Cina. Stretta sui social network

Il 31 ottobre scorso, diverse piattaforme social cinesi hanno annunciato nuove regole che impongono agli utenti più popolari di rendere pubblici i loro veri nomi. Le nuove disposizioni sono state per ora applicate su Weibo solo agli utenti con oltre un milione di follower, mentre su WeChat, Kuaishou e Douyin, basta averne 500mila. I netizen (persona che partecipa attivamente su internet, ndr) interessati dalle misure – spiegano i gestori delle piattaforme – sono principalmente quelli legati all’attualità, alle notizie militari, alla finanza, al diritto e all’assistenza sanitaria. Chi condivide dettagli della propria vita personale potrà ancora avvalersi di nickname, sebbene ormai da diversi anni chiunque voglia aprire un account social sia già tenuto a registrarsi con il proprio nome legale. Ufficialmente il provvedimento verrà applicato dagli internauti «su base volontaria». Ma, secondo i comunicati emessi dalle piattaforme, la mancata autenticazione da parte dei soggetti interessati potrebbe incidere sul numero dei nuovi follower nonché sulle entrate accumulate con le attività online fino al completamento del processo richiesto.

Prevedibile la reazione degli utenti: c’è chi ha manualmente rimosso migliaia di seguaci per scendere sotto la soglia «rossa», chi invece, per non rischiare, si è completamente tolto dai social. Molti hanno criticato pubblicamente la nuova politica, avanzando preoccupazioni relative alla privacy, soprattutto a fronte del rapido aumento di casi di cyberbullismo. Tra le voci contrarie figurano anche personalità di un certo spessore. Per Lao Dongyan, docente di diritto presso la prestigiosa Università di Tsinghua, le nuove regole agevoleranno l’appropriazione illecita di informazioni riservate. L’esperto ha anche dichiarato che le disposizioni scoraggeranno le persone dall’esprimere opinioni personali contrarie alla linea ufficiale. Con il crescente controllo delle autorità sul web, l’autocensura è diventata un fenomeno piuttosto diffuso negli ultimi anni. Ma ora, dopo la stretta sui nomi, non è più solo il giudizio di Pechino a spaventare. È anche la gogna pubblica a intimorire le voci fuori dal coro.

«l’era del cyberbullismo». «Sono sempre le persone rispettose della legge a rimetterci», recitava un post comparso sull’account e poi cancellato. Ma, secondo Eric Liu, ex censore oggi editor del sito China digital Times, le ultime misure interesseranno soprattutto chi ha conoscenze specialistiche su argomenti, come la scienza e la medicina: pubblicare informazioni contraddittorie rispetto alle narrazioni ufficiali (pensiamo all’origine del Covid-19) potrebbe comportare conseguenze professionali nella vita reale.

Si sa, internet è una giungla: se grazie ai social è diventato più facile informare, ugualmente lo è anche disinformare. Una distinzione che nella Repubblica popolare si colora di connotazioni politiche. A luglio, la Cyber administration of China, il massimo regolatore di internet in Cina, ha emanato direttive ad hoc per regolamentare i cosiddetti «valori sbagliati» o contenuti «fuorvianti» e «pessimistici». «Parlare di declino della Cina serve essenzialmente a creare una “trappola narrativa” o una “distorsione cognitiva”», diceva venerdì scorso il ministero della Sicurezza dello Stato, pochi giorni dopo il taglio dell’outlook cinese da parte dell’agenzia di rating americana Moody’s. Se un tempo bastava astenersi dal parlare di politica, oggi lo spettro dei temi sensibili a rischio censura comprende persino il rallentamento dell’economia cinese.

Il perché è deducibile dall’importanza attribuita al concetto di “guerra cognitiva”. Un termine utilizzato ormai con una certa frequenza dall’intelligence cinese nonché dall’esercito popolare di liberazione (Pla, in ingelse). A febbraio – dopo l’abbattimento del pallone spia cinese negli Stati Uniti – il quotidiano militare Pla daily ha delineato quattro strategie tese a sfruttare i social media come armi di «disturbo dell’informazione». Il messaggio è chiaro: manipolare l’opinione pubblica può rivelarsi una tattica decisiva durante un conflitto. Per Pechino è quindi imperativo non solo imparare come attaccare a colpi di social, ma anche come difendersi.

Alessandra Colarizi




Cina. Sempre meno fiori d’arancio

 

Il Covid-19, l’invecchiamento della popolazione e il cambio di mentalità tra i giovani. Secondo gli esperti, sono questi i principali fattori che incidono sul continuo calo dei matrimoni in Cina. Stando al China statistical yearbook 2023, pubblicato a novembre dall’Ufficio nazionale di statistica, lo scorso anno solo 10,51 milioni di persone hanno registrato il loro primo matrimonio, 1,06 milioni in meno rispetto al 2021, pari a un calo annuo del 9,16%. È la prima volta che il numero delle persone alla prima esperienza coniugale è sceso sotto gli 11 milioni. Si tratta di un tonfo di ben il 55,9% rispetto al picco massimo del 2013, quando i novelli sposi furono 23,85 milioni.

Complessivamente, 6,83 milioni di coppie si sono sposate nel 2022, un calo del 10,6% rispetto al 2021. Per gli esperti, tuttavia, i dati relativi ai primi matrimoni sono particolarmente importanti in quanto più direttamente collegati al numero delle nascite. Stando alla Commissione sanitaria nazionale, nel 2022 i nuovi nati sono stati appena 9,56 milioni, il livello più basso da quando le autorità hanno cominciato a tenere il conto nel 1949.

Analizzare le cause della diminuzione dei primi matrimoni – ormai al nono anno consecutivo – può quindi servire a definire meglio le politiche demografiche. Innanzitutto, va notata una componente biologica: la popolazione cinese è invecchiata. L’età media dei cinesi continua a salire e così sono sempre meno le persone in età da matrimonio.

Secondo le statistiche ufficiali, nel 2020 i cinesi al primo matrimonio avevano mediamente 28,6 anni, 3,8 anni in più rispetto ai 24,8 anni del 2010. Cambiano, inoltre, le priorità di vita: molti giovani non considerano più il matrimonio e la gravidanza come È una tendenza ormai consolidata. Il triennio pandemico, tuttavia, ha avviato dinamiche inusuali, aprendo spiragli per un possibile miglioramento nel 2023. Complice la tardiva rimozione delle restrizioni anti Covid.

Rimasti in vigore fino al dicembre scorso, i frequenti lockdown hanno indotto molti cinesi a rimandare le nozze di un anno. Che sia così lo confermano le ultime statistiche del ministero degli Affari civili, secondo le quali nei primi nove mesi del 2023, sono stati registrati 5,69 milioni di matrimoni, pari a un aumento annuo di 245mila. Per Peng Peng, presidente della Guangdong society of reform, anche in Cina come altrove la pandemia ha inasprito le disuguaglianze sociali, gettando diversi segmenti della popolazione in una condizione di precarietà. In questo contesto, la vita coniugale può risultare conveniente perché permette alle coppie di mettere in comune le risorse, condividere i costi della quotidianità e ridurre i rischi finanziari.

Se il trend dovesse essere confermato, le coppie a dire di sì alla fine dei dodici mesi del 2023 potrebbero superare il traguardo dei 7 milioni per la prima volta dal 2021. Come diretta conseguenza, i demografi si attendono un breve rimbalzo delle nuove nascite, che dovrebbero tornare ad aumentare nel 2024 per la prima volta in sette anni. Sarà però un’inversione temporanea, a meno che non In risposta al problema della denatalità nell’ultimo anno diverse province e città hanno introdotto politiche ad hoc, da un’estensione del congedo parentale a veri e propri sussidi monetari. Ma il risultato è stato per ora deludente. Un po’ perché le misure non sono sufficienti, un po’ perché il numero di donne in età fertile continua a scendere.

Intervenendo a una conferenza sul tema, a ottobre Ma Liang, docente di public management della Renmin University, ha suggerito che ci sia anche una componente politica. Dopo i tre anni di ferree misure anti Covid, la popolazione più giovane non ha più fiducia nella leadership cinese. Cresciuta nell’era della prosperità, si trova per la prima volta ad affrontare le incertezze di un’economia che cresce a ritmi più contenuti e di un mercato immobiliare perennemente sull’orlo del collasso. Senza grandi prospettive per il futuro, mettere su famiglia, per le nuove generazioni, non sembra più una priorità.

Alessandra Colarizi




Taiwan, l’isola ribelle


Sommario

Elezioni presidenziali: i candidati e le alleanze

Ombelico del mondo

Il prossimo gennaio si svolgeranno le elezioni presidenziali a Taiwan. Il panorama politico è diviso tra chi è più vicino a Pechino e chi spinge per il riconoscimento formale del Paese. Per la prima volta ci sono pure due candidati indipendenti. In ogni caso la Cina e gli Usa guardano al voto con attenzione. Da fronti opposti.

«Se voterò? Ma certo, anche se penso che non cambierà molto». E invece potrebbe cambiare tanto, forse tutto. Stacy, 27 anni, parla sotto il cocente sole estivo di Taipei mentre cammina su Ketagalan Boulevard insieme ad altre migliaia di persone. Sono tutti lì per protestare contro il governo taiwanese. Le motivazioni sono diverse. Lei in particolare chiede la riforma del sistema di edilizia pubblica. «Per i giovani è impossibile comprare una casa», dice.

Di fronte, il palazzo presidenziale costruito dall’architetto Uheji Nagano per ospitare il governatore dell’era coloniale giapponese (1895-1945). Alle spalle, non troppo lontani, Liberty Square e il memoriale di Chiang Kai-shek, capo del partito nazionalista cinese (Kuomintang, Kmt) che si rifugiò a Taiwan dopo aver perso la guerra civile con il Partito comunista di Mao Zedong (1949). Restò al potere fino alla morte, nel 1975, e guidò il regime autoritario nella Repubblica di Cina, nome con cui Taiwan è indipendente de facto. La legge marziale era stata imposta nel 1947 e restò in vigore fino al 1987. Non si poteva votare.

Taiwan, sostenitori del Koumintang festeggiano la vittoria di Chiang Wan-an a sindaco di Taipei (novembre 2022). Foto Lorenzo Lamperti.

Un voto importante

Il 13 gennaio prossimo, i cittadini dell’isola principale di Taiwan e delle isole minori (da Kinmen alle Matsu, dalle Penghu a Green Island) andranno alle urne per le elezioni presidenziali. Nella prospettiva molto concreta e disillusa di Stacy, chiunque vincerà non risolverà i suoi problemi. Ma in una prospettiva più ampia, il voto taiwanese potrebbe essere il più importante del 2024 a livello mondiale. Può sembrare un azzardo dirlo, soprattutto considerando che a novembre del prossimo anno sono in programma le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Ma la Repubblica popolare cinese, la Cina continentale guidata da Xi Jinping, sa che la postura statunitense le resterà piuttosto ostile, a prescindere da chi sarà l’inquilino della Casa Bianca. L’esito del voto taiwanese può invece cambiare, e di molto, le relazioni sullo stretto (lo stretto di Taiwan, tra l’isola principale e il continente, ndr) viste le nette differenze tra i vari candidati e gli equilibri mondiali potrebbero modificarsi verso un maggior peso della Cina popolare.

«Ho sempre votato per il Dpp (Partito progressista democratico, indipendentista, ndr), ma stavolta ho paura che se vince ancora potrebbe davvero esserci la guerra», dice Tzu-sheng, architetto di 42 anni. «Ho paura che se vince un candidato dell’opposizione ci svendano a Pechino», dice invece Jiaqi, lavoratrice dell’industria dell’intrattenimento locale. Due visioni antitetiche che rimandano al modo in cui i due partiti principali presentano il voto (Dpp, al potere, più lontano da Pechino, e Kmt, opposizione, più vicino, ndr).

Progressisti o nazionalisti?

Si ricorda che Taiwan, pure essendo indipendente de facto, è riconosciuta da soli 13 paesi al mondo, mentre la Cina popolare la considera proprio territorio. Da tempo, il Kmt parla di una «scelta tra guerra e pace». Una definizione lanciata da Ma Ying-jeou, ex presidente e unico leader di Taipei ad aver incontrato un omologo di Pechino (Xi Jinping, nel 2015 a Singapore). Ma anche unico ex presidente a essere andato in Cina continentale, in un significativo viaggio effettuato lo scorso marzo. Proprio mentre l’attuale presidente Tsai Ing-wen (Dpp) effettuava un contestato doppio transito negli Stati Uniti, durante il quale ha incontrato lo speaker del Congresso americano Kevin McCarthy (esautorato lo scorso ottobre, ndr).

Lai Ching-te, attuale vicepresidente e candidato della maggioranza Dpp, parla invece di «scelta tra democrazia e autoritarismo». Il Kmt dice dunque che in caso di nuova vittoria del Dpp si rischia un conflitto sullo stretto. E che sarebbe sostanzialmente provocato da un governo taiwanese incapace di mantenere il dialogo con Pechino. Il Dpp suggerisce invece che in caso di ritorno al potere del Kmt (che non governa dalle elezioni del 2016), Taiwan potrebbe avvicinarsi in qualche modo al modello di Hong Kong, venendo assorbito nella Cina continentale.

Due visioni estreme, che seguono la tradizionale contrapposizione del bipolarismo taiwanese. Un bipolarismo nel quale è impossibile trovare una sintesi, perché la visione è opposta non solo su temi concreti, come le relazioni intrastretto, ma anche sul senso di sé e della propria identità. Sostenere uno o l’altro partito non è solo una scelta politica, ma tocca un livello più intimo che lambisce quello storico culturale.

manifestanti alla festa nazionle della Repubblica di cina/Taiwan, 10/10/2022. Foto Vittoria Mazzieri

Una sola Cina

Il Kmt è erede del partito fondato da Sun Yat-sen che governò la Cina continentale fino alla vittoria dei comunisti nella guerra civile (1949). Non solo propone un dialogo più fruttuoso con Pechino, ma continua a vedere Taiwan come parte della Cina. Non la Repubblica popolare cinese, ma la Repubblica di Cina, di cui ormai non restano che frammenti, ma la cui architettura formale e lessicale tutela secondo il Kmt il mantenimento dello status quo. In che modo? Sulla base del cosiddetto «Consenso del 1992», un accordo tra funzionari di Kmt e Partito comunista che riconosce l’esistenza di un’unica Cina ma «con diverse interpretazioni». In sostanza, i due ex rivali della guerra civile nel 1992 riconobbero di far parte tutti di una stessa entità ma senza mettersi d’accordo su quale fosse la sua espressione politica e istituzionale legittima. Un’ambiguità voluta per mantenere in piedi lo status quo, ma che Pechino è sempre stata convinta giocasse a suo favore. Il ragionamento è il seguente: se a Taipei riconoscono che esiste una sola Cina e nel mondo quasi tutti i paesi (tranne 13) riconoscono Pechino come governo legittimo della Cina, prima o poi la riunificazione (o unificazione, come la chiamano a Taiwan) sarà una conseguenza naturale. Questo principio non è però riconosciuto dal Dpp di Tsai. L’attuale presidente è espressione della parte più moderata del partito, quella che non persegue l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan (che segnerebbe una cesura definitiva e inaccettabile per Pechino) ma che sostiene la cosiddetta «teoria dei due stati». In sostanza, Tsai non riconosce che le due sponde dello stretto facciano parte di una «unica Cina» ma si dice aperta al dialogo qualora Pechino non ponga precondizioni e riconosca l’esistenza di due entità non interdipendenti. Da qui l’assenza totale di dialogo politico tra i due governi dal 2016, da quando cioè Tsai è stata eletta per la prima volta. In questi anni, l’ecosistema sullo stretto è molto mutato. Da una parte, Pechino ha operato un’escalation coercitiva su diversi piani. A livello diplomatico, ha portato nove paesi a rompere i rapporti diplomatici ufficiali con Taipei e a stabilirne con la Repubblica popolare. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’Honduras, che proprio alla vigilia della partenza di Tsai per l’America centrale, lo scorso aprile, ha annunciato l’avvio delle relazioni con Pechino. Ma nel mirino ci sarebbe anche il Guatemala.

Il candidato radicale

Lai, membro del Dpp come Tsai e suo potenziale successore, è invece particolarmente inviso a Pechino perché è considerato più radicale. Questo soprattutto per alcune sue dichiarazioni passate, in cui si era raffigurato come un «lavoratore per l’indipendenza di Taiwan». Cosa ben diversa dal riconoscere e dire di voler tutelare la sovranità de facto di Taiwan come Repubblica di Cina, la posizione ufficiale di Tsai e oggi dello stesso Lai che ha molto smussato la sua retorica e le sue esternazioni sulle relazioni intrastretto da quando è vicepresidente.

Ma a Pechino ricordano che nel 2019, il detestato partito di maggioranza fu sull’orlo della scissione per i contrasti tra l’ala radicale di Lai e quella più moderata di Tsai. Ad agosto, anche Lai ha effettuato un doppio transito negli Usa (dal profilo molto più basso rispetto a quello di Tsai) nell’ambito di un viaggio in Paraguay. Si è impegnato a presentarsi in continuità con Tsai, ma poco prima di partire si è lasciato sfuggire il desiderio che il futuro presidente taiwanese potesse entrare alla Casa Bianca. Eventualità che significherebbe un riconoscimento ufficiale incompatibile con lo status quo.

A Pechino queste uscite fanno comodo per descriverlo come «secessionista» nel messaggio rivolto all’esterno per giustificare le proprie reazioni coercitive, anche se sui media di stato c’è chi sostiene che di Lai non si fiderebbero nemmeno gli Usa, in un messaggio stavolta rivolto al pubblico interno e taiwanese.

L’ex poliziotto e il medico

Hou è invece il sindaco di Nuova Taipei, limitrofa alla capitale. Direttore generale dell’Agenzia nazionale di polizia tra il 2006 e il 2008, si riteneva potesse avere simpatie per il Dpp, ma è entrato invece nella fila del Kmt. Il suo passato di uomo di legge e di ordine sembrava piacere a molti, anche se per gli elettori Dpp il fatto che Hou sia stato poliziotto durante e dopo il periodo della legge marziale (1947-1987, vedi cronologia, ndr) è problematico. Molti lo ricordano come l’ufficiale che nel 1989 guidò la carica nell’ufficio di Cheng Nan-jung, un editore indipendentista che si auto immolò nel suo ufficio piuttosto che lasciarsi arrestare.

A complicare le ambizioni di Hou c’è anche un terzo incomodo, molto ingombrante. Si tratta di Ko Wen-je, popolare medico ed ex sindaco di Taipei che da qualche anno ha lanciato il suo Taiwan people’s party (Tpp). Ko propone una terza via rispetto a Dpp e Kmt. Il primo troppo ostile a Pechino, il secondo troppo asservito, dice lui. E quando propone un maggiore dialogo con il Partito comunista, a molti elettori suona più credibile rispetto al Kmt. Questo perché, a differenza di quest’ultimo, non ha il retaggio storico della legge marziale e il senso di appartenenza esplicito alla sfera storico culturale cinese.

Il Tpp sta attuando una campagna molto aggressiva e sembra piacere ai giovani oltre che alla classe imprenditoriale. Aver guidato Taipei è un biglietto da visita importante, nella zona dove gli affari intrastretto sono più intensi. Messo alle strette sul «consenso del 1992», nodo della discordia, se l’è cavata fin qui dicendo che, prima di esprimersi, a riguardo dovrebbe parlare con Xi per capire come lo intende Pechino.

Basterà a vincere? Difficile, se i candidati dell’opposizione resteranno tre, contro il solo Lai, a occupare tutto lo spazio dello spettro «verde», quello più incline al riconoscimento di Taiwan.

L’industriale

Già, perché il Kmt (come già altre volte in passato) si è diviso. Il candidato sconfitto al processo di selezione interno del partito, Terry Gou, è sceso in campo come indipendente. Con l’obiettivo, dice, di unire tutto il campo anti Dpp. Gou è il fondatore e patron della Foxconn, gigante dell’elettronica e primo fornitore di iPhone per Apple. Ma ha anche enormi interessi in Cina continentale, dove si trovano ancora la maggior parte dei suoi impianti. Tra cui quello immenso di Zhengzhou, ribattezzato «iPhone City».

«Non lascerò che Taiwan diventi la prossima Ucraina. Anzi, farò sì che Taiwan superi Singapore nel giro di 20 anni e abbia il più alto Pil pro capite in Asia», sono le due impegnative promesse elargite nella conferenza stampa di agosto in cui ha sciolto la riserva sulla sua candidatura. Il rischio, dunque, è che la discesa in campo di Gou possa ulteriormente frammentare la scelta anti Dpp e favorire lo stesso Lai.

Secondo diversi sondaggi, in uno scenario a quattro candidati (inedito per Taiwan) il vantaggio dell’attuale vicepresidente sembra destinato infatti ad allargarsi. Per avere speranze, Gou dovrebbe raggiungere un accordo con Hou o Ko, oppure con entrambi. Una sua eventuale ascesa alla presidenza non dispiacerebbe a Xi. E, probabilmente, neppure a Donald Trump, che nel 2019 accolse il «vecchio amico» Gou alla Casa bianca, dove il tycoon potrebbe rientrare nel gennaio 2025.

Taiwanese President Tsai Ing-wen (Photo by Miho Takahashi / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun via AFP)

Cosa cambierà

L’esito delle elezioni potrebbe cambiare di molto le dinamiche intrastretto.

È probabile che, dopo il voto, Xi aumenterà il pressing. Militare e strategico in caso di vittoria del Dpp, che per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere (dal 1996) potrebbe vincere per la terza volta consecutiva le presidenziali.

In caso di vittoria del Kmt, invece, il pressing sarebbe politico, per sottoscrivere accordi o ottenere garanzie di rilievo sul riavvicinamento.

«La Cina non rinuncerà al suo obiettivo di unificazione a prescindere che ciò avventa con i negoziati o con la forza. Nei prossimi anni, le relazioni tra le due sponde dello stretto saranno influenzate dalla competizione strategica tra Washington e Pechino, ma anche dalla saggezza e dalla capacità di Taiwan di gestire questa difficile relazione», sostiene Alexander Huang, direttore del dipartimento internazionale del Kmt e suo rappresentante negli Stati Uniti. «Una vittoria del Kmt ridurrebbe in larga misura la tensione attraverso lo stretto, quantomeno nel breve termine», aggiunge. «Sì, ma a patto di cedere pezzi della nostra sovranità de facto», dicono i sostenitori del Dpp. Prospettive e scenari diversi, che possono avere un impatto anche a livello globale.

Lo stretto di Taiwan non è solo una fondamentale via di passaggio delle merci, ma anche uno degli snodi principali del commercio globale. Per non parlare dell’industria strategica dei semiconduttori, di cui Taiwan è la capitale mondiale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.

Secondo alcuni studi, se il G7 sanzionasse la Cina continentale in caso di crisi su Taiwan, l’economia globale perderebbe almeno tremila miliardi di dollari, equivalenti al Pil del Regno Unito nel 2022. Peggio della guerra in Ucraina. Senza contare il rischio di espansione di un ipotetico conflitto con coinvolgimento di paesi limitrofi come il Giappone, o persino degli Stati Uniti in quello che potrebbe diventare un confronto diretto tra le due potenze.

La speranza è che Taiwan diventi, come sostengono tutti i candidati alle presidenziali pur con ricette diverse, un elemento di stabilità nello scenario regionale e globale.

Sì, il 13 gennaio prossimo può cambiare tanto.

Lorenzo Lamperti


Cronologia essenziale

Dai portoghesi alle incursioni di Pechino

  • Fino al sedicesimo secolo Taiwan è isolata, abitata quasi esclusivamente dalla popolazione indigena.
  • 1544. Arrivano i portoghesi, che le danno il nome di Ilha Formosa. Anche gli spagnoli mettono piede al nord dell’isola.
  • 1622-1662. Presenza olandese sull’isola. È la prima che avvia una modernizzazione di Taiwan.
  • 1662. Gli olandesi vengono cacciati dall’esercito di Koxinga, lealista della dinastia Ming. L’ammiraglio Shi Lang convince dell’importanza strategica di Taiwan lo scettico imperatore Kangxi, che l’aveva definita una «palla di fango».
  • Dal 1683 Taiwan e le Penghu fanno parte  dell’impero Qing come una prefettura della provincia del Fujian.
  • 1885. Taiwan diventa provincia.
  • 1895. I Qing cedono Taiwan e le Penghu all’impero giapponese. I taiwanesi si ribellano e dichiarano indipendenza, stabilendo la Repubblica di Taiwan, la prima repubblica asiatica, ma cinque mesi dopo viene presa dai giapponesi la capitale Tainan.
  • 1945. Con la fine della Seconda guerra mondiale, Taiwan e le isole Penghu vengono consegnate alla Repubblica di Cina, in quel momento governo legittimo della Cina continentale.
  • 1947. Dal cosiddetto «incidente del 28 febbraio del 1947» nasce una grande rivolta contro il governo del Kuomintang (Kmt). I leader e le élite locali vengono massacrati. Inizia l’era della legge marziale e del «terrore bianco».
  • 1949. Chiang Kai-shek perde la guerra civile contro i comunisti di Mao e ripara a Taiwan con esercito e apparato statale del Kmt. Sul continente nasce la Repubblica popolare cinese.
  • 1954-55 e 1958. Prima e Seconda crisi sullo stretto di Taiwan. Si indicano così due crisi militari avvenute nello stretto tra l’esercito della Cina continentale e quello di Taiwan, quest’ultimo appoggiato dagli Usa.
  • 1971. La Repubblica popolare cinese ottiene il seggio alle Nazioni Unite al posto della Repubblica di Cina.
  • 1975. Muore Chiang Kai-shek, il potere passa al figlio, Chiang Ching-kuo.
  • 1979. Gli Stati Uniti avviano relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino e rompono quelle con Taipei, emanando però il Taiwan relations act che stabilisce il sostegno alle capacità difensive taiwanesi.
  • 1986. Inizia la transizione democratica. Viene fondato il Partito progressista democratico (Dpp, sigla inglese).
  • 1987. Abolizione della legge marziale.
  • 1995-1996. Terza crisi sullo stretto. Pechino realizza delle manovre d’intimidazione militare, che sono però un fallimento.
  • 1996. Prime elezioni presidenziali libere. Vince Lee Teng-hui, del Kmt, ma primo di origine taiwanese.
  • 2000. Chen Shui-bian diventa il primo presidente del Dpp. Nel 2009 sarà condannato per corruzione.
  • 2008. Ritorna al potere il Kmt con Ma Ying-jeou. Inizia la grande distensione con Pechino.
  • 2014. Il Movimento dei girasoli occupa il parlamento per protestare contro quello che considera un’eccessivo avvicinamento a Pechino.
  • 2015. Ma Ying-jeou e Xi Jinping si incontrano a Singapore nel primo colloquio di sempre tra i leader delle due sponde dello Stretto.
  • 2016. Tsai Ing-wen, del Dpp, conquista il primo mandato presidenziale e a novembre ha una conversazione telefonica con il neo eletto Donald Trump. Peggiorano le relazioni con la Repubblica popolare cinese.
  • 2020. Tsai Ing-wen conquista il secondo mandato, favorita dall’effetto della repressione di Pechino delle proteste di Hong Kong.
  • 2022. Nancy Pelosi visita Taipei. La Cina avvia imponenti esercitazioni militari intorno a Taiwan.

L.L.

Taiwan, il quariter generale della Tsmc, a Hsinchu. Foto Lorenzo Lamperti.

Lo «scudo di silicio»

Scudo di silicio. Oppure montagna sacra che protegge Taiwan. O, ancora, petrolio elettronico. Sono alcuni dei modi con i quali viene indicata la produzione taiwanese di semiconduttori, capitolo sempre più strategico della contesa tecnologica globale.

Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità, assieme a quelli sudcoreani. Se ci fosse una capitale mondiale dei semiconduttori, sarebbe il Science park di Hsinchu. In un’area di 1.400 ettari operano circa 400 compagnie high-tech che generano oltre il 10% del pil e più del 30% dell’export di Taipei. Quando è stato fondato nel 1980, il parco era una landa desolata. Oggi è considerata la Silicon Valley taiwanese. Nessuno può prescindere dal «petrolio elettronico» prodotto a fiumi in questi impianti.

Soprattutto dalla Taiwan semiconductor manufacturing company, Tsmc, che da sola fabbrica oltre il 50% dei chip al mondo. Il suo fondatore è Morris Chang, ultranovantenne che ancora oggi svolge un ruolo di «ambasciatore» di Taiwan in consessi internazionali come i summit dell’Apec (Asia Pacific economic cooperation). Qui, a Bangkok, ha avuto nel 2022 un colloquio con Xi Jinping. In assenza di dialogo politico tra i governi, i colossi dei chip svolgono un ruolo diplomatico tra le due sponde dello stretto.

La stessa Tsmc ha stabilimenti in Cina e i semiconduttori taiwanesi continuano a fluire verso il «continente». Ma da alcuni anni gli Usa stanno provando a recidere quel cordone tecnologico. Tra 2024 e 2025 dovrebbe aprire la prima fabbrica di Tsmc in Arizona, mentre la Casa bianca impone nuove restrizioni per provare a tagliare fuori la Cina dalle catene di approvvigionamento.

Taiwan vorrebbe continuare a esportare verso Pechino. Non c’è solo una motivazione economica, ma anche politica e strategica. Finché i chip taiwanesi sono indispensabili a Xi, questo serve come deterrente a possibili azioni militari. Non è in realtà l’elemento decisivo, e la contesa va ben oltre i chip. Ma intanto, il resto mondo, accortosi della enorme dipendenza sviluppata nei confronti di Taiwan, prova ad accaparrarsi i suoi chip. Rischiando di ammaccare quello scudo di silicio.

L.L.

Taiwan, strada del centro storico di Sanxia. Foto Lorenzo Lamperti.

Dalla repubblica di Cina a Taiwan

In cerca di identità

Nei sondaggi tra gli abitanti dell’isola, aumenta il numero di chi si definisce solo taiwanese, mentre diminuiscono coloro che si sentono solo cinesi. Il governo spinge per  rafforzare la narrativa identitaria. Per questo utilizza anche l’intrattenimento e il cinema. È in corso una «taiwanizzazione».

Il pezzo più fotografato è un cavolo di giada. Appena più grande di una mano, era un tempo parte della dote della consorte dell’imperatore della dinastia Qing. Si trovava alla Città Proibita di Pechino. Oggi invece è una delle principali attrazioni del museo nazionale di Taipei, che ospita una collezione permanente di quasi 700mila pezzi. Una delle più grandi al mondo, copre ottomila anni di storia cinese dall’età neolitica fino alla fine dell’impero e alla rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica di Cina. Già, perché il museo nazionale di Taipei è il museo della Repubblica di Cina. Al suo interno, artefatti che a Pechino considerano trafugati perché testimonianze fondamentali della storia cinese di cui la Repubblica popolare si considera unica legittima erede. Tanto che, nell’ottobre 2022, è esplosa una polemica per alcuni incidenti museali a causa dei quali si sarebbero rotte la «tazza da tè gialla con il disegno del drago verde» della dinastia Qing (1636-1911) e una porcellana bianca e blu della dinastia Ming (1368-1644).

Esattamente 305 chilometri a sud del palazzo del museo nazionale di Taipei, nei sobborghi dell’antica capitale di Tainan, sorge invece il museo nazionale della storia di Taiwan. La sua apertura, inizialmente prevista per il 2008, è avvenuta nel 2011 dopo 12 anni di preparativi. Il museo contiene circa 60mila manufatti che ripercorrono le influenze aborigene, olandesi, spagnole, britanniche e giapponesi sull’isola. Qui il centro della storia è appunto Taiwan, non la Cina o la civiltà cinese.

Con buona dose di equilibrismo semantico sugli avvenimenti degli ultimi sette decenni, il percorso espositivo assume un punto di vista diverso sulla storia dell’isola. L’apertura del museo nazionale è un passaggio chiave per capire come si percepiscono le nuove generazioni di taiwanesi.

«Quando andavo a scuola io, studiavamo la storia e la geografia della Cina. Non sapevamo nulla di Taiwan», racconta Pei-yu, 40 anni. «Sui libri dei miei figli invece si parla di Taiwan e la Cina è per lo più percepita come qualcosa di esterno», spiega. L’educazione è un elemento fondamentale. A questo proposito viene in mente quanto dichiarato nell’agosto 2022, in un’intervista, da Lu Shaye, ex ambasciatore cinese a Parigi, che menzionò la necessità di «rieducare» i taiwanesi a «riunificazione» avvenuta.

manifestanti alla festa nazionle della Repubblica di cina/Taiwan, 10/10/2022. Foto Vittoria Mazzieri

Sempre più «solo taiwanese»

Se per Chiang Kai-shek i taiwanesi erano «giapponesizzati» dopo i 50 anni di dominio coloniale nipponico, l’attuale Partito comunista cinese è spaventato da quella che definisce «desinizzazione» di oggi.

Se per i taiwanesi di una certa età la distanza con la Cina continentale è soprattutto politica, per quelli più giovani invece la distanza è anche socioculturale. Persino storica e identitaria.

Ogni anno, la National Chengchi University di Taipei svolge due sondaggi sulla questione identitaria. Le scelte messe a disposizione degli intervistati sono tre alla richiesta di autodefinizione: taiwanese, cinese, sia taiwanese sia cinese. Nel 1992, quando cominciarono le rilevazioni, il 25,5% si definiva solo cinese e il 17,6% solo taiwanese, col restante 46,4% taiwanese e cinese. A giugno 2023, il 62,8% si definiva solo taiwanese, il 30,5% taiwanese e cinese, il 2,5% solo cinese.

La forbice si amplia ulteriormente a favore del solo taiwanese nel segmento degli under 25. Ecco il principale timore di Pechino, in passato convinta che il tempo giocasse dalla sua parte: i taiwanesi si stanno allontanando sempre di più dalla Cina continentale. Un processo accelerato dalla democratizzazione avviata negli anni Ottanta.

L’apertura democratica è stata avviata da una negoziazione tra potere e società civile, con i movimenti civili sempre attivi nonostante la dura repressione di Chiang. L’isola principale di Taiwan doveva essere inizialmente una base temporanea nell’attesa di riprendersi la Cina continentale. È qui che si è creata la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han. Una divisione e una tensione intraetnica che ha alimentato la nascita del nazionalismo taiwanese e lo sviluppo di un’identità «altra» rispetto a quella cinese continentale.

La transizione democratica è stata avviata dal figlio di Chiang Kai-shek, Chiang Ching-kuo, in una sorta di ascolto delle istanze sempre vive di attivisti e oppositori. Ma quella vissuta da Taiwan non è stata una semplice democratizzazione del sistema politico, è stato anche l’avvio di una ridefinizione della sua identità. La scelta di Lee Teng-hui, nativo taiwanese, come successore di Chiang Ching-kuo ha rappresentato il punto di congiunzione che ha attenuato la divisione tra waishengren e benshengren.

Dal 2000 il primo presidente del Dpp, Chen Shui-bian, poi condannato per corruzione, ha contribuito a rafforzare l’identità taiwanese, cambiando la denominazione di aziende e luoghi pubblici. Per la prima volta sono stati affrontati pubblicamente gli orrori del «terrore bianco» (come viene chiamato il regime instaurato durante legge marziale, dal febbraio 1947 al 1987, ndr), con conseguente rivalutazione in negativo della figura di Chiang. Oggi, il suo memoriale ospita insieme un’esposizione dei suoi cimeli, una statua in suo onore con due guardie armate e un museo dei diritti umani che racconta la brutale repressione da lui attuata nei confronti degli oppositori.

Taiwan, tempio Quingshui Zushi, a Sanxia, comune a sud di Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Diritti civili e cinema

A contribuire al rafforzamento del senso di alterità taiwanese rispetto alla Cina continentale c’è anche l’avanzamento sul fronte dei diritti civili. Una spinta molto forte in tal senso, che ha funzionato anche sul fronte esterno, è stata la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso nel 2019. Proprio mentre partiva la repressione delle proteste di Hong Kong, altro elemento spartiacque che ha allontanato Taiwan dalla Repubblica popolare, convincendo tanti, anche tra i più possibilisti, che il modello «un Paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica non potesse essere accettato.

Il cambiamento lo si vede anche nella produzione cinematografica e televisiva, sul quale il governo taiwanese sta insistendo molto per rafforzare una narrativa identitaria che evidenzi le diversità con la Cina continentale sotto il punto di vista non solo politico, ma anche storico ed etnico-linguistico. Se in passato le produzioni televisive e cinematografiche ad alto budget erano per lo più rivolte a raccontare le vicende delle dinastie dell’impero cinese, o al limite della storia repubblicana (non popolare) cinese, ora si finanziano più volentieri altri tipi di opere. Tra gli esempi più noti c’è Seqalu – Formosa 1867, prodotto dal Taiwan public television service e destinatario di un’imponente campagna pubblicitaria. La serie televisiva, approdata anche su Netflix, è un adattamento del romanzo Lady Butterfly of Formosa di Chen Yao-chang, un ex politico del Dpp.

La sua storia è basata sul naufragio del mercantile statunitense Rover al largo delle coste taiwanesi, avvenuto per aver colpito una barriera corallina nel marzo 1867. Quattordici marinai americani furono uccisi dagli aborigeni taiwanesi per vendetta dopo l’uccisione di decine di membri della tribù Kaolut da parte dei tanti stranieri che erano circolati per secoli intorno all’isola. Incidente dal quale nacque una spedizione militare di Washington appoggiata dalle forze cinesi della dinastia Qing.

Sia il romanzo sia la serie puntano a sottolineare la varietà etnica e culturale di Taiwan. D’altronde lo scrittore Chen dice di essere discendente dei Siraya, una delle popolazioni aborigene dell’isola. Ma sono tanti gli esempi che fanno capire come ci si trovi di fronte a una tendenza ben precisa.

Diversi film degli ultimi anni raccontano storie legate alla comunità Lgbtq+.

Island Nation racconta la transizione democratica di Taiwan dopo la legge marziale. Days we stared at the sun è, invece, incentrato sul movimento dei girasoli che di fatto contribuì alla vittoria di Tsai Ing-wen alle elezioni del 2016 dopo aver occupato nel 2014 per 23 giorni lo yuan legislativo (il parlamento unicamerale taiwanese) per protestare contro un accordo sul settore terziario con Pechino proposto dall’amministrazione Kmt del presidente Ma Ying-jeou. Un’esperienza, quella del movimento dei girasoli, poi parzialmente assorbita dall’amministrazione Tsai e così normalizzata. E in parte disillusa. La recente serie Wave makers descrive invece una campagna elettorale taiwanese senza fare riferimenti alla Cina, e la cattiva gestione di abusi sessuali all’interno di un partito. Da essa è scaturita un’ondata di #MeToo con denunce all’interno di partiti reali (Dpp compreso), istituzioni e mondo dell’intrattenimento.

Taiwan ha, inoltre, annunciato l’obiettivo di diventare un paese bilingue (quantomeno a livello ufficiale) con l’elevazione dell’inglese a lingua ufficiale entro il 2030. Tsai vorrebbe che il mondo vedesse Taiwan come «occidentale, pur se influenzata dalla civilizzazione cinese e formata dalla tradizione asiatica», come ha scritto in un articolo di due anni fa su Foreign affairs.

Raccontare la storia di Taiwan al mondo è diventato un obiettivo primario, come si può notare dalla creazione della piattaforma in lingua inglese TaiwanPlus, lanciata nella seconda parte del 2021.

Taiwan, il museo dei diritti umani, all’interno del mausoleo di Chang Khai-shek, a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Taiwanizzazione

Il Dpp non persegue, almeno per ora, una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Consapevole che la mossa porterebbe a una scontata reazione militare di Pechino, ma anche del 40% circa della popolazione che si sente appartenente alla sfera culturale cinese. Intanto, però, prosegue la taiwanizzazione del suo messaggio, a più livelli. Basti pensare al nuovo passaporto che, rispetto al passato, mantiene il nome Repubblica di Cina solo in caratteri cinesi, con il nome Taiwan leggibile in caratteri latini.

Oppure al logo per la festa nazionale del 10 ottobre, che ancora una volta omette il nome Repubblica di Cina, nonostante si tratti della celebrazione di quanto successo nel 1911 con la rivolta di Wuchang che diede vita alla rivoluzione Xinhai: l’inizio della fine per l’impero Qing. Una giornata commemorata anche dalla Repubblica popolare.

Taiwan è un luogo con più livelli di lettura, che ancora si interroga su se stesso. Come la domanda che si pone Momo, la protagonista del romanzo simbolo della letteratura sci-fi queer taiwanese, Membrane di Chi Ta-wei: «Ma il passato che conosco è reale o fittizio?». Un racconto scritto non a caso negli anni Novanta, nel vortice di autoanalisi che ha portato i taiwanesi a osservare le ferite del passato e li ha condotti sulla strada di un complesso processo di ricostruzione identitaria in corso ancora oggi. E a porsi domande le cui risposte non sono mai univoche. Non ancora.

Lorenzo Lamperti

Taiwan, un elettore consulta il foglio dei candidati, durante le elezioni locali, il 26 novembre 2022. Foto Lorenzo Lamperti.


Le diverse strategie per «riassimilare» Taiwan

riprendere L’isola ribelle

Donne e uomini di Taiwan, da oltre 70 anni sono abituati all’ipotesi di un’invasione dal continente. Chi può, si prepara una via di fuga, mentre in città compaiono i cartelli per improbabili rifugi. La strategia di Pechino non è solo militare, bensì molto diversificata. Per il presidente Xi Jinping è solo questione di tempo.

Sono apparsi un poʼ in sordina, ma ci sono. Evacuation shelter (rifugio per lʼevacuazione): 600 metri in quella direzione. Con tanto di mappa, percorso più rapido e numeri di emergenza. In diversi angoli di Taipei sono apparsi questi cartelli di colore verde. Sono entrati in silenzio a far parte del caotico e vibrante arredo urbano. Eppure, pochi vi si soffermano. Quasi nessuno sembra prestare loro attenzione. Lʼipotesi di una guerra a tanti sembra ancora inconcepibile. Anche se qualcuno ha cominciato a prepararsi qualche via di fuga. Un passaporto di Singapore, magari, per facoltosi uomini dʼaffari. Un semplice zaino pronto per le emergenze per chi ha il portafoglio meno fornito.

Da oltre 70 anni i taiwanesi sono abituati a convivere con lʼipotesi di un conflitto. Negli anni Cinquanta, durante le prime due crisi dello stretto, Mao Zedong fece bombardare le isole Kinmen e Matsu, avamposti ancora oggi controllati da Taipei, ma a pochi chilometri di mare dal Fujian (provincia cinese che si affaccia sullo stretto, ndr). Da quelle isole partivano spesso attacchi contro la costa continentale, peraltro con il placet dellʼamministrazione Usa di Dwight Eisenhower.

Fu allora che si svolse lʼunico cambiamento di territorio tra Repubblica popolare cinese e Repubblica di Cina dalla fine della guerra civile, con lʼEsercito popolare di liberazione che si impossessò di Yijiangshan, nelle isole Dachen. Evento rievocato in una celebrazione speciale del Comando del teatro orientale delle forze armate cinesi lo scorso 9 settembre.

Ad agosto 2022, invece, Xi Jinping era riemerso dal conclave estivo annuale del Partito comunista apparendo a Jinzhou, città oggi parte della provincia nord orientale del Liaoning da cui nel 1948 partì la campagna di Liaoshen, decisiva per orientare la guerra civile a sfavore del Kmt di Chiang Kai-shek. Due episodi che sembrano avere un valore simbolico, soprattutto visto che il passaggio di Xi da Jinzhoun è avvenuto nel momento di nazionalismo più aggressivo contro i cosiddetti «secessionisti» taiwanesi dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Come a dire: abbiate pazienza, alla fine lʼobiettivo sarà raggiunto ma ci vuole tempo.

(Photo by Handout / Taiwan Defense Ministry / AFP)

Prove di difesa

Quei cartelli apparsi in diversi angoli di Taipei si sono materializzati anche in risposta alle imponenti esercitazioni militari di agosto 2022. Non tanto perché i taiwanesi le abbiano vissute con panico o particolare tensione. Ma più che altro per la polemica che ne è nata sul lancio di missili da parte dellʼesercito cinese. Alcuni di questi hanno sorvolato lo spazio di Taiwan, senza che il governo desse alcun tipo di allarme o comunicazione, arrivata per prima dalle autorità giapponesi. Circostanza che ha fatto riflettere parecchi, i quali sui social, e non solo, hanno iniziato a lamentarsi di non sapere cosa fare o dove andare in caso di un futuro reale pericolo. Da qui le maggiori condivisioni delle mappe di rifugi, i quali, più che a bunker antiaerei somigliano spesso a scantinati. E da qui lʼampliamento del manuale di difesa civile pubblicato dal governo.

Con la guerra in Ucraina e, ancora prima, il ritiro degli Usa dallʼAfghanistan, lʼesecutivo taiwanese sta provando a cambiare la comunicazione. Fino a qualche anno fa si minimizzavano i rischi nella narrazione interna, ampliandoli invece nella comunicazione verso la comunità internazionale. Ora però in molti a Taipei temono una sottovalutazione da parte dellʼopinione pubblica. Negli ultimi due anni sono nate diverse iniziative di addestramento alla resistenza dei civili, mentre, a livello governativo, è stata approvata lʼestensione della leva militare obbligatoria da 4 a 10 mesi.

Eppure, resta ancora tutta da verificare non solo la capacità, ma anche la volontà dei taiwanesi di combattere. Secondo un sondaggio della Taiwan foundation for democracy del dicembre 2022, oltre il 70% degli intervistati sarebbe disposto a difendere Taiwan. Stime ottimistiche secondo altre rilevazioni.

Altri osservatori come Paul Huang della Taiwanese public opinion foundation mettono in evidenza i problemi di morale allʼinterno dellʼesercito, dove più volte negli ultimi anni sono emerse presunte reti di spionaggio a favore di Pechino, spesso intessute da ufficiali, anche di alto grado, in pensione. Altri ancora in servizio attivo.

Ma cʼè anche qualche vantaggio nella strategia di difesa taiwanese. Intanto, la geografia. «Lʼisola è circondata dallʼoceano, è difficile da raggiungere ed è complicato sbarcare. Ci sono montagne alte. Insomma, lʼeventuale campo di battaglia potrebbe diventare un incubo per chi attacca», sostiene Kuo Yu-jen del National policy research.

Taiwan, uno dei cartelli verdi che indicano il percorso migliore per un rifugio antiaereo, a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Blocco navale

«LʼUcraina è più facile da attaccare, ma Taiwan è più difficile da aiutare», dice Lin Ying-yu dellʼIstituto di studi strategici della Tamkang University. «Un blocco navale potrebbe essere la futura strategia di Pechino». Una sorta di stritolamento che tagli i rifornimenti, porti allʼesaurimento le riserve energetiche e induca allʼapertura di un negoziato politico del grado di autonomia concesso allʼinterno del modello «un paese, due sistemi». Secondo Lin, lʼesercito cinese non ha ancora le capacità per farlo. «Le esercitazioni degli ultimi mesi dimostrano che la modernizzazione militare cinese procede spedita, manca però ancora qualche anno prima di poter sostenere un blocco totale o condurre unʼinvasione su larga scala, che sarebbe comunque solo lʼextrema ratio».

Prima di allora, si continuerà con lʼallargamento della cosiddetta «zona grigia», area non di combattimento, ma nella quale vengono condotte operazioni militari, incursioni, sconfinamenti. In questo caso lungo lo stretto. A preoccupare Taipei non sono solo i mezzi dellʼesercito, ma anche quelli di guardia costiera e marina militare. «Ne arriveranno progressivamente sempre di più», prevede Chieh Chung della National policy foundation. In tal senso, spesso i funzionari taiwanesi sono più preoccupati da manovre meno visibili allʼesterno, ma potenzialmente di maggiore impatto. Un esempio? Le ispezioni a bordo delle navi sullo stretto annunciate durante le esercitazioni dello scorso aprile. Il tutto contestualmente al primo impiego della portaerei (cinese) Shandong al largo della costa orientale, lʼunico lato da cui potrebbero arrivare aiuti esterni. Ecco, se Pechino riuscisse a sostenere un blocco navale prolungato di quella zona potrebbe puntare a trasformare lo stretto in una sorta di mare interno. Prodromi di questo approccio se ne sono avuti più volte negli scorsi mesi, quando le navi cinesi hanno fronteggiato quelle statunitensi o canadesi in transito.

È quella che lʼammiraglio Chen Yeong-kang, ex comandante della marina di Taipei, ha definito «strategia dellʼanaconda», mirata a «stritolare piano piano il nostro centro di gravità per arrivare a un negoziato». Magari prendendo di mira i cavi sottomarini, che portano la connessione internet sullʼisola. Lo scorso febbraio, due cavi sono stati recisi al largo delle isole Matsu. Semplice incidente o test? Non è dato saperlo, ma i lavori di riparazione sono terminati 50 giorni dopo. Ci si immagini la recisione dei cavi che collegano Taiwan al resto del mondo in uno scenario di blocco navale con mancanza di riserve energetiche: difendersi sarebbe tuttʼaltro che semplice.

Taiwan sta provando a capire come sviluppare un sistema satellitare autonomo, visto che la fiducia in Starlink è quasi inesistente per gli stretti rapporti di Elon Musk con la Cina e per le sue esternazioni su Taiwan.

Taiwan, scritte politiche «Resisti Cina, libertà ora» al Tò-uat Books x Café Philo a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Guerra normativa

Alessio Patalano del Kingʼs College ha spiegato, durante un recente intervento pubblico a Taipei, di ritenere più probabile un ipotetico «decapitation strike» che unʼinvasione su larga scala o un blocco navale. Vale a dire unʼoperazione di commando speciale volta a eliminare i leader politici e le autorità istituzionali taiwanesi.

Pechino potrebbe usare anche altre tipologie di armi. A partire da quelle normative. Lo scorso aprile, ad esempio, si è saputo che per la prima volta un cittadino taiwanese sarà processato per secessionismo. Si tratta di Yang Chih-yuan, attivista di 33 anni arrestato lo scorso agosto a Wenzhou, nella Cina continentale, subito dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Allora era apparsa una chiara ritorsione per lʼincontro fra Pelosi e Lee Ming-che, altro attivista taiwanese che aveva passato qualche anno nelle carceri continentali. Dopo quasi nove mesi, la Procura suprema del popolo di Pechino ha comunicato lʼincriminazione di Yang. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sullʼindipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito nazionalista di Taiwan, che persegue una dichiarazione di indipendenza formale e lʼadesione di Taipei alle Nazioni Unite. Attività svolte oltre un decennio fa a Taiwan, ma che ora possono costare a Yang da 10 anni allʼergastolo. Le accuse a Yang mostrano la volontà di Pechino di dare una base legale alla sua pretesa di sovranità su Taiwan.

Taiwan, mercatini notturni di Liuhe, Kaohsiung, nel sud dell’isola. Foto Lorenzo Lamperti.

Taiwanesi sul continente

Nonostante una netta diminuzione dallʼinizio del Covid, i taiwanesi che vivono e lavorano sullʼaltra sponda dello stretto sono ancora più di un milione. Vicende come quella di Yang possono avere un impatto anche più profondo delle manovre militari sullʼopinione pubblica taiwanese.

Ci sono poi le liste nere dei «secessionisti», che puntano non tanto a colpire il singolo individuo o politico, quanto lʼintreccio tra figure sgradite a Pechino e il mondo imprenditoriale dell’isola. Emblematica la vicenda del conglomerato taiwanese Far eastern group, operativo da diversi anni in Cina continentale e destinatario di una maxi multa e minaccia di esproprio per aver cofinanziato un evento a cui era intervenuto uno dei politici nella blacklist. Il patron dellʼazienda si è sentito in dovere di mandare una lettera aperta ai media in cui spiegava di essere contrario allʼindipendenza. Stesso concetto applicato nella vicenda di Wu Rwei-ren, il primo taiwanese accusato con la legge di sicurezza nazionale entrata in vigore a Hong Kong nel 2020. Nessun istituto universitario o accademico taiwanese ha firmato lʼappello dellʼAcademia Sinica a sua difesa. Lʼaccusa non avrà conseguenze dirette su Wu finché resterà a Taiwan, ma può impattare sul lavoro di altri accademici che potrebbero pensarci due volte prima di occuparsi di temi delicati.

Cʼè poi il fronte economico. Lʼeconomia taiwanese è entrata in recessione, quantomeno nella prima parte del 2023. Pesa soprattutto il rallentamento dellʼexport a causa di una domanda indebolita, compresa quella della Cina continentale che rappresenta sempre il primo mercato di destinazione delle esportazioni taiwanesi. Negli scorsi mesi, Pechino ha preso di mira lʼesportazione di mango dall’isola. Prima era toccato alle cernie, agli ananas e persino al kaoliang, il celebre liquore di sorgo bevuto da Xi e Ma Ying-jeou nello storico incontro di Singapore del 2015. E alimentare la paura di un conflitto, come dimostra il ritiro degli investimenti su Taiwan di Warren Buffett, potrebbe persino legare lʼeconomia taiwanese ancora di più a quella di Pechino.

Una donna di mezza età si ferma a osservare uno di quei cartelli verdi apparsi in diversi angoli di Taipei. Spinge un passeggino. Poi parla con il compagno di dove andare a cena nel fine settimana. Ma nella mente, forse, una traccia di quel cartello verde resta.

Lorenzo Lamperti


Cattedrale del Cuore Immacolato di Maria a Hinsichu (1955) – foto Luca Bovio

I cristiani sull’isola

C’è una sola entità statuale europea a intrattenere relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica di Cina, Taiwan. Si tratta della Santa Sede. La presenza del cattolicesimo a Taiwan affonda le radici nella piccola colonizzazione spagnola. Oggi, i cristiani rappresentano una fetta non trascurabile del 3,9% circa della popolazione taiwanese. I protestanti sono quasi il doppio dei cattolici. Solo buddhismo e taoismo contano più fedeli, in un panorama religioso frastagliato e originale, anche grazie allo storico incontro tra le credenze delle popolazioni aborigene, di origine austronesiana, e la prima grande immigrazione dei cinesi di etnia Han. Sul territorio taiwanese ci sono poco meno di tremila chiese. Chiang Kai-shek e Chiang Ching-kuo erano metodisti, Lee Teng-hui è stato membro della Chiesa presbiteriana, che ha forti legami con il Dpp fin dagli anni Ottanta. I rapporti tra Taipei e la Santa Sede non sono mai stati in discussione, con la presenza di un’ambasciata e di una nunziatura nei rispettivi territori. Negli ultimi anni, i tentativi di dialogo tra papa Francesco e il Partito comunista cinese hanno messo in dubbio il futuro di queste relazioni. Ma la chiesa mantiene una presenza importante anche dal punto di vista sociale, giocando pure un ruolo nella raccolta e nell’invio di aiuti sanitari in Italia durante la pandemia di Covid-19. Sono numerosi i progetti condotti a Taiwan dai preti e suore camilliani.
I missionari della Consolata, sono presenti dal 2014 nella diocesi di Hsinchu, oggi in due comunità*.

L.L.

* Prossimamente racconteremo in modo approfondito il lavoro di Imc a Taiwan.

Al santuario di S. Teresina a Hisinchu (foto Luca Bovio)

Hanno firmato il dossier:

  •  Lorenzo Lamperti
    Giornalista professionista, è direttore editoriale di «China Files», scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi. Vive e lavora a Taipei, Repubblica di Cina / Taiwan. Ha già collaborato con MC scrivendo su vari paesi. In particolare: Taiwan, vento europeo sullo stretto, luglio 2022.
  • a cura di Marco Bello
    Giornalista, direttore editoriale MC.
  • Foto del dossier 
    Le foto del dossier, se non specificato diversamente, sono di Lorenzo Lamperti.

 

 




La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




La Russia in America Latina. Le mosse dello zar


La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina?

Le relazioni tra Russia e America Latina hanno radici profonde, non sono cioè limitate ai primi decenni del XXI secolo. Gli immigrati russi comparvero per la prima volta in Sud America e nei Caraibi all’inizio del XIX secolo. Si trattava di ondate migratorie costituite in gran parte da lavoratori provenienti dalla parte europea dell’Impero russo e, in misura minore, dalle file dell’opposizione politica delle province baltiche, dalla Polonia e dall’Ucraina occidentale. Posteriormente, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, un piccolo numero di russi in fuga dal regime comunista scelse la regione latinoamericana come luogo di esilio volontario.

Tra questi è doveroso ricordare il caso di Lev Davidovich Bronstein, meglio conosciuto come León Trotsky. Quello che fu il promotore della rivoluzione permanente terminò i suoi giorni a Città del Messico (il 21 agosto 1940), ucciso da Ramón Mercader (agente segreto spagnolo naturalizzato sovietico) su ordine di Stalin.

Trotsky visse i suoi ultimi anni in Messico da rifugiato grazie all’asilo politico che gli venne concesso dall’allora presidente messicano Lázaro Cárdenas e fu circondato dall’affetto di figure iconiche della storia della regione quali Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera (entrambi pittori di grande fama, ndr).

La seconda ondata di migrazione russa in America Latina si verificò dopo la Seconda Guerra mondiale. Era formata in gran parte da cittadini sovietici che vivevano nel territorio liberato dagli alleati occidentali, persone che non volevano tornare in Unione Sovietica. In questo modo si ampliò la presenza della diaspora nella regione, in particolare in Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela, gettando le basi per importanti scambi culturali tra la Russia e i paesi delle Americhe, connessione oggi vitale per le politiche e per l’influenza russa nella regione.

Dalla guerra fredda a Vladimir Putin

Durante la Guerra fredda (12 marzo 1947 – 26 dicembre 1991) anche la regione latinoamericana fu teatro dello scontro multilivello delle due superpotenze, terreno di lotta ideologica e indirettamente anche militare, nel quale l’Urss mantenne stretti legami con Cuba e con il Nicaragua. L’influenza sovietica ebbe un ruolo importante per creare un’alternativa all’egemonia esercitata dagli Stati Uniti d’America in una regione che, per molto tempo, fu considerata il giardino di casa («patio trasero») degli Usa.

Con la dissoluzione dell’Urss (dicembre 1991) e il lungo processo di riassetto politico, economico, sociale e diplomatico che ne seguì, la Russia perse molto peso sulla scena internazionale, anche nei confronti del paesi latinoamericani, Cuba in primis.

Agli inizi degli anni Novanta, il Paese, che oggi occupa più di due terzi del territorio della vecchia Urss e comprende metà della sua popolazione, aveva un volume di scambi commerciali con l’America Latina ridotto all’osso.

Dalla seconda metà degli anni Novanta la situazione iniziò a migliorare con un riavvicinamento e rafforzamento delle partnership strategiche, una ripresa del commercio e il susseguirsi di visite reciproche dei capi di stato. La vera svolta avvenne però nell’anno 2000 con il cambio dello scenario politico all’interno della Russia e l’arrivo ai vertici del potere di Vladimir Putin.

Già nell’agosto del 1998, come capo del governo, l’uomo aveva guidato la seconda guerra cecena diventando uno dei politici più popolari della Federazione russa. Successivamente, quando Boris Eltsin annunciò le sue dimissioni il 31 dicembre 1999, in conformità con la Costituzione, Putin diventò presidente ad interim iniziando una leadership che lo vede ancora oggi come l’uomo più potente e temuto della Russia.

I piani dello zar

L’arrivo dell’ex agente del Kgb al Cremlino ha cambiato completamente il posizionamento della Russia a livello globale e questo ha avuto effetti importanti anche sulla regione latinoamericana.

Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 (Munich security conference, spazio internazionale che si tiene annualmente dal 1963) Putin ha confutato la narrazione di un mondo «unipolare» sotto il protagonismo e l’egemonia degli Usa e della Ue, aprendo la porta a nuove interpretazioni ed equilibri di potere. L’anno prima, infatti, il 20 novembre 2006, si era tenuta la prima riunione dei Brics, acronimo di un’associazione economico-commerciale tra le cinque economie nazionali emergenti che, nel decennio del 2000, erano le più promettenti del mondo.

Si tratta del gruppo composto da  Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (quest’ultimo unitosi nel 2011) che si pone come contrappeso all’autoreferenzialità occidentale e che esplora misure alternative di commercio inter-

nazionale, ad esempio la possibilità di non utilizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale.

Putin si è proposto, dunque, come un portabandiera di un mondo «multipolare» ricollocando la Russia (che è anche membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu con potere di veto) come protagonista nello scenario internazionale.

Le parole di Monaco del 2007 sono diventate «reali» con la guerra in Georgia del 2008 e con l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e le conseguentii sanzioni economiche che hanno diviso la comunità internazionale.

Proprio le sanzioni economiche imposte dall’Ue dopo i fatti di Crimea hanno spinto Mosca ad accelerare la ricerca di alleati sia a livello diplomatico che livello commerciale. È in questo contesto che l’America Latina è tornata al centro degli interessi russi e dove paesi come Uruguay, Argentina e Brasile hanno iniziato a sostituire i «vecchi» partner commerciali europei per l’esportazione di frutta, verdura e carne verso la Russia.

La strategia del vaccino

Con l’inizio del nuovo secolo, la Russia guidata da Vladimir Putin ha ripreso a guardare con interesse all’America Latina , espandendo la sua presenza commerciale e tessendo importanti alleanze con governi sia di destra che di sinistra. Armi, gas e petrolio sono stati il principale «grimaldello» con il quale è iniziata questa nuova era delle relazioni russo-latinoamericane, una dimensione che però molto presto ha acquisito un carattere più geopolitico, in opposizione alle azioni sanzionatorie di Washington nei confronti della Russia.  La politica estera russa ha così creato un’area di intervento multisettoriale nella regione latinoamericana, promuovendo relazioni commerciali ed econo-

miche, insieme a una cooperazione tecnica, militare e sanitaria.

Nello scenario creato dalla pandemia da Covid-19, la Russia ha infatti giocato un ruolo da protagonista aumentando la sua proiezione regionale grazie alla strategia di approvvigionamento del suo vaccino Sputnik a diversi paesi dell’area come Argentina, Bolivia, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama e Venezuela.

I megafoni di Rt e Sputnik

A questo si aggiunge la diffusione massiccia di narrazioni favorevoli a Mosca attraverso la forte presenza nella regione di mass media russi come Russia today (Rt) e l’agenzia di stampa Sputnik. Questi sono megafoni potenti che permettono al Cremlino e a Putin di mettere in discussione, nei paesi latinoamericani, il modello democratico targato Stati Uniti d’America e Unione europea.

Nel corso degli anni, sono proprio quei paesi che hanno intrapreso cammini fuori dagli argini dello stato di diritto – Cuba, Nicaragua e Venezuela – ad avere instaurato legami molto stretti con Mosca. Rappresentano i primi alleati di Putin, paesi nei quali le narrazioni utilizzate dagli organi di stampa russi sono sostenute e ripetute acriticamente, compresa quella sull’invasione dell’Ucraina. Questi tre stati rappresentano oggi terreno di scontro politico e ideologico per le stesse sinistre della regione (come, ad esempio, il Venezuela, appoggiato dal brasiliano Lula ma criticato dal cileno Boric).

A questi stati la Russia ha offerto aiuti politici, economici e finanziari in cambio del loro sostegno a livello internazionale per rafforzarel’opposizione all’influenza degli Usa in America Latina.

In Nicaragua si assiste a continue esercitazioni militari, marittime e aeree, allo sviluppo di centri di addestramento militare o di sistemi di monitoraggio satellitare come «La Gaviota», tutto sotto il controllo operativo-amministrativo della missione diplomatica russa.

Con il Venezuela esistono più di  venti accordi bilaterali di cooperazione militare, scambio di personale e di addestramento, mentre con Cuba la collaborazione à ancora più estesa e comprende anche varie aree di influenza nel commercio, negli investimenti e negli aiuti umanitari. Sempre a Cuba, da marzo 2023 è possibile usare carte di credito russe negli sportelli dell’isola e a maggio tre banche russe hanno presentato le richieste necessarie per aprire succursali nel paese caraibico: in relazione a ciò si specula che presto L’Avana accetterà pagamenti anche in rubli.

Rt e Sputnik sono oggi, dunque, un importante volano degli interessi russi in America Latina, trovando il plauso delle sinistre più radicali e più in generale delle forze illiberali dello spettro politico latinoamericano.

TASSO Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa russa e grande sostenitore di Putin, in una cerimonia al Cristo Redentore di Rio de Janeiro nel febbraio 2016. Foto Tasso Marcelo – AFP.

Chi commercia con Mosca

La generazione di consenso che ne deriva rende gli accordi economici e militari tra i paesi latinoamericani e la Russia politicamente molto più agevoli e accettabili da parte delle opinioni pubbliche nazionali. Tra questi spicca la cooperazione militare, dove l’industria bellica russa gioca un ruolo di primo piano.

Oltre a Cuba, Nicaragua e Venezuela si sono rafforzati negli ultimi anni i legami con i governi di Nayib Bukele nel Salvador, Alberto Fernandez in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile (che, a gennaio 2023, ha lasciato il posto a Lula) e Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico. Questi ultimi tre paesi rappresentano i mercati più importanti per la Russia in America Latina e nel caso particolare di Brasile (membro dei Brics) e del Messico (membro del G20) parliamo di esportazioni vitali per l’economia di Mosca, come zucchero di canna, semi di soia, caffè, carne, birra, apparecchi meccanici, autovetture, e telefoni. Un commercio bilaterale che ha visto un notevole aumento nel XXI secolo e con l’era Putin, dove tra tutti spicca il Brasile, paese che mantiene con la Russa il più grande  flusso di importazioni e di esportazioni di merci di tutta l’America Latina. In totale, nel 2020 il Brasile ha importato beni per un valore di 2,9 miliardi di dollari dalla sua controparte russa e ha esportato un valore di 1,5 miliardi di dollari, essendo i fertilizzanti i prodotti con il più alto valore di importazione. Il fiorente commercio con l’economia più grande dell’America Latina (il Brasile ha fatto registrare nel 2022 un Pil di 1.900 miliardi di dollari ed è l’undicesima economia mondiale, proprio dietro all’Italia) è dunque uno dei pilastri della proiezione russa nel continente. Considerando inoltre che, proprio ad aprile 2023, l’ex presidentessa brasiliana Dilma Rousseff ha assunto la guida della Nuova banca di sviluppo (New development bank, Ndb) dei Brics.

La sede centrale della «Nuova banca di sviluppo», punto di riferimento dei Brics, a Shanghai, e il logo del summit dei Brics, tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, dal 22 al 24 agosto.

La crescita esponenziale della Cina

L’America Latina però è una regione estremamente eterogenea nella quale l’appeal russo non si espande in modo uniforme in ogni contesto nazionale.

I forti legami commerciali con Brasile e Messico e i legami politico finanziari con Cuba, Nicaragua e Venezuela (che hanno potuto godere di ingenti prestiti, donazioni e lucrosi affari con le aziende russe) hanno creato un gruppo di paesi «di appoggio» che hanno sostenuto Putin durante l’ultimo anno, astenendosi dal votare all’Onu contro la Russia per la guerra in Ucraina.

Basti ricordare, infatti, la posizione ambigua, quando non dichiaratamente opportunista, assunta nella votazione sull’espulsione del paese dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, durante la quale Messico, Brasile ed El Salvador si sono astenuti, mentre Nicaragua, Cuba e Bolivia hanno votato contro (7 aprile 2022).

Il fatto che la Russia non sia riuscita a generare una completa area di influenza diplomatica ed economica in America Latina è però dovuto anche alla Cina, le cui relazioni commerciali con la regione sono cresciute in modo esponenziale.

Basti pensare che Pechino ha assegnato ad Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela il massimo livello di cooperazione strategica e che la Banca cinese di sviluppo è uno dei principali investitori in progetti di costruzione di infrastrutture nella regione.

La Russia mantiene, però, un potere geopolitico importante in America Latina, dove la sua industria bellica fornisce armi a diversi governi (Venezuela su tutti) e dove continua a mantenere un grado di impegno mediatico e diplomatico ad alta intensità. A livello geostrategico però il suo peso economico è molto inferiore a quello della Cina, suo partner politico ma, appunto, rivale in America Latina.

Visioni del mondo

Russia e Cina condividono una visione «multipolare» del mondo, una visione cioè che vuole contrastare la leadership e l’egemonia statunitense. Tralasciando la spinosa questione della guerra russa contro l’Ucraina, questa visione è anche quella di buona parte dei governi progressisti della sinistra latinoamericana: in questo senso l’America Latina risulta una regione strategica per il conseguimento di questo obiettivo.

La convivenza nella regione degli interessi di due giganti come Russia e Cina rappresenta una grande sfida, considerando anche e soprattutto la necessità dei nuovi governi e delle nuove leadership dei paesi latinoamericani, più o meno allineati con la narrazione di Washington e della Ue, di trovare un proprio spazio di manovra politica ed economica.

Diego Battistessa

 Prossimamente su MC: la Cina in America Latina.

(230823) — JOHANNESBURG, Aug. 23, 2023 (Xinhua) — Chinese President Xi Jinping, South African President Cyril Ramaphosa, Brazilian President Luiz Inacio Lula da Silva, Indian Prime Minister Narendra Modi and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov pose for a group photo during the 15th BRICS Summit in Johannesburg, South Africa, Aug. 23, 2023. The 15th BRICS Summit was held in Johannesburg on Wednesday. (Xinhua/Li Xueren) (Photo by LI XUEREN / XINHUA / Xinhua via AFP)


La Russia e i Brics: il multilateralismo delle dittature

Con sulla testa un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale (Icc), Vladimir Putin ha preferito non recarsi alla tre giorni del XV Brics Summit, tenutosi a Johannesburg, in Sudafrica dal 22 al 24 agosto scorso. Si è, pertanto, limitato a inviare un discorso preregistrato di 17 minuti. In esso il leader del Cremlino si è concentrato soprattutto sull’«operazione speciale» in Ucraina e sulle cattiverie dell’Occidente verso l’incolpevole Russia, non cambiando di una virgola il suo ormai consueto canovaggio di bugie e ossessioni.

Al vertice sudafricano erano presenti gli altri quattro leader dei Brics (acronimo dei cinque paesi aderenti all’alleanza): il cinese Xi Jinping, l’indiano Narendra Modi, il brasiliano Luiz Inacio Lula e Cyril Ramaphosa, presidente del paese ospitante.

Attualmente, i paesi Brics rappresentano oltre il 42% della popolazione globale, il 30% del territorio mondiale, il 23% del Pil e il 18% del commercio internazionale. Numeri già importanti che aumenteranno con il prossimo allargamento del gruppo.

Al Summit sudafricano è stata, infatti, annunciata la lista dei nuovi membri: dal primo gennaio 2024, dovrebbero entrare Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Argentina. Insomma, come si può capire, tanti paesi con un pedigree dittatoriale, Iran e Arabia Saudita in testa.

Perché – allora – tanti aspirano a entrare in questa alleanza? La risposta principale è talmente ovvia da apparire semplicistica: per le opportunità di sviluppo economico che, aderendo, si potrebbero aprire. Si pensi, ad esempio, ai vantaggi per il Brasile di Lula o per un’Argentina sull’orlo del suo ennesimo fallimento economico.

Con la Russia impegnata nella guerra, oggi i Brics sono una creatura dominata dalla Cina, seconda potenza economica mondiale in competizione con gli Usa. Anche a Johannesburg il vero vincitore è stato Xi Jinping, che ha blandito molti paesi, soprattutto africani (dove Pechino ha da tempo piantato le proprie bandiere). Il leader cinese ha anche incontrato Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, paese che, pur non avendo mai smesso la persecuzione nei confronti dei dissidenti, è stato accolto nei Brics. Come per l’aggressione russa all’Ucraina, anche davanti alla repressione di Tehran, Pechino chiude gli occhi. D’altra parte, i cinesi sono i primi a non voler parlare di democrazia e diritti umani avendo i loro problemi in Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan.

Che il capitalismo occidentale abbia prodotto e produca troppe ingiustizie (economiche, sociali e ora anche ambientali) è fatto indubitabile e non più tollerabile. Che l’alternativa sia un modello multilaterale guidato da una o più dittature è però una toppa peggiore del buco.

Paolo Moiola




India. A Delhi, promesse e gaffe

Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.

Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.

«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.

Modi saluta Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. (Foto da www.g20.org)

Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.

Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.

Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.

Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».

Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.

Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.

Modi con il presidente Lula. Il Brasile ospiterà il G20 del 2024. (Foto da www.G20.org)

A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».

Paolo Moiola




Islanda, miti e realtà. L’isola bivalente

Viaggio nell’isola del Nord Europa

Mappa con l’Islanda e gli altri paesi del Circolo polare artico.

Sommario

 

 

 



Ma non è il paradiso

Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.

L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».

L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.

Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.

I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).

Il piccolo porto di Husavik, nell’estremo nord dell’Islanda. Foto Christian Klein – Pixabay.

Le forze naturali: risorse e disastri

È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.

Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.

Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.

Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.

Le case colorate della capitale islandese Reykjavik. Foto Tom Podmore – Unsplash.

Turismo ed energia da fonti rinnovabili

Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.

Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.

L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.

Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).

Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.

Una vista spettacolare della valle di Oxnadalur con la fattoria Hals. Foto Piergiorgio Pescali.

Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola

Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.

A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.

Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.

Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».

Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».

L’impressionante volume d’acqua che forma la cascata di Dettifoss, la maggiore dell’Islanda e dell’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli islandesi e il pericolo della depressione

Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta  e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.

A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.

La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.

Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.

Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.

Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.

Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».

A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.

Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».

Gli iceberg della laguna di Jökulsárlón; il riscaldamento climatico ha liberato blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

La politica e la stretta migratoria

L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.

Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.

L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.

Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.

Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.

Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).

Padre Jacob Rolland con, sullo sfondo, la cattedrale cattolica di Cristo Re nella capitale islandese. Foto Piergiorgio Pescali.

La polemica religiosa

Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.

Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).

Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».

Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).

Un pescatore islandese mostra la preda. Foto Piergiorgio Pescali.

Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese

«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».

L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.

«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.

Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).

Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.

Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).

Un gregge di pecore a Hverir. Foto Piergiorgio Pescali.

Saghe, leggende e stereotipi

A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».

Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).

«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».

Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.

La centrale geotermica di Krafla, nel nord del Paese, appartiene alla Landsvirkjun, il più grande gestore elettrico dell’Islanda, di proprietà statale. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»

Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).

Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.

Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.

A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».

Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.

Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.

La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.

Foche nei pressi del villaggio di Djúpavík, nei fiordi occidentali. Foto Piergiorgio Pescali.

Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo

L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).

Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.

In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».

La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.

L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.

Il ghiacciaio che si getta nella laguna di Fjallsárlón; il riscaldamento climatico da una parte sta facendo ritirare il fronte del ghiacciaio, dall’altro ha permesso di liberare blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

Tra Unione europea e Cina

La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.

Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.

Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.

Piergiorgio Pescali

Il getto d’acqua del geyser di Strukkur (Geysir); erutta ogni 5-10 minuti lanciando un getto alto tra i 20 e i 30 metri. Foto Piergiorgio Pescali.


Dorsali, placche, magma, geyser

La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.

Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.

La mappa mostra le dorsali (ridges, in inglese) che attraversano o lambiscono il Paese.

Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.

Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.

I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.

Pi.Pes.


I vichinghi, «guerrieri del mare»

La tela dipinta da Oscar Wergeland nel 1877 ricorda l’arrivo dei vichinghi in terra d’Islanda.

L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.

Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.

Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.

I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.

Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.

Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.

Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.

L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.

Pi.Pes.

Sorgenti calde nell’area di Geysir. Foto Piergiorgio Pescali.


Geotermia, dall’Italia all’Islanda

La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.

Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia.  Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).

La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.

In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.

Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.

Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.

Pi.Pes.

La cattedrale della Chiesa nazionale d’Islanda nella capiatale del paese. Foto Wikimedia commons.


Chiese e fedeli

La leggenda dei «papar»

Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.

Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».

Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.

Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.

La chiesa Hallgrímskirkja, opera del noto architetto islandese Gudjon Samuelsson, a Reykjavik. Foto Piergiorgio Pescali.

Cristiano III e il luteranesimo

Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.

Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.

«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».

Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi

Mons. Dávid Bartimej Tencer, vescovo della Chiesa cattolica islandese. Foto Wikimedia commons.

In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.

Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, vescovo della Chiesa nazionale d’Islanda. Foto www.kirkjan.is.

La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.

Piergiorgio Pescali


Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.




Nemici ieri, partner oggi


Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.

«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.

Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.

La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.

L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.

Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.

Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.

La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».

I segni della guerra

Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.

Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.

E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.

Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.

I vicini scomodi

Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.

Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.

Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.

Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.

Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».

Acque contese

All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.

D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.

Guardare altrove

Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.

Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.

Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.

US Secretary of State Antony Blinken (L) meets with Vietnam’s Communist Party General Secretary Nguyen Phu Trong at the Communist Party of Vietnam Headquarters in Hanoi on April 15, 2023. (Photo by Andrew Harnik / POOL / AFP)

Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.

Fabbriche hi tech

Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.

Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.

Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.

Lorenzo Lamperti




Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

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China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
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Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.