sempre stato molto critico sulla distensione dei rapporti tra Vaticano e Pechino.

Il partito comunista cerca d’altronde di «sinizzare» le fedi religiose e farle entrare in armonia con le famose «caratteristiche cinesi», di cui l’unico possibile custode è il partito stesso.

Il cardinale Pietro Parolin ha spiegato che «Papa Francesco, con determinazione e paziente lungimiranza, ha deciso di proseguire su questa strada non nell’illusione di trovare la perfezione nelle regole umane, ma nella concreta speranza di poter assicurare alle comunità cattoliche cinesi, anche in un contesto così complesso, la guida di pastori degni e adatti al compito loro affidato».

Lo scorso luglio, anche il pontefice ha difeso l’accordo: «La diplomazia è l’arte del possibile e del fare le cose perché il possibile diventi realtà», ha detto papa Bergoglio. Ricordando il dialogo mantenuto dal Vaticano con i governi comunisti dell’Europa orientale durante la guerra fredda. D’altronde il Vaticano ha sempre sottolineato l’obiettivo pastorale di un accordo teso a tutelare i fedeli cinesi che sono pochi in proporzione a un paese da circa un miliardo e mezzo di abitanti, ma parecchi come numeri assoluti (si stimano in 16 milioni). E di fronte al rischio di una nuova guerra fredda, o di una terza guerra mondiale frammentata, come paventato già da tempo da papa Francesco, la Santa sede ritiene di dover tenere aperto un canale di dialogo con un paese così grande e così influente come la Repubblica popolare cinese, nonostante intrattenga anche rapporti diplomatici ufficiali con la Repubblica di Cina, cioè Taiwan.

Lorenzo Lamperti


Archivio MC

Taiwan. Vento europeo sullo stretto, Lorenzo Lamperti, luglio 2022.
Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino (dossier), Piergiorgio Pescali, gennaio 2021.

 

73 × 24




Filippine. Il ritorno di Marcos


Le elezioni dello scorso maggio hanno visto il trionfo del figlio del dittatore Ferdinand Marcos, cacciato a furor di popolo nel 1986. Accanto a lui, la vicepresidente è la figlia del presidente uscente, il «duro» Duterte. Cosa farà la strana coppia del paese strategico per il Mar Cinese meridionale?

Bongbong ha iniziato a diventare presidente delle Filippine il 9 novembre 2016. Quel giorno, mentre il mondo seguiva la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, la Corte suprema di Manila dava il via libera alla sepoltura, nel cimitero degli eroi, del dittatore che aveva governato con pugno di ferro le Filippine tra il 1965 e il 1986. Nove giorni dopo, la bara di Ferdinand Marcos, morto nel 1989 in esilio a Honolulu, è arrivata in elicottero a Manila dalla sua città natale di Ilocos Norte. Ed è stata posta con gli onori militari nel luogo più sacro per i patrioti filippini. Il 9 maggio 2022, esattamente cinque anni e mezzo dopo, Ferdinand Marcos Junior ha vinto le elezioni presidenziali delle Filippine.

Chi lo avrebbe mai detto, a fine febbraio 1986, che il figlio del dittatore cacciato dal paese sarebbe un giorno diventato anch’egli presidente? Il 25 febbraio di 36 anni fa la famiglia Marcos abbandonò il palazzo del Malacañan, dove viveva nello sfarzo più assoluto. Mamma Imelda conservava una collezione di tremila paia di scarpe. Proprio lei è considerata da molti la mente dietro la scalata politica del figlio.

Dopo la fuga a bordo di aerei americani, che Marcos Jr. avrebbe definito un «rapimento» nel 2011, la folla di manifestanti (che paralizzava Manila da settimane per protestare contro l’esito considerato fraudolento delle elezioni) prese d’assalto il palazzo presidenziale saccheggiando gli uffici del dittatore e bruciando i quadri con la sua effigie.

Marcos aveva governato imponendo una dura legge marziale che gli aveva consentito non solo di eliminare tutti gli oppositori politici, ma anche di confiscare un numero enorme di aziende e istituzioni. Secondo le accuse, la coppia si sarebbe appropriata in modo indebito di una cifra tra i 5 e i 10 miliardi di dollari di denaro pubblico.

Centinaia di oppositori denunciarono episodi di repressione, torture e uccisioni comprese. Con il giallo mai risolto dell’omicidio di Benigno Aquino (politico e marito di Corazon Aquino, poi eletta presidente, rientrava dall’esilio negli Usa, ndr) all’aeroporto di Manila.

Philippine President-elect Ferdinand Marcos Jr.(C) is proclaimed by Senate President Vicente Sotto (L) and House Speaker Lord Allan Velasco as duly-elected president at the House of Representatives in Quezon City, suburban Manila on May 25, 2022. (Photo by Ted ALJIBE / AFP)

A pieni voti

Eppure, Marcos Jr. non ha vinto con un golpe, ma con un netto successo alle urne. Un impressionante 83% dei 67,4 milioni di elettori, ovvero circa la metà dei 112,5 milioni di abitanti delle Filippine, che è andato a votare. Il 56,79% degli elettori ha scelto Bongbong, ribattezzato così dal padre quando era piccolo per l’abitudine di salirgli sulle spalle (in tagalog, lingua più diffusa, il termine identifica un contenitore di bambù che si porta sulla schiena). È stata anche la prima volta, dopo il rovesciamento del dittatore, che un candidato ha ottenuto una così chiara maggioranza.

Bongbong ha vinto senza prendere le distanze dai genitori. Anzi, da quando ha intrapreso la carriera politica, dopo il ritorno in patria ha lavorato per riabilitarne la memoria. Con il tempo e, più recentemente, con l’aiuto di un’abile propaganda social, si è affermata l’idea che la dittatura di Marcos fosse stata un’epoca d’oro in cui le Filippine godevano di stabilità, alta crescita e massicci investimenti in infrastrutture. Una versione revisionista della storia che, piano piano, ha preso sempre più corpo, soprattutto di fronte a un presente fatto di delusioni, divisioni e conflitti. La disillusione nei confronti dell’establishment politico e dei governi democratici degli ultimi tre decenni è stata alimentata da scandali, processi e impeachment. Trent’anni nei quali la fiducia nella democrazia liberale sembra essersi già esaurita, tanto che alcuni analisti che parlano di un «gusto per il governo illiberale», fomentato dall’amministrazione di Rodrigo Duterte (cfr. MC marzo 2019). Da qui la diffusione di un sentimento di nostalgia per l’era Marcos, in particolare tra gli elettori più giovani che non ne hanno ricordi dei soprusi del dittatore, e che hanno mitizzato quel periodo a causa del mix tra contenuti propagandistici sui social e rabbia verso la tradizionale classe politica filippina. Non un fattore di poco conto, in un paese dove l’età media è di 26 anni. A protestare rimangono gli attivisti, che vedono a rischio il futuro di quella che viene considerata come la più antica democrazia del Sud Est asiatico.

Con la figlia di Duterte

La violenta campagna anti droga di Duterte, accusato di aver ordinato o comunque consentito centinaia di omicidi extragiudiziali, ha scosso il paese a livello sociale. L’economia, già zoppicante, ha subito un duro colpo a causa della pandemia di Covid-19. Duterte ha detto più volte di essere un «ammiratore» di Marcos padre. Non del figlio che, anzi, ha definito «bambino viziato» durante la campagna elettorale. Ma la vicepresidente sarà proprio sua figlia, la 43enne Sara, che ha scelto di correre in ticket con Marcos Jr. contro il parere del padre che l’avrebbe invece voluta leader al suo posto.

Una mossa che, nei piani del rampollo di mamma Imelda, dimostra «unità» e che soprattutto gli ha portato in dote tanti voti dai numerosi sostenitori del presidente uscente. Ora, questa vittoria così netta fa temere a molti che la coppia possa sentirsi in diritto di governare incontrastata.

Che cosa farà Bongbong al potere? Si prevede che continuerà la guerra alla droga di Duterte, ma ha spiegato che avrà una strategia più «mirata» che enfatizzerà maggiormente la riabilitazione e la prevenzione.

In molti tifavano per la sua principale rivale, l’ex vicepresidente Leni Robredo. A partire dalla comunità Lgbt+ e dalle minoranze etniche, per arrivare agli investitori. Il programma in materia economica di Marcos Jr. è ritenuto debole e confuso. Ha parlato di piani per rafforzare i partenariati pubblico-privato, l’agricoltura e il turismo ma senza fornire dettagli significativi.

Scene inside polling precinct during the National and Local Elections in Metro Manila, Philippines on May 9, 2022. Filipinos cast their votes during the 2022 Philippine Election. (Photo by Ryan Eduard Benaid/NurPhoto) (Photo by Ryan Eduard Benaid / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vicino alla Cina?

Bongbong è sempre stato vago anche in materia di politica estera, ma si ritiene che possa riprendere l’avvicinamento alla Cina che è stato iniziato da Duterte nel 2016. Nonostante Xi Jinping non abbia mai rispettato una sentenza dell’Aja a favore di Manila sulle dispute territoriali del Mar Cinese meridionale, Duterte è stato a Pechino poco dopo il suo insediamento e ha predetto enfaticamente la «vittoria» della Cina nella corsa alla supremazia globale contro l’Occidente.

L’interscambio commerciale tra i due paesi asiatici è arrivato a livelli record. Duterte si è pure fatto immortalare mentre gli veniva somministrato il vaccino cinese Sinovac durante la pandemia.

Da quando alla Casa Bianca è arrivato Joe Biden, però, Manila è sembrata essere in procinto di tornare all’ovile, rafforzando i tradizionali legami con l’antico colonizzatore. Duterte ha fatto marcia indietro su molte delle sue minacce contro Washington, compresa l’abrogazione di un patto di difesa. Anche a causa della crisi di qualche tempo fa, quando decine di navi cinesi stazionavano nelle acque rivendicate dalle Filippine come parte della loro zona economica esclusiva. Nello scorso aprile Manila e Washington hanno condotto insieme l’esercitazione militare più massiccia degli ultimi sette anni.

Il Balikatan, in tagalog «spalla a spalla», ha mobilitato circa 9mila membri tra personale militare filippino e americano nell’area di Luzon. Sono stati realizzati dei nuovi avamposti della guardia costiera su tre isole contese nell’arcipelago delle Spratly, nonostante le proteste di Pechino. Alla fine di maggio le Filippine hanno presentato una protesta diplomatica nei confronti della Repubblica popolare, che ha imposto unilateralmente un divieto di pesca in quelle acque.

Marcos Jr., però, ha promesso che rafforzerà le relazioni con la Cina dotandole di una «marcia più alta». Durante un colloquio telefonico pochi giorni dopo le elezioni, Xi Jinping ha definito il neoeletto presidente «un costruttore e un promotore dell’amicizia con la Cina», e ha proposto un piano di cooperazione per regolare il futuro sviluppo dei legami bilaterali. «Imelda è amica della Cina e ha un’ottima relazione con il governo cinese ad alto livello, il che è destinato a influenzare la politica estera di Marcos Jr. nei confronti della Cina», ha dichiarato Yang Jinglin, professore associato presso il Centro di studi Cina-Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) dell’Università del Guangxi (Cina popolare).

O vicino agli Usa?

Marcos Jr. ha comunque garantito che Manila non cederà alle rivendicazioni cinesi sul mar Cinese meridionale, continuando a rifarsi alla sentenza del 2016. «Non permetteremo che un singolo millimetro dei nostri diritti marittimi venga calpestato», ha detto. Un modo per provare a tenere in equilibrio i rapporti sia con Washington che con Pechino. Bongbong ha palesato l’intenzione di ridiscutere e ridefinire il Visiting forces agreement con gli Usa di fronte a uno «scenario regionale in cambiamento». Fino al 30 giugno, Marcos Jr., tra l’altro, non poteva mettere piede negli Stati Uniti a causa di una maximulta, mai pagata, da 353,6 milioni di dollari comminata a lui e alla madre dopo una class action contro le violazioni dei diritti umani del regime guidato dal padre. Ma, nelle scorse settimane, la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman ha chiarito che l’impedimento è venuto meno grazie alla sua immunità presidenziale e che il neo leader filippino sarebbe il «benvenuto» negli Usa. Segnale di quanto il posizionamento del paese asiatico sia ritenuto cruciale dall’amministrazione Biden che sta provando a riproiettarsi in Asia-Pacifico per contenere l’ascesa cinese. Da parte sua, il nuovo leader filippino proverà a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza all’interno dell’Asean, riducendo la dipendenza militare dagli Stati Uniti, e a non esporsi al confronto tra blocchi. L’agognato avvicinamento a Pechino potrebbe però essere rallentato dalle tensioni strategiche.

Sono lontani i tempi in cui Marcos sr. era stato definito «il braccio destro dell’America in Asia» dall’allora presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson durante una visita a Manila del 1966. Secondo molti, Marcos jr. userà il suo potere per fermare le indagini sul patrimonio della sua famiglia, dato che presiederà la commissione che ancora conduce l’inchiesta. «Giudicatemi per le mie azioni, non per le azioni dei miei antenati», ha chiesto Bongbong. Chissà che cosa ne pensano i protagonisti della rivoluzione popolare del 1986, che hanno visto un Marcos varcare nuovamente la soglia di Palazzo Malacañan.

Lorenzo Lamperti

Archivio MC

• Filippine, 500 anni di evangelizzazione, Xiao Chua, Marco Bello, luglio 2021.
• Filippine: La (sporca) guerra alla droga, Luca S. Pistone, marzo 2019.

People walk outside a polling precinct during the presidential election in Antipolo, Rizal province on May 9, 2022. (Photo by Maria Tan / AFP)




Taiwan. Vento europeo sullo stretto


La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?

Due dicembre 2016.
Donald Trump scrive su Twitter: «La presidente di Taiwan mi ha chiamato oggi per congratularsi per la vittoria nelle elezioni. Grazie». Aggiungendo qualche ora dopo: «Curioso come gli Stati Uniti vendano miliardi di dollari di equipaggiamento militare a Taiwan, ma io non avrei dovuto accettare una telefonata di congratulazioni».

Da quel giorno di poco più di cinque anni e mezzo fa il piano dello «stretto» (qui s’intende lo stretto di Taiwan, braccio di mare che separa l’isola principale alla Cina popolare, con una distanza minima di 143 km, ndr) si è fatto un poco più inclinato. Tendenze e questioni aperte già da decenni hanno subito un’accelerazione, soprattutto a livello retorico, ma anche strategico. Su questo cambio di velocità si innesta anche la guerra in Ucraina, che potrebbe avere effetti indiretti anche sullo stretto.

Il sostegno Usa

Gli Stati Uniti hanno aumentato le dichiarazioni di sostegno a Taipei, sia con l’amministrazione Trump, sia con quella di Joe Biden, dimostrando di avere raggiunto un consenso bipartisan sulla sua importanza strategica. D’altronde, il Pentagono ha cambiato proprio nell’autunno 2021 l’individuazione del rivale strategico numero uno, che è diventato la Repubblica popolare cinese (sostituendo la Russia). Ecco che allora Taiwan diventa più importante che mai, in particolare sul piano commerciale, visto che Taipei è il nono partner di Washington (l’Ucraina solo il 67esimo). Partner dal punto di vista tecnologico, soprattutto per il fondamentale settore dei semiconduttori che è letteralmente dominato a livello globale dai colossi taiwanesi come Tsmc (Taiwan semiconductor manufactoring company), che controllano oltre il 50% della quota globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.

Dal punto di vista strategico, visto il posizionamento dell’isola principale di Taiwan nella prima catena di isole del Pacifico, è questo il teatro nel quale appare chiaro ormai che si siano spostati i principali interessi geopolitici mondiali. Ma anche dal punto di vista retorico, Taipei è la dimostrazione vivente che la democrazia è possibile con una popolazione di etnia han (maggioritaria nella Cina continentale) da sbandierare alla Repubblica popolare suggerendo il regime change. Ecco allora le leggi per facilitare la vendita di armamenti, l’apertura di un’ambasciata de facto Usa a Taipei, l’eliminazione delle restrizioni auto imposte nei rapporti con ufficiali taiwanesi (decisa da Mike Pompeo poco prima di lasciare il Dipartimento di stato, ma mantenuta da Biden), l’invito della rappresentante taiwanese negli Usa all’insediamento del presidente democratico. Da ultimo, l’aggiornamento dei documenti con i quali il Dipartimento di stato descrive le relazioni degli Usa con Taiwan: è scomparsa la spiegazione della «Politica di una sola Cina», così come la specifica che «gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan».

Oltre alle mosse ufficiali bipartisan, ci sono state anche quelle implicite. Le presunte gaffe di Biden di questi mesi, quando in tre occasioni (l’ultima delle quali il 23 maggio scorso, durante il recente tour in Asia) ha dichiarato che c’è un impegno a difendere Taiwan in caso di aggressione esterna, hanno fatto improvvisamente sembrare la classica «ambiguità strategica» statunitense nei rapporti con Taipei (impegno al sostegno alla difesa della sua indipendenza de facto ma non impegno a intervenire militarmente) un po’ meno ambigua. Così come le ripetute indiscrezioni dei media americani sulla presenza di militari a stelle e strisce su suolo taiwanese avevano generato avvertimenti più minacciosi del solito dal governo di Pechino.

Eppure, Yan, ex militare in pensione, spiega: «Gli americani ci sono sempre stati, almeno da quando sono entrato nell’esercito io. E a mio parere Pechino lo ha sempre saputo». Yan parla di un piccolo gruppo presente «in pianta stabile per addestramento e supporto tecnico» e l’arrivo di una truppa più numerosa «una volta all’anno per un aggiornamento» fatto su una delle isole minori del Pacifico. Una versione che lascia interpretare in modo diverso l’ufficializzazione della presenza di questo contingente fatta a sorpresa dalla presidente Tsai Ing-wen in un’intervista alla Cnn in cui, ammettendo la presenza di alcuni istruttori americani, ha aggiunto: «Ma non sono quanti la gente crede». Ergo, messaggio implicito rivolto a Pechino (che fino ad allora aveva detto che avrebbe interpretato l’azione come una dichiarazione di guerra, ritenendo il suolo taiwanese suolo cinese) è stato: «Sono sempre gli stessi di cui sapete già». E, infatti, da lì le minacce di sorvolo diretto del territorio taiwanese da parte dei mezzi dell’Esercito popolare di liberazione sono svanite.

Le pressioni della Cina

È però innegabile che la Repubblica popolare abbia intensificato le pressioni diplomatiche, propagandistiche e militari nei confronti di Taipei.

Dal 2019 le incursioni dei jet cinesi nello spazio di identificazione di difesa aerea avvengono su base pressoché quotidiana. La quantità e la qualità di queste incursioni aumenta in concomitanza con le novità che si apprendono sui rapporti tra Taiwan e Usa, oppure in occasione di giornate ad alto tasso retorico. Su tutte, le due celebrazioni nazionali a inizio ottobre della Repubblica popolare e della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan, ndr). Così come si sono fatte più frequenti le esercitazioni militari navali sullo stretto. Ma le ripetute dimostrazioni di forza di Pechino stanno provocando un ulteriore allontanamento di Taipei.

Con il discorso di inizio anno del 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha aumentato i discorsi retorici, dicendo che la questione taiwanese non può essere tramandata di generazione in generazione e che va risolta, se necessario, «anche con l’utilizzo della forza». Negli scorsi mesi è stato inserito un orizzonte temporale per ottenere il risultato, sia nella terza risoluzione storica, approvata al sesto plenum, che alle due sessioni dello scorso marzo: «Entro la nuova era». C’è chi individua i limiti temporali entro il classico 2049 (centenario della Repubblica popolare), ma chi invece ritiene si parli dell’orizzonte politico di Xi, avvicinando dunque il momento della resa dei conti.

La senatrice Usa Lindsey Hraham (L) rriceve un dono dal presidente Tsai Ing-wen a Taipei. (Photo by Handout / Taiwan Presidential Office / AFP)

Cosa vogliono i taiwanesi

Un momento che la maggioranza dei taiwanesi non vorrebbe arrivasse mai, visto che oltre l’80% di loro, secondo tutti i sondaggi, vede come soluzione ideale (quantomeno per ora), il mantenimento dello status quo.

I taiwanesi guardano con rabbia e timore alle manovre di Pechino, ma osservano (in silenzio) con qualche perplessità anche i colpi di testa americani. A Taipei si dice sempre che con gli Stati Uniti si vuole una «relazione stabile, non un amore passionale». Rassicurazioni, non inviti a camminare su sentieri ignoti. Per questo, a marzo, aveva destato qualche preoccupazione la visita di Pompeo (rigorosamente lontana dai riflettori). In calendario subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, rischiava di innestarsi sulla narrativa del Partito comunista, che, come dopo la caduta di Kabul, ha subito insistito per dire ai taiwanesi: «Smettetela di flirtare con gli americani, nel momento del bisogno vi abbandoneranno come hanno fatto con gli afghani prima e gli ucraini poi». Visto che Pompeo e i trumpiani ascrivono la mossa di Vladimir Putin alla debolezza di Biden, eventuali parole fuori registro dell’ex segretario di Stato avrebbero potuto creare un mix letale per l’opinione pubblica taiwanese. Una delegazione di alti funzionari assemblata in fretta e furia e spedita a Taipei da Biden in anticipo di 48 ore su Pompeo ha smussato gli angoli, consentendo, tra l’altro, una presa di distanze implicita da quello che avrebbe detto anche agli occhi di Pechino.

Taipei come Kiev?

I paragoni tra Taiwan e Ucraina, peraltro, non colgono le profonde differenze che intercorrono tra i due territori. Tutti gli attori in campo hanno caratteristiche diverse. Taipei è un attore economico cruciale a livello globale, ben più di Kiev. Pechino continua a perseguire la «riunificazione» (annessione per i taiwanesi) pacifica, anche perché considera Taiwan parte del suo territorio e dichiararle guerra sarebbe, dal suo punto di vista, come dichiarare guerra a se stessa. Washington ha interessi ben diversi su Taiwan rispetto a quelli mantenuti sull’Ucraina. Se la Cina è il rivale numero uno, Taipei è meno sacrificabile rispetto a Kiev.

I paralleli però ci sono soprattutto a livello retorico, con ricadute sull’opinione pubblica.

«All’inizio dell’invasione russa c’era molta preoccupazione, ma ora il governo taiwanese è almeno in parte sollevato guardando al sostegno ricevuto da Kiev in termini di aiuti militari e sanzioni alla Russia», spiega Jay Chen, capo redattore della Central news agency, agenzia di stampa taiwanese. «Più gli ucraini resistono e più lo fanno grazie all’aiuto dei partner occidentali e più anche i taiwanesi guadagnano convinzione che in un ipotetico conflitto futuro potrebbero fare lo stesso», prosegue Chen.

Recenti sondaggi mostrano che la percentuale di cittadini disposti a combattere per difendere Taiwan è notevolmente cresciuta, anche se è scesa la fiducia in un intervento militare diretto degli Usa in caso di invasione cinese. In questo senso, l’opinione pubblica ora sembra più disposta ad accettare mosse fino a qualche tempo fa impopolari come un’estensione della leva militare e un ampliamento del programma dedicato ai riservisti. Mentre aumentano le richieste agli Usa (anche del Giappone attraverso le parole dell’ex premier Shinzo Abe) di abbandonare l’ambiguità strategica.

Non è un caso che su Taiwan non ci sia spazio per nessun tipo di negoziato. Gli Usa non trattano e fanno passi verso Taipei; Pechino ribadisce che la «riunificazione» è un obiettivo «storico» e considera quella di Taiwan una questione interna. Utilizzando, tra l’altro, la propaganda russa sulla guerra in Ucraina in funzione anti Usa e anti Nato perché le è funzionale in Asia-Pacifico. Così come l’estensione dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale ha «gettato benzina sul fuoco» e causato il conflitto in Ucraina, dice la Cina, i tentativi di accerchiamento in corso con le varie piattaforme di sicurezza come Quad (alleanza strategica Usa, India, Giappone e Australia, siglata nel 2017) e Aukus (Australia, Regno Unito, Usa, in partenariato strategico militare dal 2021) gettano benzina sul fuoco in Asia-Pacifico. Ergo: «Se in futuro ci sarà una guerra su Taiwan non sarà colpa nostra».

Si affilano I coltelli

La guerra in Ucraina sta portando Pechino ad aumentare la sua capacità di fuoco e la sua potenza nucleare, nel tentativo di scoraggiare non solo Taiwan a difendersi, ma anche Washington a intervenire. La stessa cosa provano a fare gli Usa facendosi vedere più spesso dalle parti dello stretto e organizzando tentativi di Nato asiatiche. Contestualmente, Xi affila l’arsenale normativo per sottomettere i taiwanesi.

Liste nere (esiste in Rpc una legge antisecessione che sanziona i secessionisti usando le black list, ndr), una possibile futura legge che prenda di mira non più i secessionisti ma tutti coloro che non si prodigano alla riunificazione. Basi legali per ipotetiche azioni militari.

In un complicato gioco di specchi e di deterrenza incrociata, entrambe le potenze percepiscono il rivale voglioso di cambiare lo status quo e dunque si sentono incentivate a testare le rispettive linee rosse. Taiwan, nel mezzo, cerca di non recidere completamente il rapporto con la Repubblica popolare. L’interscambio commerciale, che ha raggiunto il suo record storico nel 2021 nonostante le tensioni politiche, e l’approvvigionamento tecnologico della Rpc (con i grandi colossi che fungono da veri e propri attori diplomatici in assenza di dialogo tra i due governi), sono leve fondamentali alle quali Taiwan non vuole rinunciare, nonostante le pressioni americane. Ad esempio, per i semiconduttori Biden sta cercando di costruire catene di approvvigionamento «democratiche» che escludano Pechino. O, se fosse costretta a rinunciare agli affari con la Cina, chiederebbe garanzie più chiare di una difesa completa agli Usa.

C’è chi ritiene che i rapporti tra Pechino e Taipei abbiano già oltrepassato il punto di non ritorno e che il confronto diretto sullo stretto sia solo questione di tempo, a prescindere da come andrà in Ucraina. Eppure, c’è anche chi vede le cose diversamente. «Se non ci sarà la guerra, il corso degli eventi può nuovamente cambiare direzione», sostiene Chen Kuan-Ting, amministratore delegato del think tank taiwanese NextGen, ben inserito nelle dinamiche politiche locali. «Durante l’era di Hu Jintao i taiwanesi avevano iniziato a guardare alla Cina in un’altra maniera, e tantissimi hanno deciso di andare dall’altra parte dello stretto a lavorare o vivere», dice Chen. «Pechino può ancora riuscire a cambiare la sua immagine, se vuole conquistare il cuore dei taiwanesi, ha tanti modi per farlo. Ma se usasse la forza, quella possibilità si cancellerebbe e ogni rapporto verrebbe tagliato. Come sta succedendo tra Russia e Ucraina», prosegue Chen. Ma in che modo? «Condividiamo la stessa lingua e la stessa cultura, abbiamo rapporti profondi a livello commerciale: i taiwanesi non vogliono essere unificati, ma il dialogo potrebbe ripartire, se il Pcc (Partito comunista cinese) scegliesse di essere più aperto e non mostrare solo i muscoli», conclude Chen. «Non so, magari accadrà quando la Cina avrà un nuovo leader».

Tra pochi mesi, al XX Congresso, Xi dovrebbe però ricevere lo storico terzo mandato. E le lancette della nuova era continuano a scorrere.

Lorenzo Lamperti

Lorenzo Lamperti. Giornalista professionista, è direttore editoriale di China Files, scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi.
China Files. È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC. www.china-files.com




Myanmar, etnie e nazione

Sommario


Un anno di giunta militare

L’esercito e la resistenza delle etnie

Dopo il golpe del primo febbraio 2021, il Myanmar è tornato al passato. Un generale è al potere, la leader Aung San Suu Kyi è agli arresti e i numerosi conflitti interni al paese sono di nuovo esplosi.

In Myanmar, stragi, massacri e processi non si arrestano. Nel silenzio del mondo, la giunta militare al potere continua la repressione iniziata con il golpe del primo febbraio 2021. Ma la resistenza non si arrende, soprattutto quella delle milizie etniche, da sempre parte attiva contro i soprusi dei militari.

L’esercito, comandato dal generale Min Aung Hlaing, non risparmia nessuno, spara ad altezza uomo durante le manifestazioni, uccide operatori sanitari e giovanissimi. Dal colpo di stato di un anno fa è in corso una repressione che include esecuzioni e torture, caratteristiche di un ritorno del vecchio regime. L’ultimo brutale episodio è avvenuto nello Stato Kayah, al confine con la Thailandia. Nella «strage di Natale» hanno perso la vita almeno trentacinque civili nel tentativo di fuggire dagli scontri in corso nel villaggio di Mo So tra i gruppi di resistenza armata e l’esercito birmano. I corpi sono stati ritrovati nelle auto bruciate. Tra le vittime ci sono anche due membri dello staff della Ong Save the children.

Tre settimane dopo, il 10 gennaio, un tribunale di Naypyitaw (o Nay Pyi Taw) ha condannato Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e dominatrice delle elezioni parlamentari del novembre 2020, ad altri quattro anni di prigione per possesso illegale e importazione di walkie talkies e per aver trasgredito alle norme anti Covid. Complessivamente, alla leader birmana sono imputati una dozzina di capi d’accusa. È opinione generale che le modalità dei processi contro di lei siano del tutto illegali, delle vere e proprie farse, come ha commentato Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Una manifestazione in favore di Aung San Suu Kyi, deposta e arrestata dalla giunta militare nel golpe del 1 febbraio 2021. Foto Saw Wunna – Unsplash.

Proteste popolari e nuove tecnologie

La spirale di violenza in cui si ritrova il paese asiatico non pare destinata a ridursi: il dissenso arriva dalle campagne, dai piccoli villaggi di montagna fino alle proteste in città. I gruppi armati etnici formano un fronte comune col resto dell’opposizione. La prima differenza sostanziale tra le rivolte attuali e quelle avvenute nel 1988 (terminate con la vittoria dei militari) è la tecnologia, che ha aiutato la comunicazione alimentando la protesta collettiva e sviluppando, soprattutto nei giovani, una consapevolezza maggiore sulle violazioni dei diritti umani comprese quelle nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Il popolo birmano sta cercando di superare le storiche divisioni etniche per non soccombere a coloro che non hanno rispettato l’ultimo voto democratico, e spinge a continuare il decennio di libertà di cui ha goduto dalla transizione democratica iniziata nel 2011.

Le tre dita alzate in cielo (utilizzate anche per le proteste in Thailandia e Hong Kong) sono divenute il simbolo del movimento civile di disobbedienza. Subito dopo il colpo di stato, migliaia di persone si sono riversate in strada pacificamente e in prima linea si sono ritrovati anche medici e operatori sanitari che, pur consapevoli di dover dare priorità ai pazienti in ospedale, non hanno rinunciato a mobilitarsi organizzando delle cliniche mobili e dei servizi di ambulanza per i feriti nelle proteste. Il personale sanitario da subito ha deciso di boicottare gli ospedali gestiti dalla giunta dando vita al movimento dei «colletti bianchi». La Bbc ha riportato la testimonianza di un medico che riassume il sentimento collettivo della categoria: «Cinquant’anni di precedente governo militare non sono riusciti a sviluppare il nostro sistema sanitario e invece hanno inasprito povertà, disuguaglianza e cure mediche inadeguate. Non possiamo tornare a quella situazione».

Oggi, il Tatmadaw, com’è denominato l’esercito, teme di perdere autorità, non è più solido come in passato e sta subendo perdite e defezioni, oltre ad avere difficoltà a gestire i conflitti e la guerriglia etnica.

L’indipendenza dal dominio inglese e la formazione degli stati etnici

Storicamente etnicità e nazionalismo hanno una relazione molto stretta. Anthony Smith, uno dei maggiori studiosi del tema, ci ricorda che l’etnia è in costante ricerca di autonomia, unità e identità. Il conflitto con lo stato nazione può insorgere non quando le etnie richiedano statuti regionali piuttosto che autonomie locali, ma quando ritengono di possedere un’altra identità rispetto alla nazione. A livello mondiale, con il diffondersi della globalizzazione, la questione etnica non si è indebolita, ma anzi si è accentuata, favorita dalla perdita di presa da parte dello stato nazione.

Il Myanmar è un esempio di nazionalismo etnico de facto basatosi sull’idea che la nazione troverebbe la propria legittimazione nell’omogeneità etnica di coloro che la guidano (i Bamar, Burman nella narrativa inglese). L’opposizione delle altre etnie ha portato alla costituzione di un apparato nazionalista rappresentato dal Tatmadaw. La complessità del paese nasce dal numero delle minoranze etniche che popolano tutto il territorio birmano e che, dal giorno dell’indipendenza dal Regno Unito, aspirano o alla costituzione di una federazione o alla costituzione di diversi stati autonomi.

L’indipendenza è arrivata nel 1948, al termine di lunghe negoziazioni condotte dal generale Aung San (il padre di Aung San Suu Kyi, assassinato nel 1947), il quale aveva convinto i gruppi di minoranza ad aderire alla nuova Unione. Gli Accordi di Panglong (Panglong agreement) del 1947 schematizzavano i diritti delle minoranze e, in modo particolare, conferivano alle popolazioni Shan e Karenni la facoltà di staccarsi dall’Unione birmana dieci anni dopo l’indipendenza. Ma queste garanzie costituzionali non sono mai state completamente rispettate. L’indipendenza non ha portato ad avere un paese unito, al contrario ne ha esasperato la frammentazione, dando inizio a una serie di logoranti guerre etniche. Alcuni passi positivi sono avvenuti con il Nationwide ceasefire agreement (Accordo nazionale di cessate il fuoco) dell’ottobre 2015 e nell’agosto del 2020 quando l’allora leader Aung San Suu Kyi ha dato il via a incontri con le minoranze etniche – i nuovi colloqui di Panglong -, interrotti poi dal golpe militare del 2021.

Contadino birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.

Una storia di corsi e ricorsi

Ripercorrere la storia del paese aiuta a capire meglio gli attuali eventi che hanno reso endemica l’instabilità nel paese. Lo storico e scrittore birmano americano Thant Myint-U, ci ricorda che, per decenni, la storia dell’ex Birmania è stata descritta secondo una visione duale manichea che raccontava di una nazione divisa tra il dominio delle giunte militari e i movimenti per la democrazia e diritti umani, mentre la realtà è ben più complessa. Nel suo libro L’altra storia della Birmania, Thant Myint-U s’interroga se è possibile che il mondo abbia frainteso il Myanmar.

La tragicità dei corsi e ricorsi storici del paese ha fatto aprire tardi gli occhi al mondo, non in ultimo all’Occidente, che ha sempre avuto aspettative troppo alte e scontate: il Myanmar doveva essere il progetto democratico per eccellenza degli anni Duemila, un paese destinato ad avviarsi a una transizione democratica con un sicuro lieto fine.

I processi di transizione sono però delicati e richiedono decenni per consolidare un sistema democratico così come lo concepisce la maggior parte dei paesi occidentali, vale a dire con partiti politici in competizione, media liberi e libere elezioni. In Occidente occorre rimproverarsi di non aver avuto la visione d’insieme e di aver considerato la democrazia come un naturale decorso dopo la tirannia militare che ha sempre dominato la storia della Birmania. Questa miopia non ha permesso di interpretare i segnali di fragilità del paese: dai problemi strutturali della società birmana all’eredità scomoda del colonialismo, dalle persecuzioni dell’esercito allo scontro etnico e alla resistenza dei gruppi armati.

Timidi tentativi di cambiamento

Nel 2008, il Tatmadaw capisce la necessità di superare l’isolamento del Myanmar sulla scena internazionale e far rimuovere le sanzioni (all’epoca le più severe mai adottate contro qualsiasi paese del mondo, Corea del Nord inclusa), imposte per le violazioni dei diritti umani. In quell’anno viene concessa una nuova Costituzione (la terza nella storia birmana) che prevede elezioni multipartitiche. L’operazione per ingraziarsi l’Occidente – inclusa l’Unione europea – si conclude con la liberazione dagli arresti domiciliari, nel 2010, di Aung San Suu Kyi, The Lady, «La Signora», com’è sempre stata soprannominata. Premio Nobel per la pace, adulata in patria ma soprattutto dalla comunità internazionale (almeno fino allo scoppio della questione dei Rohingya), sulla Lady vengono riposte le speranze di un futuro democratico senza però considerare che lei non si è mai potuta liberare veramente dei suoi carnefici.

Nel 2012 Aung San Suu Kyi entra in parlamento, dopodiché nel 2015 il suo partito – la Lega nazionale per la democrazia – vince le elezioni, le prime libere e regolari per un’intera generazione di birmani.

A causa della restrizione costituzionale imposta dalla giunta militare che esclude dalla carica i candidati con coniugi o figli stranieri (il marito della Lady era un cittadino inglese), alla Lady non è possibile ricoprire la carica di presidente. Nel 2016, diventa così la leader de facto del governo, con il ruolo di «consigliere di stato». Ma, nonostante milioni di birmani abbiano votato contro l’Union solidarity and development party (Usdp), il partito dell’esercito, il vero potere rimane nelle mani di quest’ultimo: il 25% dei seggi parlamentari e il controllo dei ministeri chiave del paese, tra cui la difesa, gli affari interni e gli affari di frontiera.

Il golpe del febbraio 2021 riporta il paese nel passato e Aung San Suu Kyi è nuovamente privata della libertà. Le persecuzioni non riguardano più soltanto le minoranze, ma tutto il popolo birmano, unito nella rabbia per il ritorno alla violenza da parte del Tatmadaw.

Secondo i dati dell’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Assistance association for political prisoners, Aapp) almeno 1.503 persone sono già state uccise e più di 8.835 manifestanti e oppositori sono stati arrestati e incarcerati (dati al 31 gennaio 2022). Le inchieste della Bbc raccontano un modus operandi fatto di torture e sevizie da parte dei militari, alcuni dei quali anche minorenni. Come confermano le testimonianze raccolte, si sono verificate delle vere e proprie spedizioni punitive nei villaggi per coloro che si ribellavano al ritorno al potere dei generali. Corpi torturati e mutilati sono stati ritrovati nelle fosse comuni, tra cui il corpo di un bambino nei pressi del villaggio Zee Bin Dwin. Il colpo finale alla democrazia è stato quello di silenziare tutti i media locali e vietare l’ingresso ai giornalisti stranieri. Inoltre, lo scorso 14 dicembre, Radio free Asia ha riportato la prima morte ufficiale di un giornalista, il fotoreporter birmano Soe Naing, arrestato a Yangon, mentre documentava una protesta e morto in prigione a dicembre.

Detto questo, è evidente che la situazione del Myanmar non spiace a tutti gli attori, a cominciare dalla vicina superpotenza cinese.

Il percorso degli oleodotti sinobirmani, dallo Yunnan (Cina) al Golfo del Bengala. Da minorityvoices.org.

Le nuove vie di Pechino

Situato nel cuore del Sud Est asiatico, il Myanmar occupa una posizione geopoliticamente strategica soprattutto per le nazioni con cui confina: India e Bangladesh a Ovest, Cina a Nord Est.

Fin dall’antichità, la Cina ha giocato un ruolo dominante in molti settori dell’economia birmana. Tra le montagne a Nord del paese si estendeva la storica rotta commerciale conosciuta come via della seta, che collegava il mondo cinese a quello indiano fino al Mediterraneo. Oggi, il progetto della nuova via della seta viene portato avanti sotto il nome di One belt one road. Ufficialmente, esso riguarda una settantina di paesi, che si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello di Pechino.

Le mire commerciali cinesi puntano al Golfo del Bengala (Oceano Indiano) e ai giacimenti di petrolio e gas del Myanmar, formando un corridoio economico che si estende da Ruili, nella provincia cinese dello Yunnan, attraversa Muse e Mandalay fino a Khyaukphyu nel Rakhine State e segue i gasdotti e gli oleodotti costruiti nel 2013 e nel 2017. All’estremità del percorso del Myanmar è previsto un porto e una zona economica speciale a Khaukphyu. Il collegamento con la città del Rakhine è importante per Pechino, in quanto consente alla Cina di trasportare rapidamente via terra petrolio e gas, oltre a beni e risorse prodotti a livello regionale e quindi meno costosi, aggirando la rotta marittima attraverso lo stretto di Malacca (tra Indonesia e Malesia). Gli oleodotti, già operativi, sono di proprietà della China national petroleum corporation (Cnpc) e della Myanmar oil and gas enterprise (Moge), entrambe grandi società statali. Inoltre, il progetto prevede la costruzione di una rete ferrovia Muse-Mandalay di 431 km, con costi stimati in nove miliardi di dollari, che collegherebbe il Myanmar alla rete ferroviaria cinese. Un’altra parte importante del corridoio commerciale sarà costituita da tre zone di confine. Le zone prevedono aree produttive e commerciali senza tassazione, hotel e servizi finanziari. Secondo un piano politico pubblicato nel 2019 dal ministero del Commercio del Myanmar (Silk road briefing), le località sarebbero Muse e Chinshewehaw nella parte settentrionale dello Stato Shan e Kan Pite Tee nello Stato Kachin.

Un mercato di Bagan. Foto Lim Ashley.

L’Onu e la strategia cinese

Oltre al principale partner commerciale, la Cina si è rivelata per il Myanmar un indispensabile alleato politico in sede Onu. Utilizzando il suo seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Pechino ha protetto il paese da alcune sanzioni internazionali difendendo così i propri interessi economici. Come confermato anche dall’analista politico U Maung Maung Soe al giornale the Irrawaddy: «L’Occidente ha spinto il Myanmar tra le braccia della Cina, che non si arrenderà facilmente per portare avanti i propri piani strategici. Di conseguenza, è meglio trovare soluzioni pratiche per collaborarci».

Riguardo all’attuale crisi politica nel paese, la Cina – strategicamente – cerca di evitare ogni forma di coinvolgimento esplicito sia nell’appoggiare la giunta militare sia nel favorire una possibile resistenza armata, in quanto il suo scopo rimane quello di tenere il più lontano possibile un ritorno nel paese delle potenze occidentali.

   Federica Mirto

Veglia di protesta a Yangon il 12 marzo 2021, a poco a un mese e mezzo dal golpe militare. Foto Zinko Hein – Unsplash.


Colonialismo e diatriba storico-lessicale

Due nomi, 135 etnie, tanti conflitti

Il termine «Myanma» appare per la prima volta in una incisione circa mille anni fa. Si attribuisce il suo significato originario alle genti che vivono nella valle dell’Irrawaddy, il principale fiume del paese. Nel corso dei secoli esse si proclamano Myama pyi (il paese Myanma) o Myanma naig-nga (Mynama, la terra conquistata). L’aggettivo «Bama» viene introdotto nel XVII secolo e deriva da Bamar (Burman) che indica il gruppo etnico maggioritario. Con l’arrivo dei primi europei il sostantivo «Birmania» si diffonde, mentre la colonizzazione inglese ufficializza il nome «Burma». In lingua birmana, il nome rimane Myama pyi1.

Da Burma a Myanmar

La denominazione del paese non causa polemiche fino al 1989, quando la giunta militare, dopo esser arrivata al potere con un colpo di stato, cambia ufficialmente il nome da Burma (Birmania) a Myanmar. La giustificazione ufficiale offerta è che il nome «Myanmar» include tutti i popoli indigeni. Altra ragione plausibile per questa scelta è la volontà di superare il passato coloniale. Ulteriori correzioni vengono fatte con i nomi delle città: per esempio, la città di Rangoon (Rangun), la più grande e nota del paese (già capitale), dopo il 1989 viene denominata Yangon. La polemica intorno all’utilizzo del termine Birmania o Myanmar assume un significato politico, sia all’interno del paese, sia nella comunità internazionale.

Come già accennato, «Burma» è stato imposto dai colonizzatori britannici e non rappresentava tutte le minoranze etniche. Tuttavia, secondo Aung San Suu Kyi e i suoi sostenitori, utilizzare «Myanmar» significherebbe approvare la scelta di una giunta militare e, di fatto, la sua legittimazione storica. A livello internazionale, il cambiamento non è stato riconosciuto all’unanimità: le Nazioni Unite e alcuni paesi, come la Francia, utilizzano il termine Myanmar; invece, Regno Unito e Stati Uniti (ma non i loro media) continuano ad usare il termine «Burma»2.

Nel corso del delicato processo di democratizzazione (oggi interrotto dal nuovo golpe militare) ci sono state, peraltro, alcune eccezioni. Per esempio, nel 2012 quando, durante una visita al paese asiatico, il presidente degli Stati Uniti in carica, Barack Obama ha usato sia «Burma» che «Myanmar». La stessa Aung San Suu Kyi ha utilizzato principalmente il termine «Myanmar» durante il suo primo discorso alle Nazioni Unite come rappresentante del paese, nel settembre 2016.

Non soltanto Bamar

Semplificando la questione, possiamo dire che Burma è termine legato alla prepotenza coloniale e Myanmar alla presenza di molte minoranze etniche stanziate lungo le regioni di confine, minoranze che da sempre lottano con i Bamar raccolti soprattutto al centro del paese e detentori del potere. È con esse che qualsiasi governo dovrà dialogare. Come, prima del golpe di febbraio 2021,
si era iniziato a fare attraverso il Nationwide ceasefire agreement (2015) e i nuovi colloqui di Panglong (2020).

Fe.M.

1 Than MyintU, The Hidden history of Burma, Atlantic Books London, 2020

2 In un articolo del 2018, l’Istituto per la pace degli Stati Uniti aveva spiegato che gli Stati Uniti non riconoscevano il cambio di nome perché era stato fatto senza il consenso dei cittadini e, pertanto, lo ritenevano illegittimo: https://www.usip.org/blog/2018/06/whatsnameburmaormyanmar

Cerimonia per la donazione della Cina allo Stato Kachin di materiale sanitario anti Covid-19, a Tengchong (Yunnan) il 27 agosto 2021. Foto cgnt.com.


Le minoranze

Il calderone etnico e l’abbraccio cinese

I Bamar hanno le redini del paese, ma le altre 135 etnie non si arrendono. Sugli uni e sulle altre pesa l’interventismo della superpotenza cinese intenzionata a rafforzare il proprio dominio neocoloniale.

In Asia, si giocheranno molti degli equilibri geopolitici mondiali. Consapevole di questo, la Cina ha tutto l’interesse a mantenere il controllo sui 2.400 chilometri di frontiera che la separano dal Myanmar, dove risiedono alcuni dei principali gruppi armati delle diverse etnie. Come accennato, il gigante asiatico non prende posizioni dirette nella politica birmana, ma diplomaticamente pone le basi per instaurare una forma di neocolonialismo.

Per esempio, l’inefficiente gestione dell’emergenza pandemica dovuta al Covid-19 da parte della giunta militare ha portato Pechino a intervenire: fino ad oggi sono state consegnate più di tredici milioni di dosi di vaccino ai generali del Tatmadaw e più di diecimila vaccinazioni sono state fatte, a luglio, all’inizio della terza ondata, presso il quartiere generale del Kachin independence army (Kia) a Laiza, come riporta il colonello kachin Naw Bu (straitstimes.com).

Il colonialismo del «dividi et impera»

L’atteggiamento da parte della Cina ricorda le tipiche dinamiche instaurate dal colonialismo inglese: dividi et impera, ovvero andare a sfruttare le debolezze interne al paese per rafforzare il potere nelle proprie mani. Le conseguenze del sistema coloniale nel tessuto sociale e culturale di un paese rimangono nel tempo anche una volta cessato il rapporto tra gli stati coinvolti.

In Myanmar, la fase coloniale inglese iniziò nel 1824 come estensione del dominio coloniale dell’India. Fino al 1937, il paese fu infatti governato come provincia indiana. Gli inglesi instaurarono un sistema basato su due amministrazioni: Ministerial Burma e il Frontier area. Questa divisione diede inizio a un susseguirsi di episodi discriminatori portati avanti dai padroni inglesi: alcuni popoli vennero scelti come referenti principali e così s’iniziò a costruire un ordine sociale basato sull’appartenenza etnica e sull’esclusione, spianando la strada alle rivalità interne tra popoli che fino a quel momento non avevano sviluppato attriti o dissapori.

I gruppi etnici dei Karen, Kachin e Chin, in maggioranza cristiani, assunsero posizioni di rilievo, «a discapito di altri gruppi, ritenuti meno adatti a comunicare con l’Inghilterra e ad agire secondo le sue volontà» (Valeria Dell’Orzo, in istitutoeuroarabo.it) portandoli persino a combattere tra le file dell’esercito inglese contro quello giapponese nella Seconda guerra mondiale.

Vita contadina in Myanmar. Foto Ilya Yakubovich.

I Chin e il cristianesimo

Con il colonialismo arrivarono anche i primi missionari battisti che introdussero il cristianesimo nei villaggi abitati dal gruppo etnico chin, nella vasta catena montuosa che risale dal Myanmar occidentale fino al Mizoram nel Nord-Est dell’India. Oggi i Chin abitano l’unico stato del Myanmar a maggioranza cristiana (86% di cristiani, secondo il censimento governativo del 2014).

Riconoscibili per i loro tradizionali tatuaggi, come quasi tutte le etnie, anche i Chin hanno un proprio esercito (Chin defence force, Cdf), ma le loro proteste sono sempre state causate soprattutto dalle condizioni di vita molto precarie: mancanza di strutture sanitarie ed educative e di lavoro. Come riportato dal report della Banca mondiale e Undp condotto nel 2017, lo Stato Chin è il più povero del paese: sei persone su dieci vivono in condizioni precarie. Tanto che molti giovani uomini chin, nel disperato tentativo di sfuggire all’estrema povertà, si sono arruolati nell’esercito birmano. Un altro fattore che determina la mancanza di opportunità economiche è la totale assenza di infrastrutture, molti villaggi nello Stato Chin sono accessibili solo a piedi, tramite una rete di piccoli sentieri.

Inoltre, come altri gruppi etnici anche i Chin sono stati vittime del processo di «birmanizzazione» che, tra le diverse forme di discriminazione, prevede il divieto d’inserire la storia della loro etnia nei libri di scuola.

Alla fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta, le tensioni con il governo militare sono esplose: torture, stupri, arresti e lavori forzati ne sono state le conseguenze.

A gennaio 2022, la Chin human rights organization (chinhumanrights.org) ha riferito che i cristiani chin continuano a subire persecuzioni da parte del governo, inclusi sgomberi forzati, incendi dolosi, divieti di raduni religiosi e aggressioni. Oltre sessantamila Chin si sono rifugiati in India, dove continuano il loro destino di povertà con la popolazione locale.

Censimenti inaffidabili

La frammentazione etnica, il multiculturalismo e la diversità di credi religiosi rendono il Myanmar antropologicamente unico: centotrentacinque sono le etnie ufficialmente riconosciute. Tuttavia, non essendoci statistiche affidabili sulla popolazione, nessuno sa esattamente quanti gruppi etnici ci siano e quale sia la loro consistenza numerica.

I censimenti di riferimento sono due, entrambi controversi. Il primo è stato effettuato dagli inglesi nel 1931, il secondo dal governo birmano nel 2014 (29 marzo-10 aprile), in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa). I risultati di sintesi provvisori sono stati pubblicati nell’agosto 2014 dal ministero dell’Immigrazione e della popolazione. Questi risultati preliminari hanno censito 51.419.420 persone, tra cui circa 1.206.353 che non erano mai state contate, residenti in alcune parti degli stati Arakan, Kachin e Karen.

Numerose organizzazioni della società civile hanno criticato la codifica etnica nel censimento, sostenendo che fosse stata progettata senza un’adeguata consultazione, chiedendo pertanto la sospensione del censimento fino a quando non ci fosse stata la pace nel paese. Inoltre, nonostante le iniziali promesse, oltre un milione di Rohingya sono stati conteggiati come «altri» in quanto la definizione di «Rohingya» non era consentita. Infine, il censimento non ha contato i milioni di birmani che vivono fuori dal paese. Pertanto, la fiducia nelle cifre del governo rimane problematica, in particolare per quanto riguarda le dimensioni delle popolazioni etniche.

Dall’indipendenza ad oggi, i governi hanno cercato di esasperare un nazionalismo propagandistico e discriminatorio, basato sul privilegiare l’etnia dei Bamar, predominante nel paese (il 68% della popolazione, secondo il citato censimento del 2014).

I Bamar parlano il birmano (lingua ufficiale) e professano il buddhismo theravada. I vantaggi politici e sociali dei Bamar sono stati palesi anche nelle elezioni del 2015, che hanno inaugurato il breve periodo della transizione democratica con il volto di Aung San Suu Kyi, essa stessa di etnia bamar.

Contadini birmani. Foto Karl Ferdinand – Pixabay.

I Rohingya e gli errori della Lady

Negli ultimi anni, la maggior parte dei rifugiati – sia all’interno che all’estero (soprattutto in Bangladesh) – sono stati i citati Rohingya dello Stato Rakhine, minoranza etnica musulmana da sempre – ne abbiamo accennato – oggetto di repressione.

Nel 2016 e nel 2017, il Tatmadaw e le forze di sicurezza locali hanno organizzato una brutale campagna contro di essi, uccidendo migliaia di persone e radendo al suolo centinaia di villaggi. Gruppi per i diritti umani e funzionari delle Nazioni Unite sospettano che i militari abbiano commesso un genocidio.

Tanto che, a novembre 2019, il Gambia, paese africano distante 11.500 chilometri dal Myanmar ma a grande maggioranza islamica, ha intentato una causa internazionale contro il Myanmar presso la Corte internazionale di giustizia con sede a l’Aia (International court of justice, Icj), accusando il paese di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio.

Da parte sua, quando era al governo, Aung San Suu Kyi ha sempre negato che fosse in atto una pulizia etnica, pregiudicando in maniera importante la sua immagine virtuosa di premio Nobel per la pace e confermando che la giunta militare non aveva mai smesso di dirigere, da dietro le quinte, le azioni del neoeletto governo democratico. Peraltro, le prospettive di una democrazia giusta e rispettosa nei confronti delle minoranze etniche si erano esaurite anche con la Lady al potere non soltanto per la questione dei musulmani rohingya, ma anche per le altre minoranze etniche che non hanno ottenuto più vantaggi o più partecipazione politica. Nelle camere del parlamento, i Bamar detenevano il 60,2% dei seggi, i Kachin 1,2% e poco di più le altre minoranze, a eccezione dei Rohingya che, non avendo diritto al voto, non potevano avere rappresentanti all’interno delle camere. Dunque, anche con Aung San Suu Kyi al governo, il Myanmar aveva confermato di essere un’«etnocrazia».

Gli eserciti etnici

Le tensioni con i gruppi etnici hanno radici nel passato e sono state esacerbate dalla giunta militare al potere nel 1962, che ha ridotto i diritti delle minoranze alimentando interminabili conflitti armati con il Tatmadaw. Questo ha portato alla formazione di più di venti organizzazioni armate etniche e oltre a dozzine di piccoli gruppi di milizie, producendo quella che alcuni analisti hanno descritto come la guerra civile più lunga del mondo.

Le zone calde dove risiedono i movimenti indipendentisti sono principalmente quelle lungo i confini: nello Stato Rakhine, l’esercito buddhista pro-Rakhine (non Rohingya); nello Stato Kayin, i Karen; nello Stato Shan, lo Shan state army (scisso in due gruppi, Nord e Sud) e l’United wa state army (nato dal partito comunista e con base nell’etnia wa); nello Stato Kachin e parzialmente in quello Shan, l’esercito per l’indipendenza dei Kachin (Kia).

Dopo il golpe del febbraio 2021, secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la maggiore resistenza contro la nuova giunta militare si registra negli stati birmani a forte presenza cristiana: lo Stato Chin, abitato da una maggioranza di cristiani, e lo Stato Kachin.

Soldati palaung nello Stato Shan. Foto Steve Tickner / Frontier Myanmar.

I Kachin e il Tatmadaw

Dopo i Chin, la seconda minoranza cristiana presente in Myanmar sono i Kachin. Il numero esatto di questa etnia è sconosciuto a causa dell’assenza di dati affidabili. Tuttavia, la maggior parte delle stime suggerisce che potrebbero essere circa un milione. Di essi circa il 34% è cristiana, mentre la parte restante segue il buddhismo o l’animismo.

Con i Kachin le ostilità nascono ufficialmente nel 1961 con la formazione del Kachin independence army (Kia), creato dalla diserzione di militari kachin, precedentemente arruolati dall’esercito nazionale.

I Kachin sono una delle minoranze etniche che avevano firmato l’accordo di Panglong del 1947, e come tali avevano ricevuto l’approvazione per la creazione di un proprio stato separato, che si rifletteva nella prima costituzione della Birmania di recente indipendenza. Per un po’ questo era stato sufficiente per evitare insurrezioni immediate contro il governo. La situazione cambia drasticamente nel 1961, quando il buddhismo viene dichiarato religione di stato. Percepito come un affronto dai Kachin cristiani, si arriva alla creazione della Kachin independence organisation (Kio) e la sua ala militare, il citato Kia. L’ultima provocazione è il colpo di stato militare del generale Ne Win nel 1962, poiché il presidente eletto all’epoca è un Kachin, Sama Duwa Sinwa Nawng.

Anche i Kachin subiscono il fenomeno della «birmanizzazione» dell’esercito e delle istituzioni pubbliche. Con essa cresce un forte senso di discriminazione ed esclusione che alimenta la ribellione nelle aree kachin.

Nei primi anni dell’insurrezione, il Kio è in grado di controllare gran parte dello Stato Kachin. La situazione comincia a cambiare dopo il 1988 quando il «Consiglio statale per il ripristino della legge e dell’ordine» (Slorc) inizia a concludere accordi di cessate il fuoco con altri gruppi ribelli e, quindi, a concentrare le forze militari contro i ribelli kachin. La conseguenza è che, nel 1994 (Myitkyina, 24 febbraio), il Kio decide di stipulare un cessate il fuoco con la giunta, che gli consente un certo grado di controllo amministrativo nello Stato Kachin, sebbene tutte le terre e le risorse naturali rimangano sotto l’autorità del «Consiglio per la pace e lo sviluppo» (Spdc).

Secondo Human rights watch, l’accordo di Myitkyina, però, non pone fine alle violazioni dei diritti umani da parte di nessuna delle due parti. Il Kia – secondo gruppo armato etnico non statale del Myanmar – continua a reclutare bambini-soldato, mentre l’esercito birmano continua a utilizzare il lavoro forzato e a confiscare terreni.

Nel 1999 viene fondata l’Organizzazione nazionale kachin (Kno) con l’obiettivo di ripristinare un’autentica unione federale nel paese. Negli anni, il movimento nazionalista kachin è riuscito a creare una forte identità politica tra i diversi sottogruppi di Kachin che abitano la regione. Il Kio mantiene un’amministrazione civile che governa ancora una parte del territorio, operando come uno stato parallelo con propri dipartimenti di salute, istruzione, giustizia.

Accordi fittizi e lotta per le risorse

Tra il 2009 e il 2010, il governo centrale annuncia (mmpeacemonitor.org) che tutti i gruppi armati soggetti ad accordi di cessate il fuoco avrebbero dovuto trasformarsi in una forza di guardia di frontiera (Border guard forces, Bgf) sotto il controllo diretto dell’esercito birmano e rinunciando alla propria autonomia.

I Kachin respingono la proposta, affermando che la propria milizia non si sarebbe trasformata in un Bgf senza una soluzione politica alle cause del conflitto etnico. Ogni accordo di cessate il fuoco tra il Kia e l’esercito birmano va comunque in frantumi il 9 giugno 2011, quando l’esercito birmano attaccò un posto strategico del Kia dando inizio a una grande offensiva militare nello stato dei Kachin. Nei mesi successivi, il Kio perde il controllo di una parte significativa di territorio che aveva precedentemente controllato e amministrato. La presenza di risorse naturali, in particolare di giada, ha complicato la situazione. Le lotte per mantenere il controllo delle ricchezze locali hanno portato a continui combattimenti in alcune aree: i proventi delle miniere (insieme a quelli della droga) costituiscono un finanziamento a cui nessuno dei contendenti vuole rinunciare. Nel contempo, l’estrazione di risorse, la diffusa deforestazione e le dighe idroelettriche costruite nello stato dei Kachin hanno portato anche al degrado ambientale, alla distruzione dei terreni agricoli e all’ulteriore emarginazione della popolazione locale.

Raffreddare il calderone etnico

L’unica opportunità per risanare le sorti di un calderone etnico come il Myanmar sarebbe un vero dialogo tra le varie minoranze e l’élite dei Bamar. Di sicuro, le mosse della giunta militare al potere non sembrano presagire una simile svolta. A meno che gli alleati – con la superpotenza cinese e la piccola Cambogia, in primis – non convincano i militari di Naypyidaw.

Federica Mirto

Un monaco con il «mala», conosciuto anche come il «rosario buddhista». Foto Alistair McLellan – Pixabay.


Il buddhismo birmano

I due volti dello Sangha

La religione è uno dei fattori principali per identificare l’identità etnica, in alcune culture diventa anche il fattore essenziale. I politologi ci ricordano che la religione è una delle principali cause di conflitto dalla fine della guerra fredda (Bernard Lewis) e diventa un elemento esclusivo di discriminazione, anche in modo più significativo rispetto all’identità etnica per quanto riguarda il senso di appartenenza alla nazione (S.P. Huntighton). In base a questi principi, i leader politici invocano la loro lealtà verso una determinata etnia e religione rafforzando una coscienza nazionale a discapito delle minoranze.

L’arrivo del buddhismo

Il Myanmar è entrato in contatto con il buddhismo tramite gli scambi commerciali con l’India: il sovrano indiano Ashoka (304 a.C.-232 a.C.) inviava a Thaton (città dell’odierno Stato Mon) i monaci per diffondere il buddhismo. Nei secoli successivi, il clero buddhista ha assunto un’influenza cruciale per il popolo: i monasteri erano esentati dalle tasse e i giovani ricevevano un’educazione presso le strutture gestite dai monaci. La forte spiritualità si consacrava con la costruzione degli stupa (termine sanscrito che indica edifici votivi dove si conservano reliquie buddhiste), luoghi di devozione e preghiera, simbolo di identità religiosa. Troppo spesso però questa è stata strumentalizzata dai governanti, che si sono serviti della costruzione degli stupa e delle offerte per conquistare l’appoggio dei monaci. Politica e religione si sono incontrati ufficialmente quando il buddhismo è diventato religione di stato con il regno di Pakan nel 1044 e, in seguito, nel 1961 con il primo ministro U Nu fino al colpo di stato del 1962.

Strumentalizzazione e contaminazione

La politica ha strumentalizzato sempre più l’immagine del buddhismo birmano, il quale ne ha assorbito le contraddizioni andando a contaminare la sua natura pacifica.

Spinto dal processo di «birmanizzazione», il nazionalismo ha inevitabilmente innescato una cultura dell’odio verso specifiche minoranze religiose, legittimando movimenti e azioni violente. L’ideologia nazionalista è stata un’arma importante nelle mani della dittatura che ha ispirato intolleranza e marginalizzazione, cercando il costante consenso nella maggioranza del paese (circa 87,9%) che aderisce al buddhismo theravada (una delle due principali scuole di pensiero buddhista, diffusa anche in Sri Lanka, Cambogia, Laos e Thailandia).

Con il nazionalismo strettamente affiliato all’identità birmana sono nati slogan come «Essere birmano significa essere buddhista», ignorando le altre religioni presenti sul territorio come i cristiani (6,2%) e l’islam (4,3%). Una chiara volontà di mantenere esclusa la religione musulmana è stata assunta anche nelle elezioni democratiche del 2015, con colpevole complicità del partito di Aung San Suu Kyi: nessun musulmano ha avuto la possibilità di essere rappresentato nel parlamento lasciando l’87,3% dei seggi nelle mani della maggioranza buddhista e il 10,9% ai cristiani.

Papa Francesco con Sitagu Sayadaw, la massima autorità del buddhismo del Myanmar, nel corso del viaggio pontificio del novembre 2017. Foto via AdnKronos.

L’Occidente e l’iconografia buddhista

Quando, nei primi anni Novanta, il paese ha iniziato ad aprire (pur con varie limitazioni) le frontiere al turismo, l’immagine tipica con cui si sponsorizzava il Myanmar era spesso quella dei monaci vestiti con la loro tradizionale tonaca color zafferano. Oltre a essere diventati un simbolo per il turismo occidentale e cinese, i monaci hanno contribuito nell’attivismo politico del paese. Durante il periodo coloniale erano stati testimoni del movimento per la libertà della nazione e alcuni di loro avevano perso la vita nelle prigioni per mano degli inglesi. Sono stati poi in prima linea contro i militari nel 2007: ottantamila tra monaci e monache hanno manifestato per la democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi, in quella che è stata poi chiamata la «rivoluzione zafferano», riprendendo il nome dal colore delle loro vesti. Le proteste sono state represse nel sangue, ma hanno certamente attivato un processo di cambiamento attirando l’attenzione internazionale e, probabilmente, hanno contribuito a spingere i militari verso le prime riforme.

In Myanmar, il sangha (altro termine di origine sanscrita che indica la comunità dei monaci) ha però due volti: quello dei monaci martiri per la lotta dei diritti democratici rappresentati da U Gambira (ex monaco che fu guida politica e religiosa durante la «rivoluzione zafferano») e quello dei monaci islamofobi che hanno manifestato con violenza nei confronti dei Rohingya, guidati da Ashin Wirathu. Due personalità buddhiste opposte, ma entrambe con le loro esistenze legate al regime militare.

U Gambira è stato torturato, imprigionato per quattro anni e, dopo l’iniziale condanna a sessantotto anni di reclusione, è stato rilasciato durante l’amnistia di prigionieri nel gennaio 2012. L’ex monaco ha sofferto diverse malattie fisiche e disturbi di salute mentale: «Mi hanno negato ogni cura medica e lasciato senza documenti d’identità. Non c’era neanche un monastero disposto ad accogliermi e, per paura di rappresaglie del governo, sono stato costretto a spogliarmi degli abiti religiosi. Diciotto mesi dopo ho sposato mia moglie Marie e ci siamo trasferiti in Thailandia» (La Repubblica, 17 febbraio 2021). Oggi U Gambira vive con la famiglia in Australia dove gli è stato concesso l’asilo politico.

Ashin Wirathu e il movimento «969»

La copertina del luglio 2013 del settimanale Usa «Time» dedicata al monaco Ashin Wirathu. Lo scorso settembre la giunta militare lo ha rilasciato.

Gambira è convinto che il sentimento antislamico non era sostenuto dalla maggior parte del clero buddhista, ma portato avanti con fervore da Ashin Wirathu e i suoi seguaci perché sponsorizzati (anche economicamente) dai militari. Il monaco di Mandalay è diventato noto in patria e all’estero per i suoi discorsi nazionalisti e persecutori nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya e come leader del movimento «969». Il numero «969» rappresenta i «tre gioielli» della religione buddhista: le 9 virtù del Buddha, le 6 caratteristiche della pratica buddhista (Dharma) e le 9 caratteristiche della comunità dei monaci (Sangha). Nel 2012, il movimento si è trasformato in una vera e propria organizzazione, il Ma Ba Tha (traducibile con «Associazione per la protezione della razza e della religione»). Ashin Wirathu basava la propria campagna antislamica sostenendo che i musulmani avrebbero conquistato il Sud Est asiatico, proclamandosi protettore dell’integrità del buddhismo, dell’identità e razza birmana.

Non a caso, nel luglio 2013, Wirathu è stato soprannominato il «Bin Laden buddhista» dal settimanale Time, che gli ha dedicato una copertina intitolata «il volto del terrore buddhista».

L’esplosione dell’odio

L’istigazione all’odio da parte del monaco ha contribuito a incentivare le violenze nello Stato Rakhine (Arakan) dove risiedono i Rohingya di religione islamica. Nel 2012, la violenza tra le comunità è aumentata, uccidendo centinaia di persone e spingendo più di 140mila Rohingya nei campi per sfollati interni al paese e, nel corso degli anni a seguire, oltre 500mila nel vicino Bangladesh, che oggi ospita il campo di rifugiati più grande del mondo: Kutupalong a Cox’z Bazar. Anche il Dalai Lama, la più alta autorità del buddhismo tibetano, ha condannato il comportamento adottato nei confronti della comunità musulmana, ricordando che usare violenza in nome della religione buddhista è impensabile.

Nel 2017, la massima autorità buddhista del Myanmar ha vietato a Wirathu di predicare per un anno e nel 2018 Facebook ha cancellato la sua pagina per incitamento all’odio.

Il governo democratico dell’epoca lo ha accusato di sedizione e incarcerato nel novembre 2020. Il 6 settembre 2021, a sorpresa, Wirathu – che oggi ha 54 anni – è stato liberato dai militari tornati al potere. Nell’attuale momento storico, ci sono, pertanto, tutti i presupposti per un ritorno in auge dei gruppi nazionalisti buddhisti. Da una parte, la giunta militare cerca con ogni mezzo di costruirsi un’egemonia solida e un gruppo di sostenitori da manovrare, dall’altra molti monaci (tra quelli sopravvissuti) degli anni della «rivoluzione zafferano» non si sono mai veramente ripresi dalla repressione, o perché lasciati ad affrontare da soli i problemi psicologici causati dalla prigionia o perché costretti all’esilio.

Federica Mirto


La Chiesa cattolica

Cristiani nel mirino

Un’immagine fa il giro del mondo suscitando ammirazione e plauso, e facendo conoscere a tutti l’esistenza di una piccola ma vivace comunità cattolica in un paese a prevalenza buddhista. Una comunità che sta pagando un prezzo molto alto per il suo impegno a favore della riconciliazione e della pace.

La suora e la polizia

È un’immagine che arriva da Myitkyina, capitale del Kachin (uno dei sette stati del paese asiatico), il 28 febbraio 2021. Suor Ann Rose Nu Tawng, infermiera di 45 anni, s’inginocchia davanti a uno schieramento di polizia chiedendo di non sparare sulla popolazione e offrendosi come ostaggio al suo posto (MC 4/2021, p. 56).

Il gesto della suora della congregazione birmana di San Francesco Saverio ha un’eco mondiale. Il 17 marzo papa Francesco, alla fine dell’udienza generale, lo ricorda: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar». A fine anno, la Bbc inserisce suor Ann Rose tra le 100 donne simbolo del 2021.

Il cardinale e il generale

Il gesto di suor Ann Rose rispecchia l’atteggiamento di tutta la piccola Chiesa cattolica del Myanmar impegnata a difendere i più deboli, identificata com’è con diverse etnie minoritarie, e a promuovere pace e riconciliazione. Gesti simili a quello della suora vengono fatti da altri religiosi nel paese e vengono in qualche modo raccolti e portati sotto gli occhi dei militari dagli interventi del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, la città più importante, già capitale, e vice presidente della conferenza episcopale del paese (16 diocesi in tutto).

Il cardinale Charles Maung Bo e il generale Min Aung Hlaing tagliano una torta natalizia il 23 dicembre 2021. Foto Myanmar military information team – AFP.

Dopo la profanazione di alcune chiese da parte di militari a caccia di ribelli, e gli arresti di alcuni sacerdoti, il cardinal Bo scrive un messaggio per l’Avvento 2021 nel quale denuncia la situazione di violenza nel paese e mette in guardia i fedeli dalla tentazione di cercare vendetta, ricordando che «c’è sempre una via non violenta, una soluzione pacifica».

Il 23 dicembre, com’è consuetudine, il cardinale accoglie allo scambio di auguri di Natale del personale dell’arcidiocesi di Yangon il senior general Min Aung Hlaing, che partecipa alla festa per la terza volta accompagnato da molti esponenti del Tatmadaw. Durante l’incontro, il generale e il cardinale hanno un momento di dialogo privato di cui non si conosce il contenuto. Le foto del taglio della torta di Natale vengono ampiamente diffuse dall’ufficio informazioni dei militari e raccontate da The Global New Light of Myanmar, il quotidiano ufficiale in lingua inglese dei golpisti, che vi dedica l’intera pagina 4 esaltando l’impegno dell’esercito per la pace nel paese.

Il giorno dopo, però, il 24 dicembre, i militari compiono un massacro nel villaggio di Mo So, che ha una forte presenza cristiana (vedi pag. 36). Almeno 35 persone, per lo più donne e bambini, sono uccisi, tra essi due operatori di Save the children. Il giorno di Natale vengono ritrovati i loro corpi carbonizzati all’interno di tre veicoli dati alle fiamme. Il 26, nella sua dichiarazione di condanna dell’accaduto, il cardinale Bo definisce il massacro un «indicibile e spregevole atto di barbarie disumano». Assicura la sua preghiera per le vittime e i loro cari. «L’intero nostro amato Myanmar è ora una zona di guerra», afferma facendo riferimento anche agli attacchi aerei nello stato di Kayin che hanno costretto migliaia di persone a fuggire oltre il confine con la Thailandia e ai bombardamenti a Thantlang, nello stato di Chin. «Quando finirà tutto questo? Quando cesseranno decenni di guerra civile in Myanmar? Quando potremo godere della vera pace, con giustizia e vera libertà? Quando smetteremo di ucciderci l’un l’altro? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: questa non potrà mai e poi mai essere una soluzione ai nostri problemi. Pistole e armi non sono la risposta».

L’ultimo intervento significativo del cardinale risale al primo febbraio, giorno del primo anniversario del golpe militare: «Basta armi, aiutateci a ricostruire la pace». E, rivolgendosi ai cristiani: «Sentiamo il vostro dolore, la vostra sofferenza, la vostra fame. Capiamo la vostra delusione, comprendiamo la vostra resistenza. […] A quelli che credono solo nella resistenza violenta diciamo: “Ci sono altri mezzi”».

Papa Francesco e Aung San Suu Kyi nell’incontro del 28 novembre 2017 a Naypyidaw, capitale del Myanmar. Foto AFP.

Francesco e Aung San Suu Kyi

In Myanmar, il buddhismo è stato religione di stato in due occasioni (attorno all’anno mille, durante il Regno Pagan, e nel 1961-’62). La Costituzione del 2008 (sezione 361) gli ha invece attribuito una posizione speciale rispetto alle altre fedi religiose.

Con poco più del 6% dei birmani, il cristianesimo (battisti, anglicani e cattolici) è la seconda fede religiosa dopo quella buddhista. I cattolici sarebbero circa 750mila, in gran parte tra le minoranze etniche dei Karen, Kachin, Chin, Shan e Kayan.

Nel novembre del 2017, Francesco è stato il primo papa a visitare il paese, incontrando autorità civili, militari e religiose. Tra queste ultime anche il monaco Sitagu Sayadaw, leader dei buddhisti del paese asiatico, lontano dall’estremismo di Ashin Wirathu, il monaco di Mandalay, noto per le sue posizioni ultranazionaliste e antimusulmane. Durante quel viaggio, papa Francesco ha incontrato anche Aung San Suu Kyi, leader civile del governo, all’epoca molto criticata a livello internazionale per non aver difeso la minoranza dei Rohingya musulmani dello Stato Rakhine, oggetto di persecuzione (ma molti parlano di genocidio) da parte dell’esercito e dei buddhisti.

Per il Myanmar, anche il 2022 inizia sotto i peggiori auspici con pesanti attacchi dell’esercito negli stati etnici. Il 10 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico in Vaticano, Francesco ha detto: «Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar». Le sue «strade, che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera».

A metà gennaio, anche mons. Marco Tin Win, arcivescovo di Mandalay, è intervenuto ricordando che il paese sta affrontando «la crisi del Covid-19, la fame, le guerre civili e la tortura».

La redazione

Ha firmato questo dossier:

Federica Mirto – È laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma. Ha dedicato la sua tesi magistrale (in lingua inglese) al Myanmar: «The ethnic minorities in the democratic processes: the case of Myanmar and Rohingya». Ha svolto vari periodi all’estero: studio presso l’Università di Nantes (Francia), volontariato presso il monastero tibetano Pema ts’al Sakya di Pokhara (Nepal), volontariato presso Oxfam di Manchester (Gran Bretagna), tirocinio a Bruxelles (Belgio), lavoro a Cork (Irlanda) e Edimburgo (Scozia), volontariato a Tijuana (Messico). Oltre che per MC, pubblica articoli e foto per alcune testate online.

 

Parata dell’esercito dei Palaung a Tangyan, nello Stato Shan, lo scorso 12 gennaio 2022. Foto STR / AFP.




La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)