Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.

«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.

E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.

Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.

C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.

A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».

Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump  – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.

Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD

Le richieste di Trump e la reazione del Congresso

Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.

Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.

I primi cinque paesi toccati dall’aiuto estero statunitense (foreign aid, una categoria che non coincide esattamente con l’aiuto pubblico allo sviluppo monitorato dall’Ocse) sono Israele (3,1 miliardi), Egitto (1,39 miliardi), Giordania (1 miliardo), Afghanistan (783 milioni) e Kenya (639 milioni)@.

Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.

«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.

La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Tagli effettivi

Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.

A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».

«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».

Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit

Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).

Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.

  • La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
  • La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
  • La terza tendenza, infine, potrebbe essere uno spostamento verso il basso dei temi dello sviluppo nell’agenda politica@.

Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».

Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

Chiara Giovetti

 




Corea del Sud: L’ospite d’onore


Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.

Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.

Geoffrey con la signora Angela degli Amici dei Missionari della Consolata, vestita con l’hambok, l’abito tradizionale.

Ospite o straniero?

Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:

  1. a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
  2. b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.

Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».

E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.

L’ospite, il nuovo arrivato

«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.

Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.

Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».

I pomodorini sulla torta

«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».

Da qui in avanti le foto raccontano della festa della Consolata celebrata il 20 giugno 2017 nella comunità di Yeokgokdong.

Con le lacrime agli occhi

«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».

Il rito del Soju

«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».

Shiksa

«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.

Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.

Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».

 Gian Paolo Lamberto




Aromi e sapori di casa lontana


Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Non solo cibo

Il cibo riveste un ruolo cruciale nelle storie raccontate da molte donne: lo dimostrano i tanti testi che ogni anno giungono al «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», assunto come progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è diretto alle donne straniere (anche di seconda e terza generazione) residenti in Italia e prevede anche una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere.

Molto più di un semplice premio letterario, il Concorso Lingua Madre negli anni si è trasformato in qualcosa di più grande, grazie anche all’ampia rete di contatti e legami intessuti con associazioni, enti, scuole, carceri, realtà al femminile presenti su tutto il territorio nazionale, ma anche internazionale. Dal 2005 a oggi sono state oltre 4.000 le partecipanti e, tra queste, moltissime hanno dedicato le proprie narrazioni al cibo, sottolineandone il valore identitario, culturale, sociale e simbolico. Da questa constatazione è nata nel 2009 la collaborazione del Concorso con Slow Food che, insieme a Terra Madre, offrono un premio speciale al racconto maggiormente ispirato a piatti e tradizioni culinarie.

E, ancora, proprio grazie a questa forte attinenza tematica, l’anno scorso e in concomitanza con Expo Milano 2015, il Concorso è entrato – con una serie di iniziative e progetti – nel grande network al femminile We Women for Expo, nato per agire sui temi dell’alimentazione, per migliorare il diritto universale al cibo.

Il Concorso è inoltre tra i principali partner di Transnational Appetites: Migrant Women’s Art and Writing on Food and the Environment, un progetto di ricerca – di cui è titolare la prof. Daniela Fargione -, promosso dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, che ha come obiettivo quello di esplorare la relazione tra arte, letteratura, cibo, cambiamenti climatici, ecologia, dalla prospettiva delle donne migranti. A esso è collegato il Festival «Alla tavola delle migranti» (che avrà luogo il 17 settembre 2016 presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di Torino): una manifestazione pensata per coinvolgere l’intera cittadinanza sui temi delle culture migranti, della biodiversità culturale, del rispetto dell’ambiente e delle sue risorse in un’ottica di condivisione e cambiamento tra dibattiti, concerti musicali, mostre fotografiche, laboratori di disegno, reading, proiezioni di film e documentari, con la partecipazione di ospiti inteazionali.

Ecco a voi dunque i racconti vincitori del Premio Speciale Slow Food/Terra Madre: una raccolta ricca di tutti i sapori, i colori, i profumi del mondo.

Daniela Finocchi
ideatrice e direttrice del concorso


borscht_in_white_wine_recipe_-_russian_cuisine_170574324-cut1. Il profumo della domenica

di Michaela Sebokova (Slovacchia)

Mi attendeva una lunga giornata all’ospedale, tra una visita diagnostica e l’altra. Non era un periodo buono. Superati i quarant’anni, il mio corpo ha iniziato a protestare. Era giunto il momento di scoprie il motivo. Dopo lunghe discussioni ho convinto mio marito che mi lasciasse affrontare gli esami da sola. Avrebbe pensato lui ai ragazzi, alla scuola e al pranzo.

La mattina degli esami mi sono munita di pazienza, ho infilato una bottiglietta d’acqua nella borsa e sono partita per l’ospedale. Le solite stradine tortuose di montagna, l’abituale traffico di fuoristrada rombanti, api singhiozzanti e motorini folli, semafori rotti, gente a piedi, il piccolo parcheggio sempre pieno. Per incoraggiarmi, prendo un buon caffè al bar accanto all’ospedale e mastico un pezzo di crostata. Mmmh, buona. Sembra fatta in casa. Forse la prepara la mamma del barista. Per un attimo non penso ad altro. La magia del cibo funziona sempre.

Salendo al primo piano passo davanti all’edicola. Mentalmente scarto tutte le riviste che costano più di due euro. La scelta si restringe alle riviste tascabili di cucina. Ne prendo una qualsiasi, pago, e mi siedo davanti all’ambulatorio. Chissà come mai, non ho tempo per cominciare ad annoiarmi che già mi chiamano.

Dopo un’ora esco, sfinita. Bevo un sorso d’acqua, la mano trema, anche la bocca trema. «Su, da brava, che non è niente, hai quasi finito!» cerco di convincermi. Mi ritiro in un angolino, accanto alla finestra. Per il secondo esame devo aspettare il primo pomeriggio, non mi conviene tornare a casa.

Così me ne sto seduta lì, su una brutta sedia di plastica, a osservare la pioggia che batte violentemente sul vetro. Il cielo è cupo e le grosse nuvole corrono a Est, inseguite dal vento. Sento che la mia maschera di coraggio si sta di nuovo sgretolando, il brutto tempo mi si rispecchia nell’anima. Come se cercassi l’ancora di salvataggio, apro la borsa e tiro fuori il libricino di cucina. Vediamo. Polpette di agnello. Torta di radicchio. Pubblicità. Zuppa di lenticchie, bene. Crostata di zucca (ecco, siamo sotto Halloween). Pubblicità. Mi tolgo gli occhiali, mi riposo un po’. Per la prima volta guardo in faccia le persone che dividono la sala d’attesa. Non la condividono, ma la dividono, perché ognuna ha creato intorno a sé un piccolo spazio personale impenetrabile per gli altri. E forse nessuno vuole violentare lo spazio di qualcun altro, ognuno chiuso nei propri problemi e pensieri, dolori e preoccupazioni. Non ci sono bambini, gli unici ammessi a penetrare le difese degli adulti.

C’è una signora anziana, elegante nel suo cappotto un po’ fuori moda. Ogni tanto mi rivolge un’occhiata curiosa. Non m’infastidisce, non è per niente invadente. Ricomincio a leggere. Anatra con le mele. Ravioli di pesce. Pubblicità. L’infermiera chiama l’anziana signora. Torta di patate. Cavolfiore gratinato. Pubblicità. La signora esce, si rimette in una paziente attesa. La osservo sopra gli occhiali, mi sembra che stia recitando una preghiera. Distolgo educatamente lo sguardo. «Io sono una donna forte, forte!» mi ripeto come un mantra e continuo a leggere. Pasta all’uovo. E poi, una breve scritta, un’introduzione: «Il profumo di lasagne, di cannelloni, di pasta al foo che si diffonde in casa… A chi questi piatti non farebbero tornare in mente la domenica, la mamma, l’infanzia?».

Rimango pietrificata. Del tutto irragionevolmente ho voglia di gridare a squarciagola «A me! A me non fanno ricordare proprio niente della mia infanzia, le lasagne e la pasta al foo!». All’improvviso mi sento fuori luogo, fuori paese, fuori pianeta. Mi sembra di essere in un posto del tutto sbagliato, perché i miei ricordi sono sbagliati. La domenica di casa mia sapeva di brodo di carne, pollo fritto, purea di patate e pesche sciroppate. Come faccio a vivere qui, se la parola «lasagne» non sveglia in me nessuna emozione?

Pensavo di essere ormai immunizzata. Integrata. Una brava moglie e mamma di figli italiani. Mimetizzata, una straniera che non nasconde di esserlo ma che non le dispiace se la scambiano per un’italiana; in realtà l’immagine di mimetizzarsi è del tutto ridicola, in un paesino di montagna che conta sì e no cinquecento abitanti e dove tutti sanno perfino che numero di scarpe porti. Certo, ho insegnato ai miei bambini la mia lingua madre, ma la nostra lingua di casa è l’italiano. Preparo le calze per la Befana e le bandiere per la Festa della Repubblica. Cucino le lasagne emiliane, il risotto alla milanese, lo stracotto e la cassata. E qualche volta delizio la famiglia con un piatto tipico delle mie zone, un gulasch di cinghiale o un’oca al foo. Pensavo di avere dietro le spalle la nostalgia di sapori, di profumi. Un errore.

Una risatina isterica mi sale sulle labbra. La mia maschera immaginaria si rompe, sento il rumore assordante quando cade per terra, e comincio a piangere in silenzio. Piango tutte le mie preoccupazioni, paure. E anche la mia folle e improvvisa voglia di tornare bambina e trovare a casa la mamma che prepara il pranzo domenicale.

Dopo qualche istante l’anziana signora si alza, si avvicina.

«Cara, si sente bene?», mi dice con quella sua voce tremula, dolce. Scuoto la testa. Potrebbe essere un sì, o un no.

«Suvvia, cara, non deve piangere così. Si risolve tutto, vedrà. Ce l’ha un fazzoletto?».

Certo che ce l’ho un fazzoletto, ne ho un pacchetto intero, ne sono sicura, ma non riesco a trovarlo. La signora mi dà il suo, di tessuto fine. Profuma di lavanda. Dopo un secondo di imbarazzo ci soffio il naso. Non ho mai usato un fazzoletto di stoffa.

Passano cinque minuti, dieci. Ho smesso di piangere. Nel frattempo, senza rendermene conto, la signora mi si è seduta accanto. Non parliamo, ma tra noi si è già creato un legame particolare.

La signora mi chiede quando ho il prossimo esame. Le rispondo tra due ore. «Allora venga, abbiamo tutto il tempo per prendere un buon tè», dice con la voce che non accetta rifiuti.

Scendiamo le scale, la signora apre il suo ombrello e ci para entrambe. Entriamo nel bar, ordiniamo il tè nero, il più forte che ci sia: niente aromi e sapori aggiunti.

Mi faccio avvolgere da quel profumo familiare, lascio che il tempo scorra e che le cose succedano. Poi, la sua domanda-non domanda rivoltami con tatto: «Le auguro che la cosa che l’ha fatta piangere vada per il meglio».

Guardo il suo viso animato, i gentili occhi grigi. La pelle sembra di alabastro, è quasi trasparente. Per la risposta tiro fuori il libricino e mostro alla signora la pagina con l’introduzione «Il profumo di lasagne…».

Lei inforca gli occhiali e si mette a leggere. Dopo inclina la testa e dice: «Ed è questo che l’ha fatta piangere?».

Arrossisco per la vergogna, la mia disperazione di poco fa ora mi appare ben esagerata.

«Forse non le piacciono le lasagne?» mi sorride dolcemente.

Incoraggiata, le rispondo sinceramente: «È solo che all’improvviso mi sono di nuovo sentita talmente straniera! A me il profumo di lasagne non rievoca nessun ricordo d’infanzia, mia mamma la domenica preparava il brodo e il pollo fritto».

La signora annuisce e dice pensierosa: «Io sono nata qui», fa un gesto vago con la mano, «ma ora che ci penso, sa di cosa profumava la mia infanzia? Di borsch!». E si mette a ridere con una risata argentea, contagiosa. «In sessant’anni vissuti in Italia, mia mamma, ex ballerina del teatro Marijinskij, non ha mai imparato a fare le lasagne. Però faceva un borsch eccezionale!».

L’anziana signora beve un sorso del suo tè nero. Poi mi dà una pacca delicata sulla mano e aggiunge: «Non sia triste perché non ha dei ricordi “giusti”, cara. Consideri invece, quanti italiani possono dire, come noi due, di avere dei ricordi del tutto diversi. Siamo speciali, noi straniere e figlie di donne straniere. Abbiamo in memoria i sapori e i profumi di terre lontane che gli italiani non se li sognano neanche!», conclude con gli occhi luccicanti da monella.

Guardo l’anziana signora di cui non so ancora il nome e le dico riconoscente: «Io sono Michaela. E la ringrazio di cuore».

Lei mi fa un occhiolino e risponde: «E io mi chiamo Anoushka. E la ringrazio tanto per avermi fatto venire in mente il mio piatto d’infanzia. Quando si è anziani, a volte ci si scorda le cose più buone».

Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di non perderci di vista. Magari potremmo prendere un altro tè insieme, un giorno.

Toiamo all’ospedale. Nel frattempo ha smesso di piovere, il vento forte porta l’odore di bosco autunnale. Sa di castagne e di funghi porcini. Sorrido. Affronterò con pacatezza anche il secondo esame. E la prossima domenica cucinerò una bella pentola di borsch.

Michaela Sebokova

Michaela Sebokova teaserbox_40189041Michaela Sebokova nasce in Slovacchia, a Nove Zamky, il 19 agosto 1975. Nel 2001 si trasferisce in Italia e lavora a Padova come impiegata. Nel tempo libero scrive, legge, traduce letteratura per bambini e si cimenta con la cucina ma, come lei stessa sottolinea, al primo posto rimane sempre la sua famiglia. Ha scritto un libro di narrativa e una fiaba. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste. Il suo racconto Il profumo della domenica ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Ciambelline intrecciate-cut2. Magie del passato

di Ramona Hanachiuc (Romania)

Avete mai passato una notte in bianco per aspettare il risveglio della nonna? Io sì. Da piccola.
Passavamo le vacanze insieme, io e mia cugina, dai nonni matei. Privilegio raro direi, mio padre imponeva sempre le vacanze dai nonni patei, quindi, i rari giorni passati dalla Nonna per eccellenza erano giorni dorati… Poi… Poi c’era lei: la mia cuginetta, l’unica cugina femmina, ma nata quattro anni dopo di me, considerata troppo piccola per frequentarci. A detta di mio padre che ovviamente sapeva quel che era meglio per me. Non ha mai voluto capire quanto mi facesse male la lontananza che imponeva dai parenti matei. Ma ora lo capisce… Oh se glielo faccio capire! Non perdo nessuna occasione: ogni volta che posso tolgo una spina dal mio cuore per infilarla nel suo…! Vendetta? Non direi, semplicemente vive ciò che mi ha imposto lui di vivere quando ancora non potevo scegliere per me.

Dicevo che passavo qualche giorno di vacanza dai nonni matei in inverno… Certe volte, prima che calasse la sera, nonna usciva di casa con un catino di legno tra le mani. Io intuivo già dove stava andando. Avvolgevo di corsa un vecchio scialle di lana sulle spalle di mia cugina, le facevo infilare gli stivali nei piedi e la trascinavo, a volte nella neve, dietro di me nel cortile.

«Vieni, vieni, ti faccio vedere una magia…», lei mi seguiva con gli occhi blu spalancati quasi strisciando per terra. Ci avvicinavamo in silenzio al granaio e con l’indice davanti alla bocca chiedevo l’assoluto silenzio: nonna non doveva sapere che eravamo lì. Con un cenno le facevo capire di seguire i miei movimenti: appoggiavamo la fronte alle astine fredde di legno che componevano le pareti del vecchio granaio e guardavamo dentro.

La nonna, leggermente chinata sul catino, setacciava la farina con movimenti regolari e ondeggianti.

Gli ultimi spruzzi di luce che il sole infilava timidamente tra le saette e la polvere di farina mossa dai suoi movimenti, la avvolgevano in una nuvola dorata e cangiante. Troppo piccola mia cugina per capire che non era magia. E con le labbra appuntite sussurrava incantata: «Nonna è diventata una fata…».

Guardavo i suoi occhi grandi e azzurri: erano pieni di incanto e curiosità. Sorridevo e la riportavo di corsa in casa per non farci sorprendere. Aspettavamo la nonna sedute tranquille sul divano, solo le gambe dondolavano impazienti e i cuori battevano forte per l’eccitazione. Erano le nostre impronte nella neve, gli sguardi incuriositi e le guance arrossate dal freddo a tradirci.

Nonna sorrideva nascondendo la bocca dietro al suo scialle, appoggiava il catino con la farina su una sedia vicino alla stufa e lo avvolgeva con una tovaglia pulita. Era per scaldarla: la farina prima di diventare pane doveva essere coccolata, areata e riscaldata vicino alla stufa per tutta la notte.

Poi andavamo a dormire: nonna e nonno nella piccola stanza che di giorno serviva da salotto e cucina, noi bambine nella cameretta adiacente, separati solo da una porta con piccole finestre intagliate, che restava quasi sempre aperta.

All’alba, nonna si alzava, e in silenzio accendeva una piccola lampada a petrolio. Rinfrescava il fuoco buttando qualche pezzo di legno sui carboni ancora accesi e toglieva la tovaglia che aveva ricoperto il catino. La luce gialla e la polvere di farina ricreavano un’altra nuvola che avvolgeva la donna minuta e lievemente curva sulla sua magia… Altri colori, altri profumi… Stesso sguardo dolce e sorridente della nonna.

La luce tremolante e i rumori sordi mi svegliavano e cambiavo posizione nel letto strisciando come un gatto in agguato sotto le coperte, in modo da trovare l’angolazione giusta per non perdermi nessun suo movimento. Cercavo invano di svegliare la piccola addormentata di fianco a me. All’inizio mi seguiva ma non appena riuscivamo a trovare la posizione con la visione migliore e la sua testa ritoccava il letto, ritornava nel mondo dei sogni. Io continuavo a seguire i movimenti lenti che la nonna con il suo corpo snello ma stanco compiva come dei piccoli rituali: legava intorno alla vita il grembiule bianco a fiori rosa, si lavava le mani, controllava con le dita che l’acqua riscaldata sul fuoco non fosse troppo calda e iniziava ad impastare. Con le mani creava un «vulcano» di farina, sotto nascondeva il sale e in mezzo iniziava a versare il lievito sciolto nell’acqua calda insieme a qualche cucchiaino di miele. Lentamente l’impasto iniziava a prendere consistenza.

All’inizio rimaneva incollato alle sue mani, e lei, con sapienti movimenti e l’aiuto di altra farina, lo faceva ritornare nel catino, continuando a mescolare, stringere e lavorare con forza tutta quella massa bianca e morbida. Il profumo iniziava a riempire la casa, profumo acido di pasta lievitata, legna che brucia e calore. Mi riaddormentavo poi sfinita appena nonna rimetteva il vecchio catino vicino alla stufa e sedeva su una sedia per lavorare a maglia per qualche ora.

Al nostro risveglio era tutto pronto: un grande asse di legno ricoperto di farina, piccoli pezzi di impasto che ci aspettavano per prendere le più bizzarre e svariate forme e le teglie unte e infarinate per infoare. Facevamo colazione in un soffio, latte, pane e marmellate, con gli occhi luccicanti fissi sui pezzi di pasta che ci aspettava, poi una volta finito di masticare e deglutire quasi intero l’ultimo boccone, ci mettevamo all’opera.

Sollevavo mia cugina e la sedevo inginocchiata su una sedia morbida; io di fianco a lei in piedi: ero più grande. Iniziavamo a modellare con cura i nostri impasti. Guardavo le piccole manine con le dita grassocce affondare nella pasta morbida, stendere, tirare, annodare, e i suoi occhi grandi e blu che si aprivano e chiudevano ripetutamente.

«Vedi…, – le dicevo. – Vedi che nonna è magica? Hai visto cosa ha fatto diventare la farina che ha portato in casa ieri sera?». Sgranava ancora di più gli occhi e, mordendosi le labbra tra i denti, continuava a lavorare l’impasto morbido.

Lei formava sempre delle colombe, io delle ciambelle intrecciate che spennellavamo poi con l’uovo e infoavamo insieme al pane della nonna e aspettavamo con le guance arrossate dal calore davanti al foo accesso. Ognuna mangiava poi la sua creazione, egoisticamente, orgogliosamente, lodandone la bontà. Stessa farina, stesso foo, forme diverse, gusti diversi per ognuna di noi. Diversi come diversi erano i nostri occhi che guardavano le stesse magie.

Ci pensavo giusto l’altra sera, mentre mia cugina impastava nella sua cucina.
– Facciamo le colombe? –, mi ha chiesto.

– Tu ti ricordi come si fanno? Io non ne sono sicura, eri tu l’esperta!

Solleva gli occhiali e sposta una ciocca di capelli, poi si mette al lavoro.

– La mia è più graziosa –, ho detto qualche minuto dopo. Lei ride divertita: – Certo! La mia è incinta… Come me…  –. Aspetta il secondo figlio la mia cuginetta.

E mentre la guardo toccarsi amorevolmente la pancia con la mano aperta, cerco di ricordarmela da piccola, e mi vengono in mente i suoi grandissimi occhi azzurri. Azzurri e curiosi come il mare.

Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc cRamona Hanachiuc nasce il 7 luglio del 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del periodo Ceausescu. Mette al mondo, all’età di vent’anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero – come lei stessa racconta – ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. Il suo racconto Magie del passato ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


taboule? libanese unico - cut3. Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazione

di Lydia Keklikian (Libano)

Da Beirut una ricetta che stuzzica non solo l’appetito, ma anche la vita complessa del nostro paese.
Tabboulé e integrazione sono cose diverse, ma simili al tempo stesso.

Diverse perché il primo è un piatto mediterraneo composto di diversi ingredienti che si prepara per un pranzo festoso, favorendo l’incontro tra persone o famiglie, viene presentato nei momenti di festa in occasione di un matrimonio o di semplice convivialità.

Il tabboulé è il primo piatto che si porta a tavola e si offre ai commensali per cominciare il pranzo.

L’integrazione a sua volta è una realtà composita per i vari elementi che la costituiscono. Richiama l’idea di una pluralità di culture diverse, la presenza di persone differenti per etnia, religione e cultura in un determinato contesto sociale. È colorata come il tabboulé, in quanto coinvolge nel processo persone diverse disponibili a percorrere una strada nuova che conduce a vivere insieme.

Nell’integrazione, pertanto le persone non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, folkloristica, ma devono fare in modo da comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa che stuzzica il desiderio di ognuno a conoscersi a vicenda.

Nel tabboulé gli ingredienti non si fondono tra di loro, ma si amalgamano bene al punto da offrire sia alla vista che al gusto un’armonia tale da rendere piacevole il mangiare suscitando una sensazione di freschezza e un piacere che invade tutti i sensi.

Nell’integrazione, il punto di partenza è l’incontro tra persone diverse. Immaginiamo una persona italiana e una straniera di origine africana. Magari l’italiano di pelle bianca e l’africana di pelle nera. Il colore della pelle può essere, in un primo momento, un motivo per attirare l’attenzione e suscitare curiosità.

Se l’incontro avviene in un bar, possiamo vedere come agiscono queste due persone. Bevono il caffè, chiacchierano e si scambiano sorrisi ed espressioni varie che denotano un’armonia e una complicità. Se poi arrivano a baciarsi, questo gesto può suscitare curiosità, a volte perplessità o disapprovazione e può diventare occasione di giudizio che va dal rispetto fino alla critica totale verso ciò che si è visto. Non possiamo certo ancora parlare di integrazione. Questa non può risultare da un incontro al bar o da un bacio.

Come non si può dire che il tabboulé è buono solo perché siamo abbagliati dai colori che si distinguono in un piatto ben presentato.

È importante avere la ricetta giusta e preparare il piatto seguendo le indicazioni precise. È altrettanto importante che tutti gli ingredienti siano ben visibili quando il piatto è sotto i nostri occhi. Ogni ingrediente deve restare ben distinto, mantenere il suo colore e la sua forma, pur essendo amalgamato agli altri ingredienti. Il sapore poi deve poterli distinguere e offrire al palato un gusto piacevole e di completezza in modo da suscitare in chi lo mangia un benessere e un piacere che lo lascino soddisfatto e appagato.

Anche l’integrazione parte dalla vista e dal palato, ma anche dalla piena consapevolezza dei valori comuni delle persone con culture diverse con le quali ci si impegna ad interagire.

Non può essere raggiunta una volta per tutte! Non è un percorso che si intraprende e si conclude in tempo breve, non può essere neppure definito a priori.

È come se la vita di una coppia di giovani raggiungesse il suo traguardo nel momento della celebrazione delle nozze. Se fosse così non avrebbe più senso continuare a vivere insieme e ad impegnarsi tutti i giorni per un traguardo già raggiunto. Lo sappiamo che non è così; il giorno del matrimonio rappresenta il punto di arrivo, ma anche un punto di partenza; percorso che porta due persone a costruire giorno per giorno il loro progetto di vita insieme con sincerità e responsabilità per il resto dei loro giorni.

Lo stesso vale per l’integrazione, per costituire un cammino positivo per entrambe le parti, deve essere un impegno preso da tutte e due le parti e portato avanti con lucidità e responsabilità, ben coscienti della sacrosanta realtà che le due parti hanno ciascuna il diritto di esistere, di progredire e di essere se stesse.

L’integrazione è il cammino di una vita delle persone e delle comunità. Una delle sue fasi è il momento dell’impegno solenne, come il giorno delle nozze, in cui le due parti si rendono conto che non possono più vivere l’una senza l’altra e dove si è convinti che il bene di entrambi è condizionato dalla volontà di impegnarsi reciprocamente nel rispetto di ciascuno e nella complementarietà.

Nel tabboulé chi decide le dosi è la persona che lo prepara. Chi decide come preparare il piatto è colei/colui che lava e taglia gli ingredienti, li mescola e li predispone nel piatto.

Nell’integrazione una parte non può decidere per l’altra. È vero che politiche diverse e persone con concezioni diverse possono incidere e condizionare la preparazione e l’attuazione di questo percorso, ma alla fine tocca alle persone direttamente coinvolte renderlo effettivo nella vita quotidiana con gradualità e modalità proprie e diverse da un quartiere all’altro. Se sono convinta che nel mio quartiere si trovano persone provenienti da luoghi diversi e incontro alcune di queste che condividono lo stesso interesse per il quartiere, sarà nostra responsabilità renderlo più vivibile. In tal senso, non posso più scaricare su altri il fatto che queste persone si chiudano nelle proprie case o nel proprio gruppo senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi esistenti e di impegnarsi per affrontarli.

Per riuscire a preparare il tabboulé non basta conoscere la ricetta, essere capaci di lavare o tagliare il prezzemolo, spezzettare la cipolla e spremere il limone.

Ci vuole attenzione quando si pulisce il prezzemolo, si lava e si taglia. Il prezzemolo deve essere tritato a mano, né troppo grande altrimenti le persone rischiano di strozzarsi, né troppo piccolo perché si rischia di ridurlo in brodaglia. Dopo, lo si deve lasciare a parte mentre si prepara il resto. La menta fresca deve essere lavata e asciugata, tritata al momento opportuno, altrimenti diventa nera e da buttare via. Il pomodoro deve essere tritato nella dimensione giusta per poter essere mangiato con facilità, facendo attenzione a non schiacciarlo durante la tritatura perché si rischia di ridurlo in succo di pomodoro. Una parte del limone deve essere spremuta e il restante lasciato intero del quale si ricava la scorza grattugiata.

La cipolla tritata deve essere condita, prima di mescolarla con gli altri ingredienti, con sale e pepe per far esaltare il sapore e renderlo meno sgradevole al tempo stesso.

L’integrazione deve seguire la stessa procedura, ma con ingredienti diversi. Ci deve essere la stessa cura e amore. Deve anche risultare come il lavoro congiunto di diverse persone desiderose di presentare a chi la mangia una pietanza appetitosa che soddisfa le aspettative di tutti; deve esaltare il valore di ogni persona umana e saziare coloro che cercano pace, armonia e dialogo. In tal modo si valorizzerebbe il principio della dignità umana e renderebbe tutti capaci di farcela.

L’integrazione non prevede la scomparsa di un gruppo nell’altro, non tollera la disparità, non appoggia le ingiustizie e non si alimenta di pregiudizi e di disprezzo.

L’integrazione giornisce quando ci si completa nell’incontro, quando ognuno mantiene la sua specificità e la sua ricchezza culturale, e gode quando vede tutte queste diversità camminare insieme nelle stesse strade della città.

Per il tabboulé il percorso è analogo. Nella terrina predisposta per mescolare gli ingredienti, si prepara il grano, si aggiunge il prezzemolo tritato, il pomodoro e la cipolla, distribuendo a forma di cerchio ogni ingrediente uno sopra l’altro. Si versa il succo di limone seguendo sempre la forma circolare, l’olio d’oliva e la scorza di limone grattugiata. Si mescola con un cucchiaio grande, con delicatezza e cura come se si stesse accarezzando il viso di un neonato, facendo attenzione a non schiacciare gli ingredienti, rispettando la singolarità di ogni ingrediente.

Nell’integrazione bisogna stare attenti a non sopraffare l’altra persona, a non prevaricare l’anima dell’altro e a non svalutae la ricchezza nel nome di un bene comune.

Ciò vale sia per la parte italiana sia per quella straniera. Nell’integrazione non c’è una parte debole e una forte. Non ci sono persone capaci e persone disabili. Tutte le componenti del progetto sono diversamente abili e diversamente capaci. Bisogna cercare di far emergere le capacità di ognuno e di lavorare sugli aspetti che presentano punti deboli.

Le parole scritte da Gibran nel suo famoso libro «Il Profeta» ci aiutano a comprendere meglio la relazione fra integrazione e matrimonio:

«Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
E insieme nella silenziosa memoria di dio.
Ma vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare
tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe,
ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco,
ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state allegri,
ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto,
benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore,
ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita
può contenere i vostri cuori.

E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro».

È chiaro che l’integrazione è un cammino di amore che non soffoca, di condivisione che non mescola, di rispetto che non schiaccia, di accettazione che non pretende che una parte si annulli per essere accolta dall’altra. È lo stesso per il tabboulé!

A questo punto non ponetevi altre domande.
Lasciatevi portare dall’armonia dei gusti e dei colori di questo piatto e abbandonatevi nell’oceano dell’umanità racchiusa in ognuno dei suoi ingredienti. Umanità che svela l’origine di ogni ingrediente, di ogni terra lavorata dalle persone, di ogni fatica sudata per preparare il necessario e renderlo disponibile per il piacere dei vostri sensi e palati.

È la stessa umanità che ci circonda ogni giorno, di pelle bianca o nera, di una religione o di un’altra. Questa umanità che si esprime attraverso linguaggi che a noi possono essere sconosciuti e che emette suoni che non riusciamo a decifrare…

E ciò che meraviglia è la verità che dentro e dietro ogni ingrediente che compone il tabboulé si nasconde un territorio che magari conosciamo perché gli ingredienti sono stati coltivati a casa nostra, lavorati e preparati da mani straniere per offrirci un piatto che riteniamo esotico!

Buon appetito e buona integrazione.

Lydia Keklikian

Lydia KeklikianLydia Keklikian: Cittadina italiana, nata in Libano da famiglia armena è laureata in Scienze Sociali a Beirut, diplomata in Scienze Religiose a Brescia, laureata in Lingue Orientali a Venezia. Da anni si occupa di immigrazione, intercultura e mediazione culturale con particolare attenzione ai temi legati alle religioni, alla donna orientale, alla cultura araba armena e turca per quanto riguarda le leggi di famiglia, le tradizioni sociali e culturali attraverso la fiaba la musica e la cucina. Il suo racconto Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazionha vinto il Premio speciale Slow Food-Terra Madre della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Kibbeh-c4. A Téta, ricordi congelati

Traslata dall’arabo all’italiano, catapultata telefonicamente da un continente all’altro, che sapore ha la morte?
Toavo da una serata fra amici in zona Ostiense la notte che, a Zouk Mkayel, morì Téta. La notizia arrivò l’indomani via cellulare, Libano-Italia in un secondo: ricordo la spossatezza di quelle ore, il silenzio sospeso, l’estraneità surreale, ma non ricordo dolore. Non subito. Ricordo quelle quattro lettere impresse in pancia come se si trattasse di un nome proprio, senza necessità di tradurle: Téta.

Téta, sei andata via e il freezer conserva ancora memoria dei cibi che hai cucinato e impacchettato per me. Sapevo che sarebbe accaduto, forse ero io a volerlo, ci ho sempre trovato un che di poetico: adesso ho tanti piccoli kebbeh stipati nel ghiaccio, li trovo esageratamente evocativi e so bene che li mangerò con un groppo alla gola e che, celebrando la mia commemorazione laica, penserò fate questo in memoria di me. Ripercorrerò le volte che non mi mandavi via senza una borsa piena di khiara, khobez, kebbeh e, se riuscivi, addirittura qualche mehshi cousa. Ora il freezer è una teca sacra, ostensorio profano di ricordi congelati.

Ricordo congelato è la foto scattata col cellulare di te che prepari il tabboulé sfidando gli anni e le intemperie, coi capelli di fronte agli occhi e lo sguardo basso e concentrato mentre smisti le foglie di prezzemolo e poi tagli fette finissime di cipolla e pomodori e intanto canticchi le tue filastrocche.

Ricordo congelato è il primo cenno di anzianità. Ero piccola quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh. Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco riposo serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il massaggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile torpore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk.

Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la prendeva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria furbetta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di economia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sentirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, ambasciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe dovuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fidasse.

Andare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sembrano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi accorgevo di niente, ventenne distratta, ma lei cornordinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour, almeno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la notizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di preparazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più aumentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga.

A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridimensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa.

Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta mentre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam, diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza.

Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in piscina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima «Attention de tomber dans l’eau». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allarmare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era invece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e maccheronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta – quasi un gioco di ruoli – e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più giovane, pur con piena coscienza della loro assurdità.

Ora le foto di Téta invadono il web: i suoi figli e nipoti sparsi per il mondo si fanno compagnia come possono, si consolano vicendevolmente, cercano di mantenere vivo il suo ricordo, anche se buona parte ha dimenticato la lingua madre o la utilizza soltanto sporadicamente. Siamo schegge scagliate nei cinque continenti e Facebook è la nostra disillusa preghierina serale, adesso che nessuno più accosta la porta della camera come faceva Téta mentre, con aria bambina, si inginocchiava sul suo letto per fare il segno della croce. Il social network è una chiesa virtuale con le sedie vuote ed è lecito domandarsi in fondo cosa arriva, cosa passa da un cuore all’altro, da una pancia all’altra e da un computer all’altro, salendo oltre i pensieri tradotti in tutte le lingue del mondo, cosa è sempre arrivato negli scambi comunicativi fra tutti noi, la Big Khalil Family, noi che traduciamo goffamente dall’inglese al francese all’italiano all’arabo i nostri pensieri e le nostre emozioni, noi che cerchiamo significanti molteplici per indicare un unico significato e non sappiamo mai quali sfumature si perdono in questo travaso continuo di informazioni.

Ricordi congelati.

Tutto questo e solo questo rimane di te – la mia Téta in un’altra lingua – ed io non so bene con quanta efficacia l’italiano sappia essere fedele a questi ricordi: mi appare come lingua impacciata, incapace, inesperta nell’espressione di queste memorie che hanno sede altrove; lingua dei tentativi e degli errori. Eppure è per errori e traduzioni concatenate che abbiamo mandato avanti la nostra comunicazione intergenerazionale ed intercontinentale: sentimenti perennemente filtrati da successive conversioni mentali. Chissà quante cose abbiamo frainteso, quante ne abbiamo gonfiate, quante rimpicciolite, chissà quali immagini mentali c’erano in te, dietro le tue frasi in un francese imbalsamato, e che modifiche hanno subito nella loro caduta a effetto domino verso il mio orecchio che le percepiva e dava loro un altro senso, il mio.

Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto il sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. Provo a ricreare l’eco della tua voce – Attention de tomber dans l’eau! – ma non ne sono più davvero capace.

Chissà dove sei, Téta.
Attenzione a non cadere in acqua, Téta, ovunque tu sia.

Sento che l’italiano è giunto al limite: non è più sufficiente a narrare la nostra storia in questa maniera. In italiano il ricordo libanese di te non fa che sbiadirsi più velocemente, gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi. Presenza e assenza, occidente e oriente, vita e morte.

Respiro profondamente. Traduco.
Téta in arabo vuol dire nonna.
Lo dico sottovoce, finalmente, e sento il sottilissimo germe della mancanza farsi spazio ed espandersi fino a occupare anche l’altra parte di me, quella che parla italiano. Due metà si ricongiungono, i ricordi riprendono vita, il ghiaccio attorno al kebbeh si è sciolto, ora la tua scomparsa ha una dolorosissima forma.
Mi manchi, nonna.

Leyla Khalil

Leyla Khalil,Leyla Khalil, italo-libanese, nasce a Roma il 30 agosto 1991. È mediatrice culturale e ha pubblicato racconti e poesie in antologie per Edizioni Ensemble, Giulio Perrone, L’Erudita, Ediesse, Guasco, Seb27. Appassionata di narrativa e cucina, tiene due rubriche settimanali su facciunsalto.it: “Cosa borbottano le pentole” e “La Grasse Matinée”. Ideatrice del progetto di scrittura “Fast Writing, scritti di rapida consumazione”, ha curato per Edizioni Ensemble la prima raccolta di racconti incentrati sui fast-food come non luoghi e sta lavorando a nuovi sviluppi sul tema. Il suo racconto, Ricordi congelati, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del X Concorso letterario nazionale Lingua Madre

 



  • Questo dossier narrativo centrato sul cibo, è frutto della collaborazione con «Lingua Madre», il concorso letterario nazionale la cui premiazione avviene ogni anno nel contesto del «Salone Internazionale del Libro di Torino».
    È la terza volta che MC pubblica testi scritti per questo concorso in lingua italiana da donne provenienti da ogni parte del mondo. La prima volta fu il racconto, Cubetti di zucchero, apparso in MC 4/2015, seguito poi dal dossier Sono anch’io Italia, sogni non impossibili, in MC 8-9/2015.
  • A «Lingua Madre», che ha scelto di presentare quattro testi premiati nel contesto del «Premio Slow Food – Terra Madre», va tutta la nostra riconoscenza.
  • I testi sono stati selezionati da Daniela FinocchIi, ideatrice e cornordinatrice del concorso. Il dossier è stato cornordinato da Gigi Anataloni.
  • Il libro: Daniela Finocchi (a cura di), Lingua Madre Duemilasedici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB27, via Accademia Albertina, 21 – 10123 – Torino; sito: seb27.it, sarà nelle librerie in autunno.