Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.

 




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




LA «IGLESIA CHICA»

C come Chiesa

Nell’Ottocento, la diffusione in Uruguay del pensiero illuminista e massonico favorì l’affermazione del laicismo. Nel 1915, la separazione tra stato e chiesa venne formalizzata da José Batlle y Ordóñez, presidente tra i più apprezzati della storia uruguayana. In questo contesto, la chiesa…

Misi piede in Uruguay per la prima volta nel lontano gennaio del 1977, dopo un viaggio in nave di un paio di settimane: a quel tempo l’epoca dei viaggi transoceanici via mare stava concludendo il suo onorato servizio dopo quasi cinque secoli di spola tra le due sponde dell’Atlantico. Da allora il mio legame con il «paysito» (come affettuosamente gli uruguayani chiamano la loro terra) è cresciuto di anno in anno condividendo in gran parte dolori e sofferenze, giornie e speranze della sua gente: i primi legati al triste e buio periodo della  dittatura militare, le seconde intrecciate con il faticoso cammino intrapreso per riacquistare la libertà. Avendo vissuto un’esperienza credo unica ed irripetibile, quella cioè di completare i miei studi di teologia presso l’«Istituto teologico uruguayano “Mariano Soler”» ho avuto modo di passare diversi anni accanto ad una generazione di sacerdoti formatori e giovani seminaristi del luogo, partecipi fino in fondo ai drammi del loro paese, ma dotati di una fede incrollabile nella speranza di un futuro migliore. Alcuni di loro avevano sperimentato sulla propria pelle il carcere, altri avevano qualche familiare detenuto per motivi politici nelle orribili prigioni della dittatura militare, una delle più ottuse di quel periodo. Conservo nitido nella mia mente tutto quanto ho vissuto in quegli anni, anche se dopo tanto tempo, forse è più facile rielaborare con distacco quanto successe nel piccolo paese situato sul lato orientale del Rio de la Plata.

Consolidatosi sul piano culturale grazie all’influsso dell’illuminismo – imperante a quel tempo negli ambienti rivoluzionari del Sud America – ed influenzato da correnti di pensiero della massoneria europea (notoriamente anticlericale), l’Uruguay sin dall’inizio si caratterizzò come una repubblica laica che teneva a una certa distanza la chiesa cattolica. A sua volta la Santa sede, lontana ed avulsa agli avvenimenti del tempo e non percependo i cambiamenti che si andavano operando, mantenne i territori legati a Montevideo soggetti all’arcidiocesi di Buenos Aires, creando molte difficoltà tra i cattolici che, dal punto di vista politico obbedivano alle leggi della nuova nazione repubblicana, mentre dal punto di vista religioso dovevano obbedienza ad un vescovo «straniero». Solo dopo quasi quarant’anni dall’indipendenza, venne costituita, il 13 luglio del 1878, la diocesi di Montevideo, che comprendeva allora tutto il territorio nazionale e che fu affidata alle cure pastorali di mons. Jacinto Vera, primo vescovo nativo dell’Uruguay, uno zelante pastore ricordato ancora oggi come «el Obispo gaucho».
Nel 1915, il presidente José Batlle y Ordóñez separò la chiesa dallo stato e cambiò i nomi delle feste religiose del calendario. Ancora oggi in Uruguay la Settimana santa è denominata «Semana del turismo», così come l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è definito «El dia de la playa» (il giorno della spiaggia) e il Natale «El dia de la familia» e via dicendo. La chiesa uruguayana, la «iglesia chica» (la chiesa piccola), come viene definita, è stata sempre una chiesa povera ma dignitosa, con un suo originale pensiero teologico e una ancora più originale prassi pastorale, dovuti al fatto di confrontarsi con una realtà politica e sociale tanto diversa rispetto al resto dei paesi sudamericani.
Pur connotandosi sin dal suo inizio come uno stato molto secolarizzato, l’influenza di una visione religiosa nella vita sociale e comunitaria, si colse già durante il processo di indipendenza, basti pensare che il segretario dell’eroe nazionale José Artigas, ispiratore di gran parte dei suoi scritti, era un frate francescano, mentre uno degli estensori della prima Costituzione fu il presbitero Antonio Damaso Larrañaga, straordinaria figura di scienziato e letterato, fondatore tra l’altro dell’Università e della Biblioteca nazionale, a tutt’oggi onore e vanto del piccolo Uruguay in campo accademico. Artigas stesso si era formato nei collegi francescani del paese, conservando per tutta la sua esistenza uno spirito di servizio improntato agli ideali di vita del Santo di Assisi. Non a caso tutti i suoi scritti sono molto diversi dal linguaggio retorico e roboante dei grandi Libertadores del suo tempo.

Creata la gerarchia cattolica con la nomina di mons. Jacinto Vera a vescovo di Montevideo, nel paese ben presto si formò una generazione di pastori, che si qualificarono come le menti più acute e brillanti in campo ecclesiale, capaci di opporsi e contrastare l’anticlericalismo e il laicismo che contagiava la classe dominante, sia a livello culturale che politico.
Non a caso quando Leone XIII, nel 1899, convocò a Roma il primo Concilio latinoamericano, la relazione di apertura fu affidata a mons. Mariano Soler, arcivescovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che affiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e francescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inoltre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto italiani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «ante litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e dell’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scritta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella coscienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpestata.
Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indietreggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei militari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influenzarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recupero della vita democratica.
A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammirazione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia.
di Mario Bandera

Don MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA

Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia). 

Il 2 novembre del 1993 stroncato da un male incurabile, concludeva a soli 51anni d’età la sua vita mortale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia.
Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo paese del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don Pierluigi era un po’ l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua nella sua parrocchia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel maggio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimento di liberazioe nazionale tupamaros» e senza nessuna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chiesa schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel «calabozo» (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
di Mario Bandera

Mario Bandera