Capita che una ragazza cinese del continente (mainland, come dicono a Taiwan) sposi un uomo di Taiwan. Le statistiche parlando di un totale di circa 380mila.
Capita, inoltre, che alcune delle spose siano blogger o youtuber e che molte di loro abbiano realizzato video sulla loro vita a Taiwan.
È frequente che parlino bene di questa esperienza, e la confrontino con quella in Repubblica popolare.
Alcune hanno parlato del sistema sanitario a Taiwan, delle leggi e dell’efficienza governativa, paragonandoli a quelli della Cina continentale.
Le autorità di Pechino hanno espresso disappunto su questi video.
Secondo una fonte del Taipei Times pare che queste spose cinesi siano state oggetto di minacce da parte di cittadini della Cina continentale. I video non sarebbero piaciuti e i loro account YouTube sarebbero finiti sotto cyber attacco e sarebbero stati perturbati.
La fonte ha riferito che i canali YouTube sono stati inondati da commenti negativi tra i quali accuse di connivenza delle autrici con il Partito democratico progressista (Dpp), attualmente al potere a Taiwan, mettendo in questione la loro credibilità.
«Tuttavia, questi video non toccano temi politici. Sono realizzati per condividere la propria esperienza di vita quotidiana a Taiwan», ha commentato il professor Hung Chin-fu della National Cheng Kung University di Tainan (Taiwan).
«Parlando di elezioni democratiche e di facile acceso a cure mediche hanno toccato temi sensibili e il governo della Cina continentale si sente minacciato da questi contenuti. […]
Sono argomenti che possono impattare sul contesto attuale dell’economia della Repubblica popolare – continua il professore -. Vedere qualcuno che vive liberamente e felicemente a Taiwan potrebbe causare una reazione della gente in Cina».
Questo fenomeno è tuttavia da inquadrare in un più complesso sistema di scambi tra i due lati dello Stretto. Molti imprenditori taiwanesi fanno affari in Cina continentale dove hanno aperto filiali delle loro aziende. Migliaia di studenti cinesi del continente frequentano le università taiwanesi. Ogni anno centinaia di migliaia di turisti cinesi visitano l’isola. Senza contare il volume gli scambi commerciali tra i due lati dello Stretto.
(Tratto dal Taipei Times)
Cina. L’importante è vincere
Un tempo si diceva che l’importante è partecipare. Per il leader cinese non è così. Lo sport è inteso come una vetrina del Paese, il medagliere olimpico come un barometro del proprio status globale. Per questo, per vincere (anche) nello sport, la Cina fa uso di molti incentivi. Economici e non solo.
«Questo è il giorno più vergognoso per il calcio cinese». Venerdì 6 settembre, il web esplodeva alla notizia dell’ennesima sconfitta calcistica della nazionale cinese: un sonoro 7 a 0 contro il Giappone. Una vera debacle non solo per via del punteggio: 18° nella classifica mondiale della Fifa, il Sol Levante ha con la Cina dispute tutt’oggi irrisolte. L’occupazione nipponica del 1937 brucia ancora oltre la Muraglia e le isole contese nel Mar cinese orientale continuano a sfilacciare i rapporti tra i due paesi. Sempre più spesso, sport e geopolitica convergono infiammando gli spalti e il campo da gioco. Questo è vero soprattutto alle Olimpiadi, l’evento sportivo più importante a livello mondiale: il paese ospitante ne trae prestigio – o disonore – internazionale in base alle capacità organizzative. Per chi gareggia, invece, il medagliere diventa barometro del proprio status globale.
Pechino e le Olimpiadi
Nella sua (relativamente) breve storia olimpica, la Cina ha fatto il possibile per sfruttare la prestigiosa vetrina. Come tutti, d’altronde. Ma, nell’ex Celeste impero, la manifestazione ha un significato più profondo. Se per la maggior parte dei paesi è l’occasione per ravvivare un patriottismo ormai sbiadito, per la Repubblica popolare è addirittura l’opportunità per esorcizzare il ricordo di un passato doloroso e infamante. Boicottati i Giochi fino al 1984 in risposta alla partecipazione di Taiwan – «una provincia ribelle», secondo il governo comunista -, la Cina popolare ha recuperato velocemente il tempo perso.
Pechino è stata la prima città a ospitare sia le Olimpiadi estive nel 2008, sia l’edizione invernale nel 2022. La cerimonia di apertura in entrambe le occasioni è diventata il palcoscenico per raccontare l’ex Celeste Impero al mondo, attraverso una narrazione densa di rimandi storici e culturali. In particolare, i Giochi del 2008 hanno rappresentato molto di più di una semplice competizione sportiva. Hanno, infatti, portato la Cina sul proscenio internazionale, segnandone il riconoscimento sia come civiltà antica che come società in rapido sviluppo, con i suoi successi economici, tecnologici, sociali e culturali. Il tutto proprio mentre gli Stati Uniti venivano travolti dalla peggiore crisi finanziaria dalla grande depressione del ‘29.
Da allora la performance degli atleti cinesi, in costante miglioramento, è stata associata dalla propaganda ufficiale all’inevitabile sorpasso della Cina sull’occidente: non solo in termini economici. Anzi, il progressivo rallentamento della crescita nazionale ha reso più impellente per Pechino trovare nuove forme di legittimazione. Quale meglio dello sport nel quale la possenza fisica della popolazione diventa specchio dell’ascesa internazionale della nazione? «Lo sviluppo degli sport è strettamente associato al livello di sviluppo, all’economia e al grado di civiltà di un paese – spiegava recentemente al Global Times il professor Zhang Yiwu, consulente del governo cinese -. Per esempio, una persona affamata non avrebbe alcuna possibilità di praticare lo scooter freestyle».
Parigi e la vittoria di Taiwan
Più passano gli anni, più questa convinzione diventa esplicita. Lontano è il tempo in cui la «diplomazia del pingpong» suggellava l’appeasement (allentamento delle tensioni, ndr) tra la Cina di Mao e l’America di Nixon. Oggi, anziché pacificare, lo sport finisce troppo spesso per dividere. Prendiamo le Olimpiadi di Parigi 2024. Con un totale di 91 medaglie vinte, la Cina si è classificata seconda dopo gli Stati Uniti. Ma per i netizen (persona attiva su internet, ndr) cinesi gli ori sarebbero in realtà non 40 bensì 44. «Bisogna includere anche Taipei e Hong Kong, che sono parte della Cina», recita un post diventato virale sul social network Weibo. Le tensioni militari con Washington nello Stretto di Formosa e l’attenzione dell’occidente per il futuro dell’ex colonia britannica (sempre meno autonoma e più cinese) hanno riacceso le rivendicazioni di Pechino sui territori d’oltremare. Anche sul campo di gioco. Ad agosto la Tv di Stato ha interrotto la diretta, quando la squadra di badminton (una specie di tennis con un volano al posto della pallina e un campo ridotto, ndr) taiwanese ha battuto i colleghi cinesi nel doppio maschile, aggiudicandosi l’oro olimpico in uno degli sport dove la Repubblica popolare ha sempre eccelso.
Le accuse di doping
Altri imprevisti sono stati interpretati oltre la Muraglia come un «sabotaggio» o una mancanza di rispetto. La rottura di una racchetta o il mancato saluto dello sfidante prima del match, per molti tifosi cinesi, non sono semplici incidenti. Per non parlare delle accuse di doping. Poco prima dei Giochi di Parigi, Fbi e dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti hanno aperto un’inchiesta penale sul caso di 23 nuotatori cinesi risultati positivi e mai squalificati. Anzi, premiati con tre ori e due argenti olimpici a Tokyo nel 2021. In Cina, l’indagine è stata definita una manovra politica.
Lo ha detto chiaramente Fan Hong, ex nuotatore della nazionale cinese: «La competizione sportiva è una guerra senza armi da fuoco».
L’establishment usa un linguaggio meno diretto. Il 20 agosto, accogliendo gli atleti come eroi presso la Grande sala del popolo in piazza Tiananmen, il presidente Xi ha dichiarato che il team Cina ha «conquistato gloria per il Paese e il popolo». Di più: «Gli eccellenti risultati della delegazione sportiva cinese sono un riflesso concentrato dello sviluppo e del progresso della causa sportiva del paese. Sono anche un microcosmo dei risultati della costruzione della Cina moderna, dimostrando pienamente la forza del Paese nella nuova era», ha sentenziato il leader.
Mai più la «malata d’Asia»
Forza, fisicità, emancipazione internazionale: il governo cinese considera le competizioni sportive l’occasione per ottenere una rivalsa storica sull’occidente. Ancora prima della fondazione della Repubblica popolare, fu Mao Zedong a trattare il tema nei suoi scritti giovanili. Nel 1917, memore dell’umiliazione subita contro le truppe anglo-francesi durante le due guerre dell’oppio (1839-60), il Grande timoniere riscontrò nel saggio Uno studio sulla cultura fisica come «il nostro paese sta perdendo le sue forze. L’interesse pubblico per le arti marziali sta calando. La salute delle persone sta peggiorando ogni giorno che passa […] Il nostro paese si indebolirà ulteriormente se le cose continueranno a lungo invariate». La Cina non poteva continuare ad essere considerata la «malata d’Asia». Educazione fisica ed esercitazioni militari sono rimaste le colonne del programma sportivo del partito comunista durante la guerra civile contro i nazionalisti. Poi l’influsso sovietico, con la sua attenzione per l’esercizio fisico nelle scuole, rafforzò questa convinzione: «Nel campo della difesa nazionale, il paese ha bisogno di corpi potenti e abili. I giovani devono essere forti fisicamente, brillanti e vivaci, coraggiosi e acuti, duri e inflessibili», affermò nel 1959 il vicepresidente Zhu De.
Oggi la Cina è guarita dalla «malattia», ma il contesto internazionale attuale non è meno teso di quanto non lo fosse un secolo fa. Le relazioni con gli Stati Uniti e le altre ex potenze imperialiste sono ai minimi storici. Complice la retorica statale, il nazionalismo è tornato un sentimento diffuso nella Repubblica popolare. A fine agosto, divulgando per la prima volta il contributo ideologico di Xi sullo sport, un think tank governativo ha auspicato la definizione di un ordine sportivo globale più «giusto e ragionevole», attraverso un maggiore coinvolgimento dei paesi emergenti.
«I valori sportivi del fair play, del rispetto delle regole e del rispetto per gli avversari sono particolarmente significativi nella competizione tra grandi potenze», avrebbe dichiarato il presidente nei suoi discorsi.
Strategia e (tanti) soldi
La Cina strizza l’occhio al Sud globale. Ma, nel dare voce al mondo in via di sviluppo, in realtà, parla da seconda economia mondiale. Non è un mistero, infatti, che i successi inanellati dal gigante asiatico nello sport siano il prodotto di una complessa pianificazione statale, puntellata da generosi finanziamenti.
Con le Olympic glory-winning program guideline 2001-2010, nel 2002 l’Amministrazione generale dello sport (Gasc) stabiliva obiettivi e strategie per portare la Cina sui tre gradini del podio entro le Olimpiadi del 2008. Lavorando su quelle discipline (come il nuoto e il canottaggio) dove la performance cinese si era storicamente dimostrata deludente. O dove l’Occidente non aveva mai investito molto. Basti pensare che, dal 1984, il 75% degli ori cinesi sono concentrati in soli cinque sport – pingpong, tuffi, ginnastica, badminton e sollevamento pesi -, di cui oltre due terzi vinti da donne.
I calcoli strategici spiegano molto, ma non tutto. Nel Paese sono migliaia le scuole di sport foraggiate dal Governo incaricate di reclutare bambini talentuosi sin dalla tenera età per far di loro dei campioni. Gli ottimi risultati della Cina nel medagliere per anni hanno spinto gli stessi genitori – perlopiù provenienti dalle campagne – a sottoporre i loro figli al duro esercizio nell’ottica di dare ai piccoli un futuro radioso.
Secondo Global Times, dopo i Giochi di Parigi, il governo ha premiato gli atleti olimpici e le loro famiglie con bonus fino all’equivalente di 82.500 dollari. Gli incentivi economici sono l’asso nella manica di Pechino. Una manica molto larga.
Nel 2024, il budget stanziato per l’Amministrazione generale dello sport ammontava a oltre un miliardo di dollari. In confronto, nello stesso periodo, l’Australia – 53 medaglie vinte a Parigi – ha iniettato nella Commissione sportiva nazionale appena 323 milioni di dollari. Quando poi si tratta di grandi eventi il governo cinese davvero non bada a spese.
Secondo Business insider, le Olimpiadi invernali di Pechino sono costate quasi 40 miliardi di dollari rispetto agli 1,6 miliardi preventivati dalle autorità.
Ai poco noti Asian games, dove la Cina detiene il primato per numero di medaglie, l’impegno economico non è stato da meno. Hangzhou, la città cinese che, nel 2023, ha ospitato la competizione asiatica, ha sborsato in tre anni oltre 30 miliardi di dollari per costruire nuovi stadi, migliorare i trasporti e potenziare le strutture ricettive.
Interpretare il medagliere
Se gli sforzi (e i soldi) siano davvero ben riposti è però tutto da vedere. Come dicevamo, mentre alle Olimpiadi e ai Giochi asiatici la strategia di Pechino è riuscita alla lettera, nel calcio il «sogno cinese» continua ad essere un incubo. Nel 2016 la Federazione calcistica cinese ha svelato un piano da un miliardo di dollari l’anno per trasformare il paese asiatico in una «superpotenza calcistica mondiale» entro il 2050. Ma, ad oggi, la nazionale cinese continua a collezionare una sconfitta dopo l’altra, mentre la Super league (l’equivalente locale dell’italiana serie A) è travolta da scandali e purghe.
Inoltre, è vero che alle Olimpiadi la Cina ha portato a casa più medaglie rispetto a paesi come Australia, Giappone e Canada (pur avendo partecipato solo alla metà delle competizioni), tuttavia, se rapportati alle dimensioni della popolazione complessiva (1,4 miliardi di abitanti), i risultati ottenuti sono meno sfavillanti di quanto non sembri: con una medaglia in media ogni 2,2 milioni di persone, la Cina si posiziona al 107° posto nel mondo, dopo la Thailandia. Non solo. Il miglioramento degli standard di vita nel Paese – secondo gli esperti – lascia intendere che saranno sempre meno le famiglie a scegliere di separarsi dai propri piccoli aspiranti campioni. In termini di soft power, il bilancio è anche più dubbio. Alle nostre latitudini le cerimonie pirotecniche di Pechino non bastano a compensare le critiche in merito alla repressione delle libertà in Tibet e Xinjiang, o all’ingerenza cinese a Hong Kong. Lo dimostra il boicottaggio diplomatico (cioè non degli atleti) di Stati Uniti, Australia, Canada, Regno Unito e Lituania, durante i Giochi invernali del 2022. A Parigi, invece, ha fatto molto discutere l’intervento di presunti agenti cinesi sulle tribune per sequestrare gli striscioni di incoraggiamento agli atleti taiwanesi.
Nazionalismo e tifo
In Cina, lo Stato regge i fili di tutto. Nel bene e nel male. Dopo il fischio di inizio, l’impressione è però che tanta ingerenza alla fine diventi castrante anziché dopante. Secondo quanto ci spiega Dong-Jhy Hwang, vicepresidente della National Taiwan sport university, «sono necessari uno studio sul campo e nuove interviste con gli atleti cinesi per comprendere la relazione tra pressione politica e prestazioni». Nel corso degli anni, infatti, sempre più sportivi hanno deciso di uscire dal sistema delle scuole statali, scorgendo nella carriera sportiva un percorso individuale di crescita e soddisfazione personale.
Tra l’altro, anche nello sport il nazionalismo indotto dall’alto è parso sfuggire di mano: sempre più spesso l’amor patrio rischia di trasformarsi in tifo radicale. Così è stato anche alle Olimpiadi di Parigi, quando due giocatrici cinesi si sono affrontate nella finale femminile di tennistavolo, i fan dell’atleta sconfitta hanno attaccato ferocemente l’altra giocatrice con fischi e accuse online di tradimento. Nei giorni delle competizioni, le piattaforme social hanno affermato di aver rimosso decine di migliaia di post e bannato centinaia di account per «incitamento al conflitto». Almeno due persone sono state arrestate con l’accusa di aver diffamato gli atleti.
Sembrano veramente lontani i tempi della «diplomazia del pingpong».
Alessandra Colarizi
Cina. Cent’anni dal concilio cattolico di Shanghai
Ripensare alla storia del cattolicesimo in Cina guardando alla figura del cardinale Celso Costantini (1876-1958), l’uomo che nel 1924, da Delegato apostolico in Cina, su incarico di Papa Pio XI, riunì nella città di Shanghai tutti i vicari e i leader cattolici allora presenti nel Paese, presiedendo il primo «Concilio plenario della Cina», o Primum concilium sinense, come amano citarlo gli studiosi, è un esercizio utile per riflettere sulle sfide e sulle prospettive odierne della Chiesa cattolica nel Celeste impero, in una cornice internazionale profondamente mutata.
Nelle scorse settimane si sono coinvolti in questo impegno numerosi accademici di atenei di Europa e d’Oriente, studiosi, vescovi ed esperti, in tre convegni di carattere internazionale: uno a Milano (il 20 maggio, all’Università Cattolica del Sacro Cuore); uno in Vaticano (il 21 maggio, all’Università Urbaniana); un terzo a Macao tra il 26 e il 29 giugno.
Punto di partenza della riflessione è stato il centenario di quel Concilio di Shanghai che aprì la via dell’indigenizzazione della Chiesa cattolica cinese (si iniziò cioè ad affidare la guida della comunità al clero locale) e dell’inculturazione (esprimendo la fede attraverso forme culturali tipiche delle tradizioni cinesi).
Una convinzione ha accomunato tutti gli studiosi e i leader cattolici intervenuti – della Cina continentale, come l’arcivescovo di Shanghai, Joseph Shen bin, e della Santa Sede, come i cardinali Pietro Parolin e Louis Antonio Tagle -: il Concilio di Shanghai fu un momento cruciale nella storia della Chiesa in Cina, in primis perché i cattolici avrebbero potuto, da allora in poi, godere di maggiori responsabilità ecclesiali.
Quell’assemblea avviò il processo di «decolonizzazione» ecclesiastica della Chiesa locale, come si sarebbe visto con la consacrazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi vescovi nativi consacrati per la Cina in quasi 250 anni di storia missionaria.
Dopo il Concilio, Costantini continuò a opporsi alle forze che cercavano di imporre tratti europei alla presenza cattolica in Estremo Oriente: ad esempio, rientrato in Italia nel 1933, da segretario della Congregazione di Propaganda Fide (oggi Dicastero per l’evangelizzazione), sostenne la traduzione del messale in cinese per aiutare i fedeli a comprendere la messa, che allora si celebrava solo in latino (il placet definitivo sarebbe arrivato nel 1949).
«Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee», scriveva nei suoi memoriali il cardinale friulano, la cui personalità è possibile oggi conoscere tramite il volume Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente, curato per i tipi di Marcianum Press da Fabio Pighin, ordinario di Diritto canonico a Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione dello stesso Costantini.
Il punto di caduta di quella che è stata un’illuminante riflessione storica è stato l’evoluzione dei rapporti sino-vaticani e l’Accordo stipulato nel 2018 tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Infatti, come ha ricordato il cardinale Parolin nel convegno organizzato in Vaticano dall’Agenzia Fides, «l’azione missionaria e diplomatica di Costantini si fondava sulla necessità che la Santa Sede e le autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro».
A quella necessità si ricollega, allora, l’Accordo attualmente in vigore, rinnovato per due volte nel 2020 e nel 2022, e che si attende possa essere convalidato per un ulteriore biennio. Accanto a quel patto, che garantisce il reciproco riconoscimento dei Presuli eletti – sanando ferite di un passato in cui potevano esserci vescovi nominati in modo unilaterale da Pechino -, Parolin ha ricordato che, sul piano dei rapporti diplomatici (tuttora inesistenti), la Santa Sede auspica di poter avere una presenza stabile in Cina, in un processo che parte dall’aumentare i contatti, per individuare in seguito la forma adatta, anche diversa da una nunziatura stabile.
L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.
Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.
Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.
Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.
Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.
La globalizzazione «armonica» di Xi
Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.
Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.
Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza
Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.
È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.
Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).
Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.
Teoria e realtà
C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-
ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.
La superiorità cinese
Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.
In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».
Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».
Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.
Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.
Il rapporto con gli Stati Uniti
Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.
Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».
Contro le contaminazioni
È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.
In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.
Radici confuciane e marxismo
In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».
Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.
Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.
Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.
Alessandra Colarizi
Niger. Sempre peggio sicurezza e diritti
A un anno dal colpo di stato contro il presidente Mohamed Bazoum, il 26 luglio 2023, il bilancio del governo della giunta non è certo positivo. I militari presero il potere con la forza, motivando la loro azione con la necessità di sanare problemi di mal governo e riportare la sicurezza nel Paese.
Il Cnsp (Consiglio nazionale di salvaguardia della patria, la giunta), con alla testa il generale Abdourahamane Tiani, ha il controllo totale del paese. L’attività di partiti politici rimane sospesa, così come tutti gli organi democratici di governo, a livello nazionale e locale.
Il Cnsp ha imposto al contingente militare francese di partire, e recentemente, a quello Usa e tedesco, che devono lasciare il suolo nigerino entro fine agosto. Solo alcune centinaia di militari italiani (anche loro facevano parte della forza anti terrorismo ed erano stati chiamati dai francesi) rimangono nel paese, a spese dell’ignaro contribuente della penisola, e non è chiaro con quale incarico.
Sicurezza e diritti umani
In questo anno di governo militare, la situazione della sicurezza è peggiorata. È aumentato il numero degli attacchi da parte di gruppi armati, e anche quello delle perdite tra i soldati nigerini. I gruppi jihadisti hanno esteso il territorio sotto la loro influenza: sia nella zona di frontiera tra Niger e Benin, nella zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger) e addirittura nel Sud Est, dove Boko Haram pareva domato.
La società civile denuncia un forte degrado della situazione dei diritti umani. Sono state ristrette tutte le libertà civili, politiche e la libertà di stampa e di espressione. Molti politici e personalità legate al governo democratico sono ancora imprigionate, senza un preciso capo d’accusa. Diversi giornalisti sono stati arrestati o hanno subito pressioni, altri sono costretti ad applicare l’auto censura.
Il generale Tiani, che inizialmente aveva parlato di una transizione di tre anni, non ha più proposto alcun programma o scadenza per un ritorno alla democrazia. Intanto, dopo la prima fase di sanzioni, la comunità internazionale si è piegata alla realpolitik. La Cedeao (Comunità economica regionale) ha tolto le sanzioni economiche a gennaio, mentre Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno inviato esperti e ripreso a finanziare il paese a partire da giugno.
L’Unione europea ha invece mantenuto la sospensione della cooperazione, fatta eccezione di Italia e Spagna.
Nuovi e vecchi amici
Intanto, nel settembre scorso, Niger, Mali e Burkina Faso – anche questi ultimi due retti da giunte militari golpiste – hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (Ass). Alleanza che a inizio luglio (durante un incontro dei tre capi di stato militari proprio a Niamey) è diventata una Confederazione che si contrappone alla Cedeao, vuole intensificare gli scambi commerciali e cambiare la moneta lasciando il franco Cfa. Una tendenza all’isolamento, questa, almeno nei confronti degli stati confinanti.
A livello globale, il Niger si sta rivolgendo ad altri partner. Ha negoziato un prestito di 400 milioni di dollari con la Cina (che sta sfruttando il petrolio nigerino del giacimento di Agadem), necessario per pagare altri prestiti. Mentre per far funzionare l’apparato statale si valuta necessaria una spesa di circa 100 milioni di euro all’anno).
Il primo ministro (de facto), Ali Mahamane Lamine Zeine, inoltre, a inizio anno ha visitato Teheran, Mosca e Ankara, per rafforzare il legami con i paesi che stanno sostituendo quelli occidentali nello scacchiere saheliano.
In particolare la Cina è interessata alla cooperazione sul petrolio, ed è in vista un investimento per una raffineria nella regione di Dosso, e un secondo oleodotto verso il Ciad. Il primo, ultimato e funzionante, è gestito dalla China national petroleum corporation (Cnpc) porta il greggio in Benin, ma è soggetto alle problematiche legate al rapporto non buono tra i due paesi.
La Russia interviene con una cooperazione militare in cambio di risorse, come già in Mali e Burkina Faso. In Niger c’è un particolare interesse per l’uranio, del quale il Paese è uno dei maggiori produttori mondiali.
Marco Bello
Mondo. La geometria variabile dei diritti umani
La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.
«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.
Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?
In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.
Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).
Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.
«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».
Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.
A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.
Paolo Moiola
I due Dalai Lama
La successione del capo spirituale del buddhismo tibetano prevede la ricerca della sua reincarnazione. L’attuale Dalai Lama fu indicato nel 1937. Sul prossimo leader Pechino vuole dire la sua, ma le autorità religiose (in esilio) non ci stanno. I possibili i risvolti geopolitici.
Regione di Amdo, parte Nord orientale del Tibet. È il 1937, il piccolo Lhamo Dondrub ha all’incirca due anni. Un gruppo di monaci guidato dal lama Kewatsang Rinpoce chiede ospitalità nella casa della sua famiglia. Poco dopo, l’annuncio: Lhamo è la reincarnazione del Dalai Lama. I monaci pagano un ricco riscatto a Ma Lin, governatore della regione per conto del Kuomintang di Chiang Kai-shek, e portano il bambino nella capitale tibetana di Lhasa. Due anni dopo, Lhamo viene ufficialmente «incoronato» XIV Dalai Lama. Da lì in poi, sarà conosciuto col nome di Tenzin Gyatso, letteralmente «oceano di saggezza».
Verso il XV Dalai Lama
Sono passati quasi 90 anni dal viaggio di quei monaci. Ne sono passati 74 da quando, nel 1950, le truppe della Repubblica popolare cinese di Mao Zedong sono arrivate in Tibet dopo aver sconfitto il Kuomintang nella guerra civile. Ancora: sono trascorsi 65 anni da quel marzo del 1959 in cui Tenzin Gyatso ha lasciato per sempre il Tibet fuggendo in India dopo la repressione della rivolta di Lhasa.
Presto, potrebbe arrivare il momento in cui verrà individuato un nuovo bambino o una nuova bambina come XV Dalai Lama. Anzi, con ogni probabilità tutto questo potrebbe avvenire due volte. Da una parte un gruppo di monaci, o Tenzin Gyatso stesso, dall’altra il Partito comunista cinese: i bambini o bambine la cui vita cambierà per sempre sembrano destinati a essere due. Uno nominato dalle autorità spirituali o politiche tibetane in esilio, uno da quelle di Pechino. Risultato: due Dalai Lama.
La successione
Lo scenario è prossimo, a meno di accordi che al momento appaiono improbabili. Storicamente, quando un Dalai Lama muore, si forma un consiglio di alti lama per cercare la sua reincarnazione. Nel processo di selezione, noto col nome di «urna d’oro», il consiglio consulta vari segni e oracoli, nonché gli scritti e gli insegnamenti del Dalai Lama stesso, per farsi guidare nella ricerca che si conclude solitamente con l’individuazione di un bambino nato intorno al periodo della morte del predecessore.
Una volta identificata una potenziale reincarnazione, al bambino viene presentata una serie di oggetti appartenuti al precedente Dalai Lama e gli viene chiesto di identificare quali gli appartengono. In caso superi il test, serve poi la conferma definitiva di un’autorità politica.
E qui nasce il problema. Pechino sostiene di dover certificare la scelta del prossimo Dalai Lama, come fatto in passato. Un retaggio ereditato dai tempi dell’epoca imperiale e fino all’inizio del secolo scorso, quando il Tibet era governato dalla dinastia Qing. Un retaggio che Tenzin Gyatso non pare intenzionato a riconoscere.
Anche in quest’ottica sarebbe stata effettuata la separazione dell’autorità spirituale da quella politica, quando nel 2011 il Dalai Lama si è dimesso da capo del governo tibetano in favore di un successore eletto dal Parlamento in esilio. Potrebbe, dunque, essere questa entità, non riconosciuta da Pechino che la ritiene «illegale», a certificare la scelta del prossimo Dalai Lama. Quantomeno quello indicato dalle autorità tibetane esuli. Il Partito comunista potrebbe rispondere con un altro nome.
Il «vice Dalai Lama»
Le avvisaglie di quanto potrebbe accadere ci sono già dal 1995, quando un bambino di 6 anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato, Gyaincain Norbu. Sino da allora, la sorte del piccolo Gedhun è rimasta incerta. Nel 2022, in occasione del 33° anniversario della nascita, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha reiterato la richiesta a Pechino di «rendere conto del luogo e del benessere» di Gedhun.
Ennesimo chiarimento, qualora ce ne fosse stato bisogno, che gli Usa si schiereranno al fianco delle autorità tibetane in esilio nel momento cruciale della scelta del prossimo Dalai Lama.
Nello stesso comunicato del 2022, il dipartimento di Stato ha messo nero su bianco che Washington sostiene «la libertà religiosa dei tibetani e la loro unica identità religiosa, culturale e linguistica, compreso il diritto dei tibetani di scegliere, educare e venerare i propri leader, come il Dalai Lama e il Panchen Lama, secondo le proprie convinzioni e senza interferenze governative». Senza contare che, nel 2020, l’allora capo del governo tibetano in esilio era stato invitato per la prima volta a Washington dall’amministrazione Trump. Un riconoscimento politico, oltre che spirituale, che aveva fatto infuriare Pechino e fatto intravedere all’orizzonte nuove turbolenze sul dossier tibetano.
Dalla Mongolia la terza carica
Un’altra anticipazione di quanto potrà accadere nel prossimo futuro è arrivata nel marzo 2023, quando è emersa la nomina del decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, originario della Mongolia. La notizia è stata accolta con sentimenti contrastanti in Mongolia: gioia per la scelta di un proprio connazionale, timore per la reazione della Cina. Nel 2016, il governo mongolo aveva ricevuto forti lamentele da Pechino per la visita del Dalai Lama, rimasta, non a caso, l’ultima nel Paese. Il nuovo Khalkha Jetsun Dhampa, erede della famiglia Altannar (una delle più influenti della Mongolia) è peraltro nato negli Stati Uniti. C’è chi potrebbe leggervi un sottile messaggio (geo)politico. Nel frattempo, Tenzin Gyatso ha già lasciato intuire più volte che la sua reincarnazione potrebbe emergere al di fuori del Tibet per evitare le interferenze di Pechino sul processo di selezione. Il successore potrebbe essere originario di uno dei territori in cui si pratica il buddhismo tibetano, in particolare Nepal, Bhutan o, appunto, Mongolia. Il Partito comunista cinese ha finora nicchiato, ma non ha nessuna intenzione di rinunciare a quello che considera il proprio diritto di nomina. Qualche mese fa, l’attuale leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, ha dichiarato durante un viaggio in Australia che, se Pechino manterrà l’intenzione di nominare un suo Dalai Lama, ce ne saranno presto due.
Tibet: doppio binario
La vicenda ha diverse sfaccettature, sia spirituali che politiche, sia regionali che internazionali.
La prima questione che dovrebbe affrontare Pechino è la gestione del post doppia nomina sul proprio territorio. In particolare nella regione autonoma del Tibet, dove qualcuno potrebbe essere tentato di seguire le indicazioni in arrivo dalle autorità in esilio piuttosto di quelle del Partito comunista. Tutto ciò rischierebbe di riaprire un dossier che i funzionari cinesi sono convinti di aver archiviato dopo la repressione delle proteste del 2008, nei mesi precedenti ai Giochi Olimpici di Pechino.
Forse anche per questo negli ultimi anni è stata intensificata la politica a doppio binario con cui si è rafforzata l’integrazione del Tibet. Il primo binario è quello economico. Nel giro di poco più di 70 anni sono stati investiti nella regione circa 255 miliardi di dollari tra infrastrutture e altri progetti. Nel XIV piano quinquennale (2021-2025) sono stati allocati altri 30 miliardi, soprattutto per progetti legati al settore dei trasporti. Si lavora al cosiddetto «progetto del secolo», una nuova ferrovia che, quando completata (si prevede nel 2030), connetterà Lhasa (in Tibet) al capoluogo del Sichuan, Chengdu, in solo 12 ore: un terzo del tempo attualmente necessario viaggiando per strada. Il secondo binario è quello culturale. A fianco degli investimenti, Pechino ha promosso l’insediamento di cinesi di etnia han nella regione e il turismo interno verso il Tibet, che tra il 2016 e il 2020 ha portato nella regione oltre 160 milioni di turisti da altre province cinesi. Numeri clamorosi se si pensa che nel 2005 il Tibet riceveva meno di due milioni di visite all’anno.
Portare benessere e sinizzare, una duplice manovra che mira a «stabilizzare» in modo definitivo i pezzi di territorio cinesi potenzialmente più critici.
Oltre al Tibet, anche lo Xinjiang (provincia a maggioranza musulmana) e, in misura minore, la Mongolia interna. In questa strategia è importante anche la comunicazione. Non è un caso che dal 2022 in avanti le autorità e i media cinesi usino sempre più spesso il nome in mandarino del Tibet, Xizang (spesso tradotto in «tesoro dell’Ovest» dal suo posizionamento sulla mappa della Repubblica popolare). Soprattutto, non è un caso che lo facciano nei comunicati o contenuti in lingua inglese. Il messaggio all’esterno è chiaro: «La questione tibetana è puramente cinese», per la quale dunque Pechino si aspetta il rispetto del suo celeberrimo principio diplomatico della «non interferenza negli affari interni degli altri Paesi».
L’India non sta a guardare
In realtà, nella questione è coinvolta, già da tempo, anche l’India, che ospita le autorità tibetane in esilio sul suo territorio. A Nuova Delhi si dà ampio spazio alle manovre del Dalai Lama, soprattutto quando si reca nei pressi dello sterminato confine conteso tra India e Cina. Nell’estate del 2022, si è «schierato», con l’assistenza del governo indiano, sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi, dove ha tenuto un discorso critico sul governo cinese. Proprio la disputa territoriale si innesta su quella della successione di Tenzin Gyatso. Il leader buddhista vive infatti in esilio a non molta distanza da una frontiera che resta calda. Nel giugno del 2020 ci sono state diverse vittime causate da scontri tra i militari delle due parti. Diversi altri episodi sono stati registrati anche negli anni successivi. Una situazione che resta volatile dopo che diversi round di colloqui non hanno prodotto accordi significativi. Pechino e Nuova Delhi continuano a reiterare le rispettive pretese di sovranità su un’area altamente strategica anche per le sue risorse idriche, altro elemento che in futuro diventerà sempre più cruciale. Lo scorso settembre, alla vigilia del summit del G20 di Nuova Delhi al quale il presidente cinese Xi Jinping non si è recato, il governo di Pechino ha presentato una nuova mappa dei confini della Repubblica popolare in cui erano stati inclusi i vari territori contesi con l’India. Diverse località di quello che la Cina chiama «Tibet meridionale» e oggi parte dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, erano ribattezzate con nomi in mandarino. Il premier indiano Narendra Modi l’ha vissuto come uno sgarbo, giunto proprio mentre ospitava l’evento che aveva presentato come fiore all’occhiello del proprio secondo mandato. Durante la campagna elettorale per il voto iniziato ad aprile, Modi si è recato non lontano da alcune aree di confine dove continuano a essere inaugurate strade e vengono dislocate nuove truppe.
Sullo sfondo, ma neanche troppo, gli Stati Uniti che, dopo la guerra in Ucraina, stanno provando a rafforzare i legami militari con l’India, fornendo anche tecnologia satellitare e difensiva potenzialmente utile in uno scenario di confronto alla frontiera con la Cina. Washington sarà con ogni probabilità in prima fila ad appoggiare il Dalai Lama che Pechino riterrà «illegale», facendo tornare prepotentemente il Tibet (o Xizang) in cima all’agenda dei dossier più delicati delle relazioni tra le due potenze.
Lorenzo Lamperti
Cina. Armi: più export e meno import
Una Sviluppato dalla statale Aviation industry corporation of China (Avic), il jet è un aereo monoposto, bimotore, per caratteristiche paragonabile – del colosso della difesa americana Lockheed Martin. Non solo la tecnologia stealth consente ai velivoli di individuare prima gli avversari e lanciare attacchi a sorpresa. Secondo Wei Dongxu, esperto militare citato dal South China morning post, gli FC-31 possono trasportare un’ampia selezione di munizioni, fino a due missili aria-superficie o tre missili aria-aria, oltre a diverse bombe a guida laser.
L’acquisto allunga la lista della spesa di Islamabad e consolida la posizione della Cina tra gli esportatori di armi globali. A confermarlo è l’ultimo rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), stando al quale, nel periodo 2019-23 la Cina ha venduto armi a 40 stati: con una quota dell’export globale del 5,8%, il gigante asiatico si è posizionato di nuovo al quarto posto nella classifica mondiale, sebbene il volume delle vendite sia leggermente inferiore al quinquennio precedente.
Il primo acquirente è proprio il Pakistan, che da solo ha assorbito il 61% delle esportazioni cinesi, seguito da Bangladesh (11%) e Thailandia (6%). Il dato è particolarmente visibile nell’Africa subsahariana. Qui, nel periodo preso in esame, la Cina ha ottenuto una quota del 19% delle importazioni di armi, superando – anche se di poco – la Russia, ferma al 17%. Numeri che rendono la Repubblica popolare il nuovo fornitore numero uno, sebbene Mosca detenga ancora il primato nel continente, se al conto si aggiunge il Nord Africa (24%). Tendenza che, oltre ad essere trainata dalla ricerca di profitti, sembra in parte guidata dalla necessità di armare e stabilizzare i paesi dove la Cina ha investito più massicciamente. Non a caso tra gli ultimi accordi spiccano forniture di attrezzature militari allo Zimbabwe, ricco di miniere di litio.
Contestualmente, secondo lo studio del Sipri, la «non c’è stata una spaccatura politica tra Ucraina e Cina in grado di impattare le relazioni militari». Il motivo, secondo l’organizzazione con base a Stoccolma, è che la Russia non può sostituire completamente l’Ucraina, paese da cui anche Mosca ha storicamente attinto per ottenere attrezzature navali e aeree. Ma il vero ostacolo resta la produzione di aerei: nonostante i progressi nel settore dei motori, Pechino dovrà continuare a importare aeromobili ad elica dalla Russia o a costruirli su licenza con la Francia.
La Repubblica popolare costituisce un po’ un’eccezione in Asia, la regione in assoluto dove lo shopping di armi è aumentato più drasticamente. Secondo il Sipri, negli ultimi cinque anni, India, Pakistan, Giappone, Australia, Corea del Sud si sono classificati tra i primi dieci importatori su scala globale. Il primato delle importazioni globali di armi lo detiene Nuova Delhi, che fronteggiando perennemente il rischio di un conflitto con Islamabad e Pechino, ha aumentato la spesa del 9,8% rispetto al 9,1% del lustro precedente. Almeno in parte, sempre il fattore Cina sembra giustificare la sostenuta crescita dell’arsenale di Giappone e Corea del Sud: i due paesi asiatici hanno incrementato la quota degli acquisti militari rispettivamente del +155% e +6,5%. Complice la minaccia nordcoreana.
Non serve troppa immaginazione per capire da chi si siano riforniti: gli Stati Uniti – che muovono i fili delle alleanze regionali – sono stati la principale fonte di armi per entrambi i paesi asiatici. Con una crescita del 17%, Washington ha raggiunto il 42% delle vendite mondiali: sono ben 107 gli stati ad aver ottenuto attrezzature americane tra il 2019 e il 2023. A gennaio il Tokyo si è impegnato ad acquistare 400 missili da crociera Tomahawk, con capacità di contrattacco in territorio nemico. Ai sensi dell’accordo, il Sol Levante sosterrà un esborso di circa 254 miliardi di yen (1,6 miliardi di dollari), per i missili e le attrezzature correlate, su un periodo di tre anni a partire dall’anno fiscale 2025.
Alessandra Colarizi
L’invasione dei «coccodrilli» cinesi
Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.
Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).
Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.
Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.
I progressi cinesi
Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.
Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.
Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.
Il peso delle sovvenzioni
Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.
A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.
Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.
I cambiamenti
Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.
Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).
Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore. Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.
Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-
zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.
Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.
Modulare l’offerta
Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.
L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.
Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.
Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».
Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.
Raccolta di dati sensibili
Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.
Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.
Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.
Il Partito e la concorrenza
Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.
Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.
Le auto di Pechino
Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.
Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.
Restrizioni e nuovi mercati
Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.
Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.
L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.
Alessandra Colarizi
Cina. La ciotola di ferro
L’economia di Pechino cresce meno rispetto al passato e la disoccupazione giovanile è alta. Anche per questo si sono diffusi termini come «tangping» (stare sdraiati), «neijuan» (involuzione), «bailan» (lasciare marcire), indicatori di un malessere preoccupante, soprattutto tra i più giovani.
«Posso semplicemente dormire nella mia botte godendomi un bagno di sole come Diogene, o vivere in una grotta come Eraclito e pensare al “logos”. Poiché su questa terra non è mai esistita davvero una scuola di pensiero che esalti la soggettività umana, posso crearla io stesso. Stare sdraiati (tangping) è il mio movimento filosofico: solo stando sdraiato l’uomo può diventare misura di tutte le cose».
Nell’aprile 2021, sul forum Baidu Tieba, un giovane cinese di nome Luo Huazhong spiegava il motivo che lo aveva portato a scegliere uno stile di vita sobrio e minimalista.
Annoiato dalla routine, nel 2016 il ventiseienne aveva lasciato un lavoro in fabbrica poco gratificante. Inforcata la sua bici, aveva poi pedalato per 2.100 chilometri dalla provincia del Sichuan al Tibet tra vallate sconfinate e paesaggi mozzafiato. Tornato nella sua città natale, nella Cina orientale, all’epoca del suo post, trascorreva il tempo leggendo libri di filosofia e tirava a campare con lavoretti da 60 dollari al mese. Certo, ormai poteva permettersi solo due pasti al giorno, ma – come recitava il post – meglio stare sdraiati ad assaporare i piccoli piaceri della quotidianità piuttosto che trascorrere le proprie giornate sulla catena di montaggio.
Cinesi e «sdraiati»
Luo non è l’unico a pensarla così. Nel 2021, la parola tangping è stata annoverata tra i dieci meme più popolari dell’anno dal «Centro nazionale di monitoraggio e ricerca delle risorse linguistiche», agenzia affiliata al ministero dell’Istruzione cinese. Secondo un sondaggio condotto nel 2022 dalla società di ricerca Tsingyan Group, circa il 96% di seimila rispondenti ha affermato di conoscere persone «sdraiate», con una concentrazione maggiore tra la popolazione di età compresa tra i 26 e i 40 anni.
La viralità del tangping non è, però, solo un fenomeno di costume, una moda del momento. È il sintomo di un malessere più ampio: come altrove, anche in Cina, le aspettative personali cambiano di generazione in generazione. Ma nella Repubblica popolare, più che altrove, l’insolita «apatia giovanile» rispecchia la mancanza di prospettive professionali.
D’altronde gli «sdraiati» sono in buona compagnia. Negli ultimi anni la blogosfera cinese ha generato espressioni simili a tangping: neijuan (involuzione) e bailan (lasciare marcire) sono termini che – sebbene con gradi diversi – esprimono ugualmente il profondo pessimismo dei più giovani verso il futuro. La crescita cinese rallenta e i millennials (si intende la generazione nata negli anni ‘80 e prima metà ‘90, ndr), cresciuti nell’era della prosperità, sperimentano le prime difficoltà economiche.
Stipendi da 256 euro
Stando alla Banca mondiale, nel 2022 il reddito pro capite cinese si aggirava sui 13mila dollari rispetto ai mille scarsi del 2000. Ma ora «l’ascensore» sembra essersi un po’ fermato.
Dall’inizio del Covid, per molte categorie professionali gli stipendi sono rimasti invariati o sono persino diminuiti. Secondo uno studio della Beijing Normal University, circa 964 milioni di persone in Cina guadagnano ancora meno di 2.000 yuan al mese (256 euro). Nel migliore dei casi si tratta di una fase di assestamento. Nel peggiore degli scenari, sono già i primordi della famigerata «trappola del reddito medio»: se così fosse, esaurita la scintilla del progresso, il gigante asiatico sarebbe condannato a restare bloccato in una fase di stagnazione. D’altronde, la mobilità sociale è in evidente fase di stallo.
Settori che hanno trainato la locomotiva cinese nei primi anni Duemila sono entrati in crisi: l’immobiliare – bene rifugio per molte famiglie cinesi – risulta distorto da decenni di bolla speculativa. L’economia digitale – miniera d’oro di Alibaba, Tencent & Co. – sconta ancora il colpo di coda della pandemia. Complice la stretta normativa avviata dal Governo tre anni fa per disciplinare le big tech: come in Occidente, anche in Cina sono fioccate accuse di pratiche anticompetitive, ma anche di sfruttamento. Non è un caso che i vari meme tangping, neijuan e bailan, abbiano attecchito soprattutto tra gli impiegati nell’Information technology (It), mediamente ben pagati, certo, ma sottoposti a turni di lavoro mortali (nel vero senso della parola).
Per ammortizzare il calo dei ricavi, nel 2022, Alibaba ha ridotto la propria forza lavoro di 19.576 unità, per poi effettuare un ulteriore taglio di 11.065 posti, arrivando a circa 230mila dipendenti (luglio 2023). «Ottimizzazioni» simili sono state annunciate da Tencent e dagli altri principali competitor nazionali per un totale di 216.800 posizioni chiuse tra luglio 2021 e marzo 2022. Strage anche nel comparto del tutoring online, sottoposto a un’analoga campagna di rettificazione. Mentre il Governo cinese puntava ad alleggerire la spesa delle famiglie e il carico degli studenti, l’unico risultato concreto della ferrea regolamentazione è riscontrabile nella perdita di almeno un milione di posti di lavoro. L’impatto in termini occupazionali è molto più devastante considerata la popolarità del settore tra i giovani alle prime esperienze professionali. Un bel problema per i neolaureati che, secondo stime del ministero dell’Istruzione, il prossimo anno raggiungeranno quota 11,79 milioni, 210mila in più rispetto al 2023. Quel che è peggio i numeri vanno proiettati nel calo generalizzato del settore dei servizi, e in particolare del comparto privato; proprio quello che assorbe ben l’80% dell’occupazione urbana, ma lo scorso anno quello stesso comparto privato ha rappresentato solo il 40% delle 100 maggiori società quotate del paese, il valore più basso dal 2019.
Voglia di pubblico
Al tentativo di rafforzare il controllo statale sull’economia, i giovani hanno risposto come prevedibile. Ovvero facendo a gomitate per aggiudicarsi la cosiddetta «ciotola di ferro»: lavori nel settore pubblico retribuiti così così, ma stabili e con numerosi benefit. A novembre, 2,25 milioni di persone hanno sostenuto l’esame nazionale per diventare dipendenti pubblici a fronte di soli 39.600 posti vacanti. Altri, al contrario, valutando la precarietà del momento, hanno optato per soluzioni di transizione. Nel 2021 erano circa 200 milioni i «lavoratori flessibili», inclusi 4 milioni di rider e oltre 1,6 milioni di live streamer (coloro che trasmettono in diretta via web). Un trend, quello della gig economy, rimasto costante anche una volta rimosse le misure anti Covid. Secondo un rapporto pubblicato dalla principale piattaforma di reclutamento Zhilian Zhaopin e dall’Università di Jinan, nel primo trimestre del 2023 la domanda per lavoretti temporanei è continuata ad aumentare nonostante il graduale calo dell’offerta.
Chiariamo: seppure con il freno a mano tirato, l’economia cinese continua a generare milioni di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione complessivo è rimasto stabile, poco sopra il 5%. Ma, si sa, i numeri ufficiali vanno presi con le molle. Non solo perché tengono conto esclusivamente della popolazione urbana, laddove il 40% dei cinesi vive ancora in campagna. Dopo aver segnalato a giugno un tasso di disoccupazione giovanile del 21,3%, il livello più alto mai registrato, l’Ufficio nazionale di statistica ha sospeso «momentaneamente» la pubblicazione dei dati. E quando, a gennaio, l’ha ripresa, l’indice era sceso al 15%, secondo un nuovo sistema di valutazione.
Percorrere altre strade
In assenza di stime attendibili, sono proprio le testimonianze sporadiche dei giovani internauti la risorsa più utile per ricostruire la situazione lavorativa nel Paese. Oltre agli «sdraiati», gli ultimi anni di incertezze hanno favorito la diffusione di abitudini di vita parimenti «anticonformiste»: è questo il caso della popolarità riscossa dai luoghi sacri. Stando ai dati diffusi dalla piattaforma turistica Qunar, le visite ai templi sono aumentate del 367% nel primo trimestre del 2023. Una conversione mistica in buona parte associata ai millennials, tanto che circa la metà dei visitatori risultava nata dopo il 1990.
«Qui mi sento rilassato e a mio agio», spiega al Lianhe Zaobao un trentenne entrato come volontario in un tempio di Shenzhen per sperimentare una «vita diversa». Anziché pregare per trovare un buon lavoro, qualcuno ha tentato la fortuna. Tra gennaio e ottobre 2023, i biglietti della lotteria sono andati a ruba, con vendite in aumento del 53% rispetto all’anno precedente.
Migrazione verso gli Usa
Optando per un’esistenza più rilassante in tipico spirito tangping, sono sempre di più i giovani cinesi che si trasferiscono nelle località più selvagge e amene del Paese; chi in smart working chi in cerca di forme più hipster di sostentamento. Qualcun altro ha, invece, deciso di rifarsi una vita all’estero. Anche a costo di finire nelle grane.
Secondo dati del Dipartimento per la Sicurezza nazionale americana, il numero di persone con passaporto cinese ad aver attraversato il confine degli Stati Uniti senza documenti validi è più che raddoppiato negli ultimi anni. Quasi 60mila immigrati cinesi sono stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine negli ultimi 14 mesi. In confronto ammontano solo a 24.603 i visti rilasciati regolarmente. Ma non serve andare tanto lontani per trovare una stabilità economica. A marzo 2023, in Cina, risultavano esserci 16 milioni di «figli a tempo pieno»: adulti (perlopiù disoccupati) disposti a vivere a casa assistendo i propri genitori in cambio di una retribuzione mensile.
Occupazioni digitali
Consapevoli del problema, le autorità stanno cercando di correre ai ripari. Nuove linee guida dovrebbero regolamentare meglio la gig economy. Nel 2022, la Cina ha aggiunto 158 nuove occupazioni al suo elenco dei lavori ufficialmente riconosciuti: 97 riguardano l’economia digitale, dal marketing online all’intelligenza artificiale.
Se tutto andrà come da programma, entro il 2030 saliranno a 449 milioni i posti sostenuti dalla digitalizzazione. Nel frattempo, Pechino si affida a misure estemporanee.
Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero delle Finanze, nel 2023 il governo centrale ha destinato 66,76 miliardi di yuan (9,17 miliardi di dollari) alle indennità di disoccupazione, un aumento annuo dell’8%. In alcune province, come lo Anhui, le imprese statali sono tenute non solo a reclutare neolaureati, ma anche a farlo rispettando quote prefissate.
Legittimità e benessere
Tanta premura è comprensibile: preservare la salute del mercato del lavoro è una questione in parte economica, in gran parte di stabilità sociale. Lo è soprattutto in Cina dove, in mancanza di elezioni popolari, il partito comunista fonda la propria legittimità politica sulla capacità di assicurare benessere economico. Dal movimento del 5 maggio 1919 alle proteste di piazza Tian’anmen, nel corso della storia cinese sono sempre stati i giovani a guidare le grandi mobilitazioni di piazza.
È proprio guardando al passato che, negli ultimi anni, la leadership cinese ha lanciato programmi di formazione di ispirazione maoista. Controllare la qualità delle coltivazioni, dipingere muri e ravvivare la lealtà politica dei contadini: sono alcune delle mansioni svolte dai giovani disposti a lavorare nelle campagne come ai tempi della Rivoluzione culturale. Oggi, tuttavia, non si vuole solo indottrinare le nuove generazioni. Domare la disoccupazione urbana è un’altra condizione imprescindibile per «costruire un paese socialista moderno», come vuole Xi. Questo aveva quasi certamente in mente il presidente quando ha ordinato di «guidare sistematicamente i laureati nelle zone rurali».
Propagandare l’ottimismo
Può sembrare una decisione disperata. Se così è, però, Pechino non lo dà a vedere. Alla parola disoccupazione la dirigenza comunista preferisce l’eufemismo «occupazione lenta»: secondo la vulgata ufficiale, il problema non sta nella mancanza di lavoro, ma nei giovani che, finiti gli studi, prendono tempo per pianificare il proprio futuro. L’importante è crederci, come si suol dire. D’altronde, la comunicazione o – meglio – la propaganda è tutto per il regime comunista che, dai tempi di Mao, legittima i propri (in)successi con la mobilitazione di massa.
Così, se la parola del 2021 era tangping, secondo i media governativi lo scorso anno è stata zhen, «rivitalizzazione». Uno sfoggio di ottimismo per incoraggiare i cittadini a sostenere il paese (e la sua leadership) davanti alle avversità economiche. Peccato che gli «sdraiati» di alzarsi non sembrano averne alcuna voglia.