Le traduzioni ci sono (ma non per i cinesi)


L’accordo tra Pechino e Vaticano sulle nomine vescovili è stato prolungato per altri quattro anni. A che punto sono le relazioni tra i due soggetti? E come stanno i cattolici cinesi? Lo abbiamo chiesto al professor Sisci.

«La Santa Sede e la Repubblica popolare cinese, visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna. La Parte vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese».

Così recita l’annuncio del Vaticano del 22 ottobre dello scorso anno.

Si tratta del proseguimento di un rapporto iniziato nel settembre del 2018 quando il governo cinese e le autorità vaticane siglano un accordo provvisorio sulle nomine vescovili. L’intesa non solo pone fine a decenni di ordinazioni episcopali avvenute senza il consenso papale, annullando la distinzione tra «Chiesa ufficiale» e «Chiesa clandestina», ma ricongiunge anche la comunità cattolica cinese, che conta tra sei e dodici milioni di fedeli (cfr. MC marzo).

Il significato simbolico è rilevante: per la prima volta, Pechino riconosce l’autorità religiosa del Papa in Cina, una concessione che, in epoca imperiale, i missionari gesuiti non ottennero mai.

Da quella firma a oggi sono state annunciate una decina di nomine e consacrazioni vescovili congiunte, oltre all’ufficializzazione del ruolo pubblico di alcuni presuli prima non riconosciuti da Pechino.

La crescente collaborazione è testimoniata anche dalla presenza di vescovi cinesi ai Sinodi in Vaticano e ad altri appuntamenti in Europa e America. Nonché dall’interesse della Santa Sede a cooperare con Pechino per riportare la pace in Ucraina. Nonostante i progressi, tuttavia, «rimangono tanti problemi, piccoli e grandi».

Quali siano ce lo spiega Francesco Sisci, sinologo, autore e ricercatore senior presso la Renmin University di Pechino.

Nel 1988, Sisci è stato il primo straniero a essere ammesso alla facoltà di specializzazione dell’Accademia cinese delle scienze sociali (Chinese academy of social sciences, Cass), il principale think tank cinese.

Collaboratore di diverse riviste e istituti di ricerca, nel 2016 ha realizzato la prima intervista al Papa sui rapporti con la Cina, ripresa ampiamente anche sulla stampa cinese. Storico editorialista del Sole24ore, scrive per Asia Times ed è ospite abituale della Cctv (China central television), la televisione di Stato cinese, nonché dell’emittente di Hong Kong, Phoenix tv. Il suo ultimo libro è «Tramonto italiano» (Neri Pozza, 2024).

Immagine notturna della cupola di San Pietro, in Vaticano. Foto Jerome Clarysse – Pixabay.

Tra Pechino e Taiwan

Professor Sisci, l’accordo sulle nomine vescovili, già prolungato nel 2020 e nel 2022, è stato rinnovato lo scorso 22 ottobre non per i soliti due anni ma per altri quattro. Come interpreta questa scelta?

«Il prolungamento a quattro anni vuol dire, palesemente, che il rapporto è migliorato. La situazione è migliore, però non è ottimale. C’è una fiducia crescente che ha dato dei frutti: ovvero la nomina congiunta di alcuni vescovi. Non c’è stato un accordo risolutivo, conclusivo, né sono stati appianati tutti i problemi. Diversi vescovi nominati e riconosciuti a suo tempo dal Papa, non sono stati riconosciuti dal governo cinese. Rimangono poi tante altre questioni, piccole e grandi.

Ad esempio, resta insoluto il tema delle diocesi, così come il problema della conferenza episcopale. Soprattutto il Vaticano continua a chiedere di poter aprire una rappresentanza permanente a Pechino. Non un’ambasciata, bensì una rappresentanza, un ufficio culturale. Così come c’è una rappresentanza a Hong Kong che dipende dalla Nunziatura di Manila. Quindi, questo è uno dei punti in sospeso. Credo ci voglia tempo anche perché ci sono tante preoccupazioni da parte di Pechino per migliorare di più i rapporti».

Tra queste preoccupazioni figura anche Taiwan? A oggi, il Vaticano è uno dei soli dodici Stati a riconoscere ufficialmente il governo di Taipei, che Pechino definisce «separatista».

«No, perché se il problema fosse Taiwan, allora per il Vaticano il problema non esisterebbe. La Santa Sede sarebbe pronta ad aprire un ufficio a Pechino domani. È Pechino che non vuole».

Il professor Francesco Sisci durante un intervento alla televisione cinese Cctv.

La lettera di Benedetto XVI

Oltre ai rapporti istituzionali tra Pechino e il Vaticano, l’accordo sulle nomine vescovili ha portato benefici anche per la comunità cattolica cinese? C’è stato un periodo, intorno al 2014, in cui chi si dimostrava fedele al Papa – la cosiddetta «Chiesa sotterranea» – incorreva in non pochi problemi. Inoltre, nel Sud della Cina diverse chiese sono state demolite o private delle croci. Di tutto questo non si parla più da tempo.

Papa Benedetto XVI

«Stiamo parlando di due cose diverse: una sono le chiese come edifici, l’altra è la Chiesa come comunità di cattolici. Quella della “Chiesa sotterranea” era una denominazione che è durata – grossomodo – fino al 2007, cioè fino alla lettera di Benedetto XVI ai cinesi. Con la lettera il problema viene risolto de iure, perché il Papa incoraggia i cattolici cinesi a essere buoni cattolici, ma anche buoni cittadini. Quindi, per la prima volta, riconosce l’esistenza del governo di Pechino, mettendo fine a una questione molto antica che risaliva al 1951. Ovvero a quando l’ultimo nunzio del Vaticano, Antonio Riberi – che riconosceva il governo nazionalista del Kuomintang – venne espulso da Nanchino perché si era rifiutato di trasferirsi a Pechino (sede del governo comunista istituito da Mao alla fine della guerra civile, ndr).

Con il riconoscimento del governo della Repubblica popolare da parte di Benedetto XVI la “Chiesa clandestina” non aveva più ragione d’essere, perché veniva chiesto a tutti di seguire le leggi cinesi. Poi, con l’accordo sulle nomine episcopali del 2018, si è cominciato più seriamente a lavorare per riunificare la Chiesa.

Certo, come dicevamo, ci sono ancora dei vescovi nominati da Roma che non sono stati riconosciuti da Pechino. Però, non sono “clandestini”(*). Sono semplicemente riconosciuti come preti e non come vescovi. Anche perché, per la legge cinese, il riconoscimento di un vescovo significa che le proprietà della diocesi del luogo vengono intestate al vescovo che è il rappresentante legale della diocesi. Quindi, ci sono una serie di problemi di diritto e amministrazione un po’ come succede anche da noi per certi versi.

Per quanto riguarda invece le chiese intese come edifici, c’è stata una campagna che ha visto abbattere alcune croci e alcuni edifici. Però, che io sappia, questa fase è finita, non c’è più».

Anche grazie all’accordo sulle nomine episcopali?

«Credo che la campagna delle demolizioni si sia conclusa molto prima dell’accordo, che è stato raggiunto solo nel 2018».

Quindi, non le risulta che attualmente ci sia ancora una stretta sulla comunità cattolica?

«In generale c’è una stretta sulla Cina, c’è una stretta sui cinesi. I cattolici sono sottoposti a un trattamento particolarmente sfavorevole? Non credo. La Cina sta attraversando un momento particolare e i cattolici cinesi si trovano ad affrontare questo momento particolare come tutti gli altri cinesi. Non sono vessati né come i tibetani né come gli uiguri, per intenderci».

L’uso del mandarino: ma per chi?

Dal 4 dicembre 2024 l’udienza generale del Papa viene tradotta anche in cinese. Come interpreta questa decisione? A chi si rivolge il pontefice, ai cinesi all’estero o a quelli in Cina?

«Che l’udienza non fosse tradotta in cinese era una cosa strana. Il mandarino è una delle sei lingue principali dell’Onu. I tweet del Papa da sempre sono tradotti in 22 lingue, tra cui il cinese che è anche tra le 53 lingue in cui viene trasmessa Radio Vaticana. Come nel caso dell’Onu, tutto quello che viene tradotto in cinese di solito non arriva in Cina, se non attraverso Vpn (collegamento internet che permette di aggirare la censura, ndr)».

La distensione tra Cina e Santa Sede è riscontrabile anche nel crescente allineamento diplomatico su questioni di interesse internazionale.
Nel settembre 2023 il cardinale Matteo Zuppi è stato in Cina, quarta tappa della missione per la pace in Ucraina che Bergoglio gli aveva affidato. Il porporato ha incontrato il responsabile cinese per l’Eurasia, Li Hui, in «un clima aperto e cordiale». I due hanno discusso della guerra e delle sue drammatiche conseguenze, sottolineando «la necessità di unire gli sforzi per favorire il dialogo e trovare percorsi che portino alla pace». Quell’incontro ha avuto degli sviluppi?

«La comunicazione con la segreteria di Stato continua. Zuppi però era andato in Cina con un tema specifico, non per parlare di questioni bilaterali. Era andato per parlare di donne e bambini ucraini. Quindi della situazione umanitaria collegata alla guerra. Questo era lo scopo del viaggio, né più né meno. Non ho informazioni più recenti sulle interlocuzioni con la Cina, ma il Vaticano è ancora molto impegnato a livello diplomatico».

Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano. Immagine Wikimedia.

Il Vaticano è anche sempre più impegnato in Asia. Tempo fa lei scriveva che questo protagonismo della Santa Sede coincide con il declino delle istituzioni del secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite presso cui i paesi asiatici sono sottorappresentati. Secondo lei, è un’evoluzione dovuta semplicemente al contesto internazionale attuale, qelle dinamiche mondiali? Oppure questo interesse per l’Asia nasce da un impulso personale di papa Francesco?

«Entrambe le cose. Mi sembra di sì, mi sembra ci sia stato un impulso personale. Probabilmente incoraggiato anche dal segretario di Stato Pietro Parolin. D’altro canto, Francesco voleva fare il missionario in Giappone. E poi si deve essere reso conto che la Chiesa deve essere in Asia, se non vuole rischiare di diventare marginale. È una questione di numeri, di demografia».

In un suo articolo pubblicato su SettimanaNews ha fatto anche riferimento al fatto che, in Asia, la Chiesa cattolica può fare leva su due elementi: uno è l’Eucaristia, ovvero un rito nel quale Dio si offre per essere consumato e sacrificato, interrompendo così il ciclo della vita e della morte, che rappresenta un tema centrale nelle filosofie orientali come nell’induismo, nel buddhismo e nel taoismo.
L’altro è la confessione, che potrebbe compensare la circolazione di pratiche psicoterapeutiche che lasciano le persone con un senso di solitudine, senza un perdono specifico.

«Sì, ci possono essere degli elementi di contatto nelle varie culture asiatiche. I cinesi, ad esempio, si stanno avvicinando solo ora alla psicoterapia, che può essere considerata un’evoluzione della confessione. Quest’ultima però ha il vantaggio che prevede anche un’assoluzione esterna, mentre la psicanalisi potrebbe risultare non risolutiva per il paziente, che deve trovare una sua strada. Insomma, elementi interessanti. Però, bisogna lavorarci, non è una cosa così ovvia».

Il ruolo dei cardinali asiatici

Professore, pensa che, al di là di papa Francesco, ci sia una disposizione del Vaticano a proiettarsi verso l’Asia? Il lavoro di Bergoglio ha messo basi sufficientemente solide perché quest’opera di evangelizzazione sopravviva all’arrivo di un altro pontefice?

«Francesco sta facendo molti cardinali in Asia: ha nominato un cardinale in Mongolia (monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, ndr), uno in Laos. Ha fatto un cardinale in Bangladesh, e un altro a Teheran.

Per la prima volta abbiamo una folla di cardinali asiatici. Questi devono diventare delle teste di ponte della Santa Sede e del cattolicesimo in Asia. Lo saranno? Vedremo. Naturalmente non è una cosa di due giorni: è una cosa di venti anni o anche duecento».

Alessandra Colarizi
(seconda parte – fine)

(*) A inizio marzo, è stato arrestato monsignor Pietro Shao Zhumin, vescovo di Wenzhou.

La facciata della chiesa cattolica del Salvatore (Xishiku), a Pechino. Foto Zheng Zhou.




Cina. Danzando tra abbracci e giravolte


In un Paese ufficialmente ateo, Pechino tollera con fastidio le religioni. Per controllare i cattolici (stimati sotto l’uno per cento della popolazione), nel 1958 venne istituita l’«Associazione patriottica cattolica cinese». Dal 2018 tra Cina e Vaticano vige un accordo che ha attenuato i contrasti.

Nell’aprile 2023, all’insaputa della Santa Sede, Joseph Shen Bin viene ordinato nuovo vescovo di Shanghai unilateralmente da Pechino, spingendo la segreteria di Stato del Vaticano a bollare la decisione come una violazione dello «spirito di dialogo e collaborazione instaurato nel corso degli anni».

Tre mesi dopo, Shen riceve la consacrazione di papa Bergoglio. Ma, passato meno di un anno, nel gennaio 2024 un altro incidente minaccia i rapporti sino vaticani: l’arresto del vescovo di Wenzhou, Peter Shao Zhumin, non riconosciuto dal governo cinese e per questo periodicamente recluso dalle autorità locali per impedirgli di svolgere il proprio ministero.

Il presule – riporta AsiaNews – aveva espresso opposizione al trasferimento di alcuni sacerdoti nella propria diocesi, alla divisione delle parrocchie, nonché al declassamento di un’altra diocesi locale a parrocchia.

È l’ultimo atto della turbolenta danza diplomatica tra Pechino e il Vaticano. Una danza scandita da giravolte spesso brusche e periodici abbracci.

Il regime e le religioni

Quella tra i due partner è una storia apparentemente impossibile. Ufficialmente atea dall’istituzione del regime comunista, la Repubblica popolare da sempre tollera con fastidio le religioni, considerate «oppio dei popoli». Specialmente quelle importate dall’esterno che il Partito-Stato, ossessionato dalla stabilità sociale, ritiene veicolo di idee potenzialmente sovversive.

Una posizione che diventa più netta da quando nel 2013 Xi Jinping assume la presidenza con la promessa di compiere la «rinascita nazionale»; ovvero vendicare l’umiliazione subita durante l’occupazione imperialista subita tra il XIX e il XX secolo.

È un capitolo della storia cinese che riguarda molto da vicino la comunità cattolica, perseguitata durante la rivolta dei Boxer (1899-1901), perché considerata responsabile dell’invasione straniera del Celeste impero.

Con la caduta della dinastia Qing e la nascita della Repubblica di Cina nel 1911, l’opera missionaria, consolidata in epo-

ca Ming (1368-1644) da Matteo Ricci e i gesuiti, affronta un ambiente politico complesso. A quel tempo, gli interessi della Santa Sede nel paese sono rappresentati da un delegato apostolico (privo di uno status diplomatico formale) fino al 1943, anno in cui vengono istituiti rapporti ufficiali con la Repubblica di Cina. Passo storico suggellato dall’arrivo a Nanchino dell’internunzio Antonio Riberi.

Il numero dei cattolici in Cina aumenta significativamente, ma le difficoltà continuano, soprattutto dopo la vittoria di Mao Zedong contro i nazionalisti e la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949.

Le autorità comuniste arrestano Riberi con l’accusa di collusione con l’intelligence americana e partecipazione a un presunto complotto per uccidere il «Gran-de Timoniere». Nel 1951, sotto scorta della polizia, Riberi viene deportato a Hong Kong, all’epoca colonia britannica. Lo stesso anno la Cina interrompe le relazioni diplomatiche con la Santa Sede, riconoscendo questa il governo di Taiwan, l’isola che oggi Pechino vuole riannettere a tutti costi, con mezzi pacifici o con le armi (vedi articolo pag. 47, ndr).

Pellegrini cinesi in piazza San Pietro, in Vaticano. Foto cortesia CNA.

Anno 1958: la Chiesa patriottica cattolica cinese

È nel 1958, con la creazione dell’«Associazione patriottica cattolica cinese» (Apcc), la cosiddetta Chiesa «ufficiale», che cominciano le prime nomine vescovili illecite, ovvero senza il consenso del Papa. Da allora, il cattolicesimo – come tutte le altre quattro religioni ammesse dalla Costituzione cinese (buddhismo, taoismo, islam, protestantesimo) – può operare solo sotto la supervisione dell’«Amministrazione statale per gli affari religiosi», che oggi è controllata dal dipartimento del Lavoro del fronte unito, e in ultima battuta dal Comitato centrale del partito comunista. Un’ingerenza a cui da decenni si oppone la comunità cattolica fedele al Vaticano, continuando a praticare la fede in clandestinità. Oggi più che bandire la religione, Pechino sembra intenzionato ad addomesticarla e a servirsene per scopi politici.

In anni recenti, il cattolicesimo, che non arriva all’1% della popolazione, è riuscito a intercettare le esigenze della classe media urbana alla ricerca di una rinnovata spiritualità con cui riempire il vuoto ideologico indotto dall’«arricchimento glorioso» e dall’impoverimento valoriale del «socialismo con caratteristiche cinesi» (leggi: capitalismo di Stato). Se imbrigliato, può quindi diventare una forma di conforto davanti alle storture sociali che il Partito unico non riesce a raddrizzare.

Il vescovo Li Shan della Chiesa cattolica patriottica cinese. Foto Wikimedia Commons.

La Santa sede e l’Occidente

La religione cattolica è anche un potenziale strumento diplomatico in tempi di tensioni internazionali. Mentre i rapporti Stati Uniti ed Europa sono ai minimi storici, Pechino ha trovato nella Santa sede un inaspettato alleato per acquistare punti agli occhi dell’Occidente. Il Vaticano, da parte sua, pur intrattenendo ancora relazioni ufficiali con Taipei, vede nella Repubblica popolare un interlocutore imprescindibile per realizzare la propria missione evangelica in Asia. Secondo pronostici di Yang Fenggang, direttore del Center on religion and chinese society presso la Purdue University (Indiana, Usa), nei prossimi undici anni la popolazione cinese protestante raggiungerà i 160 milioni, mentre quella cristiana nella sua interezza toccherà i 247 milioni di membri entro il 2030. Stabilire rapporti cordiali con la leadership comunista è diventata quindi una priorità per la segreteria di Stato e il cardinale Pietro Parolin.

Vescovi «illegittimi» e vescovi «clandestini»

Compiendo un passo storico, il settembre 2018 il governo cinese e le autorità vaticane hanno siglato un accordo provvisorio sulle nomine vescovili. L’intesa – rinnovata per la terza volta lo scorso ottobre – non solo ha posto fine a decenni di ordinazioni episcopali avvenute senza il consenso papale, ma ha anche riunito la comunità cattolica. Questa conterebbe tra i 6 e i 12 milioni di fedeli, senza la distinzione tra «Chiesa ufficiale», controllata dal governo cinese, e «Chiesa clandestina», fedele al pontefice. Il significato simbolico è ugualmente rilevante: per la prima volta, Pechino ha riconosciuto l’autorità religiosa del Papa in Cina, una concessione che, in epoca imperiale, i missionari gesuiti non ottennero mai. Certo, molto resta da fare.

A oggi ci sono ancora una ventina di vescovi ordinati in precedenza dalla Santa Sede in maniera «riservata» ma che, non essendo stati né eletti, né nominati, né consacrati secondo le regole disposte anche dal governo cinese, non sono considerati formalmente come presuli. Ma lo stallo, in diversi casi, è stato risolto dal punto di vista canonico su base locale: nelle diocesi dove si trovavano a coesistere vescovi «illegittimi» – ovvero ordinati solo secondo le procedure volute dal governo cinese – e vescovi «clandestini» – nominati dal Papa ma non riconosciuti da Pechino -, il Vaticano ha accettato di legittimare il presule ufficiale, mentre il «clandestino» è stato riconosciuto anche dalle istituzioni cinesi come «vescovo ausiliare» della medesima diocesi. Questo tipo di sperimentazioni sta contribuendo a sanare lo scisma che per decenni ha afflitto la Chiesa cattolica cinese.

Per Gianni Valente, direttore dell’agenzia Fides, «la linea prospettica, a lungo termine, resta nel fatto che questi casi si risolveranno lentamente in un modo o nell’altro, per certi versi anche naturalmente».

Il vescovo «clandestino» Peter Shao Zhumin, più volte arrestato dalle autorità cinesi. Foto cortesia CNS UCAN.

Articolo 36 e «sinizzazione»

Insomma, la diplomazia sino-vaticana sta facendo il suo corso. Questo tuttavia non risolve il problema di fondo: il governo comunista continua a nutrire forte sospetto nei confronti dei culti importati dall’estero. Nella visione di Pechino, serve quindi addomesticarli per renderli innocui. I leader cinesi la chiamano «sinizzazione della religione», termine inserito persino nel rapporto presentato da Xi al Congresso del partito che, nel 2017, ha segnato l’inizio del suo secondo mandato presidenziale. In concreto, vuol dire reinterpretare la Bibbia e inserire «elementi della tradizione cinese» nella liturgia, la musica sacra, gli abiti clericali e gli edifici ecclesiastici. Obiettivo perseguito anche attraverso un inasprimento del quadro normativo.

Nel luglio 2023, l’«Amministrazione statale per gli affari religiosi» ha introdotto le «misure amministrative per i luoghi di attività religiosa» che, abrogando la vecchia normativa del 2005, puntano a «standardizzare la gestione dei luoghi di culto, proteggere le normali attività religiose e salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini credenti».

Tuttavia, molte delle disposizioni sembrano contraddire l’articolo 36 della Costituzione cinese, che garantisce «libertà di credo religioso».

Come si legge all’articolo 3 della nuova legge, «i luoghi di attività religiosa devono sostenere la leadership del Pcc e il sistema socialista, implementare a fondo l’ideologia di Xi Jinping del socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era […] praticare i valori socialisti fondamentali, aderire alla direzione della sinizzazione delle religioni della Cina».  Provvedimenti, questi, che esplicitano l’imposizione della cultura cinese (han) alle minoranze etniche e religiose senza riguardo per le loro tradizioni e specificità. Non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Ai luoghi di culto viene, infatti, chiesto di «riflettere uno stile cinese e integrare la cultura cinese nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nella decorazione e in altri aspetti visivi».

Il vescovo Shen Bin della Chiesa cattolica patriottica cinese. Foto cortesia Xinhua.

Chiese e moschee

Le misure amministrative giustificano de iure una pratica attuata de facto da molti anni. Se nel 2015, circa 1.200 chiese erano state spogliate delle loro croci, secondo il Financial Times, tra il 2018 e il 2023, tre quarti delle oltre 2.300 moschee presenti in Cina sono state modificate, private di cupole e minareti, o completamente distrutte.

Per i duri e puri, è la conferma che di Pechino non ci si può fidare; che con le sue moine il partito ha raggirato la Santa sede; che l’accordo sui presuli è servito solo a distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani.

Il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen, lo va dicendo da tempo. Da prima che, nel 2022, venisse condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie per la mancata registrazione di un fondo di assistenza umanitaria, creato per sostenere gli attivisti dell’ex colonia britannica a processo per le proteste pro democrazia del 2019. Eppure, è innegabile: la stretta sulla comunità cattolica cinese oggi è meno intensa. Gli arresti sono meno frequenti.

L’attenzione di Xi è rivolta alle minoranze di fede islamica ed etnia centroasiatica, storicamente associate a movimenti separatisti. In confronto i cristiani sono innocui. Pregano, cantano, e assolvono mansioni assistenziali, alleggerendo il carico del welfare statale.

Nei calcoli del governo sono fattori che ormai prevalgono sulla preoccupazione che la Chiesa cattolica diventi rifugio per dissidenti e attivisti. I più «pericolosi» sono ormai stati zittiti, detenuti, o costretti all’esilio.

Così la danza diplomatica tra Pechino e il Vaticano continua. Con la speranza che ci saranno più abbracci e meno giravolte.

Alessandra Colarizi
(fine prima parte)

 

 




Taiwan. L’isola dei record


La storia di Taiwan è molto speciale. Racconta di dominazioni straniere, invasioni e ribellioni. Oggi ha una sovranità de facto, ma non è riconosciuta. Eppure resta un tassello fondamentale di economia e geopolitica mondiale. E la Cina vorrebbe ridisegnare il suo futuro.

«Penso che oggi il livello di democrazia a Taiwan sia buono, e che le elezioni siano libere ed eque. Il sistema di conteggio dei voti è davvero unico, aperto e trasparente. Non c’è paura di elezioni truccate. Ma quello che succede è, ancora una volta, il rischio d’influenza della Cina, che cerca di minare la nostra democrazia».

Chi parla e Brian Hioe, 32 anni, giornalista e attivista, tra i fondatori di New Bloom, sito d’informazione, ma anche spazio fisico per incontri e dibattiti, nato nel 2014 a Taipei. Era l’indomani della creazione del Movimento dei girasoli, composto per lo più da studenti, che nel marzo 2014 occupò pacificamente il Parlamento di Taiwan per protestare contro un accordo con la Cina comunista. Brian era uno di loro.

Lo incontriamo nella sede del New Bloom, nel Wanhua district di Taipei, quartiere dove osserviamo il contrasto tra grattacieli e vecchie case, allestimenti ultra moderni e ristoranti addobbati con file di lanterne accese. Quasi a ricordarci che modernità e tradizione in questo Paese vanno appaiati.

Primato di democrazia

Scorrendo la classifica dell’indice di democrazia (il Democracy index) stilata ogni anno dal settimanale britannico The Economist per valutare il livello democratico degli Stati del mondo, troviamo una sorpresa. Taiwan, il «non stato» (ha rapporti diplomatici solo con 12 piccoli Paesi, il più importante dei quali è il Vaticano), è la prima democrazia asiatica, ed è al decimo posto della classifica totale di 169 paesi studiati. È seguita, a livello continentale, da Giappone (16° posto) e Corea del Sud (22°), gli unici tre Paesi asiatici nella sezione «democrazie complete». Gli Usa sono al 29° posto e l’Italia al 34°, entrambi nella sezione «democrazie imperfette» (dati del 2023).

Ma Taiwan è una democrazia giovane, ha vissuto quaranta anni di legge marziale sotto un regime dittatoriale molto duro e ha iniziato un percorso democratico solo alla fine degli anni Ottanta, per arrivare alle prime elezioni libere nel 1996.

Storia di dominazione

Dopo la Seconda guerra mondiale, il Giappone sconfitto restituì Taiwan e le isole Penghu alla Repubblica di Cina, la quale, in quel momento, aveva Pechino come capitale e Chang Khai-shek come presidente.

Il Giappone aveva ottenuto Taiwan nel 1895 dall’allora impero cinese della dinastia Qing, dopo averlo sconfitto nella seconda guerra sino-giapponese. Aveva poi impostato un colonialismo improntato sullo sviluppo e l’assimilazione degli abitanti alla cultura giapponese.

I repubblicani di Chang, guidati dal partito unico Koumintang (Kmt), la occuparono instaurando subito un regime repressivo nei confronti delle popolazioni locali.

Taiwan

A fine febbraio del 1947 un episodio di violenza dei nuovi incaricati del monopolio di tabacco, contro una venditrice ambulante di sigarette, causò un morto e fece scattare una sollevazione generalizzato in tutta l’isola. Era guidato da correnti delle élite locali anche molto diverse tra loro. Si aprì una negoziazione con il governatore imposto dal Kmt, ma i rapporti di forza cambiarono con l’arrivo di un grosso contingente militare dal continente che represse nel sangue la rivolta. Tra i 20 e i 28mila (a seconda delle fonti) taiwanesi furono uccisi nelle settimane che seguirono.

Oggi la data di inizio della rivolta, il 28 febbraio, è chiamata Peace memorial day ed è festa nazionale, mentre il parco nel centro di Taipei dove iniziò la protesta, la ricorda con un memoriale e un museo.

Il Kmt instaurò un regime molto duro, che sarebbe passato alla storia con il nome di «Terrore bianco». Nel maggio 1949 impose la legge marziale, che sarebbe rimasta in vigore fino al 1987. Ogni dissenso veniva duramente represso.

Intanto, sul continente, sconfitto il Giappone nel 1945, era ripresa la guerra civile tra nazionalisti guidati da Chang Khai-shek e i comunisti di Mao Zedong, che si erano temporaneamente alleati contro il comune nemico giapponese. I comunisti ebbero la meglio, e Chang Khai-shek con i suoi riparò a Taiwan nell’ottica di preparare la riconquista del continente. Sbarcò sull’isola tutto l’apparato dei nazionalisti: politici, funzionari, militari, ricchi commercianti e chi poteva permetterselo. Fu una vera invasione – iniziata di fatto con la restituzione nel ‘45 – che avrebbe cambiato gli assetti etnici e identitari di Taiwan.

La Repubblica di Cina, da quel momento ebbe capitale a Taipei, ma continuò a rivendicare i territori dalla parte continentale. A Pechino, invece, nasceva la Repubblica popolare cinese (Rpc), il primo ottobre 1949. Anch’essa considerava Taiwan e le altre isole parte integrante del proprio territorio. Iniziò così la storia delle «due Cine» o, come si sarebbe detto in seguito (e ancora oggi) dell’«unica Cina», ma senza mai specificare quale.

Un’identità in evoluzione

«Dopo il ‘49 arrivarono molti cinesi dal continente, in particolare di classe medio alta. Poi c’erano i soldati.

I giapponesi, nei cinquant’anni del loro controllo, avevano costruito strade, fabbriche di vario tipo, contribuito allo sviluppo del paese». Chi ci parla è padre Louis Gendron, gesuita canadese, a Taiwan dal 1966. Lo incontriamo a Taipei, al Tien educational center, importante scuola della sua congregazione.

«I ricchi fuggiti dal continente presero in mano le attività abbandonate dai giapponesi. Poi fu fatta la riforma agraria, e anche la gente di campagna iniziò a vivere un po’ meglio. I taiwanesi sono stati parecchio influenzati dai giapponesi. Ad esempio, quando sono arrivato io, gli anziani parlavano il giapponese oltre al taiwanese, mentre il cinese mandarino non era diffuso».

Con «taiwanese» spesso si intende la lingua hoklo (hokkienese), dell’omonimo popolo originario della provincia del Fujian (Sud Minnan, sul continente al di là dello stretto di Taiwan), migrato sull’isola a partire dal XVII secolo. Anche il gruppo etnico Hakka, del Nord della Cina, è arrivato a Taiwan nei secoli passati e la sua lingua oggi è parlata soprattutto al Sud.

Non bisogna dimenticare i popoli originari dell’isola, appartenenti a varie etnie austronesiane. A livello ufficiale, oggi sono riconosciuti sedici popoli e altri hanno richiesto il riconoscimento formale. Parlano lingue diverse e hanno culture differenti tra loro. Sono circa mezzo milione, il 2% dei 23,5 milioni di taiwanesi.

«Nei secoli (prima del ‘45), Taiwan era abitata da popolazioni aborigene, ognuna con la propria lingua e fede, ma nessuna in grado di conquistare l’intera isola», ci aveva detto in un precedente incontro padre Jeffrey Chang, professore all’università cattolica a Fu Jen.

Continua Gendron: «Solo dopo il 1949 il mandarino ha preso piede, con l’arrivo dell’ondata dal continente, mentre il Kmt ha proibito di parlare in taiwanese a scuola». In questo periodo, e nei decenni successivi, i taiwanesi (ovvero gli abitanti presenti prima del ‘45) furono discriminati. Ad esempio non potevano accedere al pubblico impiego, a cariche pubbliche o all’esercito.

L’identità taiwanese, è dunque un concetto piuttosto complesso che è mutato nei decenni. Interessanti sono i numerosi sondaggi sul tema. Secondo quello di Academia sinica (noto ente di ricerca di Taipei), alla domanda « ti senti più cinese, taiwanese o entrambi», nel 1992 il 23,7% si sentiva taiwanese, il 23,4% cinese e il 59,7% entrambi. Nel 2013 le percentuali erano stravolte: si sentivano taiwanesi il 73,7% degli intervistati, il 24,2% entrambi e solo l’1,1% ha risposto di sentirsi cinese (vedi in bibliografia Ho e Lin).

Ne abbiamo parlato con una intellettuale taiwanese, figlia di un cinese del continente giunto dopo il ‘45: «Io sono nata nel 1960. Tutti quelli che hanno più di 50 anni hanno avuto un’educazione gestita dal Kmt, quindi si sentono più cinesi. Quelli nati dopo, quando il Partito democratico progressista (Dpp in inglese) ha iniziato a contare e a diffondere una nuova interpretazione della storia e nuove ideologie, dicono di essere taiwanesi. Culturalmente non c’è conflitto con la Cina. Non ci sono migliaia di anni di odio tra di noi. È solo politica».

Lotta per la democrazia

Durante gli anni del Terrore bianco, crebbe un’opposizione di attivisti pro democrazia composta da diverse tendenze e ideologie. Seppure con grandi difficoltà, portò il Kuomintang a un percorso di graduali riforme e aperture, che si può considerare iniziato a metà degli anni Settanta.

I passaggi fondamentali restano il discorso di apertura alle riforme di Chang Ching-kuo (figlio di Chang Khai-shek succeduto al padre alla morte di questo nel 1975) nel maggio del 1986, e la fondazione del Partito democratico progressista (Dpp), il 28 settembre dello stesso anno. La legge marziale sarebbe stata ufficialmente revocata un anno più tardi, e le prime elezioni presidenziali libere si realizzarono nel 1996, con la conferma di Lee Theng-hui, già presidente designato dal Chang Ching-kuo alla sua morte (1988), il primo di origine taiwanese.

Libertà e diritti

Oggi il panorama in termini di diritti umani e libertà è più che soddisfacente.

Ci dice Brian: «A Taiwan i diritti umani sono rispettati. Ci sono associazioni, ad esempio per la protezione dei diritti dei bambini, delle donne. Questo è dovuto al contesto autoritario del passato. Ci sono temi sui quali occorre ancora lavorare, in termini di qualità, come ad esempio il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, oppure la povertà urbana».

«Penso che molto è stato fatto negli scorsi decenni sui diritti umani, ma è stata una lotta dura – prosegue Brian -. In passato si poteva essere messi in prigione arbitrariamente per nulla. Qui al New Bloom abbiamo organizzato un incontro con un ex prigioniero politico, incarcerato durante il Terrore bianco. Lui non era neppure un politico ma decisero di incolparlo per una bomba, piazzata in una biblioteca. Così si è fatto 12 anni di prigione».

Secondo Brian, uno dei motivi per cui c’è un buon livello di rispetto dei diritti umani è anche il seguente: «Oggi la Cina è la maggiore minaccia geopolitica per Taiwan, dunque Taiwan ha bisogno di differenziarsi dalla Cina. Al desiderio di proteggere i diritti, si aggiunge la volontà di mostrare che questo Paese è diverso».

Anche a livello di libertà di stampa e di espressione, Taiwan è un esempio. Ancora Brian che, come giornalista, è tra i fondatori di newbloommag.net: «Non c’è nessun tipo di restrizione sulla libertà di parola e pubblicazione, esse sono regolate dalla legge sui media. Non c’è censura. Anzi, c’è addirittura troppa facilità a essere accusati di diffamazione.

Un altro tema sono i finanziamenti cinesi ai media che operano in Taiwan e diffondono disinformazione e informazioni errate. Usano questo contesto di stampa libera, per cercare di manipolare o ribaltare le istituzioni democratiche».

Movimenti sociali

Secondo Brian le sfide sono tante, dovute al fatto che «ci sono forze antidemocratiche che cercano di tornare al passato. Spesso sono azioni connesse con la Cina, e con il Kmt, che è storicamente un partito pro Cina».

L’ex partito unico di Chang Khai-shek, nemico dei comunisti, ha sempre agito nella direzione di un maggiore dialogo con la Repubblica popolare cinese. Quando il Kmt è al potere, i rapporti infrastretto sono più distesi. Al contrario, il Dpp, spesso descritto come partito indipendentista (anche se si fa attenzione all’uso della parola indipendenza), ha posizioni di maggiore autonomia e ha sempre spinto per una identità più «taiwanese» e meno «cinese» della Repubblica di Cina.

Nel 2014, sotto la presidenza di Ma Ying-jeou del Kmt (due mandati dal 2008 al 2016), era iniziato un periodo di distensione dei rapporti con Pechino. Gli studenti e i giovani crearono il Movimento dei girasoli, e occuparono il Parlamento di Taipei (lo yuan legislativo) per 24 giorni (18 marzo – 10 aprile 2014). Si opponevano al Cssta (Cross strait service trade agreement), un trattato bilaterale che puntava a liberalizzare i flussi di capitale e di risorse umane nel settore dei servizi tra le due Cine. Il movimento riuscì, pacificamente, a paralizzare le attività parlamentari e il trattato non venne ratificato. Le motivazioni principali di chi vi aderì erano, secondo uno studio di Ming-sho Ho e Thung-hong Lin, sia il timore che la democrazia e la sovranità di Taiwan fossero in pericolo, sia la certezza che l’accordo avrebbe aumentato il divario tra i ricchi e la classe media e bassa, in particolare avrebbe reso più difficile per i giovani trovare lavoro.

L’impatto del movimento, sempre secondo lo studio, influenzò le elezioni amministrative del 2014 e quelle presidenziali nel 2016, nelle quali il Dpp vinse non solo la presidenza, con Tsai Ing-wen (rimasta poi in carica per un secondo mandato fino al 2024), ma si assicurò, per la prima volta, anche il controllo del Parlamento (68 seggi su 113).

Chi vuole la riunificazione

Non tutti, però, a Taiwan amano il Movimento dei girasoli: «Ha minato il nostro rapporto con la Cina e di conseguenza la nostra economia – commenta un docente di inglese di una cinquantina di anni -. È stato il Dpp a tramare dietro a ciò. […] Non hanno dato alcun contributo al Paese».

Secondo Brian, invece, la Cina minaccia Taiwan sotto diverse forme: «Penso che la Cina sia un pericolo reale per Taiwan. C’è un’attività navale (intorno alle isole) e anche nei cieli con i caccia, che però non vediamo (non sorvolano l’isola, ndr). È qualcosa di cui la gente è consapevole da tempo, una minaccia alla quale è abituata. Il rischio che diventi un conflitto o che le tensioni aumentino c’è, ma non è detto che i taiwanesi abbiano una sensazione diretta di questo. È chiaro che c’è stata un’escalation dell’attività militare cinese intorno a Taiwan negli ultimi tre, quattro anni, e che la tendenza è in aumento».

Gli chiediamo se pensa possibile un’invasione da parte dell’Esercito popolare di liberazione, scenario paventato, a più riprese, dai media di tutto il mondo. «È difficile prevederlo. Spesso si tratta di una narrativa iperbolica dei media. Se la Cina invadesse Taiwan sarebbe il più grande sbarco mai realizzato in paesi asiatici, che coinvolgerebbe decine di migliaia di soldati e mezzi. Penso a qualcosa di estremo, con molte perdite. Non sono sicuro che oggi la Rpc possa coinvolgersi in qualcosa del genere. Sarebbe molto controverso per il Partito comunista. Forse un rischio concreto è quello di un blocco navale, ovvero impedire a qualsiasi nave di raggiungere il Paese».

Brian vede la Rpc dietro a molte operazioni più sommerse: «La Cina vorrebbe prendere Taiwan senza combattere, per cui cerca di indurre i taiwanesi ad arrendersi offrendo loro incentivi economici o convincendo la gente dell’affinità culturale tra le due sponde».

Tassello di geopolitica

Non abbiamo qui parlato del ruolo geopolitico di Taiwan, che vede negli Stati Uniti il suo maggiore alleato e – in passato – finanziatore. Lo Stretto di Taiwan potrebbe diventare una zona di scontro tra le due superpotenze di oggi, Cina e Usa, oppure elemento di scambio sullo scacchiere internazionale. L’isola è strategica per la sua posizione, ma anche per essere il primo produttore al mondo di circuiti integrati ad altissima tecnologia (approfondiremo prossimamente, nda).

«La Cina non abbandonerà mai l’idea di recuperare Taiwan, ma c’è spazio per variazioni. E dipenderà molto dalle mosse del governo taiwanese», ci diceva padre Gendron.

A Taiwan la popolazione si è formata una coscienza identitaria (certo non uniforme) che spinge molti a volere difendere la propria sovranità e, non da ultimo, la propria democrazia, una delle migliori al mondo.

Marco Bello


Bibliografia

  • Valérie Niquet, Taiwan face à la Chine, ed Tallandier, 2022.
  • Stefano Pelaggi, L’isola sospesa, Luiss university press 2022.
  • F. Congiu, B. Onnis, Fino all’ultimo Stato, Carocci editore, 2022.
  • Ming-sho Ho, Thung -hong Lin, The Power of Sunflower, Cambridge Univeristy Press, 2019.

Taiwan su mc

 




Myanmar. Quattro anni di guerra civile

 

Nel conflitto civile che da quattro anni insanguina il Myanmar non si vedono spiragli di pace. In primis perché nessuno dei due contendenti in lotta – la giunta militare al potere e le forze di opposizione – è disposto a fare concessioni all’avversario, continuando a dichiarare di volerlo sconfiggere. In seconda battuta a causa dell’assenza della comunità internazionale che finora si è dimostrata impotente o indifferente. Con due eccezioni: Cina e Russia. Mentre, infatti, il blocco occidentale e gli Stati Uniti d’America hanno lasciato campo libero, le due potenze hanno continuato a sostenere la giunta militare al potere, al fine di tutelare i loro interessi strategici ed economici.

La Casa Bianca, nel tempo dell’amministrazione Trump, non sembra volersi coinvolgere per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar.
Nel 2022, il Congresso Usa aveva approvato il Burma Act, un provvedimento legislativo che autorizzava «l’assistenza umanitaria e il sostegno alla società civile» tramite un programma Usaid (United States agency for international development) volto ad assistere giovani esuli birmani nel loro percorso di istruzione e formazione.
Il presidente Trump, bloccando i finanziamenti all’agenzia governativa, ha fermato anche 45 milioni di dollari stanziati per oltre 400 studenti birmani che erano sostenuti tramite il Development and inclusive scholarship program dell’Usaid.

L’opposizione birmana e il governo in esilio, il National unity government (Nug), hanno incassato lo stop degli aiuti Usa con amarezza, puntualizzando che le forze della resistenza birmana non si fermeranno e che continueranno nella lotta fino al rovesciamento del regime.

Anche nelle giornate di analisi e riflessione organizzate a Roma dall’Associazione Italia-Birmania insieme, in occasione del quarto anniversario del golpe, all’inizio di febbraio, si è osservato con disappunto l’atteggiamento dell’Occidente che – focalizzato sulla guerra in Ucraina e sul conflitto in Medio Oriente – sembra aver dimenticato il quadrante del Sudest asiatico e la sofferenza del popolo birmano.

I quattro anni di guerra civile, gli ultimi due particolarmente cruenti, restituiscono ora il volto di un paese tormentato e deturpato da profonde ferite. Dal golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si ritrova a essere definita «il luogo più violento del mondo», come ha scritto l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo, rilevando oltre 50mila morti – tra i quali oltre 8mila civili -, più di 3,8 milioni gli sfollati e circa 23 milioni di cittadini interessati dal conflitto civile in corso, su una popolazione complessiva di 51 milioni di abitanti.
La popolazione è allo stremo, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, sperimentando alti livelli di insicurezza alimentare, soprattutto nelle aree attraversate da scontri armati (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine, e nella regione di Sagaing). La crisi unitaria, si avverte, è destinata ad aggravarsi, anche perché le associazioni e Ong internazionali non hanno la possibilità e l’autorizzazione per soccorrere e portare aiuti ai civili.

In tale scenario la situazione sul terreno militare, nonostante il prosieguo dei combattimenti, sembra cristallizzarsi: da un lato, l’esercito birmano ha a disposizione, grazie ai rifornimenti dei potenti alleati, arsenali di armi pesanti, forze aeree, carri armati, e mantiene il controllo della parte centrale del Paese e delle grandi città come Mandalay, Naypyidaw, Yangon; dall’altro, le forze di opposizione hanno conquistato aree e municipalità nelle zone di confine, quelle che vengono orgogliosamente definite «zone liberate», cioè sottratte al potere della giunta, e controllano, secondo gli analisti, il 50% del territorio nazionale.

Intanto il regime militare al potere, che ha lanciato una campagna di reclutamento obbligatorio per rafforzare le fila dell’esercito, ha prolungato lo stato di emergenza fino a luglio 2025 e ha annunciato che entro l’anno terrà una tornata elettorale.
Si tratta, tuttavia, di un piano difficile da realizzare, dato che il censimento elettorale è stato possibile soltanto in 145 municipalità sulle 330 che compongono lo Stato, cioè meno della metà, e in zone abitate solo dalla gente dell’etnia maggioritaria, i bamar, in una nazione che si configura come multietnica e multiculturale.

La sola notizia positiva negli ultimi mesi è stata quella dell’accordo di cessate il fuoco, limitato alla regione del Nordest, siglato tra esercito e gruppi ribelli grazie alla mediazione della Cina che, come detto, tiene a tutelare i propri interessi commerciali e ha così ristabilito il traffici alla frontiera.

In un quadro di violenza generalizzata, la Chiesa cattolica ha registrato il tragico episodio dell’uccisione del primo sacerdote: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, ucciso il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dell’arcidiocesi di Mandalay, nella regione di Sagaing, nel Centro Nord del Paese, una delle aree maggiormente interessate da scontri e combattimenti.
A compiere il brutale omicidio (il prete è stato accoltellato e mutilato) un gruppo di miliziani di forze di difesa locali per motivi ancora tutti da chiarire. Sulla morte del religioso le Forze di difesa polare, che combattono sotto l’egida del National Unity Government e che controllano quella porzione di territorio in Sagaing, hanno aperto un’indagine arrestando un gruppo di dieci aggressori.

Paolo Affatato




Panama. Trump rivuole il Canale

Tra le mire espansionistiche di Donald Trump – che includono l’annessione del Canada e della Groenlandia agli Stati Uniti e la trasformazione del Golfo del Messico in un più nazionalista «Golfo d’America» – ce n’è una in particolare che potrebbe innescare uno scontro politico con la Cina, con ripercussioni in America Latina e sul commercio globale.

Il 20 ottobre 2024, il 47esimo presidente degli Stati Uniti (alllora candidato alla presidenza) ha minacciato di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, che, a suo dire, sarebbe controllato dalla Cina attraverso l’impresa di Hong Kong Hutchison Port, attuale responsabile di due porti del Canale, da cui transitano principalmente cargo commerciali degli Stati Uniti.
Il timore di vedere compromessi i propri interessi economici, avrebbe mosso Trump a tale affermazione a cui è seguito il viaggio a Panama di Marco Rubio, attuale Segretario di Stato statunitense, nel tentativo d convincere le autorità panamensi a fermare la supposta influenza cinese sulla compagnia di Hong Kong.
«In caso contrario, dovremo prendere le misure necessarie per proteggere i nostri diritti», ha dichiarato Rubio, alludendo al fatto che Panama avrebbe violato il trattato del 1999 con cui otteneva, da parte degli Stati Uniti, la sovranità totale sul Canale.
Alle parole di Rubio ha fatto eco Trump dalla casa Bianca: «Il canale di Panama non è stato dato ai cinesi, ma ai panamensi, stupidamente», affermazione che ha alimentato i sospetti su un possibile tentativo degli Stati Uniti di contestare il trattato del 1999.
Dal canto suo, il presidente del Paese centroamericano José Raúl Mulino ha dichiarato, visibilmente piccato, che la proprietà del canale non è in discussione e che è e rimarrà di Panama. Tuttavia, per evitare un’escalation di tensione, le autorità panamensi hanno autorizzato un audit (analisi dei conti finanziari, nda) su Hutchison Port, a cui l’azienda ha dichiarato di sottoporsi senza timore, manifestando la sicurezza di chi non ha nulla da nascondere.

Gli Usa possono riprendere Panama?
Facciamo un passo indietro, a quando il canale ancora non esisteva. Nel 1903 Panama e gli Stati Uniti siglarono un accordo per creare una via navigabile attraverso l’istmo, una idea che risaliva già a Carlo V di Spagna, tre secoli prima. Alla fine, dell’800, la Francia aveva tentato un primo sforzo di costruzione, poi abbandonato. A inizio Novecento, quindi gli Stati Uniti acquistarono i diritti dalla Compagnia francese del Canale di Panama e, dopo undici anni di lavori, nel 1914, la prima nave attraversò il Canale.
Nel 1977, Washington e Panama firmarono un accordo per una gestione condivisa e nel 1999 la sovranità passò definitivamente allo Stato panamense.
Oggi Panama è l’unico paese che può decidere le sorti de canale, da cui transita il 5% del commercio mondiale di cui il 75% è statunitense. Secondo il trattato del 1999, gli Stati Uniti potrebbero intervenire militarmente solamente in caso di conflitto da potenza straniera, che causarebbe l’interruzione del traffico. Al momento, però, la Cina non sta limitando il passaggio delle navi, né ci sono prove che stia manovrando l’Hutchison Port, di proprietà di Li Ka-shing, l’uomo più ricco dell’Asia, con una fortuna economica che garantisce a lui e alle sue aziende di mantenere un certo grado di indipendenza da Pechino. Inoltre, pur gestendo due dei porti che orbitano nei pressi del Canale, l’impresa deve sottostare alle regole dell’Autorità del Canale di Panama, il cui board è eletto dal Governo panamense e all’interno del quale non c’è nessun rappresentante della Repubblica popolare cinese o di Hong Kong.

Trump teme il controllo cinese
A parte le evidenze commerciali, l’ipotesi di controllo cinese sul canale di Panama pare un pretesto per un casus belli, dietro il quale si nasconde Trump, deciso ad attaccare, piuttosto che restare a guardare, la crescente, e in questo caso reale, influenza di Pechino su tutta l’America Latina. La Cina è il primo mercato di esportazione per Brasile, Panama e Chile ed è il primo paese per importazioni di Argentina, Colombia e Brasile stesso. Inoltre, Pechino ha finanziato infrastrutture nella regione con investimenti superiori a quelli della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. In particolare, per l’investimento nel settore minerario che vede la Cina dominare soprattutto in Messico, Argentina, Bolivia e Cile nell’estrazione del litio.
Se il Canale di Panama non è nelle mani della Cina, l’influenza di Pechino sull’America Latina è invece più concreta che mai e probabilmente anche avvantaggiata dai discorsi di odio verso i migranti latinoamericani e le ostilità dimostrate nei confronti di numerosi governi locali da parte del nuovo uomo forte della Casa Bianca.

Simona Carnino




Asia. Aumenta la produzione di armi

 

La guerra in Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Ma anche le minacce della Corea del Nord. Per non parlare dell’assertività cinese nell’Asia-Pacifico. Sono questi i principali fattori ad aver trainato l’acquisto di armi nel 2023, secondo un rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), pubblicato il 2 dicembre. Il think tank svedese ha conteggiato per il 2023 vendite di armi e servizi militari per 632 miliardi di dollari per le sole prime 100 aziende produttrici nle mondo, con un aumento del 4,2% rispetto al 2022.

Grandi numeri a parte, la spartizione delle commesse mette in luce piccoli assestamenti, in particolare un graduale ribilanciamento delle transazioni tra gli esportatori asiatici.

A guidare la classifica globale (ormai dal 2018) sono sempre le aziende statunitensi, con una quota di mercato del 50%, mentre i cinesi si posizionano al secondo posto (16%), seguiti dai produttori di Regno Unito (7,5%) e, un gradino sotto, a pari merito, fornitori militari di Francia e Russia, ciascuna con una quaota del 4%.

Sebbene la graduatoria non presenti ancora grandi elementi di novità, sotto traccia sono tuttavia riscontrabili alcune tendenze anticipatrici di quelli che probabilmente saranno i futuri sviluppi del settore.
Tra tutti spicca un dato: le aziende della Repubblica popolare cinese (Rpc) hanno registrato la crescita dei ricavi (103 miliardi di dollari) più bassa degli ultimi quattro anni (+0,7%). Un risultato che il rapporto Sipri attribuisce al rallentamento dell’economia cinese, a fronte di una crescita costante delle vendite nei mercati esteri. Il motivo, come spiega un ricercatore del think tank svedese, è che molti produttori militari in realtà guadagnano dal settore civile, mai uscito completamente dalla crisi pandemica. Con entrate per 20,9 miliardi di dollari (+5,6%), Aviation industry corporation of China (Avic) si è classificata all’ottavo posto nella lista del Sipri, diventando il più grande produttore di armi della Cina. Segno dell’importanza crescente ottenuta dal comparto aerospaziale.

Mentre la Cina arranca, altri esportatori asiatici guadagnano terreno.
Nonostante Corea del Sud (+1,7%) e Giappone, (+1,6%) abbiano ancora quote di mercato complessivamente molto contenute, i due paesi sono in rapida rimonta. Complici le tensioni regionali nella penisola coreana e nel Mar cinese meridionale, ma anche un maggiore protagonismo internazionale di Tokyo e Seul al fianco degli Stati Uniti. Le vendite delle aziende giapponesi (10 miliardi di dollari) hanno beneficiato del progressivo incremento del budget militare del Paese, che sta spingendo le Forze di autodifesa ad aumentare gli ordini dopo decenni di basso profilo.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, obblighi costituzionali autoimposti costringono il Giappone a «rinunciare all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». Fattore che per decenni ha spinto Tokyo ad appoggiarsi all’alleato americano. Salvo ora dover rivedere la sua posizione difensiva come deterrente davanti alle provocazioni missilistiche di Pyongyang (Corea del Nord) e all’espansionismo regionale di Pechino.
Nel suo rapporto, il Sipri ha notato «un importante cambiamento nella politica di spesa militare» da quando, nel 2022, il governo dell’ex premier Fumio Kishida ha destinato alla difesa il budget più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale (47 miliardi di dollari) con un incremento previsto fino al 2% del Pil entro il 2027. Lo stesso livello dei paesi Nato.

Se nel caso delle aziende giapponesi a fare da traino sono le vendite interne, per i produttori sudcoreani la crescita dei ricavi (11 miliardi di dollari) va ricondotta principalmente alle esportazioni. Soprattutto per quanto riguarda gli ordini di artiglieria terrestre. Con la guerra in Ucraina alla clientela della Corea del Sud – oltre all’Australia – si è aggiunto un numero sempre maggiore di paesi europei. La Polonia, ad esempio, ha comprato da Seul carri armati, aerei da attacco leggeri e obici semoventi K9.

Secondo la Top 100 del Sipri, le forniture delle aziende militari sudcoreane e giapponesi hanno riportato una crescita rispettivamente del 39% e del 35%. A fare meglio è stata solo la Russia che, con un aumento del 40%, ha registrato l’incremento maggiore a livello globale.

Alessandra Colarizi




Taiwan. Spose cinesi

 

Capita che una ragazza cinese del continente (mainland, come dicono a Taiwan) sposi un uomo di Taiwan. Le statistiche parlando di un totale di circa 380mila.
Capita, inoltre, che alcune delle spose siano blogger o youtuber e che molte di loro abbiano realizzato video sulla loro vita a Taiwan.

È frequente che parlino bene di questa esperienza, e la confrontino con quella in Repubblica popolare.
Alcune hanno parlato del sistema sanitario a Taiwan, delle leggi e dell’efficienza governativa, paragonandoli a quelli della Cina continentale.
Le autorità di Pechino hanno espresso disappunto su questi video.
Secondo una fonte del Taipei Times pare che queste spose cinesi siano state oggetto di minacce da parte di cittadini della Cina continentale. I video non sarebbero piaciuti e i loro account YouTube sarebbero finiti sotto cyber attacco e sarebbero stati perturbati.

La fonte ha riferito che i canali YouTube sono stati inondati da commenti negativi tra i quali accuse di connivenza delle autrici con il Partito democratico progressista (Dpp), attualmente al potere a Taiwan, mettendo in questione la loro credibilità.
«Tuttavia, questi video non toccano temi politici. Sono realizzati per condividere la propria esperienza di vita quotidiana a Taiwan», ha commentato il professor Hung Chin-fu della National Cheng Kung University di Tainan (Taiwan).
«Parlando di elezioni democratiche e di facile acceso a cure mediche hanno toccato temi sensibili e il governo della Cina continentale si sente minacciato da questi contenuti. […]
Sono argomenti che possono impattare sul contesto attuale dell’economia della Repubblica popolare – continua il professore -. Vedere qualcuno che vive liberamente e felicemente a Taiwan potrebbe causare una reazione della gente in Cina».

Questo fenomeno è tuttavia da inquadrare in un più complesso sistema di scambi tra i due lati dello Stretto. Molti imprenditori taiwanesi fanno affari in Cina continentale dove hanno aperto filiali delle loro aziende. Migliaia di studenti cinesi del continente frequentano le università taiwanesi. Ogni anno centinaia di migliaia di turisti cinesi visitano l’isola. Senza contare il volume gli scambi commerciali tra i due lati dello Stretto.

(Tratto dal Taipei Times)




Cina. L’importante è vincere


Un tempo si diceva che l’importante è partecipare. Per il leader cinese non è così. Lo sport è inteso come una vetrina del Paese, il medagliere olimpico come un barometro del proprio status globale. Per questo, per vincere (anche) nello sport, la Cina fa uso di molti incentivi. Economici e non solo.

«Questo è il giorno più vergognoso per il calcio cinese». Venerdì 6 settembre, il web esplodeva alla notizia dell’ennesima sconfitta calcistica della nazionale cinese: un sonoro 7 a 0 contro il Giappone. Una vera debacle non solo per via del punteggio: 18° nella classifica mondiale della Fifa, il Sol Levante ha con la Cina dispute tutt’oggi irrisolte. L’occupazione nipponica del 1937 brucia ancora oltre la Muraglia e le isole contese nel Mar cinese orientale continuano a sfilacciare i rapporti tra i due paesi. Sempre più spesso, sport e geopolitica convergono infiammando gli spalti e il campo da gioco. Questo è vero soprattutto alle Olimpiadi, l’evento sportivo più importante a livello mondiale: il paese ospitante ne trae prestigio – o disonore – internazionale in base alle capacità organizzative. Per chi gareggia, invece, il medagliere diventa barometro del proprio status globale.

 

Pechino e le Olimpiadi

Nella sua (relativamente) breve storia olimpica, la Cina ha fatto il possibile per sfruttare la prestigiosa vetrina. Come tutti, d’altronde. Ma, nell’ex Celeste impero, la manifestazione ha un significato più profondo. Se per la maggior parte dei paesi è l’occasione per ravvivare un patriottismo ormai sbiadito, per la Repubblica popolare è addirittura l’opportunità per esorcizzare il ricordo di un passato doloroso e infamante. Boicottati i Giochi fino al 1984 in risposta alla partecipazione di Taiwan – «una provincia ribelle», secondo il governo comunista -, la Cina popolare ha recuperato velocemente il tempo perso.

Pechino è stata la prima città a ospitare sia le Olimpiadi estive nel 2008, sia l’edizione invernale nel 2022. La cerimonia di apertura in entrambe le occasioni è diventata il palcoscenico per raccontare l’ex Celeste Impero al mondo, attraverso una narrazione densa di rimandi storici e culturali. In particolare, i Giochi del 2008 hanno rappresentato molto di più di una semplice competizione sportiva. Hanno, infatti, portato la Cina sul proscenio internazionale, segnandone il riconoscimento sia come civiltà antica che come società in rapido sviluppo, con i suoi successi economici, tecnologici, sociali e culturali. Il tutto proprio mentre gli Stati Uniti venivano travolti dalla peggiore crisi finanziaria dalla grande depressione del ‘29.

Da allora la performance degli atleti cinesi, in costante miglioramento, è stata associata dalla propaganda ufficiale all’inevitabile sorpasso della Cina sull’occidente: non solo in termini economici. Anzi, il progressivo rallentamento della crescita nazionale ha reso più impellente per Pechino trovare nuove forme di legittimazione. Quale meglio dello sport nel quale la possenza fisica della popolazione diventa specchio dell’ascesa internazionale della nazione? «Lo sviluppo degli sport è strettamente associato al livello di sviluppo, all’economia e al grado di civiltà di un paese – spiegava recentemente al Global Times il professor Zhang Yiwu, consulente del governo cinese -. Per esempio, una persona affamata non avrebbe alcuna possibilità di praticare lo scooter freestyle».

Parigi e la vittoria di Taiwan

Più passano gli anni, più questa convinzione diventa esplicita. Lontano è il tempo in cui la «diplomazia del pingpong» suggellava l’appeasement (allentamento delle tensioni, ndr) tra la Cina di Mao e l’America di Nixon. Oggi, anziché pacificare, lo sport finisce troppo spesso per dividere. Prendiamo le Olimpiadi di Parigi 2024. Con un totale di 91 medaglie vinte, la Cina si è classificata seconda dopo gli Stati Uniti. Ma per i netizen (persona attiva su internet, ndr) cinesi gli ori sarebbero in realtà non 40 bensì 44. «Bisogna includere anche Taipei e Hong Kong, che sono parte della Cina», recita un post diventato virale sul social network Weibo. Le tensioni militari con Washington nello Stretto di Formosa e l’attenzione dell’occidente per il futuro dell’ex colonia britannica (sempre meno autonoma e più cinese) hanno riacceso le rivendicazioni di Pechino sui territori d’oltremare. Anche sul campo di gioco. Ad agosto la Tv di Stato ha interrotto la diretta, quando la squadra di badminton (una specie di tennis con un volano al posto della pallina e un campo ridotto, ndr) taiwanese ha battuto i colleghi cinesi nel doppio maschile, aggiudicandosi l’oro olimpico in uno degli sport dove la Repubblica popolare ha sempre eccelso.

Campi da gioco a Pechino. Foto Christian Lue – Unsplash.

Le accuse di doping

Altri imprevisti sono stati interpretati oltre la Muraglia come un «sabotaggio» o una mancanza di rispetto. La rottura di una racchetta o il mancato saluto dello sfidante prima del match, per molti tifosi cinesi, non sono semplici incidenti. Per non parlare delle accuse di doping. Poco prima dei Giochi di Parigi, Fbi e dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti hanno aperto un’inchiesta penale sul caso di 23 nuotatori cinesi risultati positivi e mai squalificati. Anzi, premiati con tre ori e due argenti olimpici a Tokyo nel 2021. In Cina, l’indagine è stata definita una manovra politica.

Lo ha detto chiaramente Fan Hong, ex nuotatore della nazionale cinese: «La competizione sportiva è una guerra senza armi da fuoco».

L’establishment usa un linguaggio meno diretto. Il 20 agosto, accogliendo gli atleti come eroi presso la Grande sala del popolo in piazza Tiananmen, il presidente Xi ha dichiarato che il team Cina ha «conquistato gloria per il Paese e il popolo». Di più: «Gli eccellenti risultati della delegazione sportiva cinese sono un riflesso concentrato dello sviluppo e del progresso della causa sportiva del paese. Sono anche un microcosmo dei risultati della costruzione della Cina moderna, dimostrando pienamente la forza del Paese nella nuova era», ha sentenziato il leader.

Mai più la «malata d’Asia»

Forza, fisicità, emancipazione internazionale: il governo cinese considera le competizioni sportive l’occasione per ottenere una rivalsa storica sull’occidente. Ancora prima della fondazione della Repubblica popolare, fu Mao Zedong a trattare il tema nei suoi scritti giovanili. Nel 1917, memore dell’umiliazione subita contro le truppe anglo-francesi durante le due guerre dell’oppio (1839-60), il Grande timoniere riscontrò nel saggio Uno studio sulla cultura fisica come «il nostro paese sta perdendo le sue forze. L’interesse pubblico per le arti marziali sta calando. La salute delle persone sta peggiorando ogni giorno che passa […] Il nostro paese si indebolirà ulteriormente se le cose continueranno a lungo invariate». La Cina non poteva continuare ad essere considerata la «malata d’Asia». Educazione fisica ed esercitazioni militari sono rimaste le colonne del programma sportivo del partito comunista durante la guerra civile contro i nazionalisti. Poi l’influsso sovietico, con la sua attenzione per l’esercizio fisico nelle scuole, rafforzò questa convinzione: «Nel campo della difesa nazionale, il paese ha bisogno di corpi potenti e abili. I giovani devono essere forti fisicamente, brillanti e vivaci, coraggiosi e acuti, duri e inflessibili», affermò nel 1959 il vicepresidente Zhu De.

Oggi la Cina è guarita dalla «malattia», ma il contesto internazionale attuale non è meno teso di quanto non lo fosse un secolo fa. Le relazioni con gli Stati Uniti e le altre ex potenze imperialiste sono ai minimi storici. Complice la retorica statale, il nazionalismo è tornato un sentimento diffuso nella Repubblica popolare. A fine agosto, divulgando per la prima volta il contributo ideologico di Xi sullo sport, un think tank governativo ha auspicato la definizione di un ordine sportivo globale più «giusto e ragionevole», attraverso un maggiore coinvolgimento dei paesi emergenti.

«I valori sportivi del fair play, del rispetto delle regole e del rispetto per gli avversari sono particolarmente significativi nella competizione tra grandi potenze», avrebbe dichiarato il presidente nei suoi discorsi.

Strategia e (tanti) soldi

La Cina strizza l’occhio al Sud globale. Ma, nel dare voce al mondo in via di sviluppo, in realtà, parla da seconda economia mondiale. Non è un mistero, infatti, che i successi inanellati dal gigante asiatico nello sport siano il prodotto di una complessa pianificazione statale, puntellata da generosi finanziamenti.

Con le Olympic glory-winning program guideline 2001-2010, nel 2002 l’Amministrazione generale dello sport (Gasc) stabiliva obiettivi e strategie per portare la Cina sui tre gradini del podio entro le Olimpiadi del 2008. Lavorando su quelle discipline (come il nuoto e il canottaggio) dove la performance cinese si era storicamente dimostrata deludente. O dove l’Occidente non aveva mai investito molto. Basti pensare che, dal 1984, il 75% degli ori cinesi sono concentrati in soli cinque sport – pingpong, tuffi, ginnastica, badminton e sollevamento pesi -, di cui oltre due terzi vinti da donne.

I calcoli strategici spiegano molto, ma non tutto. Nel Paese sono migliaia le scuole di sport foraggiate dal Governo incaricate di reclutare bambini talentuosi sin dalla tenera età per far di loro dei campioni. Gli ottimi risultati della Cina nel medagliere per anni hanno spinto gli stessi genitori – perlopiù provenienti dalle campagne – a sottoporre i loro figli al duro esercizio nell’ottica di dare ai piccoli un futuro radioso.

Secondo Global Times, dopo i Giochi di Parigi, il governo ha premiato gli atleti olimpici e le loro famiglie con bonus fino all’equivalente di 82.500 dollari. Gli incentivi economici sono l’asso nella manica di Pechino. Una manica molto larga.

Nel 2024, il budget stanziato per l’Amministrazione generale dello sport ammontava a oltre un miliardo di dollari. In confronto, nello stesso periodo, l’Australia – 53 medaglie vinte a Parigi – ha iniettato nella Commissione sportiva nazionale appena 323 milioni di dollari. Quando poi si tratta di grandi eventi il governo cinese davvero non bada a spese.
Secondo Business insider, le Olimpiadi invernali di Pechino sono costate quasi 40 miliardi di dollari rispetto agli 1,6 miliardi preventivati dalle autorità.

Ai poco noti Asian games, dove la Cina detiene il primato per numero di medaglie, l’impegno economico non è stato da meno. Hangzhou, la città cinese che, nel 2023, ha ospitato la competizione asiatica, ha sborsato in tre anni oltre 30 miliardi di dollari per costruire nuovi stadi, migliorare i trasporti e potenziare le strutture ricettive.

Università d iPechino, foto Kuan Fang – Unspalash

Interpretare il medagliere

Se gli sforzi (e i soldi) siano davvero ben riposti è però tutto da vedere. Come dicevamo, mentre alle Olimpiadi e ai Giochi asiatici la strategia di Pechino è riuscita alla lettera, nel calcio il «sogno cinese» continua ad essere un incubo. Nel 2016 la Federazione calcistica cinese ha svelato un piano da un miliardo di dollari l’anno per trasformare il paese asiatico in una «superpotenza calcistica mondiale» entro il 2050. Ma, ad oggi, la nazionale cinese continua a collezionare una sconfitta dopo l’altra, mentre la Super league (l’equivalente locale dell’italiana serie A) è travolta da scandali e purghe.

Inoltre, è vero che alle Olimpiadi la Cina ha portato a casa più medaglie rispetto a paesi come Australia, Giappone e Canada (pur avendo partecipato solo alla metà delle competizioni), tuttavia, se rapportati alle dimensioni della popolazione complessiva (1,4 miliardi di abitanti), i risultati ottenuti sono meno sfavillanti di quanto non sembri: con una medaglia in media ogni 2,2 milioni di persone, la Cina si posiziona al 107° posto nel mondo, dopo la Thailandia. Non solo. Il miglioramento degli standard di vita nel Paese – secondo gli esperti – lascia intendere che saranno sempre meno le famiglie a scegliere di separarsi dai propri piccoli aspiranti campioni. In termini di soft power, il bilancio è anche più dubbio. Alle nostre latitudini le cerimonie pirotecniche di Pechino non bastano a compensare le critiche in merito alla repressione delle libertà in Tibet e Xinjiang, o all’ingerenza cinese a Hong Kong. Lo dimostra il boicottaggio diplomatico (cioè non degli atleti) di Stati Uniti, Australia, Canada, Regno Unito e Lituania, durante i Giochi invernali del 2022. A Parigi, invece, ha fatto molto discutere l’intervento di presunti agenti cinesi sulle tribune per sequestrare gli striscioni di incoraggiamento agli atleti taiwanesi.

Nazionalismo e tifo

In Cina, lo Stato regge i fili di tutto. Nel bene e nel male. Dopo il fischio di inizio, l’impressione è però che tanta ingerenza alla fine diventi castrante anziché dopante. Secondo quanto ci spiega Dong-Jhy Hwang, vicepresidente della National Taiwan sport university, «sono necessari uno studio sul campo e nuove interviste con gli atleti cinesi per comprendere la relazione tra pressione politica e prestazioni». Nel corso degli anni, infatti, sempre più sportivi hanno deciso di uscire dal sistema delle scuole statali, scorgendo nella carriera sportiva un percorso individuale di crescita e soddisfazione personale.

Tra l’altro, anche nello sport il nazionalismo indotto dall’alto è parso sfuggire di mano: sempre più spesso l’amor patrio rischia di trasformarsi in tifo radicale. Così è stato anche alle Olimpiadi di Parigi, quando due giocatrici cinesi si sono affrontate nella finale femminile di tennistavolo, i fan dell’atleta sconfitta hanno attaccato ferocemente l’altra giocatrice con fischi e accuse online di tradimento. Nei giorni delle competizioni, le piattaforme social hanno affermato di aver rimosso decine di migliaia di post e bannato centinaia di account per «incitamento al conflitto». Almeno due persone sono state arrestate con l’accusa di aver diffamato gli atleti.

Sembrano veramente lontani i tempi della «diplomazia del pingpong».

Alessandra Colarizi

Ha suscitato clamore e proteste il caso dei 23 nuotatori cinesi trovati positivi all’antidoping, ma non squalificati. Foto Pixabay.

 




Cina. Cent’anni dal concilio cattolico di Shanghai

 

Ripensare alla storia del cattolicesimo in Cina guardando alla figura del cardinale Celso Costantini (1876-1958), l’uomo che nel 1924, da Delegato apostolico in Cina, su incarico di Papa Pio XI, riunì nella città di Shanghai tutti i vicari e i leader cattolici allora presenti nel Paese, presiedendo il primo «Concilio plenario della Cina», o Primum concilium sinense, come amano citarlo gli studiosi, è un esercizio utile per riflettere sulle sfide e sulle prospettive odierne della Chiesa cattolica nel Celeste impero, in una cornice internazionale profondamente mutata.

Nelle scorse settimane si sono coinvolti in questo impegno numerosi accademici di atenei di Europa e d’Oriente, studiosi, vescovi ed esperti, in tre convegni di carattere internazionale: uno a Milano (il 20 maggio, all’Università Cattolica del Sacro Cuore); uno in Vaticano (il 21 maggio, all’Università Urbaniana); un terzo a Macao tra il 26 e il 29 giugno.

Punto di partenza della riflessione è stato il centenario di quel Concilio di Shanghai che aprì la via dell’indigenizzazione della Chiesa cattolica cinese (si iniziò cioè ad affidare la guida della comunità al clero locale) e dell’inculturazione (esprimendo la fede attraverso forme culturali tipiche delle tradizioni cinesi).

Una convinzione ha accomunato tutti gli studiosi e i leader cattolici intervenuti – della Cina continentale, come l’arcivescovo di Shanghai, Joseph Shen bin, e della Santa Sede, come i cardinali Pietro Parolin e Louis Antonio Tagle -: il Concilio di Shanghai fu un momento cruciale nella storia della Chiesa in Cina, in primis perché i cattolici avrebbero potuto, da allora in poi, godere di maggiori responsabilità ecclesiali.

Quell’assemblea avviò il processo di «decolonizzazione» ecclesiastica della Chiesa locale, come si sarebbe visto con la consacrazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi vescovi nativi consacrati per la Cina in quasi 250 anni di storia missionaria.

Dopo il Concilio, Costantini continuò a opporsi alle forze che cercavano di imporre tratti europei alla presenza cattolica in Estremo Oriente: ad esempio, rientrato in Italia nel 1933, da segretario della Congregazione di Propaganda Fide (oggi Dicastero per l’evangelizzazione), sostenne la traduzione del messale in cinese per aiutare i fedeli a comprendere la messa, che allora si celebrava solo in latino (il placet definitivo sarebbe arrivato nel 1949).

«Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee», scriveva nei suoi memoriali il cardinale friulano, la cui personalità è possibile oggi conoscere tramite il volume Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente, curato per i tipi di Marcianum Press da Fabio Pighin, ordinario di Diritto canonico a Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione dello stesso Costantini.

Bruno Fabio Pighin, «Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un “ponte” tra Oriente e Occidente», Marcianum Press, 2024, 50 €.

Il punto di caduta di quella che è stata un’illuminante riflessione storica è stato l’evoluzione dei rapporti sino-vaticani e l’Accordo stipulato nel 2018 tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Infatti, come ha ricordato il cardinale Parolin nel convegno organizzato in Vaticano dall’Agenzia Fides, «l’azione missionaria e diplomatica di Costantini si fondava sulla necessità che la Santa Sede e le autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro».

A quella necessità si ricollega, allora, l’Accordo attualmente in vigore, rinnovato per due volte nel 2020 e nel 2022, e che si attende possa essere convalidato per un ulteriore biennio. Accanto a quel patto, che garantisce il reciproco riconoscimento dei Presuli eletti – sanando ferite di un passato in cui potevano esserci vescovi nominati in modo unilaterale da Pechino -, Parolin ha ricordato che, sul piano dei rapporti diplomatici (tuttora inesistenti), la Santa Sede auspica di poter avere una presenza stabile in Cina, in un processo che parte dall’aumentare i contatti, per individuare in seguito la forma adatta, anche diversa da una nunziatura stabile.

di Paolo Affatato

Per approfondire la figura del cardinale Celso Costantini visita: https://www.associazionecardinalecostantini.it/




Cina. L’offensiva culturale di Xi


L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e  totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.

Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.

Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.

Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.

Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.

La globalizzazione «armonica» di Xi

Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.

Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.

Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza

Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.

È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.

Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).

Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.

Teoria e realtà

C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-

ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.

La superiorità cinese

Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.

In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».

Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».

Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.

Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.

Il rapporto con gli Stati Uniti

Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.

Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».

Contro le contaminazioni

È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.

In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.

Radici confuciane e marxismo

In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».

Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.

Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.

Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.

Alessandra Colarizi