Il 29 gennaio un tribunale di Hong Kong ha disposto l’ordine di liquidazione di Evergrande, il colosso immobiliare cinese schiacciato sotto il peso di oltre 300 miliardi di dollari di debiti.
Le lunghe trattative con i principali creditori si sono concluse con un nulla di fatto: era dal dicembre 2021, ovvero da quando l’azienda è andata in default su 82,5 milioni di dollari di obbligazioni, che i colloqui procedevano al fine di definire una ristrutturazione del debito offshore accettabile per tutte le parti. Ora le cose per il gruppo cinese si complicano. Il suo esuberante fondatore, Xu Jiayin – un tempo uomo più ricco d’Asia – da settembre pare si trovi ai domiciliari per «attività illegali» e non è escluso che in futuro il caso acquisirà risvolti non solo strettamente economici. D’altronde negli ultimi anni il conglomerato ha espanso le sue attività ben oltre il comparto immobiliare con acquisizioni nel mondo del calcio, dell’automotive, del turismo, e persino dell’intrattenimento. Nel 2022 due dirigenti sono stati rimossi dai loro incarichi con l’accusa di uso improprio di fondi, stanziati originariamente per i progetti immobiliari e finiti altrove.
L’inizio della crisi immobiliare ha una data: agosto 2020. Ovvero il mese e l’anno in cui il rallentamento del mercato interno, colpito dalla pandemia, spinge il governo cinese a introdurre alcune restrizioni sull’emissione di prestiti bancari per contenere la leva finanziaria nel settore. Questo rende improvvisamente difficile ripagare i debiti, non solo per Evergrande. Ma anche per tutti quegli sviluppatori che, come il colosso di Guangzhou (Canton), hanno prosperato per decenni incassando introiti dalla vendita di abitazioni non ancora costruite. E che adesso, forse, non lo saranno mai.
Nell’immediato la sfida per Pechino sta proprio nel trovare un modo per gestire il patrimonio del promotore immobiliare: oltre 1.740 miliardi di yuan di asset, la maggior parte dei quali concentrati nella Cina continentale, che ha un sistema giuridico diverso da quello di derivazione anglosassone in vigore a Hong Kong. Le implicazioni però sono ad ampio raggio. Non solo perché la gestione di Evergrande funge da esempio per tutte le altre aziende in difficoltà. Tanto per citarne una: Country Garden che ha passività per circa 190 miliardi di dollari e più di 3.000 progetti in fase di sviluppo.
La procedura di liquidazione avviata a Hong Kong rappresenta più in generale un banco di prova per la Cina, che solo pochi giorni fa ha annunciato un crollo degli investimenti diretti esteri ai minimi dal 1993. Da come verrà gestito il caso dipende anche l’affidabilità del mercato cinese, già compromesso dal rallentamento dell’economia, dalla crescente enfasi attribuita da Pechino alla sicurezza nazionale, nonché dalle frizioni geopolitiche con l’Occidente.
Sotto esame anche l’ex colonia britannica (Hong Kong), che nell’ultimo decennio ha visto diminuire l’autonomia concessa da Pechino sotto il motto «un paese, due sistemi». Una situazione costata già una diminuzione delle aziende straniere presenti a Hong Kong. Non serve molta immaginazione per intuire che effetto avrebbe nei circoli del business il mancato rispetto dell’ordine di liquidazione. Eppure, stando ai precedenti (per esempio il default di Kaisa), difficilmente la leadership cinese accetterà di dare priorità ai creditori offshore. Almeno non prima di aver risolto la questione abitativa sulla terraferma: sono circa un milione e mezzo gli appartamenti venduti ma ancora incompiuti. Quindi almeno altrettante le persone in attesa di ricevere la propria casa. Senza contare gli stipendi che Evergrande deve ancora versare ai propri dipendenti. Si sommano i conti da saldare ai fornitori. Questioni spinose che in passato hanno già alimentato accese proteste in diverse città. Esattamente quanto Pechino, ossessionato dalla stabilità sociale, vuole evitare. Secondo i dati dell’Ong China labour bulletin, le proteste per i salari non pagati nel periodo precedente al capodanno lunare (10 febbraio) sono raddoppiate rispetto allo scorso anno. Molte hanno coinvolto lavoratori edili, una categoria che in Cina conta circa 52 milioni di persone.
Oggi oltre il 90% delle famiglie cinesi ha almeno una casa di proprietà. Considerato bene rifugio, circa tre quarti del patrimonio familiare in Cina risiede proprio nel mattone. Ma la crescita esplosiva dell’immobiliare ha anche innescato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Basti pensare che, secondo diverse stime, oggi in Cina ci sono sufficienti appartamenti per ospitare tre miliardi di persone a fronte di una popolazione di 1,4 miliardi. Con il calo delle nascite la situazione è destinata a peggiorare. L’effetto delle giacenze è visibile nelle preoccupanti oscillazioni dei prezzi delle case che, se da una parte restano inavvicinabili per molti giovani cinesi, dall’altra tendono a perdere facilmente valore. Con buona pace di chi ci ha investito i propri risparmi.
Lo ha detto più volte il presidente Xi Jinping: «Le case sono fatte per abitarci, non per speculare». Dopo quattro anni di pandemia da Covid-19, la leadership cinese percepisce che l’immobiliare rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze sociali. Quindi di ostacolare gli obiettivi di lungo periodo prefissati da Xi, che entro il 2035 aspira a raddoppiare il Pil pro capite rispetto ai valori del 2019. L’economia intreccia la politica creando un mix letale per legittimità del Partito-Stato.
Al contempo si temono ripercussioni più ampie non solo per i comparti più esposti al surriscaldamento del mattone, dal settore bancario a quello della gestione patrimoniale. Se il controllo statale sugli istituti di credito fa escludere l’eventualità di una crisi Lehman Brothers «con caratteristiche cinesi», allo stesso tempo la crisi innescata dal tracollo di Evergrande è per certi versi più destabilizzante: a venire messo in discussione è infatti un po’ tutto il paradigma di sviluppo cinese. Trainato fin dagli anni ‘90 da un’urbanizzazione dirompente, quel modello economico è costato alle amministrazioni locali livelli di indebitamento elevatissimi, domati grazie agli introiti dalla vendita dei terreni statali ai promotori immobiliari. Ma ora che i colossi del mattone stringono la cinghia a risentirne sarà, di riflesso, anche il bilancio dei governi provinciali, distrettuali e municipali. Senza misure efficaci, secondo le stime della Banca Mondiale, da qui al 2025 la crescita cinese rallenterà dal 5 al 4,3% proprio a causa dell’instabilità dell’immobiliare.
Da tempo la leadership comunista cerca di ridurre la dipendenza dell’economia dagli investimenti infrastrutturali. Obiettivo diventato necessario da quando tre anni di rigidissime misure contro il Covid-19 hanno prosciugato le casse statali. La soluzione, auspicata da Pechino, prevede un maggiore coinvolgimento dei consumi interni, ancora fermi al 53% del Pil rispetto a una media mondiale del 72%. Più facile a dirsi che a farsi. Nonostante la ripresa del turismo, durante il capodanno lunare la spesa media pro capite ha registrato un calo del 9,5% rispetto al livello pre pandemia. Comprensibile: chi aprirebbe con leggerezza il portafoglio dopo aver investito i propri risparmi in una casa che forse non vedrà mai?
Alessandra Colarizi
Taiwan. Vince Lai, ma perde il parlamento
Non è stato un voto radicale. Nonostante le interpretazioni che ne sono state date a livello internazionale, le elezioni presidenziali e legislative di Taiwan di sabato 13 gennaio non hanno segnato un punto di rottura, né una svolta definitiva. Forse, nemmeno decisiva per stabilire il futuro delle relazioni con la Cina continentale.
La vittoria di Lai Ching-tedel Partito progressista democratico (Dpp) è percepita dai taiwanesi come l‘esito di una dinamica prettamente interna, non inclusa dalle cornici retoriche da campagna elettorale scelte dai due partiti principali: scelta tra guidata dal Kuomintang (Kmt) e scelta tra «democrazia e autoritarismo»per il Dpp. La sensazione della maggior parte degli elettori è che, recandosi ai seggi, non stessero per decidere le sorti di un ipotetico conflitto, né stessero favorendo o impedendo una potenziale «unificazione» (o riunificazione come la chiamano a Pechino).
Sarà anche per questo che, in realtà, il risultato non è così netto come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Lai ha vinto, ma raccogliendo il 17% in meno di quanto aveva ottenuto la presidente uscente Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2020. In termini specifici, il suo 40% conta 5,5 milioni di voti contro gli oltre otto milioni di quattro anni fa. Abbastanza per battere il candidato del Kmt, l’ex poliziotto e attuale sindaco di Nuova Taipei Hou Yu-ih, che si è fermato al 33%.
A favorire il successo di Lai c’è stata anche la rottura dell’accordo per una candidatura unitaria nell’opposizione, che ha prodotto per la prima volta da tanto tempo una terza opzione forte per gli elettori taiwanesi: Ko Wen-je del Partito popolare di Taiwan (Tpp). Il suo 26% è un risultato più che ragguardevole, considerando che la scena politica taiwanese è tradizionalmente dominata dal bipolarismo tra Dpp e Kmt. In realtà, Ko non ha sottratto voti solo al Kmt, ma anche al Dpp. Soprattutto nel bacino dell’elettorato più giovane, spesso convinto da una proposta elettorale che si è autodefinita Se sulle presidenziali il netto calo del Dpp non si tramuta in problemi concreti, visto che nel sistema elettorale taiwanese per il ramo esecutivo il Tanto che l’ago della bilancia sarà proprio il Tpp di Ko, che coi suoi 8 seggi è l’unica altra forza politica ad aver superato lo sbarramento del 5%. Non ce l’ha fatta nemmeno il New power party, la formazione nata dal Movimento dei girasoli, il grande fenomeno di proteste del 2014 contro l’allora amministrazione Kmt di Ma Ying-jeou, molto dialogante con Pechino. Con il suo «responsabile» e provando a spolpare ulteriormente i partiti tradizionali in vista delle presidenziali del 2028, che, subito dopo la fine dello spoglio del 13 gennaio, Ko ha detto che vincerà sicuramente, di fronte ai suoi sostenitori delusi.
Questo frazionamento interno potrebbe incidere non solo sulle dinamiche politiche taiwanesi, ma anche sulla postura della Cina continentale. È interessante in tal senso un segnale arrivato dal comunicato dell’Ufficio degli Affari di Taiwan di Pechino, poche ore dopo la vittoria di Lai. Oltre a ribadire la storica posizione della ». Un modo per rivendicare una parziale vittoria, ma forse anche per esercitare pazienza nel breve termine, attendendo la nomina del presidente del parlamento (che si insedia il primo febbraio) e ancora di più il discorso di insediamento di Lai, prima di adottare una postura troppo aggressiva o comunque mandando segnali di discontinuità di fronte alla linea della pressione già adottata dal 2016, cioè da quando il Dpp è al potere.
Lai, dal canto suo, ha vinto anche riuscendo a convincere gli elettori che il suo obiettivo è tutelare lo status quo. Dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. Gli stessi Stati Uniti potrebbero chiedere delle garanzie in tal senso. Washington apprezza molto la leader uscente Tsai per la sua cautela ma anche per la sua prevedibilità. Caratteristica che sembra mancare al focoso Lai, a cui gli Usa potrebbero chiarire di voler mantenere le comunicazioni aperte con Pechino. In attesa quantomeno delle prossime elezioni per la Casa Bianca, l’altra variabile che potrebbe cambiare le regole di un gioco sempre più complicato.
Lorenzo Lamperti, da Taipei
Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi
In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».
Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.
I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.
Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.
Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».
Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.
Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.
Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.
Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.
Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.
Lorenzo Lamperti, da Taipei
Cina. Stretta sui social network
Il 31 ottobre scorso, diverse piattaforme social cinesi hanno annunciato nuove regole che impongono agli utenti più popolari di rendere pubblici i loro veri nomi. Le nuove disposizioni sono state per ora applicate su Weibo solo agli utenti con oltre un milione di follower, mentre su WeChat, Kuaishou e Douyin, basta averne 500mila. I netizen (persona che partecipa attivamente su internet, ndr) interessati dalle misure – spiegano i gestori delle piattaforme – sono principalmente quelli legati all’attualità, alle notizie militari, alla finanza, al diritto e all’assistenza sanitaria. Chi condivide dettagli della propria vita personale potrà ancora avvalersi di nickname, sebbene ormai da diversi anni chiunque voglia aprire un account social sia già tenuto a registrarsi con il proprio nome legale. Ufficialmente il provvedimento verrà applicato dagli internauti «su base volontaria». Ma, secondo i comunicati emessi dalle piattaforme, la mancata autenticazione da parte dei soggetti interessati potrebbe incidere sul numero dei nuovi follower nonché sulle entrate accumulate con le attività online fino al completamento del processo richiesto.
Prevedibile la reazione degli utenti: c’è chi ha manualmente rimosso migliaia di seguaci per scendere sotto la soglia «rossa», chi invece, per non rischiare, si è completamente tolto dai social. Molti hanno criticato pubblicamente la nuova politica, avanzando preoccupazioni relative alla privacy, soprattutto a fronte del rapido aumento di casi di cyberbullismo. Tra le voci contrarie figurano anche personalità di un certo spessore. Per Lao Dongyan, docente di diritto presso la prestigiosa Università di Tsinghua, le nuove regole agevoleranno l’appropriazione illecita di informazioni riservate. L’esperto ha anche dichiarato che le disposizioni scoraggeranno le persone dall’esprimere opinioni personali contrarie alla linea ufficiale. Con il crescente controllo delle autorità sul web, l’autocensura è diventata un fenomeno piuttosto diffuso negli ultimi anni. Ma ora, dopo la stretta sui nomi, non è più solo il giudizio di Pechino a spaventare. È anche la gogna pubblica a intimorire le voci fuori dal coro.
«l’era del cyberbullismo». «Sono sempre le persone rispettose della legge a rimetterci», recitava un post comparso sull’account e poi cancellato. Ma, secondo Eric Liu, ex censore oggi editor del sito China digital Times, le ultime misure interesseranno soprattutto chi ha conoscenze specialistiche su argomenti, come la scienza e la medicina: pubblicare informazioni contraddittorie rispetto alle narrazioni ufficiali (pensiamo all’origine del Covid-19) potrebbe comportare conseguenze professionali nella vita reale.
Si sa, internet è una giungla: se grazie ai social è diventato più facile informare, ugualmente lo è anche disinformare. Una distinzione che nella Repubblica popolare si colora di connotazioni politiche. A luglio, la Cyber administration of China, il massimo regolatore di internet in Cina, ha emanato direttive ad hoc per regolamentare i cosiddetti «valori sbagliati» o contenuti «fuorvianti» e «pessimistici». «Parlare di declino della Cina serve essenzialmente a creare una “trappola narrativa” o una “distorsione cognitiva”», diceva venerdì scorso il ministero della Sicurezza dello Stato, pochi giorni dopo il taglio dell’outlook cinese da parte dell’agenzia di rating americana Moody’s. Se un tempo bastava astenersi dal parlare di politica, oggi lo spettro dei temi sensibili a rischio censura comprende persino il rallentamento dell’economia cinese.
Il perché è deducibile dall’importanza attribuita al concetto di “guerra cognitiva”. Un termine utilizzato ormai con una certa frequenza dall’intelligence cinese nonché dall’esercito popolare di liberazione (Pla, in ingelse). A febbraio – dopo l’abbattimento del pallone spia cinese negli Stati Uniti – il quotidiano militare Pla daily ha delineato quattro strategie tese a sfruttare i social media come armi di «disturbo dell’informazione». Il messaggio è chiaro: manipolare l’opinione pubblica può rivelarsi una tattica decisiva durante un conflitto. Per Pechino è quindi imperativo non solo imparare come attaccare a colpi di social, ma anche come difendersi.
Alessandra Colarizi
Cina. Sempre meno fiori d’arancio
Il Covid-19, l’invecchiamento della popolazione e il cambio di mentalità tra i giovani. Secondo gli esperti, sono questi i principali fattori che incidono sul continuo calo dei matrimoni in Cina. Stando al China statistical yearbook 2023, pubblicato a novembre dall’Ufficio nazionale di statistica, lo scorso anno solo 10,51 milioni di persone hanno registrato il loro primo matrimonio, 1,06 milioni in meno rispetto al 2021, pari a un calo annuo del 9,16%. È la prima volta che il numero delle persone alla prima esperienza coniugale è sceso sotto gli 11 milioni. Si tratta di un tonfo di ben il 55,9% rispetto al picco massimo del 2013, quando i novelli sposi furono 23,85 milioni.
Complessivamente, 6,83 milioni di coppie si sono sposate nel 2022, un calo del 10,6% rispetto al 2021. Per gli esperti, tuttavia, i dati relativi ai primi matrimoni sono particolarmente importanti in quanto più direttamente collegati al numero delle nascite. Stando alla Commissione sanitaria nazionale, nel 2022 i nuovi nati sono stati appena 9,56 milioni, il livello più basso da quando le autorità hanno cominciato a tenere il conto nel 1949.
Analizzare le cause della diminuzione dei primi matrimoni – ormai al nono anno consecutivo – può quindi servire a definire meglio le politiche demografiche. Innanzitutto, va notata una componente biologica: la popolazione cinese è invecchiata. L’età media dei cinesi continua a salire e così sono sempre meno le persone in età da matrimonio.
Secondo le statistiche ufficiali, nel 2020 i cinesi al primo matrimonio avevano mediamente 28,6 anni, 3,8 anni in più rispetto ai 24,8 anni del 2010. Cambiano, inoltre, le priorità di vita: molti giovani non considerano più il matrimonio e la gravidanza come È una tendenza ormai consolidata. Il triennio pandemico, tuttavia, ha avviato dinamiche inusuali, aprendo spiragli per un possibile miglioramento nel 2023. Complice la tardiva rimozione delle restrizioni anti Covid.
Rimasti in vigore fino al dicembre scorso, i frequenti lockdown hanno indotto molti cinesi a rimandare le nozze di un anno. Che sia così lo confermano le ultime statistiche del ministero degli Affari civili, secondo le quali nei primi nove mesi del 2023, sono stati registrati 5,69 milioni di matrimoni, pari a un aumento annuo di 245mila. Per Peng Peng, presidente della Guangdong society of reform, anche in Cina come altrove la pandemia ha inasprito le disuguaglianze sociali, gettando diversi segmenti della popolazione in una condizione di precarietà. In questo contesto, la vita coniugale può risultare conveniente perché permette alle coppie di mettere in comune le risorse, condividere i costi della quotidianità e ridurre i rischi finanziari.
Se il trend dovesse essere confermato, le coppie a dire di sì alla fine dei dodici mesi del 2023 potrebbero superare il traguardo dei 7 milioni per la prima volta dal 2021. Come diretta conseguenza, i demografi si attendono un breve rimbalzo delle nuove nascite, che dovrebbero tornare ad aumentare nel 2024 per la prima volta in sette anni. Sarà però un’inversione temporanea, a meno che non In risposta al problema della denatalità nell’ultimo anno diverse province e città hanno introdotto politiche ad hoc, da un’estensione del congedo parentale a veri e propri sussidi monetari. Ma il risultato è stato per ora deludente. Un po’ perché le misure non sono sufficienti, un po’ perché il numero di donne in età fertile continua a scendere.
Intervenendo a una conferenza sul tema, a ottobre Ma Liang, docente di public management della Renmin University, ha suggerito che ci sia anche una componente politica. Dopo i tre anni di ferree misure anti Covid, la popolazione più giovane non ha più fiducia nella leadership cinese. Cresciuta nell’era della prosperità, si trova per la prima volta ad affrontare le incertezze di un’economia che cresce a ritmi più contenuti e di un mercato immobiliare perennemente sull’orlo del collasso. Senza grandi prospettive per il futuro, mettere su famiglia, per le nuove generazioni, non sembra più una priorità.
Il prossimo gennaio si svolgeranno le elezioni presidenziali a Taiwan. Il panorama politico è diviso tra chi è più vicino a Pechino e chi spinge per il riconoscimento formale del Paese. Per la prima volta ci sono pure due candidati indipendenti. In ogni caso la Cina e gli Usa guardano al voto con attenzione. Da fronti opposti.
«Se voterò? Ma certo, anche se penso che non cambierà molto». E invece potrebbe cambiare tanto, forse tutto. Stacy, 27 anni, parla sotto il cocente sole estivo di Taipei mentre cammina su Ketagalan Boulevard insieme ad altre migliaia di persone. Sono tutti lì per protestare contro il governo taiwanese. Le motivazioni sono diverse. Lei in particolare chiede la riforma del sistema di edilizia pubblica. «Per i giovani è impossibile comprare una casa», dice.
Di fronte, il palazzo presidenziale costruito dall’architetto Uheji Nagano per ospitare il governatore dell’era coloniale giapponese (1895-1945). Alle spalle, non troppo lontani, Liberty Square e il memoriale di Chiang Kai-shek, capo del partito nazionalista cinese (Kuomintang, Kmt) che si rifugiò a Taiwan dopo aver perso la guerra civile con il Partito comunista di Mao Zedong (1949). Restò al potere fino alla morte, nel 1975, e guidò il regime autoritario nella Repubblica di Cina, nome con cui Taiwan è indipendente de facto. La legge marziale era stata imposta nel 1947 e restò in vigore fino al 1987. Non si poteva votare.
Un voto importante
Il 13 gennaio prossimo, i cittadini dell’isola principale di Taiwan e delle isole minori (da Kinmen alle Matsu, dalle Penghu a Green Island) andranno alle urne per le elezioni presidenziali. Nella prospettiva molto concreta e disillusa di Stacy, chiunque vincerà non risolverà i suoi problemi. Ma in una prospettiva più ampia, il voto taiwanese potrebbe essere il più importante del 2024 a livello mondiale. Può sembrare un azzardo dirlo, soprattutto considerando che a novembre del prossimo anno sono in programma le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Ma la Repubblica popolare cinese, la Cina continentale guidata da Xi Jinping, sa che la postura statunitense le resterà piuttosto ostile, a prescindere da chi sarà l’inquilino della Casa Bianca. L’esito del voto taiwanese può invece cambiare, e di molto, le relazioni sullo stretto (lo stretto di Taiwan, tra l’isola principale e il continente, ndr) viste le nette differenze tra i vari candidati e gli equilibri mondiali potrebbero modificarsi verso un maggior peso della Cina popolare.
«Ho sempre votato per il Dpp (Partito progressista democratico, indipendentista, ndr), ma stavolta ho paura che se vince ancora potrebbe davvero esserci la guerra», dice Tzu-sheng, architetto di 42 anni. «Ho paura che se vince un candidato dell’opposizione ci svendano a Pechino», dice invece Jiaqi, lavoratrice dell’industria dell’intrattenimento locale. Due visioni antitetiche che rimandano al modo in cui i due partiti principali presentano il voto (Dpp, al potere, più lontano da Pechino, e Kmt, opposizione, più vicino, ndr).
Progressisti o nazionalisti?
Si ricorda che Taiwan, pure essendo indipendente de facto, è riconosciuta da soli 13 paesi al mondo, mentre la Cina popolare la considera proprio territorio. Da tempo, il Kmt parla di una «scelta tra guerra e pace». Una definizione lanciata da Ma Ying-jeou, ex presidente e unico leader di Taipei ad aver incontrato un omologo di Pechino (Xi Jinping, nel 2015 a Singapore). Ma anche unico ex presidente a essere andato in Cina continentale, in un significativo viaggio effettuato lo scorso marzo. Proprio mentre l’attuale presidente Tsai Ing-wen (Dpp) effettuava un contestato doppio transito negli Stati Uniti, durante il quale ha incontrato lo speaker del Congresso americano Kevin McCarthy (esautorato lo scorso ottobre, ndr).
Lai Ching-te, attuale vicepresidente e candidato della maggioranza Dpp, parla invece di «scelta tra democrazia e autoritarismo». Il Kmt dice dunque che in caso di nuova vittoria del Dpp si rischia un conflitto sullo stretto. E che sarebbe sostanzialmente provocato da un governo taiwanese incapace di mantenere il dialogo con Pechino. Il Dpp suggerisce invece che in caso di ritorno al potere del Kmt (che non governa dalle elezioni del 2016), Taiwan potrebbe avvicinarsi in qualche modo al modello di Hong Kong, venendo assorbito nella Cina continentale.
Due visioni estreme, che seguono la tradizionale contrapposizione del bipolarismo taiwanese. Un bipolarismo nel quale è impossibile trovare una sintesi, perché la visione è opposta non solo su temi concreti, come le relazioni intrastretto, ma anche sul senso di sé e della propria identità. Sostenere uno o l’altro partito non è solo una scelta politica, ma tocca un livello più intimo che lambisce quello storico culturale.
Una sola Cina
Il Kmt è erede del partito fondato da Sun Yat-sen che governò la Cina continentale fino alla vittoria dei comunisti nella guerra civile (1949). Non solo propone un dialogo più fruttuoso con Pechino, ma continua a vedere Taiwan come parte della Cina. Non la Repubblica popolare cinese, ma la Repubblica di Cina, di cui ormai non restano che frammenti, ma la cui architettura formale e lessicale tutela secondo il Kmt il mantenimento dello status quo. In che modo? Sulla base del cosiddetto «Consenso del 1992», un accordo tra funzionari di Kmt e Partito comunista che riconosce l’esistenza di un’unica Cina ma «con diverse interpretazioni». In sostanza, i due ex rivali della guerra civile nel 1992 riconobbero di far parte tutti di una stessa entità ma senza mettersi d’accordo su quale fosse la sua espressione politica e istituzionale legittima. Un’ambiguità voluta per mantenere in piedi lo status quo, ma che Pechino è sempre stata convinta giocasse a suo favore. Il ragionamento è il seguente: se a Taipei riconoscono che esiste una sola Cina e nel mondo quasi tutti i paesi (tranne 13) riconoscono Pechino come governo legittimo della Cina, prima o poi la riunificazione (o unificazione, come la chiamano a Taiwan) sarà una conseguenza naturale. Questo principio non è però riconosciuto dal Dpp di Tsai. L’attuale presidente è espressione della parte più moderata del partito, quella che non persegue l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan (che segnerebbe una cesura definitiva e inaccettabile per Pechino) ma che sostiene la cosiddetta «teoria dei due stati». In sostanza, Tsai non riconosce che le due sponde dello stretto facciano parte di una «unica Cina» ma si dice aperta al dialogo qualora Pechino non ponga precondizioni e riconosca l’esistenza di due entità non interdipendenti. Da qui l’assenza totale di dialogo politico tra i due governi dal 2016, da quando cioè Tsai è stata eletta per la prima volta. In questi anni, l’ecosistema sullo stretto è molto mutato. Da una parte, Pechino ha operato un’escalation coercitiva su diversi piani. A livello diplomatico, ha portato nove paesi a rompere i rapporti diplomatici ufficiali con Taipei e a stabilirne con la Repubblica popolare. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’Honduras, che proprio alla vigilia della partenza di Tsai per l’America centrale, lo scorso aprile, ha annunciato l’avvio delle relazioni con Pechino. Ma nel mirino ci sarebbe anche il Guatemala.
Il candidato radicale
Lai, membro del Dpp come Tsai e suo potenziale successore, è invece particolarmente inviso a Pechino perché è considerato più radicale. Questo soprattutto per alcune sue dichiarazioni passate, in cui si era raffigurato come un «lavoratore per l’indipendenza di Taiwan». Cosa ben diversa dal riconoscere e dire di voler tutelare la sovranità de facto di Taiwan come Repubblica di Cina, la posizione ufficiale di Tsai e oggi dello stesso Lai che ha molto smussato la sua retorica e le sue esternazioni sulle relazioni intrastretto da quando è vicepresidente.
Ma a Pechino ricordano che nel 2019, il detestato partito di maggioranza fu sull’orlo della scissione per i contrasti tra l’ala radicale di Lai e quella più moderata di Tsai. Ad agosto, anche Lai ha effettuato un doppio transito negli Usa (dal profilo molto più basso rispetto a quello di Tsai) nell’ambito di un viaggio in Paraguay. Si è impegnato a presentarsi in continuità con Tsai, ma poco prima di partire si è lasciato sfuggire il desiderio che il futuro presidente taiwanese potesse entrare alla Casa Bianca. Eventualità che significherebbe un riconoscimento ufficiale incompatibile con lo status quo.
A Pechino queste uscite fanno comodo per descriverlo come «secessionista» nel messaggio rivolto all’esterno per giustificare le proprie reazioni coercitive, anche se sui media di stato c’è chi sostiene che di Lai non si fiderebbero nemmeno gli Usa, in un messaggio stavolta rivolto al pubblico interno e taiwanese.
L’ex poliziotto e il medico
Hou è invece il sindaco di Nuova Taipei, limitrofa alla capitale. Direttore generale dell’Agenzia nazionale di polizia tra il 2006 e il 2008, si riteneva potesse avere simpatie per il Dpp, ma è entrato invece nella fila del Kmt. Il suo passato di uomo di legge e di ordine sembrava piacere a molti, anche se per gli elettori Dpp il fatto che Hou sia stato poliziotto durante e dopo il periodo della legge marziale (1947-1987, vedi cronologia, ndr) è problematico. Molti lo ricordano come l’ufficiale che nel 1989 guidò la carica nell’ufficio di Cheng Nan-jung, un editore indipendentista che si auto immolò nel suo ufficio piuttosto che lasciarsi arrestare.
A complicare le ambizioni di Hou c’è anche un terzo incomodo, molto ingombrante. Si tratta di Ko Wen-je, popolare medico ed ex sindaco di Taipei che da qualche anno ha lanciato il suo Taiwan people’s party (Tpp). Ko propone una terza via rispetto a Dpp e Kmt. Il primo troppo ostile a Pechino, il secondo troppo asservito, dice lui. E quando propone un maggiore dialogo con il Partito comunista, a molti elettori suona più credibile rispetto al Kmt. Questo perché, a differenza di quest’ultimo, non ha il retaggio storico della legge marziale e il senso di appartenenza esplicito alla sfera storico culturale cinese.
Il Tpp sta attuando una campagna molto aggressiva e sembra piacere ai giovani oltre che alla classe imprenditoriale. Aver guidato Taipei è un biglietto da visita importante, nella zona dove gli affari intrastretto sono più intensi. Messo alle strette sul «consenso del 1992», nodo della discordia, se l’è cavata fin qui dicendo che, prima di esprimersi, a riguardo dovrebbe parlare con Xi per capire come lo intende Pechino.
Basterà a vincere? Difficile, se i candidati dell’opposizione resteranno tre, contro il solo Lai, a occupare tutto lo spazio dello spettro «verde», quello più incline al riconoscimento di Taiwan.
L’industriale
Già, perché il Kmt (come già altre volte in passato) si è diviso. Il candidato sconfitto al processo di selezione interno del partito, Terry Gou, è sceso in campo come indipendente. Con l’obiettivo, dice, di unire tutto il campo anti Dpp. Gou è il fondatore e patron della Foxconn, gigante dell’elettronica e primo fornitore di iPhone per Apple. Ma ha anche enormi interessi in Cina continentale, dove si trovano ancora la maggior parte dei suoi impianti. Tra cui quello immenso di Zhengzhou, ribattezzato «iPhone City».
«Non lascerò che Taiwan diventi la prossima Ucraina. Anzi, farò sì che Taiwan superi Singapore nel giro di 20 anni e abbia il più alto Pil pro capite in Asia», sono le due impegnative promesse elargite nella conferenza stampa di agosto in cui ha sciolto la riserva sulla sua candidatura. Il rischio, dunque, è che la discesa in campo di Gou possa ulteriormente frammentare la scelta anti Dpp e favorire lo stesso Lai.
Secondo diversi sondaggi, in uno scenario a quattro candidati (inedito per Taiwan) il vantaggio dell’attuale vicepresidente sembra destinato infatti ad allargarsi. Per avere speranze, Gou dovrebbe raggiungere un accordo con Hou o Ko, oppure con entrambi. Una sua eventuale ascesa alla presidenza non dispiacerebbe a Xi. E, probabilmente, neppure a Donald Trump, che nel 2019 accolse il «vecchio amico» Gou alla Casa bianca, dove il tycoon potrebbe rientrare nel gennaio 2025.
Cosa cambierà
L’esito delle elezioni potrebbe cambiare di molto le dinamiche intrastretto.
È probabile che, dopo il voto, Xi aumenterà il pressing. Militare e strategico in caso di vittoria del Dpp, che per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere (dal 1996) potrebbe vincere per la terza volta consecutiva le presidenziali.
In caso di vittoria del Kmt, invece, il pressing sarebbe politico, per sottoscrivere accordi o ottenere garanzie di rilievo sul riavvicinamento.
«La Cina non rinuncerà al suo obiettivo di unificazione a prescindere che ciò avventa con i negoziati o con la forza. Nei prossimi anni, le relazioni tra le due sponde dello stretto saranno influenzate dalla competizione strategica tra Washington e Pechino, ma anche dalla saggezza e dalla capacità di Taiwan di gestire questa difficile relazione», sostiene Alexander Huang, direttore del dipartimento internazionale del Kmt e suo rappresentante negli Stati Uniti. «Una vittoria del Kmt ridurrebbe in larga misura la tensione attraverso lo stretto, quantomeno nel breve termine», aggiunge. «Sì, ma a patto di cedere pezzi della nostra sovranità de facto», dicono i sostenitori del Dpp. Prospettive e scenari diversi, che possono avere un impatto anche a livello globale.
Lo stretto di Taiwan non è solo una fondamentale via di passaggio delle merci, ma anche uno degli snodi principali del commercio globale. Per non parlare dell’industria strategica dei semiconduttori, di cui Taiwan è la capitale mondiale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.
Secondo alcuni studi, se il G7 sanzionasse la Cina continentale in caso di crisi su Taiwan, l’economia globale perderebbe almeno tremila miliardi di dollari, equivalenti al Pil del Regno Unito nel 2022. Peggio della guerra in Ucraina. Senza contare il rischio di espansione di un ipotetico conflitto con coinvolgimento di paesi limitrofi come il Giappone, o persino degli Stati Uniti in quello che potrebbe diventare un confronto diretto tra le due potenze.
La speranza è che Taiwan diventi, come sostengono tutti i candidati alle presidenziali pur con ricette diverse, un elemento di stabilità nello scenario regionale e globale.
Sì, il 13 gennaio prossimo può cambiare tanto.
Lorenzo Lamperti
Cronologia essenziale
Dai portoghesi alle incursioni di Pechino
Fino al sedicesimo secolo Taiwan è isolata, abitata quasi esclusivamente dalla popolazione indigena.
1544. Arrivano i portoghesi, che le danno il nome di Ilha Formosa. Anche gli spagnoli mettono piede al nord dell’isola.
1622-1662. Presenza olandese sull’isola. È la prima che avvia una modernizzazione di Taiwan.
1662. Gli olandesi vengono cacciati dall’esercito di Koxinga, lealista della dinastia Ming. L’ammiraglio Shi Lang convince dell’importanza strategica di Taiwan lo scettico imperatore Kangxi, che l’aveva definita una «palla di fango».
Dal 1683 Taiwan e le Penghu fanno parte dell’impero Qing come una prefettura della provincia del Fujian.
1885. Taiwan diventa provincia.
1895. I Qing cedono Taiwan e le Penghu all’impero giapponese. I taiwanesi si ribellano e dichiarano indipendenza, stabilendo la Repubblica di Taiwan, la prima repubblica asiatica, ma cinque mesi dopo viene presa dai giapponesi la capitale Tainan.
1945. Con la fine della Seconda guerra mondiale, Taiwan e le isole Penghu vengono consegnate alla Repubblica di Cina, in quel momento governo legittimo della Cina continentale.
1947. Dal cosiddetto «incidente del 28 febbraio del 1947» nasce una grande rivolta contro il governo del Kuomintang (Kmt). I leader e le élite locali vengono massacrati. Inizia l’era della legge marziale e del «terrore bianco».
1949. Chiang Kai-shek perde la guerra civile contro i comunisti di Mao e ripara a Taiwan con esercito e apparato statale del Kmt. Sul continente nasce la Repubblica popolare cinese.
1954-55 e 1958. Prima e Seconda crisi sullo stretto di Taiwan. Si indicano così due crisi militari avvenute nello stretto tra l’esercito della Cina continentale e quello di Taiwan, quest’ultimo appoggiato dagli Usa.
1971. La Repubblica popolare cinese ottiene il seggio alle Nazioni Unite al posto della Repubblica di Cina.
1975. Muore Chiang Kai-shek, il potere passa al figlio, Chiang Ching-kuo.
1979. Gli Stati Uniti avviano relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino e rompono quelle con Taipei, emanando però il Taiwan relations act che stabilisce il sostegno alle capacità difensive taiwanesi.
1986. Inizia la transizione democratica. Viene fondato il Partito progressista democratico (Dpp, sigla inglese).
1987. Abolizione della legge marziale.
1995-1996. Terza crisi sullo stretto. Pechino realizza delle manovre d’intimidazione militare, che sono però un fallimento.
1996. Prime elezioni presidenziali libere. Vince Lee Teng-hui, del Kmt, ma primo di origine taiwanese.
2000. Chen Shui-bian diventa il primo presidente del Dpp. Nel 2009 sarà condannato per corruzione.
2008. Ritorna al potere il Kmt con Ma Ying-jeou. Inizia la grande distensione con Pechino.
2014. Il Movimento dei girasoli occupa il parlamento per protestare contro quello che considera un’eccessivo avvicinamento a Pechino.
2015. Ma Ying-jeou e Xi Jinping si incontrano a Singapore nel primo colloquio di sempre tra i leader delle due sponde dello Stretto.
2016. Tsai Ing-wen, del Dpp, conquista il primo mandato presidenziale e a novembre ha una conversazione telefonica con il neo eletto Donald Trump. Peggiorano le relazioni con la Repubblica popolare cinese.
2020. Tsai Ing-wen conquista il secondo mandato, favorita dall’effetto della repressione di Pechino delle proteste di Hong Kong.
2022. Nancy Pelosi visita Taipei. La Cina avvia imponenti esercitazioni militari intorno a Taiwan.
L.L.
Lo «scudo di silicio»
Scudo di silicio. Oppure montagna sacra che protegge Taiwan. O, ancora, petrolio elettronico. Sono alcuni dei modi con i quali viene indicata la produzione taiwanese di semiconduttori, capitolo sempre più strategico della contesa tecnologica globale.
Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità, assieme a quelli sudcoreani. Se ci fosse una capitale mondiale dei semiconduttori, sarebbe il Science park di Hsinchu. In un’area di 1.400 ettari operano circa 400 compagnie high-tech che generano oltre il 10% del pil e più del 30% dell’export di Taipei. Quando è stato fondato nel 1980, il parco era una landa desolata. Oggi è considerata la Silicon Valley taiwanese. Nessuno può prescindere dal «petrolio elettronico» prodotto a fiumi in questi impianti.
Soprattutto dalla Taiwan semiconductor manufacturing company, Tsmc, che da sola fabbrica oltre il 50% dei chip al mondo. Il suo fondatore è Morris Chang, ultranovantenne che ancora oggi svolge un ruolo di «ambasciatore» di Taiwan in consessi internazionali come i summit dell’Apec (Asia Pacific economic cooperation). Qui, a Bangkok, ha avuto nel 2022 un colloquio con Xi Jinping. In assenza di dialogo politico tra i governi, i colossi dei chip svolgono un ruolo diplomatico tra le due sponde dello stretto.
La stessa Tsmc ha stabilimenti in Cina e i semiconduttori taiwanesi continuano a fluire verso il «continente». Ma da alcuni anni gli Usa stanno provando a recidere quel cordone tecnologico. Tra 2024 e 2025 dovrebbe aprire la prima fabbrica di Tsmc in Arizona, mentre la Casa bianca impone nuove restrizioni per provare a tagliare fuori la Cina dalle catene di approvvigionamento.
Taiwan vorrebbe continuare a esportare verso Pechino. Non c’è solo una motivazione economica, ma anche politica e strategica. Finché i chip taiwanesi sono indispensabili a Xi, questo serve come deterrente a possibili azioni militari. Non è in realtà l’elemento decisivo, e la contesa va ben oltre i chip. Ma intanto, il resto mondo, accortosi della enorme dipendenza sviluppata nei confronti di Taiwan, prova ad accaparrarsi i suoi chip. Rischiando di ammaccare quello scudo di silicio.
L.L.
Dalla repubblica di Cina a Taiwan
In cerca di identità
Nei sondaggi tra gli abitanti dell’isola, aumenta il numero di chi si definisce solo taiwanese, mentre diminuiscono coloro che si sentono solo cinesi. Il governo spinge per rafforzare la narrativa identitaria. Per questo utilizza anche l’intrattenimento e il cinema. È in corso una «taiwanizzazione».
Il pezzo più fotografato è un cavolo di giada. Appena più grande di una mano, era un tempo parte della dote della consorte dell’imperatore della dinastia Qing. Si trovava alla Città Proibita di Pechino. Oggi invece è una delle principali attrazioni del museo nazionale di Taipei, che ospita una collezione permanente di quasi 700mila pezzi. Una delle più grandi al mondo, copre ottomila anni di storia cinese dall’età neolitica fino alla fine dell’impero e alla rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica di Cina. Già, perché il museo nazionale di Taipei è il museo della Repubblica di Cina. Al suo interno, artefatti che a Pechino considerano trafugati perché testimonianze fondamentali della storia cinese di cui la Repubblica popolare si considera unica legittima erede. Tanto che, nell’ottobre 2022, è esplosa una polemica per alcuni incidenti museali a causa dei quali si sarebbero rotte la «tazza da tè gialla con il disegno del drago verde» della dinastia Qing (1636-1911) e una porcellana bianca e blu della dinastia Ming (1368-1644).
Esattamente 305 chilometri a sud del palazzo del museo nazionale di Taipei, nei sobborghi dell’antica capitale di Tainan, sorge invece il museo nazionale della storia di Taiwan. La sua apertura, inizialmente prevista per il 2008, è avvenuta nel 2011 dopo 12 anni di preparativi. Il museo contiene circa 60mila manufatti che ripercorrono le influenze aborigene, olandesi, spagnole, britanniche e giapponesi sull’isola. Qui il centro della storia è appunto Taiwan, non la Cina o la civiltà cinese.
Con buona dose di equilibrismo semantico sugli avvenimenti degli ultimi sette decenni, il percorso espositivo assume un punto di vista diverso sulla storia dell’isola. L’apertura del museo nazionale è un passaggio chiave per capire come si percepiscono le nuove generazioni di taiwanesi.
«Quando andavo a scuola io, studiavamo la storia e la geografia della Cina. Non sapevamo nulla di Taiwan», racconta Pei-yu, 40 anni. «Sui libri dei miei figli invece si parla di Taiwan e la Cina è per lo più percepita come qualcosa di esterno», spiega. L’educazione è un elemento fondamentale. A questo proposito viene in mente quanto dichiarato nell’agosto 2022, in un’intervista, da Lu Shaye, ex ambasciatore cinese a Parigi, che menzionò la necessità di «rieducare» i taiwanesi a «riunificazione» avvenuta.
Sempre più «solo taiwanese»
Se per Chiang Kai-shek i taiwanesi erano «giapponesizzati» dopo i 50 anni di dominio coloniale nipponico, l’attuale Partito comunista cinese è spaventato da quella che definisce «desinizzazione» di oggi.
Se per i taiwanesi di una certa età la distanza con la Cina continentale è soprattutto politica, per quelli più giovani invece la distanza è anche socioculturale. Persino storica e identitaria.
Ogni anno, la National Chengchi University di Taipei svolge due sondaggi sulla questione identitaria. Le scelte messe a disposizione degli intervistati sono tre alla richiesta di autodefinizione: taiwanese, cinese, sia taiwanese sia cinese. Nel 1992, quando cominciarono le rilevazioni, il 25,5% si definiva solo cinese e il 17,6% solo taiwanese, col restante 46,4% taiwanese e cinese. A giugno 2023, il 62,8% si definiva solo taiwanese, il 30,5% taiwanese e cinese, il 2,5% solo cinese.
La forbice si amplia ulteriormente a favore del solo taiwanese nel segmento degli under 25. Ecco il principale timore di Pechino, in passato convinta che il tempo giocasse dalla sua parte: i taiwanesi si stanno allontanando sempre di più dalla Cina continentale. Un processo accelerato dalla democratizzazione avviata negli anni Ottanta.
L’apertura democratica è stata avviata da una negoziazione tra potere e società civile, con i movimenti civili sempre attivi nonostante la dura repressione di Chiang. L’isola principale di Taiwan doveva essere inizialmente una base temporanea nell’attesa di riprendersi la Cina continentale. È qui che si è creata la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han. Una divisione e una tensione intraetnica che ha alimentato la nascita del nazionalismo taiwanese e lo sviluppo di un’identità «altra» rispetto a quella cinese continentale.
La transizione democratica è stata avviata dal figlio di Chiang Kai-shek, Chiang Ching-kuo, in una sorta di ascolto delle istanze sempre vive di attivisti e oppositori. Ma quella vissuta da Taiwan non è stata una semplice democratizzazione del sistema politico, è stato anche l’avvio di una ridefinizione della sua identità. La scelta di Lee Teng-hui, nativo taiwanese, come successore di Chiang Ching-kuo ha rappresentato il punto di congiunzione che ha attenuato la divisione tra waishengren e benshengren.
Dal 2000 il primo presidente del Dpp, Chen Shui-bian, poi condannato per corruzione, ha contribuito a rafforzare l’identità taiwanese, cambiando la denominazione di aziende e luoghi pubblici. Per la prima volta sono stati affrontati pubblicamente gli orrori del «terrore bianco» (come viene chiamato il regime instaurato durante legge marziale, dal febbraio 1947 al 1987, ndr), con conseguente rivalutazione in negativo della figura di Chiang. Oggi, il suo memoriale ospita insieme un’esposizione dei suoi cimeli, una statua in suo onore con due guardie armate e un museo dei diritti umani che racconta la brutale repressione da lui attuata nei confronti degli oppositori.
Diritti civili e cinema
A contribuire al rafforzamento del senso di alterità taiwanese rispetto alla Cina continentale c’è anche l’avanzamento sul fronte dei diritti civili. Una spinta molto forte in tal senso, che ha funzionato anche sul fronte esterno, è stata la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso nel 2019. Proprio mentre partiva la repressione delle proteste di Hong Kong, altro elemento spartiacque che ha allontanato Taiwan dalla Repubblica popolare, convincendo tanti, anche tra i più possibilisti, che il modello «un Paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica non potesse essere accettato.
Il cambiamento lo si vede anche nella produzione cinematografica e televisiva, sul quale il governo taiwanese sta insistendo molto per rafforzare una narrativa identitaria che evidenzi le diversità con la Cina continentale sotto il punto di vista non solo politico, ma anche storico ed etnico-linguistico. Se in passato le produzioni televisive e cinematografiche ad alto budget erano per lo più rivolte a raccontare le vicende delle dinastie dell’impero cinese, o al limite della storia repubblicana (non popolare) cinese, ora si finanziano più volentieri altri tipi di opere. Tra gli esempi più noti c’è Seqalu – Formosa 1867, prodotto dal Taiwan public television service e destinatario di un’imponente campagna pubblicitaria. La serie televisiva, approdata anche su Netflix, è un adattamento del romanzo Lady Butterfly of Formosa di Chen Yao-chang, un ex politico del Dpp.
La sua storia è basata sul naufragio del mercantile statunitense Rover al largo delle coste taiwanesi, avvenuto per aver colpito una barriera corallina nel marzo 1867. Quattordici marinai americani furono uccisi dagli aborigeni taiwanesi per vendetta dopo l’uccisione di decine di membri della tribù Kaolut da parte dei tanti stranieri che erano circolati per secoli intorno all’isola. Incidente dal quale nacque una spedizione militare di Washington appoggiata dalle forze cinesi della dinastia Qing.
Sia il romanzo sia la serie puntano a sottolineare la varietà etnica e culturale di Taiwan. D’altronde lo scrittore Chen dice di essere discendente dei Siraya, una delle popolazioni aborigene dell’isola. Ma sono tanti gli esempi che fanno capire come ci si trovi di fronte a una tendenza ben precisa.
Diversi film degli ultimi anni raccontano storie legate alla comunità Lgbtq+.
Island Nation racconta la transizione democratica di Taiwan dopo la legge marziale. Days we stared at the sun è, invece, incentrato sul movimento dei girasoli che di fatto contribuì alla vittoria di Tsai Ing-wen alle elezioni del 2016 dopo aver occupato nel 2014 per 23 giorni lo yuan legislativo (il parlamento unicamerale taiwanese) per protestare contro un accordo sul settore terziario con Pechino proposto dall’amministrazione Kmt del presidente Ma Ying-jeou. Un’esperienza, quella del movimento dei girasoli, poi parzialmente assorbita dall’amministrazione Tsai e così normalizzata. E in parte disillusa. La recente serie Wave makers descrive invece una campagna elettorale taiwanese senza fare riferimenti alla Cina, e la cattiva gestione di abusi sessuali all’interno di un partito. Da essa è scaturita un’ondata di #MeToo con denunce all’interno di partiti reali (Dpp compreso), istituzioni e mondo dell’intrattenimento.
Taiwan ha, inoltre, annunciato l’obiettivo di diventare un paese bilingue (quantomeno a livello ufficiale) con l’elevazione dell’inglese a lingua ufficiale entro il 2030. Tsai vorrebbe che il mondo vedesse Taiwan come «occidentale, pur se influenzata dalla civilizzazione cinese e formata dalla tradizione asiatica», come ha scritto in un articolo di due anni fa su Foreign affairs.
Raccontare la storia di Taiwan al mondo è diventato un obiettivo primario, come si può notare dalla creazione della piattaforma in lingua inglese TaiwanPlus, lanciata nella seconda parte del 2021.
Taiwanizzazione
Il Dpp non persegue, almeno per ora, una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Consapevole che la mossa porterebbe a una scontata reazione militare di Pechino, ma anche del 40% circa della popolazione che si sente appartenente alla sfera culturale cinese. Intanto, però, prosegue la taiwanizzazione del suo messaggio, a più livelli. Basti pensare al nuovo passaporto che, rispetto al passato, mantiene il nome Repubblica di Cina solo in caratteri cinesi, con il nome Taiwan leggibile in caratteri latini.
Oppure al logo per la festa nazionale del 10 ottobre, che ancora una volta omette il nome Repubblica di Cina, nonostante si tratti della celebrazione di quanto successo nel 1911 con la rivolta di Wuchang che diede vita alla rivoluzione Xinhai: l’inizio della fine per l’impero Qing. Una giornata commemorata anche dalla Repubblica popolare.
Taiwan è un luogo con più livelli di lettura, che ancora si interroga su se stesso. Come la domanda che si pone Momo, la protagonista del romanzo simbolo della letteratura sci-fi queer taiwanese, Membrane di Chi Ta-wei: «Ma il passato che conosco è reale o fittizio?». Un racconto scritto non a caso negli anni Novanta, nel vortice di autoanalisi che ha portato i taiwanesi a osservare le ferite del passato e li ha condotti sulla strada di un complesso processo di ricostruzione identitaria in corso ancora oggi. E a porsi domande le cui risposte non sono mai univoche. Non ancora.
Lorenzo Lamperti
Le diverse strategie per «riassimilare» Taiwan
riprendere L’isola ribelle
Donne e uomini di Taiwan, da oltre 70 anni sono abituati all’ipotesi di un’invasione dal continente. Chi può, si prepara una via di fuga, mentre in città compaiono i cartelli per improbabili rifugi. La strategia di Pechino non è solo militare, bensì molto diversificata. Per il presidente Xi Jinping è solo questione di tempo.
Sono apparsi un poʼ in sordina, ma ci sono. Evacuation shelter (rifugio per lʼevacuazione): 600 metri in quella direzione. Con tanto di mappa, percorso più rapido e numeri di emergenza. In diversi angoli di Taipei sono apparsi questi cartelli di colore verde. Sono entrati in silenzio a far parte del caotico e vibrante arredo urbano. Eppure, pochi vi si soffermano. Quasi nessuno sembra prestare loro attenzione. Lʼipotesi di una guerra a tanti sembra ancora inconcepibile. Anche se qualcuno ha cominciato a prepararsi qualche via di fuga. Un passaporto di Singapore, magari, per facoltosi uomini dʼaffari. Un semplice zaino pronto per le emergenze per chi ha il portafoglio meno fornito.
Da oltre 70 anni i taiwanesi sono abituati a convivere con lʼipotesi di un conflitto. Negli anni Cinquanta, durante le prime due crisi dello stretto, Mao Zedong fece bombardare le isole Kinmen e Matsu, avamposti ancora oggi controllati da Taipei, ma a pochi chilometri di mare dal Fujian (provincia cinese che si affaccia sullo stretto, ndr). Da quelle isole partivano spesso attacchi contro la costa continentale, peraltro con il placet dellʼamministrazione Usa di Dwight Eisenhower.
Fu allora che si svolse lʼunico cambiamento di territorio tra Repubblica popolare cinese e Repubblica di Cina dalla fine della guerra civile, con lʼEsercito popolare di liberazione che si impossessò di Yijiangshan, nelle isole Dachen. Evento rievocato in una celebrazione speciale del Comando del teatro orientale delle forze armate cinesi lo scorso 9 settembre.
Ad agosto 2022, invece, Xi Jinping era riemerso dal conclave estivo annuale del Partito comunista apparendo a Jinzhou, città oggi parte della provincia nord orientale del Liaoning da cui nel 1948 partì la campagna di Liaoshen, decisiva per orientare la guerra civile a sfavore del Kmt di Chiang Kai-shek. Due episodi che sembrano avere un valore simbolico, soprattutto visto che il passaggio di Xi da Jinzhoun è avvenuto nel momento di nazionalismo più aggressivo contro i cosiddetti «secessionisti» taiwanesi dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Come a dire: abbiate pazienza, alla fine lʼobiettivo sarà raggiunto ma ci vuole tempo.
Prove di difesa
Quei cartelli apparsi in diversi angoli di Taipei si sono materializzati anche in risposta alle imponenti esercitazioni militari di agosto 2022. Non tanto perché i taiwanesi le abbiano vissute con panico o particolare tensione. Ma più che altro per la polemica che ne è nata sul lancio di missili da parte dellʼesercito cinese. Alcuni di questi hanno sorvolato lo spazio di Taiwan, senza che il governo desse alcun tipo di allarme o comunicazione, arrivata per prima dalle autorità giapponesi. Circostanza che ha fatto riflettere parecchi, i quali sui social, e non solo, hanno iniziato a lamentarsi di non sapere cosa fare o dove andare in caso di un futuro reale pericolo. Da qui le maggiori condivisioni delle mappe di rifugi, i quali, più che a bunker antiaerei somigliano spesso a scantinati. E da qui lʼampliamento del manuale di difesa civile pubblicato dal governo.
Con la guerra in Ucraina e, ancora prima, il ritiro degli Usa dallʼAfghanistan, lʼesecutivo taiwanese sta provando a cambiare la comunicazione. Fino a qualche anno fa si minimizzavano i rischi nella narrazione interna, ampliandoli invece nella comunicazione verso la comunità internazionale. Ora però in molti a Taipei temono una sottovalutazione da parte dellʼopinione pubblica. Negli ultimi due anni sono nate diverse iniziative di addestramento alla resistenza dei civili, mentre, a livello governativo, è stata approvata lʼestensione della leva militare obbligatoria da 4 a 10 mesi.
Eppure, resta ancora tutta da verificare non solo la capacità, ma anche la volontà dei taiwanesi di combattere. Secondo un sondaggio della Taiwan foundation for democracy del dicembre 2022, oltre il 70% degli intervistati sarebbe disposto a difendere Taiwan. Stime ottimistiche secondo altre rilevazioni.
Altri osservatori come Paul Huang della Taiwanese public opinion foundation mettono in evidenza i problemi di morale allʼinterno dellʼesercito, dove più volte negli ultimi anni sono emerse presunte reti di spionaggio a favore di Pechino, spesso intessute da ufficiali, anche di alto grado, in pensione. Altri ancora in servizio attivo.
Ma cʼè anche qualche vantaggio nella strategia di difesa taiwanese. Intanto, la geografia. «Lʼisola è circondata dallʼoceano, è difficile da raggiungere ed è complicato sbarcare. Ci sono montagne alte. Insomma, lʼeventuale campo di battaglia potrebbe diventare un incubo per chi attacca», sostiene Kuo Yu-jen del National policy research.
Blocco navale
«LʼUcraina è più facile da attaccare, ma Taiwan è più difficile da aiutare», dice Lin Ying-yu dellʼIstituto di studi strategici della Tamkang University. «Un blocco navale potrebbe essere la futura strategia di Pechino». Una sorta di stritolamento che tagli i rifornimenti, porti allʼesaurimento le riserve energetiche e induca allʼapertura di un negoziato politico del grado di autonomia concesso allʼinterno del modello «un paese, due sistemi». Secondo Lin, lʼesercito cinese non ha ancora le capacità per farlo. «Le esercitazioni degli ultimi mesi dimostrano che la modernizzazione militare cinese procede spedita, manca però ancora qualche anno prima di poter sostenere un blocco totale o condurre unʼinvasione su larga scala, che sarebbe comunque solo lʼextrema ratio».
Prima di allora, si continuerà con lʼallargamento della cosiddetta «zona grigia», area non di combattimento, ma nella quale vengono condotte operazioni militari, incursioni, sconfinamenti. In questo caso lungo lo stretto. A preoccupare Taipei non sono solo i mezzi dellʼesercito, ma anche quelli di guardia costiera e marina militare. «Ne arriveranno progressivamente sempre di più», prevede Chieh Chung della National policy foundation. In tal senso, spesso i funzionari taiwanesi sono più preoccupati da manovre meno visibili allʼesterno, ma potenzialmente di maggiore impatto. Un esempio? Le ispezioni a bordo delle navi sullo stretto annunciate durante le esercitazioni dello scorso aprile. Il tutto contestualmente al primo impiego della portaerei (cinese) Shandong al largo della costa orientale, lʼunico lato da cui potrebbero arrivare aiuti esterni. Ecco, se Pechino riuscisse a sostenere un blocco navale prolungato di quella zona potrebbe puntare a trasformare lo stretto in una sorta di mare interno. Prodromi di questo approccio se ne sono avuti più volte negli scorsi mesi, quando le navi cinesi hanno fronteggiato quelle statunitensi o canadesi in transito.
È quella che lʼammiraglio Chen Yeong-kang, ex comandante della marina di Taipei, ha definito «strategia dellʼanaconda», mirata a «stritolare piano piano il nostro centro di gravità per arrivare a un negoziato». Magari prendendo di mira i cavi sottomarini, che portano la connessione internet sullʼisola. Lo scorso febbraio, due cavi sono stati recisi al largo delle isole Matsu. Semplice incidente o test? Non è dato saperlo, ma i lavori di riparazione sono terminati 50 giorni dopo. Ci si immagini la recisione dei cavi che collegano Taiwan al resto del mondo in uno scenario di blocco navale con mancanza di riserve energetiche: difendersi sarebbe tuttʼaltro che semplice.
Taiwan sta provando a capire come sviluppare un sistema satellitare autonomo, visto che la fiducia in Starlink è quasi inesistente per gli stretti rapporti di Elon Musk con la Cina e per le sue esternazioni su Taiwan.
Guerra normativa
Alessio Patalano del Kingʼs College ha spiegato, durante un recente intervento pubblico a Taipei, di ritenere più probabile un ipotetico «decapitation strike» che unʼinvasione su larga scala o un blocco navale. Vale a dire unʼoperazione di commando speciale volta a eliminare i leader politici e le autorità istituzionali taiwanesi.
Pechino potrebbe usare anche altre tipologie di armi. A partire da quelle normative. Lo scorso aprile, ad esempio, si è saputo che per la prima volta un cittadino taiwanese sarà processato per secessionismo. Si tratta di Yang Chih-yuan, attivista di 33 anni arrestato lo scorso agosto a Wenzhou, nella Cina continentale, subito dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Allora era apparsa una chiara ritorsione per lʼincontro fra Pelosi e Lee Ming-che, altro attivista taiwanese che aveva passato qualche anno nelle carceri continentali. Dopo quasi nove mesi, la Procura suprema del popolo di Pechino ha comunicato lʼincriminazione di Yang. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sullʼindipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito nazionalista di Taiwan, che persegue una dichiarazione di indipendenza formale e lʼadesione di Taipei alle Nazioni Unite. Attività svolte oltre un decennio fa a Taiwan, ma che ora possono costare a Yang da 10 anni allʼergastolo. Le accuse a Yang mostrano la volontà di Pechino di dare una base legale alla sua pretesa di sovranità su Taiwan.
Taiwanesi sul continente
Nonostante una netta diminuzione dallʼinizio del Covid, i taiwanesi che vivono e lavorano sullʼaltra sponda dello stretto sono ancora più di un milione. Vicende come quella di Yang possono avere un impatto anche più profondo delle manovre militari sullʼopinione pubblica taiwanese.
Ci sono poi le liste nere dei «secessionisti», che puntano non tanto a colpire il singolo individuo o politico, quanto lʼintreccio tra figure sgradite a Pechino e il mondo imprenditoriale dell’isola. Emblematica la vicenda del conglomerato taiwanese Far eastern group, operativo da diversi anni in Cina continentale e destinatario di una maxi multa e minaccia di esproprio per aver cofinanziato un evento a cui era intervenuto uno dei politici nella blacklist. Il patron dellʼazienda si è sentito in dovere di mandare una lettera aperta ai media in cui spiegava di essere contrario allʼindipendenza. Stesso concetto applicato nella vicenda di Wu Rwei-ren, il primo taiwanese accusato con la legge di sicurezza nazionale entrata in vigore a Hong Kong nel 2020. Nessun istituto universitario o accademico taiwanese ha firmato lʼappello dellʼAcademia Sinica a sua difesa. Lʼaccusa non avrà conseguenze dirette su Wu finché resterà a Taiwan, ma può impattare sul lavoro di altri accademici che potrebbero pensarci due volte prima di occuparsi di temi delicati.
Cʼè poi il fronte economico. Lʼeconomia taiwanese è entrata in recessione, quantomeno nella prima parte del 2023. Pesa soprattutto il rallentamento dellʼexport a causa di una domanda indebolita, compresa quella della Cina continentale che rappresenta sempre il primo mercato di destinazione delle esportazioni taiwanesi. Negli scorsi mesi, Pechino ha preso di mira lʼesportazione di mango dall’isola. Prima era toccato alle cernie, agli ananas e persino al kaoliang, il celebre liquore di sorgo bevuto da Xi e Ma Ying-jeou nello storico incontro di Singapore del 2015. E alimentare la paura di un conflitto, come dimostra il ritiro degli investimenti su Taiwan di Warren Buffett, potrebbe persino legare lʼeconomia taiwanese ancora di più a quella di Pechino.
Una donna di mezza età si ferma a osservare uno di quei cartelli verdi apparsi in diversi angoli di Taipei. Spinge un passeggino. Poi parla con il compagno di dove andare a cena nel fine settimana. Ma nella mente, forse, una traccia di quel cartello verde resta.
Lorenzo Lamperti
I cristiani sull’isola
C’è una sola entità statuale europea a intrattenere relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica di Cina, Taiwan. Si tratta della Santa Sede. La presenza del cattolicesimo a Taiwan affonda le radici nella piccola colonizzazione spagnola. Oggi, i cristiani rappresentano una fetta non trascurabile del 3,9% circa della popolazione taiwanese. I protestanti sono quasi il doppio dei cattolici. Solo buddhismo e taoismo contano più fedeli, in un panorama religioso frastagliato e originale, anche grazie allo storico incontro tra le credenze delle popolazioni aborigene, di origine austronesiana, e la prima grande immigrazione dei cinesi di etnia Han. Sul territorio taiwanese ci sono poco meno di tremila chiese. Chiang Kai-shek e Chiang Ching-kuo erano metodisti, Lee Teng-hui è stato membro della Chiesa presbiteriana, che ha forti legami con il Dpp fin dagli anni Ottanta. I rapporti tra Taipei e la Santa Sede non sono mai stati in discussione, con la presenza di un’ambasciata e di una nunziatura nei rispettivi territori. Negli ultimi anni, i tentativi di dialogo tra papa Francesco e il Partito comunista cinese hanno messo in dubbio il futuro di queste relazioni. Ma la chiesa mantiene una presenza importante anche dal punto di vista sociale, giocando pure un ruolo nella raccolta e nell’invio di aiuti sanitari in Italia durante la pandemia di Covid-19. Sono numerosi i progetti condotti a Taiwan dai preti e suore camilliani.
I missionari della Consolata, sono presenti dal 2014 nella diocesi di Hsinchu, oggi in due comunità*.
L.L.
* Prossimamente racconteremo in modo approfondito il lavoro di Imc a Taiwan.
Hanno firmato il dossier:
Lorenzo Lamperti
Giornalista professionista, è direttore editoriale di «China Files», scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi. Vive e lavora a Taipei, Repubblica di Cina / Taiwan. Ha già collaborato con MC scrivendo su vari paesi. In particolare: Taiwan, vento europeo sullo stretto, luglio 2022.
a cura di Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale MC.
Foto del dossier
Le foto del dossier, se non specificato diversamente, sono di Lorenzo Lamperti.
La Cina è latina
Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.
La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.
Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.
La via della seta
Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.
Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.
Aziende cinesi in America Latina
La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.
La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.
«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.
La «nuova Africa»
Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.
Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.
Taiwan
Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.
Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.
Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.
Questione di sicurezza
Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.
Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.
A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici. Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.
Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).
Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.
«Fratellanza Sud-Sud»
Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.
Nuovo ordine mondiale
Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.
Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.
Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.
Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.
Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.
Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.
A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.
C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.
Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.
Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.
A.C.
La Russia in America Latina. Le mosse dello zar
La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina?
Le relazioni tra Russia e America Latina hanno radici profonde, non sono cioè limitate ai primi decenni del XXI secolo. Gli immigrati russi comparvero per la prima volta in Sud America e nei Caraibi all’inizio del XIX secolo. Si trattava di ondate migratorie costituite in gran parte da lavoratori provenienti dalla parte europea dell’Impero russo e, in misura minore, dalle file dell’opposizione politica delle province baltiche, dalla Polonia e dall’Ucraina occidentale. Posteriormente, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, un piccolo numero di russi in fuga dal regime comunista scelse la regione latinoamericana come luogo di esilio volontario.
Tra questi è doveroso ricordare il caso di Lev Davidovich Bronstein, meglio conosciuto come León Trotsky. Quello che fu il promotore della rivoluzione permanente terminò i suoi giorni a Città del Messico (il 21 agosto 1940), ucciso da Ramón Mercader (agente segreto spagnolo naturalizzato sovietico) su ordine di Stalin.
Trotsky visse i suoi ultimi anni in Messico da rifugiato grazie all’asilo politico che gli venne concesso dall’allora presidente messicano Lázaro Cárdenas e fu circondato dall’affetto di figure iconiche della storia della regione quali Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera (entrambi pittori di grande fama, ndr).
La seconda ondata di migrazione russa in America Latina si verificò dopo la Seconda Guerra mondiale. Era formata in gran parte da cittadini sovietici che vivevano nel territorio liberato dagli alleati occidentali, persone che non volevano tornare in Unione Sovietica. In questo modo si ampliò la presenza della diaspora nella regione, in particolare in Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela, gettando le basi per importanti scambi culturali tra la Russia e i paesi delle Americhe, connessione oggi vitale per le politiche e per l’influenza russa nella regione.
Dalla guerra fredda a Vladimir Putin
Durante la Guerra fredda (12 marzo 1947 – 26 dicembre 1991) anche la regione latinoamericana fu teatro dello scontro multilivello delle due superpotenze, terreno di lotta ideologica e indirettamente anche militare, nel quale l’Urss mantenne stretti legami con Cuba e con il Nicaragua. L’influenza sovietica ebbe un ruolo importante per creare un’alternativa all’egemonia esercitata dagli Stati Uniti d’America in una regione che, per molto tempo, fu considerata il giardino di casa («patio trasero») degli Usa.
Con la dissoluzione dell’Urss (dicembre 1991) e il lungo processo di riassetto politico, economico, sociale e diplomatico che ne seguì, la Russia perse molto peso sulla scena internazionale, anche nei confronti del paesi latinoamericani, Cuba in primis.
Agli inizi degli anni Novanta, il Paese, che oggi occupa più di due terzi del territorio della vecchia Urss e comprende metà della sua popolazione, aveva un volume di scambi commerciali con l’America Latina ridotto all’osso.
Dalla seconda metà degli anni Novanta la situazione iniziò a migliorare con un riavvicinamento e rafforzamento delle partnership strategiche, una ripresa del commercio e il susseguirsi di visite reciproche dei capi di stato. La vera svolta avvenne però nell’anno 2000 con il cambio dello scenario politico all’interno della Russia e l’arrivo ai vertici del potere di Vladimir Putin.
Già nell’agosto del 1998, come capo del governo, l’uomo aveva guidato la seconda guerra cecena diventando uno dei politici più popolari della Federazione russa. Successivamente, quando Boris Eltsin annunciò le sue dimissioni il 31 dicembre 1999, in conformità con la Costituzione, Putin diventò presidente ad interim iniziando una leadership che lo vede ancora oggi come l’uomo più potente e temuto della Russia.
I piani dello zar
L’arrivo dell’ex agente del Kgb al Cremlino ha cambiato completamente il posizionamento della Russia a livello globale e questo ha avuto effetti importanti anche sulla regione latinoamericana.
Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 (Munich security conference, spazio internazionale che si tiene annualmente dal 1963) Putin ha confutato la narrazione di un mondo «unipolare» sotto il protagonismo e l’egemonia degli Usa e della Ue, aprendo la porta a nuove interpretazioni ed equilibri di potere. L’anno prima, infatti, il 20 novembre 2006, si era tenuta la prima riunione dei Brics, acronimo di un’associazione economico-commerciale tra le cinque economie nazionali emergenti che, nel decennio del 2000, erano le più promettenti del mondo.
Si tratta del gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (quest’ultimo unitosi nel 2011) che si pone come contrappeso all’autoreferenzialità occidentale e che esplora misure alternative di commercio inter-
nazionale, ad esempio la possibilità di non utilizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale.
Putin si è proposto, dunque, come un portabandiera di un mondo «multipolare» ricollocando la Russia (che è anche membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu con potere di veto) come protagonista nello scenario internazionale.
Le parole di Monaco del 2007 sono diventate «reali» con la guerra in Georgia del 2008 e con l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e le conseguentii sanzioni economiche che hanno diviso la comunità internazionale.
Proprio le sanzioni economiche imposte dall’Ue dopo i fatti di Crimea hanno spinto Mosca ad accelerare la ricerca di alleati sia a livello diplomatico che livello commerciale. È in questo contesto che l’America Latina è tornata al centro degli interessi russi e dove paesi come Uruguay, Argentina e Brasile hanno iniziato a sostituire i «vecchi» partner commerciali europei per l’esportazione di frutta, verdura e carne verso la Russia.
La strategia del vaccino
Con l’inizio del nuovo secolo, la Russia guidata da Vladimir Putin ha ripreso a guardare con interesse all’America Latina , espandendo la sua presenza commerciale e tessendo importanti alleanze con governi sia di destra che di sinistra. Armi, gas e petrolio sono stati il principale «grimaldello» con il quale è iniziata questa nuova era delle relazioni russo-latinoamericane, una dimensione che però molto presto ha acquisito un carattere più geopolitico, in opposizione alle azioni sanzionatorie di Washington nei confronti della Russia. La politica estera russa ha così creato un’area di intervento multisettoriale nella regione latinoamericana, promuovendo relazioni commerciali ed econo-
miche, insieme a una cooperazione tecnica, militare e sanitaria.
Nello scenario creato dalla pandemia da Covid-19, la Russia ha infatti giocato un ruolo da protagonista aumentando la sua proiezione regionale grazie alla strategia di approvvigionamento del suo vaccino Sputnik a diversi paesi dell’area come Argentina, Bolivia, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama e Venezuela.
I megafoni di Rt e Sputnik
A questo si aggiunge la diffusione massiccia di narrazioni favorevoli a Mosca attraverso la forte presenza nella regione di mass media russi come Russia today (Rt) e l’agenzia di stampa Sputnik. Questi sono megafoni potenti che permettono al Cremlino e a Putin di mettere in discussione, nei paesi latinoamericani, il modello democratico targato Stati Uniti d’America e Unione europea.
Nel corso degli anni, sono proprio quei paesi che hanno intrapreso cammini fuori dagli argini dello stato di diritto – Cuba, Nicaragua e Venezuela – ad avere instaurato legami molto stretti con Mosca. Rappresentano i primi alleati di Putin, paesi nei quali le narrazioni utilizzate dagli organi di stampa russi sono sostenute e ripetute acriticamente, compresa quella sull’invasione dell’Ucraina. Questi tre stati rappresentano oggi terreno di scontro politico e ideologico per le stesse sinistre della regione (come, ad esempio, il Venezuela, appoggiato dal brasiliano Lula ma criticato dal cileno Boric).
A questi stati la Russia ha offerto aiuti politici, economici e finanziari in cambio del loro sostegno a livello internazionale per rafforzarel’opposizione all’influenza degli Usa in America Latina.
In Nicaragua si assiste a continue esercitazioni militari, marittime e aeree, allo sviluppo di centri di addestramento militare o di sistemi di monitoraggio satellitare come «La Gaviota», tutto sotto il controllo operativo-amministrativo della missione diplomatica russa.
Con il Venezuela esistono più di venti accordi bilaterali di cooperazione militare, scambio di personale e di addestramento, mentre con Cuba la collaborazione à ancora più estesa e comprende anche varie aree di influenza nel commercio, negli investimenti e negli aiuti umanitari. Sempre a Cuba, da marzo 2023 è possibile usare carte di credito russe negli sportelli dell’isola e a maggio tre banche russe hanno presentato le richieste necessarie per aprire succursali nel paese caraibico: in relazione a ciò si specula che presto L’Avana accetterà pagamenti anche in rubli.
Rt e Sputnik sono oggi, dunque, un importante volano degli interessi russi in America Latina, trovando il plauso delle sinistre più radicali e più in generale delle forze illiberali dello spettro politico latinoamericano.
Chi commercia con Mosca
La generazione di consenso che ne deriva rende gli accordi economici e militari tra i paesi latinoamericani e la Russia politicamente molto più agevoli e accettabili da parte delle opinioni pubbliche nazionali. Tra questi spicca la cooperazione militare, dove l’industria bellica russa gioca un ruolo di primo piano.
Oltre a Cuba, Nicaragua e Venezuela si sono rafforzati negli ultimi anni i legami con i governi di Nayib Bukele nel Salvador, Alberto Fernandez in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile (che, a gennaio 2023, ha lasciato il posto a Lula) e Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico. Questi ultimi tre paesi rappresentano i mercati più importanti per la Russia in America Latina e nel caso particolare di Brasile (membro dei Brics) e del Messico (membro del G20) parliamo di esportazioni vitali per l’economia di Mosca, come zucchero di canna, semi di soia, caffè, carne, birra, apparecchi meccanici, autovetture, e telefoni. Un commercio bilaterale che ha visto un notevole aumento nel XXI secolo e con l’era Putin, dove tra tutti spicca il Brasile, paese che mantiene con la Russa il più grande flusso di importazioni e di esportazioni di merci di tutta l’America Latina. In totale, nel 2020 il Brasile ha importato beni per un valore di 2,9 miliardi di dollari dalla sua controparte russa e ha esportato un valore di 1,5 miliardi di dollari, essendo i fertilizzanti i prodotti con il più alto valore di importazione. Il fiorente commercio con l’economia più grande dell’America Latina (il Brasile ha fatto registrare nel 2022 un Pil di 1.900 miliardi di dollari ed è l’undicesima economia mondiale, proprio dietro all’Italia) è dunque uno dei pilastri della proiezione russa nel continente. Considerando inoltre che, proprio ad aprile 2023, l’ex presidentessa brasiliana Dilma Rousseff ha assunto la guida della Nuova banca di sviluppo (New development bank, Ndb) dei Brics.
La crescita esponenziale della Cina
L’America Latina però è una regione estremamente eterogenea nella quale l’appeal russo non si espande in modo uniforme in ogni contesto nazionale.
I forti legami commerciali con Brasile e Messico e i legami politico finanziari con Cuba, Nicaragua e Venezuela (che hanno potuto godere di ingenti prestiti, donazioni e lucrosi affari con le aziende russe) hanno creato un gruppo di paesi «di appoggio» che hanno sostenuto Putin durante l’ultimo anno, astenendosi dal votare all’Onu contro la Russia per la guerra in Ucraina.
Basti ricordare, infatti, la posizione ambigua, quando non dichiaratamente opportunista, assunta nella votazione sull’espulsione del paese dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, durante la quale Messico, Brasile ed El Salvador si sono astenuti, mentre Nicaragua, Cuba e Bolivia hanno votato contro (7 aprile 2022).
Il fatto che la Russia non sia riuscita a generare una completa area di influenza diplomatica ed economica in America Latina è però dovuto anche alla Cina, le cui relazioni commerciali con la regione sono cresciute in modo esponenziale.
Basti pensare che Pechino ha assegnato ad Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela il massimo livello di cooperazione strategica e che la Banca cinese di sviluppo è uno dei principali investitori in progetti di costruzione di infrastrutture nella regione.
La Russia mantiene, però, un potere geopolitico importante in America Latina, dove la sua industria bellica fornisce armi a diversi governi (Venezuela su tutti) e dove continua a mantenere un grado di impegno mediatico e diplomatico ad alta intensità. A livello geostrategico però il suo peso economico è molto inferiore a quello della Cina, suo partner politico ma, appunto, rivale in America Latina.
Visioni del mondo
Russia e Cina condividono una visione «multipolare» del mondo, una visione cioè che vuole contrastare la leadership e l’egemonia statunitense. Tralasciando la spinosa questione della guerra russa contro l’Ucraina, questa visione è anche quella di buona parte dei governi progressisti della sinistra latinoamericana: in questo senso l’America Latina risulta una regione strategica per il conseguimento di questo obiettivo.
La convivenza nella regione degli interessi di due giganti come Russia e Cina rappresenta una grande sfida, considerando anche e soprattutto la necessità dei nuovi governi e delle nuove leadership dei paesi latinoamericani, più o meno allineati con la narrazione di Washington e della Ue, di trovare un proprio spazio di manovra politica ed economica.
Diego Battistessa
Prossimamente su MC: la Cina in America Latina.
La Russia e i Brics: il multilateralismo delle dittature
Con sulla testa un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale (Icc), Vladimir Putin ha preferito non recarsi alla tre giorni del XV Brics Summit, tenutosi a Johannesburg, in Sudafrica dal 22 al 24 agosto scorso. Si è, pertanto, limitato a inviare un discorso preregistrato di 17 minuti. In esso il leader del Cremlino si è concentrato soprattutto sull’«operazione speciale» in Ucraina e sulle cattiverie dell’Occidente verso l’incolpevole Russia, non cambiando di una virgola il suo ormai consueto canovaggio di bugie e ossessioni.
Al vertice sudafricano erano presenti gli altri quattro leader dei Brics (acronimo dei cinque paesi aderenti all’alleanza): il cinese Xi Jinping, l’indiano Narendra Modi, il brasiliano Luiz Inacio Lula e Cyril Ramaphosa, presidente del paese ospitante.
Attualmente, i paesi Brics rappresentano oltre il 42% della popolazione globale, il 30% del territorio mondiale, il 23% del Pil e il 18% del commercio internazionale. Numeri già importanti che aumenteranno con il prossimo allargamento del gruppo.
Al Summit sudafricano è stata, infatti, annunciata la lista dei nuovi membri: dal primo gennaio 2024, dovrebbero entrare Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Argentina. Insomma, come si può capire, tanti paesi con un pedigree dittatoriale, Iran e Arabia Saudita in testa.
Perché – allora – tanti aspirano a entrare in questa alleanza? La risposta principale è talmente ovvia da apparire semplicistica: per le opportunità di sviluppo economico che, aderendo, si potrebbero aprire. Si pensi, ad esempio, ai vantaggi per il Brasile di Lula o per un’Argentina sull’orlo del suo ennesimo fallimento economico.
Con la Russia impegnata nella guerra, oggi i Brics sono una creatura dominata dalla Cina, seconda potenza economica mondiale in competizione con gli Usa. Anche a Johannesburg il vero vincitore è stato Xi Jinping, che ha blandito molti paesi, soprattutto africani (dove Pechino ha da tempo piantato le proprie bandiere). Il leader cinese ha anche incontrato Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, paese che, pur non avendo mai smesso la persecuzione nei confronti dei dissidenti, è stato accolto nei Brics. Come per l’aggressione russa all’Ucraina, anche davanti alla repressione di Tehran, Pechino chiude gli occhi. D’altra parte, i cinesi sono i primi a non voler parlare di democrazia e diritti umani avendo i loro problemi in Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan.
Che il capitalismo occidentale abbia prodotto e produca troppe ingiustizie (economiche, sociali e ora anche ambientali) è fatto indubitabile e non più tollerabile. Che l’alternativa sia un modello multilaterale guidato da una o più dittature è però una toppa peggiore del buco.
Paolo Moiola
India. A Delhi, promesse e gaffe
Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.
Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.
«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.
Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.
Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.
Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.
Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».
Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.
Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.
A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».