Vietnam cinquant’anni dopo


Sommario

Archivio storico Museo dei residuati bellici – Città di Ho Chi Minh

Dalla guerra al boom economico

Storia di cinquant’anni di riunificazione

Il 30 aprile 1975 cadeva Saigon. Finiva una delle guerre più iconiche del Novecento. Il Vietnam fu riunificato, ma non tutte le aspirazioni rivoluzionarie furono soddisfatte. L’obiettivo dello sviluppo, però, pare centrato.

Camminando lungo la Dong Khoi, un tempo rue Catinat, che dalla cattedrale porta alla sponda destra del fiume, siamo nel centro chic di Città Ho Chi Minh. Ci sono boutique di prestigiose marche di moda estere, grattacieli in acciao e vetro, alberghi esclusivi. Ma siamo anche nel cuore della vecchia Saigon. All’incrocio con la Ly Tu Trong c’è ancora l’edificio, che fu sede della Cia, da cui decollò uno degli ultimi elicotteri statunitensi quando la città, all’epoca capitale della Repubblica del Vietnam, stava per cadere (29 aprile). Sul tetto c’è ancora la piattaforma, con la scritta «landing» (atterraggio). Di fronte lo sovrasta un moderno palazzo, sede di un centro commerciale, con la scritta di un noto marchio estero di vestiti.

Il Vietnam di oggi ci appare moderno, sui palazzi fanno bella mostra mega schermi luminosi che trasmettono pubblicità di marchi occidentali, in città circolano fiumi di motorini, ma anche auto di lusso.

Si è lontanissimi dall’immaginario collettivo (occidentale) della «guerra del Vietnam», ma anche da quello che ci sia aspetta da un paese socialista.

Anniversario

La mattina del 30 aprile 1975 un carro armato dell’esercito della Repubblica democratica del Vietnam (Nord) abbatte il cancello del Palazzo presidenziale di Saigon. È questa l’immagine della caduta della Repubblica del Vietnam (il Vietnam del Sud) e della fine della guerra.

Quindici anni di una guerra civile devastante, condotta anche da un esercito di occupazione straniera, gli Stati Uniti, in un paese a basso reddito prevalemtemente rurale. Furono scaricate 14,3 milioni di tonnellate di bombe, più che in tutta la Seconda guerra mondiale (5 milioni), distrutte foreste con il napalm, contaminati centinaia di migliaia di ettari di terreno con agenti chimici.

Nella «guerra del Vietnam», chiamata dai vietnamiti «guerra americana», morirono tra i 2 e i 3,8 milioni di civili (a seconda delle stime).

L’esercito del Nord, e il suo alleato del Sud, il Fronte nazionale di liberazione (Fnl), persero circa 600mila unità. Mentre l’esercito del Sud, l’Arvn ebbe perdite per 230mila uomini. Gli Stati Uniti, che nel momento di maggiore intervento ebbero nel paese fino a 540mila soldati, persero 58.193 uomini.

Molte infrastrutture, le poche che c’erano, furno distrutte o danneggiate, al Nord come al Sud.

Questo conflitto (1960-1975), chiamato dagli storici Seconda guerra d’Indocina, fu preceduta dalla Prima guerra d’Indocina, la guerra d’indipendenza dalla colonizzazione francese (1945-1954).

Due sistemi

Il 2 luglio 1976 nasceva la Repubblica socialista del Vietnam (Rsvn), che univa due territori, Nord e Sud, sui quali, durante vent’anni, erano stati sperimentati sistemi politici ed economici completamente diversi (si veda la Cronologia). La divisione era stata sancita dagli accordi di Ginevra del 1954.

Oggi il Vietnam è una delle maggiori economie dell’Asia, ha cento milioni di abitanti, ha rapporti diplomatici e commerciali con molti paesi, anche di schieramenti opposti, fa parte di importanti organizzazioni internazionali e associazioni economiche di stati (come l’Asean, Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico). Un successo importante ottenuto in pochi decenni. Vediamo come.

 I «due» paesi che si riunificano

Il Nord Vietnam, la Repubblica democratica del Vietnam, è stato governato con il sistema comunista, dal partito unico, con assenza totale di voci di dissenso rispetto alla linea politica centrale. L’unità di comando è stata, tra gli altri, uno dei fattori di vantaggio del Nord.

Nel Sud, la Repubblica del Vietnam, al contrario, pur essendo governata da un regime dittatoriale e oppressivo, aveva visto un’opposizione politica, a livello di partiti, numerosa, come pure gli intellettuali e la società civile attiva, sempre molto presente.

Era a Sud che era nato il Fronte nazionale di liberazione del Sud Vietnam, fondato nel 1960 come organizzazione formale della rivoluzione sudvietnamita. Il suo braccio militare erano le Forze armate di liberazione del popolo. Si opponevano al regime di Saigon e al suo alleato statunitense. Facevano parte del Fronte le sensibilità politiche più diverse, non solo i comunisti, ma i suoi membri furono genericamente chiamati «Vietcong» (da cong san, comunista).

Sul piano economico, alla fine della guerra, il Nord si ritrovava con un’industria in ritardo a livello tecnologico e produttivo rispetto al Sud e aveva subito forti danni a causa dei bombardamenti a tappeto degli americani.

Il Sud, invece, aveva beneficiato dell’apporto statunitense, in termini di fondi e investimenti nello sviluppo infrastrutturale (strade, porti, piste di aviazione, distribuzione elettrica e di telecomunicazione). Inoltre, fabbriche tessili, chimiche ed elettroniche erano state create con capitali taiwanesi, della diaspora cinese e sudcoreani.

Il Sud aveva visto una riforma agraria (1971) che aveva portato all’eliminazione del latifondo e della mezzadria, mentre si era fortemente rafforzato il piccolo imprenditore agricolo. Anche grazie all’appoggio tecnico americano la produzione e la produttività del riso era aumentata notevolmente nel bacino del delta del Mekong, già granaio risicolo del Paese.

La guerra aveva però creato molti danni. Gli sfollati erano stati circa due milioni tra il 1965 e il ‘75. Molte foreste erano andate distrutte, mentre ettari di territorio erano inquinati dagli agenti chimici (come l’agente arancio) che avrebbe creato danni alle generazioni successive per decenni (fino ad oggi). Sarebbe stata necessaria una bonifica su ampia scala.

La partenza improvvisa degli americani aveva, inoltre, creato disoccupazione che aveva toccato tra 1,3 e 1,5 milioni di persone.

Turisti nella città di Ho Chi Minh (foto Marco Bello)

Riunificazione come?

Parte dei rivoluzionari del Sud, riuniti nel Governo rivoluzionario provvisorio (Grp), organizzazione politica clandestina dei rivoluzionari del Sud istituita nel 1969, spingevano per un approccio di «riconciliazione nazionale».

I loro alleati, i dirigenti comunisti di Hanoi, forti della presenza militare, impostarono invece un trasferimento del sistema del Nord al Sud, in modo brusco e senza adattamenti. Tutta l’organizzazione venne centralizzata sul potere del partito comunista ad Hanoi. Il regime economico sociale e politico diventò di modello stalinista sovietico.

In agricoltura, le grandi proprietà furono confiscate e quelle piccole collettivizzate nelle cooperative. Operazione che non funzionerà, perché gli imprenditori contadini rifiuteranno di entrarvi.

I funzionari civili e militari sotto il regime del Sud vennero licenziati e mandati in campi di rieducazione politica. Alcuni vi restarono pochi mesi, altri fino a dieci anni. Si stima che 165mila persone morirono in questi campi e nelle prigioni, mentre centinaia di migliaia di altre intrapresero la pericolosa via dell’esilio, fuggendo con ogni mezzo, in particolare via mare (il fenomeno dei boat people durò, in questa fase, dal ‘76 al ‘79). A esse si aggiungono quelle fuggite prima del 1975, con l’avvicinarsi della caduta di Saigon.

Il bilancio fu una notevole perdita di capitale umano e professionale per il Vietnam riunificato.

Il partito, inoltre, impostò un sistema di controllo territoriale capillare: quartiere, domicilio, permessi per viaggiare, razionamento alimentare.

A livello internazionale, la Rsvn aderì al Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica), il blocco commerciale dei paesi socialisti.

Nel 1979 il Vietnam occupò militarmente la Cambogia e rovesciò il regime dei Khmer rossi di Pol Pot. Si ritirerà solo dieci anni più tardi. Pol Pot aveva cercato di riprendere alcuni territori cambogiani acquisiti da Hanoi. A Nord la Cina, alleata dei Khmer rossi, sconfinò occupando alcune città per un mese. Migliaia vietnamiti di etnia cinese (han) fuggirono dal paese. Entrambi i conflitti ebbero costi notevoli per la neonata Rsvn.

I limiti del modello stalinista

Nei primi anni Ottanta, il sistema imposto portò a una crisi della produzione alimentare, che generò una penuria di cibo, difficoltà di approvvigionamento delle città, e una diffusa malnutrizione nelle campagne. Nel 1986 l’inflazione si attestava al 1.000%. Era il fallimento del modello socialista sovietico.

Già nel 1982, al quinto Congresso del Partito comunista vietnamita, il segretario generale Le Duan (successore di Ho Chi Minh alla sua morte il 3 settembre 1969) ammetteva le difficoltà economiche e sociali del Paese.

Sul piano internazionale il 1986 è l’anno nel quale Michail Gorbatchev lanciava la Perestroika e la Glasnost in Unione Sovietica. Iniziava la crisi del socialismo reale. Nello stesso periodo, in Cina, Deng Xiaoping iniziava le riforme economiche. Riforme osservate attentamente dai dirigenti vietnamiti. Anche il sistema del Comecon iniziava a scricchiolare.

(foto Marco Bello)

L’era del «Doi moi»

È al sesto congresso del Pcv, a fine 1986, che il nuovo segretario Nguyen Van Linh lanciava un’era di riforme fondamentali. Chiamato «Doi moi» (rinnovare) prevedeva il riconoscimento del libero mercato e di un settore privato dell’economia.

«La riforma globale conosciuta come Doi moi è stato la realizzazione progressiva di microriforme locali o settoriali, distribuite tra il 1979 e il 1986», scrive lo storico franco-vietnamita Pierre Brocheux. «Dal 1979 inizia a essere riconosciuta l’importanza del nucleo famigliare, insieme a quello dello Stato e della collettività. È un cambiamento di prospettiva, fondamentale per le riforme del Doi moi che seguiranno», riporta ancora lo storico.

Negli anni successivi (1987-1988) il governo varò una serie di decreti per la liberalizzazione dell’economia nei diversi settori: investimenti stranieri, terra, commercio estero, agricoltura e gestione delle industrie di Stato.

Nel settore agricolo, nel 1988 iniziava la decollettivizzazione e la ridistribuzione della terra ai produttori agricoli in funzione della dimensione famigliare. Di fatto si trattava di una nuova riforma agraria, il passaggio da sfruttamento collettivo (che non aveva funzionato) a sfruttamento famigliare.

L’anno successivo il Vietnam passava da un’economia dirigista, centralizzata e interna a un’economia regolata dal mercato e orientata all’estero.

L’agricoltura come propulsore

Nell’era del Doi moi, l’agricoltura diventa la principale spinta economica del paese riunificato. Liberando i contadini dalle regole socialiste, le costrizioni della produzione collettivista si assiste a un’esplosione di produttività e produzione.

Importante è anche l’investimento in sviluppo delle infrastrutture (come l’idraulica agricola).

In pochi anni il Vietnam diventa secondo produttore mondiale di riso. Aumenta anche la produzione di mais e le coltivazioni commerciali da export. Tra queste, il Paese diventa il secondo produttore mondiale di caffè, posizione che mantiene a tutt’oggi.

La produzione di generi alimentari passa da una media di 265 chili per abitante nel 1980 (insufficiente in quanto il minimo necessario è valutato a 300 kg) a 470 kg nel 2003.

L’industria di manifattura

I dirigenti vietnamiti abbandonano l’idea di sviluppare l’industria pesante, occorrono grossi investimenti e molto tempo. Come in diversi altri Paesi della regione, viene, invece, spinta la manifattura per l’export. È concorrenziale in diversi settori (agroalimentare, tessile, confezioni e cuoio), grazie al basso costo della manodopera. Si assiste negli anni Ottanta a un aumento del commercio estero. In parallelo, per rispondere alle esigenze industriali, viene sviluppata la produzione di energia da diverse fonti: idroelettrica, idrocarburi e gas.

A livello di commercio estero, la crisi del Comecon porta il Vietnam a entrare nell’Asean (Associazioni delle nazioni del Sud Est asiatico), nell’Apec (Asia Pacific economic cooperation) e poi ad aderire al Wto. Nel 1995 riprende i rapporti con gli Stati Uniti.

Il Doi moi ha portato la crescita del Pil vietnamita oltre il 7% già nel 1990, fino al picco dell’8,5% nel 2007.

La «diplomazia del bambù»

Nel settembre 2023, Joe Biden, in visita ad Hanoi invitato dal segretario generale Nguyen Phu Trong (2011-2024), firma il «partenariato strategico integrale», elevando gli Usa al massimo grado di partenariato commerciale (insieme a Cina, Russia, India e Corea del Sud). Gli Stati Uniti sono oggi il primo mercato di export per i prodotti vietnamiti.

Il Vietnam è integrato nella comunità internazionale, è membro di decine di organizzazioni sovranazionali e partecipa a 15 accordi commerciali.

Molto si deve alla strategia diplomatica formulata proprio da Trong nel 2016 e formalizzata nel 2021, nota come «diplomazia del bambù», ovvero con «radici forti, tronco robusto e rami flessibili».

Strategia che gli permette di avere relazioni con Cina, Russia e, appunto, Stati Uniti. Dopo la visita di Biden, Trong ha accolto Xi Jinping e, un mese prima di morire (19 luglio 2024), anche Vladimir Putin (la Russia rimane il principale fornitore di armi). La sfida di un posizionamento sempre più da equilibrista in un’era oramai post Doi moi, è stata ereditata dal successore di Trong, il nuovo segretario To Lam.

Marco Bello

(foto Marco Bello)


Dalla Costituzione alle «braci ardenti»

Il «Doi moi» e la politica

Il Doi moi, varato ufficialmente a fine 1986, si innesta nel periodo storico del fallimento degli stati socialisti europei fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Lo stesso anno in Cina ci fu la repressione di
piazza Tienanmen.

In Vietnam, i primi anni delle riforme economiche sono accompagnati da un rinnovato desiderio comune di libertà e democrazia, aiutato anche dal contesto mondiale. Viene pubblicato il testo integrale del testamento di Ho Chi Minh, il pensiero del padre della nazione tende a sostituire l’ideologia marxista. Giovani, scienziati e scrittori guidano un’opinione pubblica attiva e fanno nascere club e associazioni.

Tra il 1987 e il 1991, diversi scrittori e giornalisti si esprimono chiedendo maggiori libertà, diritti e multipartitismo. Le critiche, talvolta, arrivano dall’interno del partito stesso. Diversi sono i movimenti di contestazione e rivendicazione.

La nuova Costituzione

Mentre alla fine degli anni Ottanta il partito sembra permissivo, nel 1991 cambia strategia, e inizia a reprimere le opinioni e le azioni che promuovono un’evoluzione democratica. Intanto continua a mandare avanti le riforme economiche. Da quel momento, chi si espone in favore di maggiori libertà, viene incarcerato o deve scegliere l’esilio.

Nel 1992 è varata la nuova Costituzione. In essa è sancito il rispetto di tutti i diritti umani fondamentali. Vi è, inoltre, definito che, a livello strutturale, il partito comunista è presente a monte e a valle del processo di legislazione, esecuzione e controllo.  Nella pratica, la politica resta di tipo leninista, per cui, anche se la Costituzione riconosce i diritti fondamentali dei cittadini, il partito-stato non tollera alcuna contestazione del suo potere e dell’esercizio dello stesso. Chi si espone viene arrestato, o costretto in residenza sorvegliata, per impedirgli di nuocere.

(foto Marco Bello)

L’opposizione

L’opposizione politica, fino dal 1976, è in esilio, in particolare negli Usa e in Australia. Dopo qualche tentativo di tornare nel Paese con incursioni armate, nei primi anni Novanta preferisce un metodo di lotta chiamato «sovversione pacifica».

Tra il 2006 e 2007 si forma una coalizione di gruppi dissidenti, il Bloc8406, che rivendica riforme democratiche e rispetto degli impegni internazionali su diritti e libertà. Ne fanno parte attivisti come giuristi, ex membri del partito ed ex militari e altri intellettuali. Il regime li fa incarcerare quasi tutti tra il 2007 e il 2008.

Dal 2009 imprigiona pure blogger e giornalisti, anche per pubblicazioni sui social media. Situazione che continua ancora oggi. I dissidenti iniziano a contestare la corruzione diffusa a tutti i livelli e legata alle concessioni di terreni a imprese minerarie, che nuocciono all’ambiente e aprono, sostengono, le porte alla Cina.

Con l’avanzare del Doi moi, intanto, aumenta la crescita economica, gli investimenti stranieri, la speculazione immobiliare, e quindi le occasioni di un arricchimento facile.

Le contestazioni fondiarie si moltiplicano, i terreni sono espropriati per impiantare fabbriche, strutture turistiche e altre opere di interesse pubblico. La popolazione protesta contro gli indennizzi giudicati dai contadini troppo bassi.

A partire dal 2013 il partito inizia una vasta campagna anticorruzione, voluta dal segretario generale Nguyen Phu Trong (2011-2024), chiamata «braci ardenti», tutt’ora in atto. Diversi alti funzionari vengono rimossi, anche ai massimi livelli.

Ma.B.

(foto Marco Bello)

Cinquemila anni di storia

Cronologia di base

Dal 2.900 a.C. Presenza di regni nel Nord dell’attuale Vietnam, con a capo la dinastia Hong Bang (o dinastia Lac).

Dal 111 a.C. al 938 d.C. Dominazione cinese, con interruzione nel 40-43 d.C. (rivolta delle sorelle Trung), nel 222-248 (rivolta della guerriera Ba Trieu) e nel 544-602 (prima dinastia Ly).

Inizio secolo XVI. Arrivo di commercianti portoghesi e dei primi missionari che si fermano.

1858 – La flotta dell’ammiraglio Rigault de Genouilly sbarca nel golfo di Da Nang (centro dell’attuale Vietnam). Inizia la colonizzazione francese.

1940 – A causa della Seconda guerra mondiale, i Giapponesi invadono il Vietnam e inizia un periodo di coabitazione tra i due occupanti. Iniziano anche le insurrezioni armate, decise dal partito comunista (fondato nel 1930 da Ho Chi Minh), anche se gli indipendentisti sono di diverse tendenze politiche.

1941 – Ho Chi Minh, nato nel 1890 e andato all’estero nel 1911, torna in Vietnam e crea i Vietminh, per combattere giapponesi e francesi e ottenere l’indipendenza.

1945, agosto. Il Giappone è sconfitto nella Seconda guerra mondiale e si ritira. Il 2 settembre Ho Chi Minh proclama la Repubblica democratica del Vietnam (Rdvn) ma, di fatto controlla solo il Nord. L’esercito britannico arriva a Sud, e presto restituisce l’autorità ai francesi.

1946 – Attacco delle forze vietminh contro i francesi, inizia la Prima guerra d’Indocina che vede opporsi i rivoluzionari nazionalisti, di varie tendenze, insieme per scacciare i colonialisti francesi e raggiungere l’indipendenza.

1954 maggio. Vittoria decisiva dei Vietminh contro i francesi a Dien Bien Phu, nel Nord. A luglio, con firma degli accordi di Ginevra, il paese viene diviso «provvisoriamente» in due all’altezza del 17° parallelo. A Nord si concentrano le forze comuniste nella Rdvn, a Sud quelle fedeli ai francesi nella Repubblica del Vietnam (Rvn). Sono previste elezioni per la riunificazione entro due anni, ma non verranno mai fatte. Inizia un esodo di nord vietnamiti da Nord a Sud, circa un milione, prevalentemente cattolici. Una minoranza di ex combattenti Vietminh, originari del Sud, resta in quella parte del paese.

1955 – Gli statunitensi rimpiazzano i francesi come consiglieri militari del Sud Vietnam. Prende il potere Ngo Dinh Diem, già primo ministro, destituendo l’imperatore Bao Dai. Unione Sovietica e Cina iniziano l’assistenza al Vietnam del Nord. Una grave carestia colpisce il Nord, un milione di persone patisce la fame.

1960 – Nasce ad Hanoi il Fronte nazionale di liberazione del Sud Vietnam. I suoi membri sono chiamati Vietcong (comunisti) dal governo del Sud, in senso dispregiativo. È composto da forze del Sud di diversa tendenza, nazionalisti che vogliono l’indipendenza e la riunificazione. Intanto, continuano ad arrivare militari americani come consiglieri. Nel 1962 sono già 12mila. Toccheranno il massimo di 543mila soldati nel 1969.

1965 – Cominciano massicci bombardamenti americani nel Nord, che si ripeteranno negli anni.

1969 – Iniziano i colloqui di Parigi sul Vietnam. Saranno interrotti e ripresi nel ‘72 e poi nel ‘73. Il 2 settembre ‘69 Ho Chi Minh muore ad Hanoi.

1973 – Riprendono i colloqui che portano alla firma del cessate il fuoco il 27 gennaio. Sono firmati dai rappresentanti di Rdvn (Nord), Rvn (Sud), Governo provvisorio rivoluzionario (Gpr, vietcong) e Stati Uniti. Mettono fine all’intervento Usa che terminerà il ritiro delle truppe a fine marzo. Il Gpr e il governo del Sud dovrebbero formare un governo di coalizione a tre, oltre a Vietcong e regime del Sud, dovrebbe partecipare la «Terza forza», l’opposizione non comunista del Sud. Non ci riusciranno per le resistenze di Saigon.

1974 – Riprende la guerra tra vietnamiti, senza l’intervento americano.

1975, 30 aprile. Le forze comuniste, composte dall’esercito nordvietnamita e da quello di liberazione del Sud, conquistano Saigon. Il giorno prima, erano stati evacuati gli ultimi americani. Con loro l’ambasciatore Graham Martin.

1976, 2 luglio. Proclamazione della Repubblica socialista del Vietnam unificato.

1976-’79. Prima ondata di boat people: partono con barche di fortuna in centinaia di migliaia. Tra loro chi ha collaborato con gli americani e il regime del Sud e chi teme i comunisti.

1978, 25 dicembre. L’esercito vietnamita entra in Cambogia e rovescia il regime di Pol Pot. Si ritirerà solo nel 1990.

1979, febbraio-marzo. Conflitto con la Cina che invade alcuni territori a Nord.

1986, dicembre. Varo ufficiale del Doi moi, le riforme del «rinnovamento».

1992 – Varo della nuova Costituzione.

1995 – Ripresa dei rapporti diplomatici con gli Usa, dopo la revoca delle sanzioni l’anno precedente (amministrazione di Bill Clinton).

2023, 10 settembre. Gli Usa firmano con la Rsvn il «partenariato strategico integrale», il massimo livello, fino a quel giorno ottenuto solo da Cina, Russia, India e Corea del Sud. In seguito, sarà firmato anche con Australia e Giappone.

Ma.B.

(foto Marco Bello)

Anno di grandi ambizioni

Verso il futuro: Politica, economia e infrastrutture

Il 2024 è stato un anno di  turbolenze politiche. Ma oggi la direzione de Paese è stabile. Una riforma dell’apparato governativo è in programma. Così come imponenti opere infrastrutturali. E il partito punta a una decisa crescita del Pil.

La prima metà del 2024 ha visto turbolenze politiche senza precedenti nel Vietnam. Il presidente Vo Van Thuong e il presidente dell’Assemblea nazionale, Vuong Dinh Hue, si sono entrambi dimessi nell’ambito della campagna anticorruzione in corso.

Thuong era in carica da poco più di un anno ed è stato il secondo presidente a essere costretto a dimettersi in altrettanti anni.

Poi, a luglio, il segretario generale di lunga data del partito comunista vietnamita (Pcv), Nguyen Phu Trong è morto all’età di 80 anni, dopo un periodo di malattia, interrompendo il suo terzo mandato come leader del Paese.

Da allora gli è succeduto To Lam, l’ex ministro della Pubblica sicurezza, mentre Luong Cuong è stato eletto presidente della Repubblica dall’Assemblea nazionale (ottobre).

Questa configurazione della leadership, insieme al primo ministro Pham Minh Chinh e al nuovo presidente dell’Assemblea nazionale Tran Thanh Man, è rimasta stabile, fornendo la calma necessaria dopo un periodo turbolento.

Ripresa economica

La stabilità ha contribuito a far sì che il Vietnam raggiungesse una crescita annua del Pil migliore del previsto, pari al 7,09% nel 2024, superando l’obiettivo del Governo che era del 6,5%.

La crescita trimestrale del Pil è aumentata in ogni trimestre dell’anno, raggiungendo il 7,55% nel quarto e guidando la quarta espansione annuale più alta degli ultimi 15 anni.

Il fatturato delle esportazioni e delle importazioni ha raggiunto un nuovo record, con il primo che ha raggiunto quasi 385 miliardi di dollari di valore, ovvero un aumento del 14,4% su base annua. Gli investimenti esteri diretti registrati, nel frattempo, sono stati di 31,4 miliardi di dollari, con il Governo che si è concentrato in particolare sui semiconduttori e l’intelligenza artificiale.

La concorrenza in questi settori è agguerrita a livello globale e soprattutto nel Sudest asiatico, con Malaysia, Indonesia e Thailandia che si sono assicurate importanti accordi di investimento da aziende del calibro di Google e Apple. Il Vietnam rimane un forte contendente, come evidenziato dal tanto celebrato annuncio di dicembre di Nvidia che investirà in ricerca e sviluppo nel Paese.

I funzionari puntano ora a una crescita del Pil dell’8% nel 2025 e, sebbene la performance dello scorso anno abbia gettato solide basi per un’ulteriore espansione, la dipendenza del Vietnam dal commercio estero rappresenta un rischio nel contesto dell’approccio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla questione.

Gli Stati Uniti sono il più grande mercato di esportazione del Vietnam, con un valore di 136 miliardi di dollari nel 2024 e, sebbene Trump non abbia preso di mira specificamente il Vietnam con la sua recente retorica, il Paese del Sudest asiatico ha il terzo più grande surplus commerciale con gli Stati Uniti dopo Cina e Messico.

Questa cifra ha raggiunto i 123 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente.

Allo stesso tempo, gli investimenti manifatturieri cinesi in Vietnam sono aumentati e hanno rappresentato il maggior numero di nuovi progetti di investimenti esteri diretti lo scorso anno. Ciò ha sollevato preoccupazioni sulla possibilità che le aziende cinesi utilizzino il Vietnam come canale di trasbordo per evitare le tariffe americane, anche se sono state trovate poche prove che ciò avvenga.

«Questo cambiamento manifatturiero è guidato da una combinazione di forze», ha dichiarato Dan Martin, international business advisor di Dezan Shira & Associates. «Da un lato, la geopolitica è al centro dell’attenzione, in particolare lo sono i dazi. Già durante la sua prima presidenza Trump ha utilizzato politiche commerciali aggressive che hanno provocato onde d’urto nelle catene di approvvigionamento globali, costringendo le aziende a ripensare le loro operazioni quasi da un giorno all’altro. Ora, con Trump 2.0 in pieno svolgimento e l’imprevedibilità delle sue tattiche commerciali intransigenti in aumento, le imprese si stanno preparando per quella che molti credono sarà un’ondata ancora più dura di misure protezionistiche. L’urgenza di proteggersi da questi rischi non è mai stata così grande».

Il primo ministro Pham Minh Chinh ha esortato le agenzie governative a prepararsi all’eventualità di una guerra commerciale globale, avvertendo che un tale evento «interromperebbe le catene di approvvigionamento e ridurrebbe i mercati di esportazione del Vietnam», riportano i media statali.

Analizzando altri settori dell’economia, si nota che il turismo ha registrato una forte crescita nel 2024. Gli arrivi internazionali hanno raggiunto i 17,6 milioni, con un balzo di quasi il 40% rispetto al 2023. La Corea del Sud e la Cina, a lungo i mercati chiave per il turismo in entrata, hanno guidato questa crescita e sono stati responsabili rispettivamente di 4,6 milioni e 3,7 milioni di arrivi.

Questo settore sembra destinato a crescere nel 2025. Gli arrivi internazionali a gennaio hanno infatti già raggiunto i 2,1 milioni, ovvero un’espansione del 36,9% su base annua. I funzionari hanno fissato l’obiettivo di raggiungere i 23 milioni di arrivi all’anno, spingendo per aumentare le entrate del turismo.

Ristrutturazione del governo

Mentre l’amministrazione Trump rappresenta un fattore esterno imprevedibile, il segretario generale To Lam sta perseguendo le riforme governative più ambiziose degli ultimi decenni. Numerosi ministeri si uniranno per modernizzare la governance e migliorare l’efficienza per affrontare i problemi di lunga data che riguardano la burocrazia, mentre le agenzie statali a tutti i livelli saranno semplificate.

Si prevede che circa il 20% dei dipendenti statali, ovvero circa 100mila persone, saranno tagliati con un risparmio di 5 miliardi di dollari, uno sforzo immenso che, se eseguito correttamente, andrà a beneficio di tanti, dai normali cittadini agli investitori stranieri (i costi sociali restano da valutare).

Molti dettagli di questa riforma rimangono poco chiari, mentre tutti i governi provinciali e le organizzazioni ufficiali dovrebbero avere presentato piani di ristrutturazione entro la fine del primo trimestre 2025. Questa razionalizzazione porterà al prossimo Congresso nazionale, previsto per gennaio 2026, quando sarà selezionata la leadership politica per i prossimi cinque anni.

(foto Marco Bello)

Grandi ambizioni

Allo stesso tempo, la leadership del Vietnam sta procedendo con scadenze aggressive sui principali progetti infrastrutturali ed energetici.

Alla fine dello scorso anno, l’Assemblea nazionale ha approvato la tanto discussa ferrovia ad alta velocità Nord-Sud, che dovrebbe costare 67 miliardi di dollari e collegare Hanoi a Città Ho Chi Minh con 1.500 chilometri di binari. Con un tempo di percorrenza stimato di cinque ore, questo rimodellerebbe drasticamente i viaggi nazionali, collegando un totale di 20 province e città. La tempistica di costruzione è molto ambiziosa, con l’inizio dei lavori previsto per il 2027 e i primi treni per il 2035.

Il Parlamento ha anche approvato la ripresa dello sviluppo dell’energia nucleare nella provincia di Ninh Thuan dopo che questo piano era stato accantonato per preoccupazioni sui costi nel 2016. All’epoca, due centrali dovevano essere costruite con il sostegno rispettivamente di Russia e Giappone.

Al momento non è chiaro chi fornirà supporto per il nuovo piano o quale tipo di reattori potrebbe essere utilizzato, ma la domanda di energia del Vietnam sta crescendo del 13% all’anno mentre il Governo si sforza di rispettare il suo impegno di emissioni nette zero entro il 2050.

Questo impegno ha creato tensioni riguardo alle politiche ambientali. Mentre la capacità di energia rinnovabile del Vietnam è cresciuta rapidamente nel 2018 e nel 2019, questa espansione è poi rallentata a causa di ritardi normativi, e le centrali elettriche a carbone rimangono la principale fonte di elettricità.

Hanoi e Città Ho Chi Minh devono entrambe affrontare un inquinamento atmosferico sempre più grave a causa delle centrali elettriche, dell’attività manifatturiera, delle emissioni dei veicoli e di altri fattori. Sebbene la consapevolezza di questo problema stia crescendo, l’azione di risposta ad alto livello è stata limitata.

Per quanto riguarda l’energia nucleare, il primo ministro Chinh ha incaricato Electricity Vietnam (Evn) e Petrovietnam, due imprese statali, di guidare gli investimenti nelle due centrali nucleari, coordinandosi con i partner internazionali sulla tecnologia richiesta. La russa Rosatom è un forte contendente per il coinvolgimento, mentre altri potenziali partner includono Cina, Giappone, Corea del Sud e Francia.

Chinh ha anche chiesto che entrambi gli impianti siano completati al più tardi entro la fine del 2031, una tempistica che sarà difficile da rispettare date le complessità dello sviluppo dell’energia nucleare.

I dazi di Trump, la ristrutturazione politica e grandi infrastrutture, sono le ambiziose sfide del Vietnam per il 2025.

Michael Tatarski
da Città Ho Chi Minh

(foto Marco Bello)

Senso di coesione e gioia di vivere

Le sfide della chiesa vietnamita

Dai primi missionari, giunti 500 anni fa, alla vitalità della Chiesa vietnamita di oggi. Le sfide sono tante, come l’inurbamento e l’avanzata della modernità. Ma la gente ha un innato senso del sacro. E le vocazioni, pure missionarie, sono tante.

Nel 2033 la Chiesa in Vietnam celebrerà il cinquecentesimo anniversario di presenza. L’evangelizzazione della regione iniziò nella seconda metà del XVI secolo con l’arrivo di mercanti e missionari portoghesi. I primi religiosi inviati in missione in questo bellissimo Paese dell’Estremo Oriente furono i francescani, seguiti dagli agostiniani, dai domenicani e, più tardi, dai gesuiti. Il più famoso di questi missionari fu padre Alexandre de Rhodes (1591-1660), missionario gesuita francese, che, mentre svolgeva la sua attività missionaria, trasformò profondamente la scrittura vietnamita. Trascrisse in alfabeto latino la lingua vietnamita, fino ad allora scritta in caratteri cinesi, includendo, sotto forma di «accenti diacritici», i cinque toni della lingua vietnamita (quốc ngữ).

Il cristianesimo si diffuse inizialmente nel Nord del Paese, tra le popolazioni locali, soprattutto nelle zone rurali. Nel XVIII e XIX secolo, diverse ondate di persecuzione colpirono i cattolici, accusati di essere alleati delle potenze coloniali europee, e fecero più di centomila martiri. A metà del XIX secolo, il Vietnam divenne colonia francese. La dominazione straniera permise l’espansione del cristianesimo, la creazione di nuove diocesi, e quella di scuole e ospedali. Nel 1946 iniziò la prima guerra d’Indocina, seguita dalla seconda. Con la vittoria dei comunisti iniziò un nuovo periodo di persecuzione. Intorno agli anni 2000, gradualmente, lo Stato è diventato più tollerante nei confronti della Chiesa cattolica vietnamita.

Libertà di culto

Attualmente, la Chiesa gode di una relativa libertà che le permette di organizzare le sue attività interne senza troppe restrizioni. I seminari e le congregazioni religiose possono accogliere e formare seminaristi, religiosi e religiose in completa autonomia, molte chiese, centri pastorali e luoghi di pellegrinaggio sono costruiti ai quattro angoli del Paese. Solo l’istruzione e la maggior parte delle istituzioni ospedaliere rimangono appannaggio dello Stato (ad eccezione degli asili nido e di alcune scuole tecniche).

In certe zone più remote, dove le comunità cristiane sono minoritarie, il numero dei sacerdoti e dei campanili è ancora limitato dal governo locale. Paradossalmente, in questo contesto di crescente libertà, la progressione del cristianesimo nella società vietnamita non c’è stata. La fede cristiana si trova piuttosto di fronte a un certo declino.

Dalle campagne alle città

Diversi fattori spiegano questa tendenza, mentre altri restano sfide per l’attività missionaria della Chiesa. Come è successo in Europa negli ultimi cinquant’anni, ma in maniera più accelerata, oggi il Vietnam è nella morsa di una drammatica migrazione dalle campagne alle città, unita a un calo significativo del tasso di natalità (anche se la crescita demografica è ancora positiva). I villaggi e il mondo agricolo sono abbandonati dai giovani, che lasciano un contesto familiare e tradizionale per entrare in un ambiente urbano molto più anonimo e stressante, dove l’accesso ai beni materiali è la principale preoccupazione delle persone. Certo, quando arrivano dalla campagna, questi nuovi abitanti portano anche la loro parte di freschezza, dinamismo e cultura, ma la città è un mondo frenetico dove non tutti trovano l’Eldorado. La Chiesa è consapevole dell’importanza di accogliere e accompagnare questi migranti, ma non sempre trova i mezzi per raggiungerli nelle loro preoccupazioni quotidiane, per formarli e per difendere i loro diritti sociali.

I diritti dei lavoratori non sono la preoccupazione principale dello Stato e la protesta sociale è disapprovata in un Paese in cui il governo centrale è forte. La vita nelle parrocchie è ancora molto incentrata sull’aspetto religioso (celebrazione delle messe, sacramenti, processioni), con impegni caritativi che compensano in parte i problemi sociali.

Innato senso del sacro

Tuttavia, due elementi lavorano a favore della Chiesa in Vietnam. Il primo è il senso tradizionale del sacro dei vietnamiti (e degli asiatici in generale). I vietnamiti dichiarano senza complessi la loro religione e, sebbene la maggior parte della popolazione non ne pratichi una quotidianamente, ne riconosce il lato positivo. La religione promuove la coesione sociale (un valore molto apprezzato in questa società influenzata dal confucianesimo), e i credenti sono generalmente impegnati in attività caritatevoli (che rafforzano la benevolenza del popolo nei loro confronti). La religione è anche sinonimo di pietà verso gli antenati, che è uno dei doveri fondamentali di tutti i vietnamiti. È l’antitesi della modernità occidentale che è stata forgiata nell’età dell’Illuminismo.

Il secondo elemento che gioca a favore della vitalità della Chiesa vietnamita è il ruolo decisivo che giocano le persone consacrate: sacerdoti diocesani, religiosi e religiose. Ce ne sono più di venticinquemila nel Paese e le loro generosità, autenticità e gioia di vivere sono riconosciute da tutti, sia nella Chiesa che fuori da essa. Tutti sono direttamente coinvolti nel lavoro parrocchiale. Inoltre, le suore sono attive al servizio dei più poveri, dei disabili, degli orfani e dei bambini piccoli.

Missionari vietnamiti

Il dinamismo della vita religiosa si riflette anche sull’attività missionaria verso l’estero. Mentre la Chiesa diocesana vietnamita (lo diciamo con grande rammarico) è poco consapevole e attenta alle necessità della Chiesa universale, per quanto riguarda i religiosi, la situazione è più diversificata e quindi positiva. Certo, molte congregazioni e membri di congregazioni non si sentono missionari ad extra, ma in molti altri casi, soprattutto per quanto riguarda le congregazioni internazionali, l’invio in missione è relativamente numeroso. La fiamma missionaria non è certo paragonabile a quella che l’Europa ha conosciuto per circa un secolo, ma bisogna riconoscere che molti religiosi vanno lontano, in tutti i continenti, spesso nelle Chiese locali in crisi e nelle società in gran parte scristianizzate.

Come i missionari di una volta, hanno dovuto abituarsi alla lingua locale, al clima, al cibo e alla mentalità degli indigeni, con vari gradi di successo. Ma la loro generosità è bella da vedere. Inoltre, in molti casi, come in quello delle generazioni missionarie del passato che si sono prese cura anche dei loro connazionali, i religiosi vietnamiti sono attenti anche alle comunità cristiane vietnamite espatriate, che hanno bisogno di fede e di sostegno fraterno per affrontare le sfide dell’adattamento in terra straniera. Certo, il mondo è complesso, le generazioni cambiano, la pluralità e la scristianizzazione sono fatti innegabili del mondo moderno, e il Vietnam non fa eccezione, ma due cose rimangono essenziali. Da una parte, il messaggio del Vangelo continua ad essere rilevante per gli uomini del nostro tempo, e molti cristiani ne sono consapevoli e si nutrono della Parola, dei sacramenti, della vita fraterna, pur impegnandosi al servizio dei fratelli. D’altra parte, come ci ricorda papa Francesco, dobbiamo sempre uscire dalla nostra zona di comfort, essere critici e avere il coraggio di correre il rischio dell’avventura missionaria. I cristiani vietnamiti sono persone straordinarie. Hanno un bel senso di coesione, una bella liturgia, una gioia di vivere, convinzioni e generosità che sono un tesoro per la Chiesa universale e per la società nel suo insieme.

Frédéric Rossignol


Il Vietnam in cifre

  • Superficie: 331.210 km2 (Italia 302.073)
  • Popolazione: 100,3 milioni (2023)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 107/191 (2024)
  • Pil: 429,72 miliardi di dollari (2023)
  • Pil procapite annuo: 4.282 (2023)
  • Crescita annua del Pil: +7,09% (2024)
  • Aspettativa di vita: 75 (2022)
  • Popolazione al di sotto della soglia di povertà
    (2,15 dollari US al giorno): 1%
  • Tasso di alfabetizzazione: 96%
  • Accesso alla rete elettrica: 100%.
  • Accesso a internet: 70%.

(foto Marco Bello)


Il Vaticano e la Repubblica socialista

Colloquio con monsignor Marek Zalewski

Abbiamo contattato monsignor Marek Zalewski, primo Rappresentante pontificio residente in Vietnam, per fare il punto sui rapporti tra il paese asiatico e il Vaticano.

Monsignor Zalewski, potrebbe riepilogarci il processo di riavvicinamento tra la Santa Sede e la Repubblica socialista del Vietnam?

«L’apertura dei rapporti con le autorità vietnamite, fino a quel momento molto timidi, risale al 1989, il tempo dei cambiamenti politici e sociali in Polonia e Ungheria, quando il cardinale Roger Etchegaray, allora presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, poté compiere una visita ufficiale in Vietnam. Infatti, il pensiero di Giovanni Paolo II era quello di aprire sentieri di dialogo attraverso i temi della giustizia e della pace, spesso negata in quel periodo in vari Paesi, caratteristici dell’insegnamento e della testimonianza quotidiana della Chiesa.

Si avviò, pertanto, la prassi della visita annuale di una delegazione della Santa Sede, dedicata in parte ai contatti con il Governo di Hanoi e in parte all’incontro con le comunità diocesane. Nel 1996 iniziarono i colloqui per definire un modus operandi relativo alla nomina dei vescovi in Vietnam. Le prime visite furono condotte dall’attuale segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, in qualità, allora, di sottosegretario per i rapporti con gli Stati, e poi continuati da altri monsignori sottosegretari.

Nel 2009 venne in Vaticano il Presidente vietnamita Nguyen Minh Triet per incontrare Papa Benedetto XVI. Si è quindi formato un Gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede, che ha aperto la strada alla nomina di un Rappresentante pontificio non residente in Vietnam, con base a Singapore, nella persona di monsignor Leopoldo Girelli, il 13 gennaio 2011.

Il miei primi contatti con il Vietnam risalgono proprio a quel tempo quando, all’inizio del 2011, sono stato trasferito dalla nunziatura apostolica in Thailandia a Singapore, come collaboratore di ruolo di monsignor Girelli, il primo nunzio apostolico residente a Singapore. Vi sono rimasto quasi due anni. Nel 2018 sono stato nominato suo successore, mantenendo lo stesso titolo.

Nel 2019 il Gruppo di lavoro congiunto, di cui ormai facevo parte, cominciò i negoziati sul testo dell’accordo, approvato solo nel 2023, che ha permesso di nominare la mia persona come Rappresentante pontificio residente in Vietnam. Il primo febbraio 2024 ho aperto l’Ufficio permanente della Santa Sede ad Hanoi, riconosciuto ufficialmente dal Governo della Repubblica socialista del Vietnam».

I cambiamenti al vertice del Partito comunista e alla presidenza della Repubblica, pensa possano cambiare qualcosa?

«I recenti cambiamenti ai vertici del Governo e del Pcv non devono sorprenderci, direi che siano la normalità nella politica. Sono convinto che le cordiali relazioni tra la Santa Sede e il Vietnam continueranno a portare buoni frutti, sempre nel segno del reciproco rispetto e della fiducia.

Il futuro, come si è espresso qualche tempo fa il cardinale Parolin, “ci chiama a un cammino da continuare a percorrere insieme, senza la pretesa o la fretta di raggiungere qualche altra meta, ma con la disponibilità di chi vuole confrontarsi per trovare il meglio. Il presente Accordo, quindi, non rappresenta solo un traguardo positivo, bensì un nuovo inizio, nel segno del reciproco rispetto e della reciproca fiducia”».

Il precedente presidente Vo Van Thuong, durante la sua visita nel 2023, ha invitato il Papa in Vietnam. Un viaggio sarà realizzabile a breve?

«La visita del Santo padre in Vietnam è una questione attuale e aperta. Il presente Governo afferma che tale invito è sempre valido e attende una visita apostolica in questo Paese, dove vivono più di sette milioni di cattolici. Tale tema fu brevemente discusso l’anno scorso, durante la visita ufficiale in Vietnam di monsignor Paul Gallagher, Segretario per le relazioni con gli Stati e organizzazioni internazionali. Esso verrà ripreso durante la prossima riunione del Gruppo di lavoro congiunto, prevista nell’arco di quest’anno in Vaticano.

La diplomazia pontificia non cerca di ottenere subito il risultato finale, ma favorendo una graduale armonizzazione del principio della libertà religiosa e giustizia con le leggi e le consuetudini locali, vuole favorire una maggiore comprensione reciproca e dialogo, i quali potrebbero permettere di adoperare alcune scelte concrete.

Per quanto riguarda un futuro viaggio apostolico, va rilevato che la Conferenza episcopale vietnamita (Cev) è sempre stata coinvolta in tale processo e ha offerto le proprie riflessioni e valutazioni.

La Chiesa in Vietnam è ricca di vocazioni e dobbiamo ringraziare Dio per questo dono. Vorrei sottolineare l’importanza di vivere il Vangelo con coraggio e fedeltà da parte dei cattolici vietnamiti, cioè essere “buoni cattolici e buoni cittadini”. Tale principio è stato richiamato da papa Francesco nella sua lettera ai cattolici in Vietnam del 2023».

a cura di Ma.B.

(foto Marco Bello)

Le religioni in Vietnam

Con il «Doi moi» le relazioni tra Stato e religioni entrano in una nuova fase. La Costituzione del 1992 sancisce la libertà di fede e culto, e un’ordinanza del 2004 ne precisa le modalità di applicazione. Lo Stato, però, proibisce e reprime ogni interazione tra la religione e la politica. Ad esempio, si giustifica l’arresto di un prete se questo è accusato di fare politica oppure di avere relazioni con gruppi di oppositori in esilio. Non sarebbe una politica antireligiosa, ma è lo Stato che si riserva l’esclusività della politica. Tuttavia, si sa, i confini tra politico, sociale e religioso non sono mai netti. Da notare che la cultura cristiana è stata riconosciuta come parte della cultura nazionale.

Le maggiori religioni praticate oggi

  • Buddhismo (scuola cinese o zen): oltre 10 milioni.
  • Cattolicesimo: 7 milioni.
  • Protestantesimo: 1,5 milioni.
  • Caodaismo (religione sincretica locale del Sud): 2,5 milioni.
  • Buddhismo Hao Hoa (setta basata sul buddhismo): 1,5 milioni.
  • Islam: 70mila (per lo più di etnia Cham, nel Sud)
  • Esistono poi decine di culti locali, seguiti da oltre un milione e mezzo di persone.

Letture consigliate

  •  Pierre Brocheux, Histoire du Vietnam contemporaire, ed Fayard 2011. Compendio di storia moderna.
  •  Tiziano Terzani, Pelle di leopardo, Tea 2024. Reportage di guerra di Terzani.
  •  Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Bur supersaggi 1989. La guerra vista da un giornalista americano con approfondimenti di politica Usa.
  •  Troung Nhu Tang, Memorie di un Vietcong, Piemme 2008. La guerra vista da un vietcong, tra i fondatori del Fnl, membro del Grp.
  •  Sandra Scagliotti e Fausto Cò, Vietnam, cent’anni di resistenza (1885-1975), Epics 2020. Raccolta di testi.
  •  Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, Neri Pozza 2016 (vincitore premio Pulitzer). Romanzo esemplare sulla guerra e sul dopo.
  •  Phong Nguyen, L’eco dei tamburi di bronzo, Piemme 2023. Romanzo storico sulla rivolta delle sorelle Trung.

Siti italiani sul Vietnam:


Hanno firmato il dossier

Michael Tatarski
Giornalista freelance statunitense, è basato a Città Ho Chi Minh da diversi anni.  Tra le altre cose cura il blog «Vietnam weekly». Ha scritto per The Washington Post, The Atlantic, The Telegraph e altri. È stato caporedattore del Saigoneer.

Frédéric Rossignol
Religioso della Congregazione dello Spirito Santo di origine belga. È stato missionario in Vietnam dal 2007 al 2023. Lavora a Roma come padre spirituale del Collegio San Paolo, che ospita sacerdoti studenti da Africa, Asia e America.

Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale di MC.

(foto Marco Bello)




Vietnam. Un solo partito, tante speranze


Le prove di avvicinamento tra uno degli ultimi Paesi comunisti e il Vaticano sembrano dare frutti. Ma i punti di vista sono diversi e occorre tempo. Intanto la società vietnamita evolve rapidamente. E la Chiesa locale fatica a stare al passo. Reportage.

Hanoi. È sera. Siamo seduti sulle basse sedie che si usano qui, sul marciapiede di fronte al piccolo bar, bevendo una bibita per contrastare il caldo e l’umidità della giornata. Siamo sul ciglio di una strada che si immette nella rumorosissima e centrale via Hang Bong. I marciapiedi sono usati come parcheggio di motorini, posizionamento di mercanzia di ogni tipo, e, appunto, come spazi per sedie e tavolini. Per camminarci sopra, occorre fare uno slalom continuo.

Ci troviamo nel centro della città, vicino al cosiddetto quartiere vecchio, e non lontano dal lago Hoan Kiem, ombelico di questa metropoli di otto milioni di abitanti. Qui, al contrario di altri quartieri più moderni, ci sono ancora gli altoparlanti agli incroci che trasmettono messaggi di comunicazione del Governo.

Questa sera, il 19 luglio, sentiamo ripetersi due messaggi di pochi minuti, ma non ci facciamo caso più di tanto, anche perché, essendo in vietnamita, non capiamo nulla.

Sono circa le 18. Solo mezz’ora più tardi mi arriva un messaggio da un’amica di Hanoi che rimanda un appuntamento, perché «è morto il Segretario generale del partito». Verifico rapidamente: Nguyen Phu Trong è deceduto poco dopo le 13, dicono vari siti vietnamiti.

Era l’uomo forte del Paese, la carica più importante. Gli altri tre sono il presidente della Repubblica, che ha compiti più rappresentativi, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Trong, inoltre, non è stato un segretario generale come gli altri.

Vietnam. Cartelloni politici a Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Chi era Nguyen Phu Trong

In carica dal 2011, aveva iniziato un terzo mandato nel 2021. Fatto inusuale perché di solito ci si ferma a due. Ma soprattutto è stato un leader che ha saputo posizionare il Paese a livello internazionale e mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze, applicando la «diplomazia del bambù»: pianta robusta, ma flessibile e con salde radici. Basti pensare che, da settembre 2023 a giugno 2024, Trong ha ricevuto Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Trong ha condotto una lotta anticorruzione interna al Partito comunista vietnamita (Pcv), chiamata «braci ardenti», e ha spinto lo sviluppo economico che sta avendo il Paese. «È stato un uomo che si è dedicato alla patria», ci dice un osservatore straniero che da anni vive in Vietnam.

Per la sua morte, vengono decretati tre giorni di lutto nazionale e celebrati solenni funerali di Stato in tre località: Hanoi, la capitale, Città Ho Chi Minh, ex Saigon (ma ancora sovente chiamata così) capitale del Sud, e a Lai Dà, il suo villaggio di origine, nei pressi di Hanoi.

Il giorno dopo, l’atmosfera cittadina non pare molto cambiata. Il traffico è caotico come sempre. Migliaia di motorini inondano le strade, mentre a ogni angolo, a ogni via, c’è un localino in cui mangiare e gente seduta davanti a una scodella di zuppa.

I giornali e i siti sono usciti in colore nero anziché rosso, mentre sui social impazzano commenti. Un’amica di Hanoi ci mostra alcune foto del segretario da giovane, prese dal suo profilo Facebook.

Sulla spianata di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, il padre del Vietnam moderno, i turisti stranieri, ma anche molti vietnamiti da varie province del Paese, scattano foto ricordo.

Una presenza sicura

Il Partito comunista del Vietnam (Pcv), partito unico al governo della Repubblica socialista del Vietnam, sembra sullo sfondo. Nella realtà, è bene presente nella società vietnamita.

Arrivati all’aeroporto di Città Ho Chi Minh, la prima cosa che vediamo uscendo all’aperto sono tre gigantesche bandiere rosse con al centro il simbolo della falce e il martello in giallo, la bandiera del partito.

Bandiere grandi e piccole del Paese (stella gialla su sfondo rosso) sono presenti un po’ ovunque, talvolta con discrezione, come sui pali della luce, talvolta in modo più appariscente, come le grandi stelle di neon colorati a Città Ho Chi Minh e Nha Trang, o le centinaia di bandierine appese ai fili che attraversano alcune vie pedonali della movida. Poi, nelle diverse città, ci sono grandi cartelloni propagandistici, come quelli dei 70 anni della vittoria contro i francesi a Diem Bien Phu (maggio 1954) che mise fine all’occupazione coloniale, o quelli su Ho Chi Minh, o ancora sulla scuola o altri servizi dello stato.

Sono cartelloni con disegni in tipico stile comunista, come si vedevano nei paesi socialisti europei e in Unione Sovietica, ma qui stonano accanto ai mega schermi, diffusi nelle grandi città, che promuovono a ritmo continuo le grandi marche occidentali di ogni cosa, lusso compreso.  Eppure, ci conferma un nostro interlocutore straniero, che chiede di mantenere l’anonimato: «C’è un certo controllo da parte del Governo, e anche in modo capillare. Di noi stranieri sanno tutto, in particolare di chi vive nelle città. Dopo la pandemia da Covid-19, inoltre, c’è stata una stretta, dovuta anche alla maggiore instabilità a livello mondiale». Uno degli strumenti usati per monitorare le persone è attraverso i social network e le app di messaggistica, come la vietnamita «Zalo», che il nostro interlocutore dice essere «in mano all’esercito». «Nelle grandi città, a livello di quartieri, la polizia si avvale di informatori locali che riportano di passaggi e movimenti inusuali, come visite dall’estero», conclude.

Vietnam. Città Ho Chi Minh, la via Bui Vien famosa per i locali notturni. (Foto Marco Bello)

Sorrisi e controllo

Un altro straniero, che ha vissuto a lungo nel Paese, ci conferma: «Il governo è presente, deve verificare cosa dice la gente. Se un giornalista o una persona della Chiesa critica, dopo può avere dei problemi. Il Governo dà un po’ di libertà e poi le riprende. Ci sono movimenti di apertura seguiti da altri di chiusura. Ma è difficile sapere qual è il livello di denuncia e controllo, soprattutto quando vivi sul posto».

Continua: «Devo dire però che non è una nazione che vive nell’oppressione ogni giorno. I vietnamiti hanno la propria vita personale, il loro quotidiano, il piacere di mangiare insieme, incontrare gli amici, uscire dalla città a vedere posti nuovi. Ci sono tante cose positive. Non è un paese in cui manchi la gioia».

Questo lo si vede in tutte le città. Dai giovani che affollano i locali di tendenza sul lungofiume del Saigon a Città Ho Chi Minh, dagli innumerevoli ristoranti, dalle manifestazioni musicali e fiere, dai coloratissimi áo dài indossati dalle donne. E dai parchi cittadini o i viali resi pedonali e abbelliti da luci colorate, nei quali le famiglie vanno a passeggiare la sera. Un qualsiasi viaggiatore osserverà molta vitalità, voglia di divertirsi, di stare insieme e mangiare bene.

Sebbene sia un popolo di persone generalmente riservate, notiamo una certa attitudine al sorriso. Basta guardarsi e ci si sorride.

Vietnam. Megaschermo installato sulla riva destra del fiume Saigon, di fronte al centro di città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Le sfide irrisolte

Il vero aspetto negativo di questo sistema sembra essere la presenza di alcune importanti sfide sulle quali non è possibile aprire un dibattito, proprio perché non ci sono gli spazi di confronto, per cui non si discutono e, molto sovente, non vengono affrontate.

Il nostro testimone ce ne elenca alcune. «L’educazione è una grande sfida. È ancora di tipo tradizionale e non prepara i giovani alle difficoltà del lavoro moderno. Occorre allocare dei fondi per andare in questa direzione. Un’altra sfida è l’arricchimento di una piccola parte della popolazione, che poi tende a mandare i figli a studiare all’estero. La speculazione immobiliare, molto diffusa. L’abbandono delle campagne da parte dei giovani, perché la vita è meno confortevole, per andare a ingrossare le città. La mancanza di investimenti sulla cultura e sull’arte. Anche da questo si vede il livello di sviluppo di un Paese. E poi non c’è una rilettura critica della storia».

Per contro, a livello sociale, nelle grandi città del Vietnam non esistono quartieri molto poveri o degradati, come ci sono in Europa, nelle periferie di Parigi o Roma, tanto per fare due esempi.

È pur vero che si tratta di una società che viene dal mondo rurale e si è modernizzata rapidamente, negli ultimi venti o trent’anni.

Vietnam. Il portale di uscita della chiesa Sacro Cuore di Gesù di Cholon, il quartiere cinese di Città Ho Chi MInh. (Foto Marco Bello)

La Chiesa che c’è

A Città Ho Chi Minh visitiamo una comunità dei padri dello Spirito Santo. Attualmente sono tutti vietnamiti. Ci dicono che hanno una buona collaborazione con il Governo. Ad esempio, nelle attività di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione. «Un ente dello Stato ci fornisce riso che distribuiamo ai poveri – ci conferma padre Peter -. Inoltre, noi religiosi siamo stati molto apprezzati durante il periodo della pandemia, grazie al volontariato che facevamo per contrastare l’emergenza». I missionari dello Spirito Santo sono presenti nel Paese dal 2007. Stanno lavorando in particolare in una zona rurale di recente urbanizzazione, vicina alla metropoli. Qui c’è una popolazione immigrata, giunta da varie provincie interne del Paese per lavorare nelle grandi fabbriche di manifattura, che in quest’area (come anche alla periferia di Hanoi) si trovano in grande numero.

Ci sono diverse altre congregazioni presenti in Vietnam, come i Salesiani, presenza storica, o i Camilliani, con le loro attività in ambito sanitario. Il rapporto con le autorità è generalmente buono, ma ovviamente, non si deve entrare nella sfera politica.

Più in generale, la Chiesa cattolica in Vietnam è coesa, forse a causa delle persecuzioni che ha subito in passato e anche nella storia recente.

Oggi è diverso, ed è in corso un processo di avvicinamento, anche ufficiale, tra il Vaticano e la Repubblica socialista del Vietnam. Le relazioni diplomatiche ufficiali si erano interrotte nell’aprile 1975, quando la Repubblica democratica del Vietnam (il Nord) insieme alla guerriglia rivoluzionaria del Sud (i cosiddetti vietcong) vinsero la guerra contro la Repubblica del Vietnam (governo del Sud) e i suoi alleati statunitensi.

Un avvicinamento costante

I rapporti sono ripresi timidamente nei primi anni Novanta. Dal 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede che si occupa di questo processo. I lavori hanno inizialmente portato a scambi e visite ufficiali di rappresentanti del Vaticano e poi alla presenza della figura di un Rappresentante pontificio non residente dal 2011. Il 27 luglio 2023 il presidente Vo Van Thuong è stato in visita da papa Francesco. Lo stesso giorno la delegazione vietnamita ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed è stato firmato un accordo per l’istituzione di un Rappresentante pontificio residente (Rpr). Una figura ad hoc che, di fatto, espleta le funzioni di nunzio, senza però esserlo. Il presidente Vo ha anche invitato papa Francesco a visitare il Paese (Vo si è dimesso nel marzo di quest’anno, nell’ambito della campagna anticorruzione, e a maggio è stato nominato l’attuale presidente To Lam).

Il 23 dicembre scorso, monsignor Marek Zalewski, nunzio apostolico a Singapore e già rappresentante non residente in Vietnam, è stato nominato rappresentante pontificio residente. Ha quindi aperto l’ufficio di rappresentanza nella capitale Hanoi, a gennaio di quest’anno. L’auspicio espresso da papa Francesco durante l’incontro con il presidente Vo, ripreso poi da monsignor Zalewski, è stato: «Che cattolici del Vietnam realizzino la propria identità di buoni cristiani e buoni cittadini». Frase che sottolinea l’importanza dello Stato.

Vietnam. Celebrazione di un matrimonio nella cattedrale di Nha Trang. (Foto Marco Bello)

Le porte sono aperte

I cattolici in Vietnam sono circa 7 milioni su 100 milioni di abitanti. Questo rendendo la religione cattolica seconda per fedeli, mentre la prima è il Buddhismo con oltre 10 milioni di vietnamiti che si dichiarano tali. «Il numero di cattolici è in crescita – ci dice don Joseph Ta Minh Quy, rettore della cattedrale di Hanoi, che in passato si occupava di comunicazione per l’arcidiocesi -. Però è un po’ inferiore della crescita della popolazione».

Continua don Joseph, che ci ha accolti nel suo ufficio dietro la cattedrale: «I cattolici del Nord sono molto attivi, amano gli incontri di famiglia, di comunità. Sono molto socievoli. Il concetto di comunità è molto forte. Nel Sud è un po’ diverso, e c’è un investimento maggiore sul rapporto personale e sulla fede».

Nelle diverse città del Vietnam, i cattolici non si nascondono. Abbiamo visto ovunque chiese sormontate da grosse croci e rese molto evidenti, spesso illuminate di notte. Continua don Joseph dicendo che il rapporto con il Governo è buono: «Nei nostri spazi possiamo fare tutte le attività che vogliamo, senza alcun problema. Diverso è se vogliamo occupare suolo pubblico, allora occorrono degli speciali permessi. C’è poi abbastanza differenza tra la città e la campagna. In ogni caso, là dove siamo, le nostre porte sono aperte e invitiamo chiunque a venire».

«Una sfida della Chiesa in Vietnam oggi – ci dice uno dei rari missionari nel Paese -, è l’influenza della società secolarizzata. Tanti, soprattutto i giovani, si stanno allontanando. Anche a causa della migrazione interna. Molti di loro lasciano le province per le grandi città, per studiare o lavorare. Ma qui perdono i riferimenti. Così diminuiscono fede e vocazioni». Nella cattedrale di Nha Trang, vivace città nel centro del Paese, si sta celebrando un matrimonio. La sposa indossa un áo dài candido e lo sposo camicia bianca e cravatta. Nel coro ordinato, una decina di donne sfoggia degli áo dài coloratissimi. Gli uomini sono vestiti all’occidentale. È l’immagine di una società vivace e variopinta ma allo stesso tempo ligia e rispettosa delle regole.

Marco Bello

Vietnam. Famiglie a passeggio di sera nel centrale corso Le Loi nei pressi del municipio di Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)


Il nuovo segretario generale

Il comitato centrale del Partito comunista, il 3 agosto scorso ha nominato To Lam nuovo Segretario generale. Lam è l’attuale presidente della Repubblica, che così concentra su di sé due delle quattro cariche più importanti del Paese. Lam è stato capo della polizia e ministro della Sicurezza pubblica.


Archivio mc




Nicaragua. Daniel, Rosario e figli

Daniel Ortega e Rosario Murillo sono una coppia consolidata. Non sappiamo se lo siano come famiglia, ma sicuramente lo sono come dittatori del piccolo paese centroamericano. Inamovibili anche sulle pagine e sugli schermi dei media nazionali. Su «El 19 Digital» i loro volti sorridenti sono sulla testata del sito, accanto allo slogan «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!». La famiglia Ortega Murillo è molto unita: la signora Murillo, vicepresidente del Nicaragua, è ospitata frequentemente al notiziario di «Canal 4», la rete televisiva di proprietà di due dei suoi sette figli. Sul sito del canale si trovano svariate notizie sulla Russia di Putin, grande alleato del paese. Ad esempio, a gennaio è stato dato grande risalto alla visita di una delegazione della Crimea, la penisola ucraina invasa e annessa alla Russia nel febbraio del 2014.

La testata de «El 19 Digital», sito d’informazione governativo. Si noti la frase in alto a sinistra: «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!».

Lo scorso novembre il paese ha ufficialmente abbandonato l’Organizzazione degli stati americani (Osa), allineandosi a Venezuela e Cuba. Managua contestava l’ingerenza dell’organizzazione continentale negli affari interni del paese, in particolare nei processi elettorali e nel campo dei diritti umani. Per converso, il paese ha stretto legami sempre più stretti con la Russia, appoggiando anche la sua aggressione all’Ucraina. A ottobre 2023, si è tenuta a Mosca la prima riunione della Commissione di cooperazione tra la Duma russa e l’Assemblea nazionale del Nicaragua. A guidare la delegazione di Managua c’era Laureano Facundo Ortega Murillo, il figlio maggiore della coppia presidenziale. Questi ha espresso a chiare lettere la posizione del proprio paese: «Possiamo assicurarvi, fratelli, che il Nicaragua non è neutrale, il Nicaragua è con la Russia, perché è la cosa corretta, è la cosa giusta».

Laureano Facundo Ortega Murillo (a sinistra), figlio maggiore di Daniel Ortega, in un recente incontro a Mosca. La Russia è un grande alleato del Nicaragua. Foto duma.gov.ru.

Meno pubblicità è stata invece data alla notizia dell’espulsione, avvenuta domenica 14 gennaio, del vescovo Rolando Álvarez, che si trovava in carcere per scontare una condanna di 26 anni a causa del suo appoggio alle proteste del 2018. Con lui sono stati espulsi un altro vescovo, due seminaristi e quindici sacerdoti.

Da anni il governo Ortega-Murillo combatte la Chiesa cattolica del paese. Lo scorso agosto aveva confiscato l’Università centroamericana, nota con il nome di Uca, di proprietà della Compagnia di Gesù (i gesuiti) che l’aveva fondata nel 1960. L’ateneo, uno dei più prestigiosi dell’intera America Latina, è stato accusato di essere una «centrale del terrorismo».

La Uca è soltanto l’ultima vittima del regime Ortega-Murillo. Da dicembre 2021, in Nicaragua sono state chiuse 26 università (sette delle quali straniere), oltre a migliaia di associazioni e Ong. Inoltre, a fine 2023, anche la Croce rossa internazionale ha dovuto chiudere i battenti.

Paolo Moiola

 




Nicaragua. La triste fine del sogno sandinista


Nel paese centroamericano, gli abusi della coppia presidenziale Daniel Ortega-Rosario Murillo non conoscono fine. Gli oppositori sono in carcere o in esilio, mentre la Chiesa cattolica è sotto assedio.

Baffetti neri, indossava sempre una divisa militare e un paio di occhiali a goccia poggiati sul naso. Serio, determinato, di poche parole. Aveva portato alla vittoria il Fronte sandinista (Fsln) sconfiggendo il dittatore Anastasio Somoza e i suoi poderosi alleati, gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Nel luglio del 1979, era entrato a Managua, capitale del paese, da trionfatore, accolto da una folla di nicaraguensi entusiasti, applaudito all’estero da schiere di ammiratori.

Managua, febbraio 2023.  Baffetti grigi, abiti civili, cappellino in testa. Circondato dai suoi collaboratori, parla con un tono di voce tranquillo e monocorde, ma usando il vocabolario tipico del nazionalismo più spinto: agenti stranieri, traditori, terroristi, mercenari al soldo dell’imperialismo. Gli epiteti sono riferiti ai 222 prigionieri politici da lui stesso improvvisamente rilasciati, messi su un volo charter e spediti negli Stati Uniti, ma non prima di essere stati spogliati della cittadinanza. Protagonista di questi eventi è Daniel Ortega Saavedra, un tempo mitico comandante sandinista, oggi presidente del Nicaragua o, secondo l’opinione più accreditata, dittatore senza se e senza ma.

Il presidente russo Putin durante la sua visita al Nicaragua di Ortega e Murillo l’11 luglio 2014. Lo scorso 23 febbraio 2023 il Nicaragua ha nuovamente votato a favore della Russia durante l’Assemblea delle Nazioni Unite. Foto Cesar Perez – Presidencia de Nicaragua – AFP.

Ortega-Murillo, coppia «regale»

Prima, dal 1979 al 1990, poi, dal 2007 a oggi, Daniel Ortega ha ormai raggiunto i 27 anni alla guida del paese centroamericano. Il suo passaggio da presidente ad autocrate (eufemismo per dittatore) è stato graduale, ma sistematico, con la progressiva neutralizzazione di ogni opposizione, in primis quella interna al movimento sandinista. Punto di svolta sono state le proteste di piazza (contro la riforma del sistema di sicurezza sociale, Inss) dell’aprile del 2018, concluse con un bilancio di (almeno) 350 morti. In quell’occasione, il governo ha giustificato la propria reazione accusando i manifestanti di terrorismo golpista che minacciava la stabilità del paese. Nelle elezioni del novembre 2021, Ortega è stato rieletto con il 75% dei voti, ma praticamente senza avversari, visto che i principali concorrenti erano stati incarcerati prima del voto (Cristiana Chamorro, Arturo Cruz, Félix Maradiaga, Juan Sebastián Chamorro, Miguel Mora, Medardo Mairena e Noel José Vidaurre Arguello) o avevano preferito lasciare il paese (María Asunción Moreno).

Dal 2019 il Nicaragua è sottoposto a sanzioni internazionali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Anche per questo, si sono fatte sempre più strette le relazioni del paese con le due principali autocrazie mondiali: la Russia di Putin e la Cina di Xi (soprattutto dopo la rottura, nel dicembre 2021, delle relazioni tra Managua e Taiwan). Peraltro, entrambe le potenze sono coinvolte nel megaprogetto del canale del Nicaragua tra l’Atlantico e il Pacifico in futura concorrenza con l’unico canale ad oggi aperto, quello di Panama (di proprietà panamense, ma di fatto controllato dagli Stati Uniti). Le scelte di campo sono chiare. Il 23 febbraio Managua si è nuovamente schierata con Putin nella risoluzione delle Nazioni Unite contro l’aggressione della Russia all’Ucraina (unendosi – unico paese latinoamericano – a Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Eritrea e Mali). Mentre una settimana dopo (2 marzo) è uscito un report delle Nazioni Unite che accusa il governo nicaraguense di gravi violazioni e abusi dei diritti umani (detenzioni arbitrarie, esecuzioni extragiudiziali, tortura, privazione arbitraria della nazionalità e del diritto di rimanere nel paese).

A queste alleanze internazionali Ortega ne affianca un’altra. Da molto tempo, al suo fianco siede la moglie Rosario Murillo, inizialmente come primera dama, dal 2017 anche con la carica ufficiale di vicepresidente, formando un controverso governo familiare che ricorda più le monarchie ereditarie che le istituzioni repubblicane.

Consolidano la dinastia Ortega-Murillo i nove figli della coppia. Tutti occupano posizioni importanti, ad eccezione di Zoilamérica, la primogenita di Murillo da anni in rotta con la famiglia. Laureano Ortega, il sesto figlio, già cantante d’opera, ha assunto il ruolo di «assessore» nel campo degli investimenti e della cooperazione internazionale, in particolare con la Cina, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan. In quest’ottica, lo scorso 11 febbraio il giovane Ortega ha incontrato a Pechino Wang Yi, direttore della Commissione affari esteri (il diplomatico cinese di più alto grado).

Una foto storica: la trionfale entrata a Managua dei sandinisti, il 19 luglio 1979.

Senza esclusione di colpi

Da tempo, la Chiesa cattolica del Nicaragua è critica verso il governo di Ortega e Murillo e per questo è finita nel mirino della coppia presidenziale. Occorre però ricordare che all’inizio, subito dopo la caduta di Somoza (1979), una parte importante del cattolicesimo nicaraguense si schierò con i sandinisti tanto che alcuni sacerdoti (legati alla teologia della liberazione) entrarono in quel governo: Miguel D’Escoto, Edgard Parrales, Fernando Cardenal, Ernesto Cardenal. Famosa è rimasta la scena del 4 marzo 1983 nella quale Giovanni Paolo II, in visita al paese, con il dito alzato rimproverò pubblicamente padre Ernesto Cardenal, inginocchiato davanti a lui. Più recentemente, nel 2005, il cardinale Miguel Obando y Bravo celebrò le nozze religiose tra Ortega e Murillo.

Oggi i rapporti tra governo nicaraguense e Chiesa cattolica sono ai minimi storici. La coppia presidenziale accusa la Chiesa di appoggiare la rivolta iniziata nell’aprile 2018 e per questo ha iniziato una capillare persecuzione dei suoi rappresentanti. Eppure, a maggio 2018, cinque membri della Conferenza episcopale avevano fatto da mediatori negli incontri (mesa del diálogo nacional) tra il governo e la società civile. A quel tavolo di mediazione – ben presto rivelatosi fallimentare – sedeva anche monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, nonché critico instancabile del governo.  Nell’agosto 2022 i contrasti s’inaspriscono. A inizio mese, la polizia chiude le sette emittenti radio di proprietà della diocesi e pone agli arresti domiciliari il vescovo e i suoi collaboratori. La foto dell’arresto del prelato, con lui inginocchiato a terra e con le mani alzate davanti alla polizia di Ortega, fa il giro del mondo. Dopo quindici giorni, chiusi all’interno della curia di Matagalpa, il 19 agosto la polizia preleva i prigionieri e li conduce a Managua.

Il 9 febbraio arriva la mossa a sorpresa di Ortega con la liberazione e l’espulsione dei prigionieri politici, tra cui monsignor Álvarez. Questi però non smentisce la sua fama di oppositore intransigente: rifiuta la liberazione e l’espatrio. Il giorno seguente un Tribunale lo condanna a un totale di 26 anni di carcere.

Un primo piano di mons. Álvarez, il vescovo che, dopo aver rifiutato l’espulsione dal Nicaragua, è stato condannato a 26 anni di carcere. Foto Diocesis de Matagalpa.

Traditori della patria e paternalismo

L’offensiva repressiva del governo non si ferma però alla condanna del vescovo Álvarez. Il 15 febbraio un altro tribunale nicaraguense toglie la cittadinanza a 94 oppositori in esilio tra cui gli scrittori Sergio Ramírez e Gioconda Belli (entrambi sandinisti della prima ora) e il vescovo Silvio Báez. Tutti dichiarati «traditori della patria».

Secondo il magistrato di Managua, «gli imputati hanno compiuto e continuano a compiere atti criminali a danno della pace, della sovranità, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione del popolo nicaraguense, incitando alla destabilizzazione del paese, promuovendo blocchi economici, commerciali e finanziari, il tutto a scapito della pace e del benessere della popolazione».

Oltre che nella Chiesa e nella società civile, il regime Ortega-Murillo ha individuato nelle organizzazioni non governative (Ong) un altro nemico. A fine 2022, su 7.227 Ong ufficiali ne erano state chiuse 3.106 (fonte «Expediente Nicaragua»), in teoria per mancanza di un’adeguata rendicontazione, in realtà per impedire un associazionismo considerato veicolo di critiche e per un avere un controllo ancora più stretto sulla popolazione. Molte Ong fornivano servizi essenziali per la salute, l’educazione e lo sviluppo.

Erano essenziali perché il Nicaragua rimane il terzo paese più povero delle Americhe (dopo Haiti e Honduras), nonostante la propaganda governativa. Per esempio, nel «Piano nazionale di lotta contro la povertà e per lo sviluppo umano 2022-2026» del luglio 2021 è scritto testualmente: «Il modello cristiano e solidale, con i valori cristiani e le pratiche di solidarietà che guidano la costruzione di circoli virtuosi di sviluppo umano con il recupero dei valori, la restituzione dei diritti e il rafforzamento delle capacità che ci hanno permesso di superare i circoli viziosi della povertà e del sottosviluppo». Questa sorta di «paternalismo cristiano» costituisce un mantra ad uso e consumo della coppia presidenziale.

Sentire (Multinoticias Canal 4, televisione di cui sono proprietari i figli Juan Carlos e Daniel Edmundo) o leggere (El 19) i discorsi della compañera Rosario lascia interdetti per la profusione di parole come amore, felicità, pace, dignità, libertà, sovranità, sempre «por gracias de Dios» (grazie a Dio).

Volenti o nolenti, il destino dei nicaraguensi – almeno al momento – rimane nelle mani di Daniel Ortega e Rosario Murillo, probabilmente la peggiore rappresentazione di quello che fu il sogno sandinista.

Paolo Moiola

Il vescovo Silvio Báez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.


Come il potere cambia gli individui

Dall’empatia all’arroganza

La scrittrice Gioconda Belli privata della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Foto da Facebook.

L’esperienza di oggi e del passato dimostra che il potere cambia gli individui. Certamente non tutti alla stessa maniera, ma è difficile rimanere indenni dalla metamorfosi che il potere produce negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Nello Spirito delle leggi (1748), la sua opera più nota, Montesquieu (1689-1755), padre riconosciuto del principio della «separazione dei poteri», scrive: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti».

È quello che lo psicologo Dacher Keltner dell’Università della California di Berkeley ha chiamato il «paradosso del potere» (2016). Secondo i suoi studi, una volta raggiunto il potere il protagonista perde le qualità che sono state necessarie per conseguirlo. Questo significa che le persone di potere tendono ad avere meno comprensione dei punti di vista altrui, meno sensibilità, meno compassione verso le sofferenze degli altri ovvero – per dirla in breve – presentano un «deficit di empatia».

«Il deficit di empatia – scrive la psicologa Jennifer Delgado Suárez – non riguarda tutte le persone che hanno potere. C’è chi conserva la capacità di connettersi con gli altri e mettersi nei loro panni. Dopotutto, il potere non è una posizione, ma uno stato mentale. Un politico può sentirsi potente, così come un ufficiale delle forze di sicurezza dello Stato o un giudice, ma può sentirsi potente anche il proprietario di un’impresa o l’insegnante che esercita una certa autorità sui suoi studenti. Chi comprende la responsabilità che deriva dal potere e lo vede come uno stato transitorio che gli consente di aiutare gli altri e migliorare la propria vita, può preservare la propria empatia».

Lo scrittore Sergio Ramírez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.

Al potere è anche collegata quella che viene chiamata la «sindrome dell’arroganza» (Hubris syndrome). «La sindrome di Hubris – scrive David Owen (Clinical Medicine, agosto 2008) – è indissolubilmente legata al potere: il potere è un prerequisito, e quando il potere passa la sindrome normalmente si risolve». È meno probabile che essa si manifesti nelle persone che sanno rimanere modeste, che rimangono aperte alle critiche o che sono dotate di senso dell’umorismo.

Sfortunatamente – lo insegna la storia e lo vediamo nella quotidianità – il potere corrompe e per alcuni diventa difficile o impossibile farne a meno. Spesso neppure la separazione dei poteri risulta sufficiente per arginare la deriva del potere. Sono necessari almeno altri due requisiti: una democrazia solida e una società istruita e dotata di spirito critico.

Pa.Mo.


SCHEDA PAESE

Superficie: 130.374 km²
(il paese più esteso dell’America centrale).

Popolazione: 6.702.379 (2022).

Capitale: Managua (un milione di abitanti).

Forma di governo: repubblica presidenziale (Daniel Ortega e Rosario Murillo).

Religioni: 44,9 per cento di cattolici, 39,8 di evangelici
(di varie denominazioni).

Economia: fondata sul settore agricolo che produce fagioli, sorgo e mais per il consumo interno, e caffè, carne bovina, zucchero di canna, banane, cotone e tabacco per le esportazioni; tra le attività minerarie, l’estrazione dell’oro riveste una sempre maggiore importanza.

Condizione socioeconomica: i dati sulla povertà non sono univoci variando dal 30 al 43 per cento della popolazione.

Sanzioni internazionali: a partire dalla repressione dell’aprile 2018, molti paesi (Stati Uniti e Unione europea in primis) hanno adottato sanzioni contro il regime Ortega-Murillo. L’ultima condanna delle Nazioni Unite è del 2 marzo 2023.


L’Università dei Gesuiti (Uca) e la rivista «Envío»

I vulcani non avvertono

L’Università centroamericana di Managua – generalmente conosciuta con l’acronimo di Uca – è la prima università privata nata in Centroamerica. È stata fondata il 23 luglio 1960 dalla Compagnia di Gesù.

Tra i numerosi meriti dell’ateneo dei Gesuiti c’è quello di essere stato l’editore della rivista Envío. Il primo numero del mensile uscì nel febbraio 1981, l’ultimo è del giugno 2021. Inizialmente, la rivista fu soprattutto uno strumento di «appoggio critico» alla rivoluzione nicaraguense e al pensiero sandinista. Dal 1990 – in concomitanza con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista (Fsln) – si aprì all’America Latina e a molte altre tematiche (dall’ambiente ai popoli indigeni), fino a quando è esplosa la crisi del Nicaragua.

«Aprile 2018 – si legge nell’editoriale del numero di dicembre di quello stesso anno – sarà per sempre impresso nella coscienza nazionale. La sproporzionata risposta repressiva del regime contro le prime proteste cittadine fece esplodere il vulcano. Nessuno aveva presentimento, ma c’erano innumerevoli ragioni che annunciavano che sarebbe successo. Un decennio di sfrenato autoritarismo ha trasformato lo scoppio in un’insurrezione della coscienza nazionale. La gioventù universitaria l’ha iniziata, e la gioventù è stata seguita da gente, tanta gente, sempre più gente. Per anni c’erano morti e terrore nelle zone rurali ma Managua, León, Masaya, le città del Pacifico sembravano addormentate. Al risveglio, hanno sollevato l’intero paese. Com’è stato possibile? Non per una cospirazione dall’esterno, ma a causa della molta lava accumulata all’interno. I vulcani non avvertono.

Questa è una sintesi, un resoconto di quanto abbiamo scritto quest’anno alla vigilia dello scoppio e nelle giornate indimenticabili di resistenza civica e ribellione popolare vissute da aprile».

Infine, l’ultima svolta, raccontata così sul sito che oggi funge da archivio: «Nell’aprile 2018 ci siamo impegnati nell’insurrezione cittadina che chiedeva un Nicaragua libero. A giugno 2021, quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo deciso di porre il punto finale a quest’esperienza informativa tanto preziosa».

Poche semplici righe che, pur senza entrare nei dettagli, sono sufficienti per spiegare l’eutanasia della storica rivista.

L’Università dei gesuiti riuscirà a resistere? La domanda è lecita visti gli ultimi sviluppi. Il 7 marzo il governo Ortega-Murillo ha, infatti, deciso la chiusura di due università: la Universidad Juan Pablo II (Managua e altre quattro città) e la Universidad cristiana autónoma de Nicaragua (León e altre cinque sedi). Allo stessso, tempo è stata costretta alla chiusura (formalmente per autoscioglimento) l’organizzazione della Caritas. In Nicaragua, la repressione non si ferma.

Pa.Mo. 

IL NICARAGUA SU MC

Paolo Moiola, Rosario e Daniel Ortega Spa, gennaio-febbraio 2017




eSwatini: Comunicato del vescovo sull’uccisione di Thulani Maseko


La sera del 22 gennaio 2023 «è stato brutalmente ammazzato a colpi di arma da fuoco Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani e influente oppositore a eSwatini (ex Swaziland), l’unica monarchia assoluta nel continente africano. […] Maseko è stato anche il fondatore di MSF, una coalizione di partiti di opposizione, associazioni e chiese. Era un importante avvocato ed editorialista per i diritti umani nel regno e aveva in corso una battaglia giudiziaria con il re Mswati III per la decisione del monarca di rinominare il Paese Eswatini.»  (Africa exPress).

Sull’uccisione ci sono state molte reazioni, tra cui quella quella del responsabile per i Diritti umani delle Nazioni Unite.

Qui la dichiarazione che il vescovo di Manzini, mons José Luis Ponce de León ha pubblicato il 23 gennaio.


DIOCESI DI MANZINI – ESWATINI (Swaziland)

Dichiarazione del vescovo cattolico di Manzini

 “In mezzo a tutto ciò che sta accadendo nel paese, notiamo che nessuno è al sicuro. La mentalità dell’occhio per occhio sembra aver afferrato la nazione. La violenza ha raggiunto livelli allarmanti”. (Thulani Maseko)

“Una società che accetta questo livello di violenza è condannata a sperimentarne livelli ancora più alti che possono solo generare più morte e sofferenza”.  Questo è stato il mio messaggio dopo l’uccisione di due agenti di polizia a Manzini nell’ottobre 2022. Da allora si sono verificati altri omicidi. Purtroppo, sembra che li abbiamo accettati come la “nuova normalità” nel Regno di Eswatini.

Domenica 22 gennaio 2023 ci siamo svegliati con la notizia dell’insensata uccisione di Thulani Maseko. Il numero di dichiarazioni nazionali e internazionali sulla sua uccisione e la copertura mediatica parlano del tipo di persona che era e del suo ruolo nel momento presente del nostro paese.

Era preoccupato per i livelli di violenza che si stanno sperimentando e per l’impatto che hanno nella vita di molti. Credeva che solo un dialogo nazionale che includesse tutti potesse essere una solida base per il futuro del nostro paese.

Ha scritto: “Non c’è dubbio che eSwatini stia sopportando una guerra civile di basso profilo. Siamo preoccupati che senza il dialogo, il prossimo anno sarà più violento. (…) Alla fine di tutto, dobbiamo sederci e plasmare insieme il destino del paese.

La sua uccisione punta a coloro che fanno una scelta per la violenza, la morte, la paura e l’esclusione come fondamenta del nostro futuro comune. A loro si applicano le parole di nostro Signore: “Se aveste compreso anche voi, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai vostri occhi”. (Lc 19,41-42)

Rispondere alla sua uccisione con la violenza significherà andare contro ciò che lui ha rappresentato. Mostrerà anche che “ciò che costruisce la pace” è nascosto ai nostri occhi.

Come dice Papa Francesco: “La pace, che è un nostro obbligo, è prima di tutto un dono di Dio”.  (22.05.2022) Pertanto, in questo momento critico del nostro Paese, invito ogni persona della diocesi di Manzini a pregare quotidianamente per il dono di Dio della pace, ma anche  a a prendere un concreto impegno personale ad essere “operatore di pace” (Mt 5, 9), a rendere possibile la pace senza addurre scuse che il tempo non è giusto o che non è possibile resistere alla tentazione della violenza. Che questo avvenga attraverso le nostre parole e azioni, poiché entrambi, parole e azioni, hanno il potere di costruire e distruggere. Non dovremmo mai sottovalutarle.

Lo Spirito del Signore risorto ci dia la saggezza e il coraggio di trovare le vie per spezzare il ciclo della violenza.

I nostri cuori raggiungono nella preghiera la famiglia di Thulani Maseko, gli amici e tutti coloro che piangono la sua morte. Il Dio di ogni consolazione conceda loro pace e forza.  Gesù, il Buon Pastore, lo accolga a casa.

+ José Luis Ponce de León IMC
vescovo di Manzini
23  gennaio 2023

(Citazioni dalla rivista “The Nation”, gennaio 2023)


Su Eswatini nell’archivio MC

Eswatini: il vescovo chiama alla calma e al dialogo in mezzo a proteste e violenze

Eswatini: visita di solidarietà dei vescovi dell’Africa australe

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Uruguay. Una parentesi tranquilla

Indice

 

L’Uruguay, un «cuscinetto» tra Brasile e Argentina

Una scelta di laicità

Si dice che gli uruguaiani discendano dai migranti, soprattutto gli spagnoli e gli italiani, che arrivarono nell’Ottocento. È un dato di fatto, però parziale. I Guaraní e gli altri popoli indigeni sono scomparsi da tempo, ma hanno lasciato la loro impronta. Reportage dal paese più laico dell’America Latina.

Montevideo. L’Uruguay è la parentesi tranquilla tra i giganti Brasile e Argentina. È il paese più ricco (assieme al Cile) e più laico dell’America Latina, con i partiti politici più vecchi del mondo, il Partido blanco e il Partido colorado. Rinomata la sua stabilità in una regione caratterizzata da grandi passioni e grandi delusioni, «siamo argentini col valium», sentenziò Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano di fama internazionale. Nel Novecento, era la «Svizzera d’America Latina», «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari» secondo Albert Einstein che lo visitò nel 1925, quando era già presente il divorzio, il divieto del lavoro minorile, i permessi di maternità e le pensioni di invalidità.

È curiosa la storia di questo paesito, come lo chiamano affettuosamente i suoi abitanti, esteso come mezza Italia, ma con meno degli abitanti della Toscana (3,5 milioni contro 3,7), metà dei quali concentrati nella capitale, Montevideo.

«Il nostro padre fondatore, José Artigas, a inizio Ottocento non lottava per l’Uruguay indipendente, ma sognava una federazione delle province del Rio de La Plata, una patria grande. Anche culturalmente non c’erano ragioni perché nascesse uno stato qui, siamo molto simili agli argentini. La storia andò diversamente: la diplomazia inglese sostenne la nascita di uno stato cuscinetto tra l’impero spagnolo e quello portoghese, tra Argentina e Brasile, in una zona chiave per la navigazione dei fiumi che portano al cuore dell’America Latina», spiega a MC Luis Bertola, storico economico presso la Universidad de la República dell’Uruguay.

Rodeo di cavalli alla festa della «Patria Gaucha» nel dipartimento di Tacuarembó. Foto Mauricio Zina.
20190316 – Ruedo de doma de caballos durante la fiesta de la “Patria Gaucha” en el departamento de Tacuarembó, Uruguay.

Un paese di soli immigrati?

«I messicani discendono dai Maya, i peruviani dagli Incas, gli uruguaiani discendono dalle navi», recita un detto nazionale. Nel 1860, un terzo della popolazione era composto da migranti. E sono loro, soprattutto spagnoli e italiani, arrivati a fine Ottocento, che hanno fatto il paese. Letteralmente hanno costruito l’Uruguay, e soprattutto la sua capitale cosmopolita, Montevideo: i suoi palazzi liberty, il porto, i sindacati, le squadre di calcio, le imprese. E hanno cambiato i gusti e affermato le mode: a inizio Novecento circolano automobili Fiat, si beve vino spagnolo e Fernet di Milano. E ancora oggi, nella cucina si riconosce quell’impronta: si può mangiare una torta pascualina, torta salata di bieta secondo la ricetta ligure, o una milanesa napolitana, un incontro tra una cotoletta e una pizza.

Bertola però avverte «la storia dei migranti che arrivano con le navi a fondare l’Uruguay è un po’ un mito. Com’è un mito che tutta la popolazione indigena, i Guaraní, sia stata sterminata dagli spagnoli, che serve a rafforzare l’idea che siamo purosangue “europei”. Gli studi genetici dicono che il 30% della popolazione attuale è di discendenza indigena. Pensate al calciatore Edison Cavani, che ha giocato in Italia, a Palermo e Napoli: i tratti del suo viso sono indigeni. Esiste ancora oggi una segregazione, un’esclusione per origine, che passa anche dal discorso storico prevalente», afferma Bertola, che ha dedicato parte dei suoi studi alle origini della popolazione per spiegare la storia economica dei paesi latinoamericani.

Panoramica del porto di Montevideo, capitale dell’Uruguay. Foto Leandro Ubilla.

Garibaldi e i colorados

È certo però che la relazione tra migrazione e Uruguay è inscindibile, come mostra la storia di un italiano: Giuseppe Garibaldi. Il quale visse circa un decennio, negli anni ’40 dell’Ottocento, a Montevideo, a stretto contatto con la grande comunità italiana. Per sostenere la famiglia si impegnò nei lavori più disparati, fu anche insegnante di matematica. Fondò la Legione italiana, impegnata nell’attività rivoluzionaria e militare a favore del giovane stato uruguaiano. La Legione, oltre che per il coraggio in battaglia, si caratterizzava per un particolare: le camicie rosse. L’origine dell’indumento simbolo delle cause patriottiche, sembra si debba più che altro alla necessità: una spedizione di stoffa rossa destinata agli operai di Montevideo che il generale italiano acquistò a basso costo per vestire i suoi soldati. È in Sud America, tra Brasile e Uruguay, che Garibaldi maturò il polso di comandante carismatico e affinò la tattica della guerriglia poi utilizzata nel Risorgimento italiano. Ed è lì che «l’eroe dei due mondi» crebbe nel suo amore per la libertà: nelle sue memorie racconta come lo affascinassero le immense praterie della Pampa e il modo di vivere libero e indipendente dei suoi abitanti, i gauchos.

Un biglietto di 10 pesos del 1887 con il ritratto di Giuseppe (José) Garibaldi, che in Uruguay visse per quasi dieci anni. Foto Museo Histórico Nacional-Casa de José Garibaldi.

La storia del paese si è sviluppata nella relazione, spesso conflittuale, tra Montevideo e l’interior, tra la metropoli e la campagna. È un paese «macrocefalo», afferma Bertola, «con una capitale sproporzionata, per dimensioni e rilevanza, rispetto al resto. Già nell’Ottocento, l’urbanizzazione cresceva rapidamente, poca gente era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento, la maggior parte lavorava nei servizi e nel settore terziario. Abbiamo avuto grandi classi medie prima di avere una grande classe operaia», così Bertola spiega la nascita di una società liberale e moderna per l’epoca. L’espressione politica di queste classi medie, in particolare della borghesia commerciale, era il Partido colorado, mentre il Partido blanco, più conservatore, era il riferimento degli interessi rurali dell’interior. Si tratta di due partiti dell’establishment, ma sono formazioni pigliatutto, alternatesi al potere ininterrottamente dal 1828 fino al 2004, con la parentesi della dittatura militare 1973-1988. Il conflitto tra i due partiti ha diviso a lungo la società. Ne è un esempio proprio Garibaldi, considerato un eroe dai colorados, per le sue vittorie nella Guerra grande (1839-1851), una guerra civile e internazionale, che ha visto blancos e colorados schierati sui fronti opposti. Garibaldi era schierato con i colorados, che ancora oggi espongono un suo ritratto nella loro sede e gli hanno dedicato una statua sulla rambla del porto della capitale.

Molto dell’Uruguay odierno lo si capisce attraverso la figura del colorado José Batlle y Ordóñez, presidente della Repubblica nel 1903-1907 e nel 1911-1915, che ha lasciato un’impronta ben più profonda di quella dei suoi due governi. A lui si deve la modernizzazione dello stato, i diritti dei lavoratori, dei minori, delle donne, la divisione tra stato e chiesa. La sua eredità, il «battlsimo» (ci si riferisce così all’ala sinistra dei colorados, e ad una tendenza socialdemocratica o anche di sinistra anticlericale) ha marcato a fondo cultura e politica del paesito per tutto il Novecento. Ed è da questa tendenza che sorge il Frente amplio, una coalizione di partiti che, nel 2004, romperà il secolare monopolio blancos-colorados.

I cinquant’anni del Frente amplio

Il Frente amplio (Fa), di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni di storia, è un pezzo del mosaico delle stranezze del paesito. Un movimento di partiti di sinistra di ogni tendenza, dai democristiani agli ex guerriglieri tupamaro, è anche un modo di essere, un’identità per gli uruguaiani. In una società altamente politicizzata, dove il voto è obbligatorio, è comune che le persone dichiarino la loro adesione politica. E oggi, passeggiando per le strade della capitale, è frequente vedere le bandiere tricolore del Fa ai balconi dei condomini o i murales con slogan e i volti dei suoi leader. «È un piccolo mistero l’esistenza di un soggetto politico così variegato, che unisce culture così diverse. Un po’ si deve al pragmatismo e alla maturità dei dirigenti politici, che hanno sempre messo a valore ciò che li univa, anziché ciò che li divideva. Il Fa, ad esempio, non si è mai definito socialista, benché al suo interno vi siano molti gruppi di tale tendenza. I leader politici hanno fatto concessioni ideologiche a favore dell’unità. L’altra ragione dell’unità è l’origine: il Fa è nato come unione dei militanti di base, con i comitati di quartiere, movimenti cattolici, studenti e operai. C’è una mistica dell’origine, le radici popolari e i movimenti di base, che spinge molti a sentirsi frenteamplisti, prima che a identificarsi con uno dei suoi molti partiti. Gli elettori cambiano il loro voto tra i partiti del Fa, ma restano leali al Fa. I partiti lo sanno e restano leali al patto di unità», spiega Bertola. Il Frente amplio è stato al governo per quindici anni, dal 2005 al 2020, cambiando profondamente il paese. Nel quindicennio, si sono alternate due figure, fondamentali nella storia del paese: José «Pepe» Mujica e Tabaré Vázquez.

L’allora presidente Pepe Mujica, ex tupamaro, con Michelle Bachelet, all’epoca presidente del Cile. Foto: Gobierno de Chile.

Pepe Mujica, la semplicità al potere

José Mujica, «el Pepe» come lo chiamano nel Rio de La Plata, è un leader affascinante e sobrio, sopravvissuto alle torture della dittatura, che lo chiuse in un pozzo per dodici anni, come racconta il film La noche de 12 años. Mujica, che di recente ha abbandonato la politica attiva, è uno degli esponenti tupamaro, il movimento di sinistra rivoluzionaria che ha dato vita ad azioni di guerriglia urbana tra metà anni ’60 e inizio anni ’70. I tupamaro si fecero conoscere con iniziative contro la corruzione e per la giustizia sociale, come il furto di un carico di alimenti di proprietà di una grande impresa poi distribuito agli abitanti di un quartiere povero. I «Robin Hood della guerriglia», come li definì il New York Times, godevano dell’appoggio di una parte importante della popolazione. È grazie a questo appoggio, ad esempio, che nel 1971, centoundici tupamaro, tra cui lo stesso Mujica, scapparono dal carcere di Punta Carretas, realizzando l’evasione di detenuti politici più grande della storia. Nei primi due anni di dittatura l’organizzazione fu sostanzialmente smantellata, i leader arrestati, uccisi o in esilio. La dittatura nel paese fu una notte lunga dodici anni, durante i quali, scrive Galeano, «Libertà è stato solo il nome di una piazza e di un carcere. In quel carcere, tutti erano prigionieri, eccetto i secondini e gli esuli. C’erano tre milioni di detenuti, benché sembrasse fossero solo qualche migliaio. Capucci invisibili coprirono gli uruguaiani, condannati all’isolamento e al silenzio, benché non vivessero la tortura. Paura e silenzio furono le regole della vita quotidiana. La dittatura, nemica di tutto ciò che cresce e si muove, ricoprì di cemento i prati delle piazze e tagliò tutti gli alberi che poté».

Con il ritorno alla democrazia, gli ex tupamaro, deposte le armi, hanno accettato la sfida elettorale e si sono riuniti in quello che oggi è il primo partito del Fa per consensi: il Movimiento de participación popular (Mpp).

Nella politica del Mpp ai tempi della democrazia, c’è un elemento di fondo che fa rumore: una relazione di vicinanza e rispetto con i militari. Proprio con gli esponenti dell’armata responsabile delle torture e della repressione nei tempi della dittatura, Mujica e i suoi tengono aperto un dialogo. Le interpretazioni di questa relazione – apparentemente una «sindrome di Stoccolma» per la quale i torturati si innamorano dei torturatori – sono le più disparate, da quella cospirativa (un accordo siglato ai tempi della dittatura, benché non vi siano prove né evidenze), alla vicinanza di idee, «la comunione del ferro», tra ex combattenti. Quel che è certo è che, una volta arrivati al governo, gli ex guerriglieri hanno optato per il ministero della Difesa, con Fernández Huidobro, «el Ñato», anche lui sopravvissuto a un decennio di carcere in isolamento. Mujica ha raccontato di un pranzo con «i pezzi grossi dell’armata, generali, colonnelli, militari fascisti, c’era di tutto» finalizzato a creare un clima di cordialità. E ancora oggi Mujica tiene aperto il dialogo con Guido Manini, ex generale, ora leader di Cabildo Abierto, partito di estrema destra attualmente al governo. Qualunque sia l’origine e la natura di questa curiosa relazione, è una delle tante stranezze di un paesito solo apparentemente tranquillo.

Il successo elettorale del Mpp si deve «soprattutto alla figura di Mujica», afferma Bertola, che da studente fu un attivista tupamaro.

Eletto presidente nel 2009, Mujica promuove politiche sociali ed economiche di successo, con la riduzione di disoccupazione e povertà, e legalizza l’aborto e il consumo della cannabis. Ma il consenso popolare è probabilmente più legato al suo modo di essere, di interpretare il suo ruolo pubblico, lontano dagli schemi tradizionali, anche per gli standard della sinistra latinoamericana. Nel 2014, a un giornalista spagnolo stupito nello scoprire come il presidente dell’Uruguay viva in una casa di due stanze, Mujica semplicemente risponde: «Il vantaggio di avere una casa così piccola è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo».

L’oncologo Tabaré Vázquez, morto a dicembre 2020, è stato presidente dell’Uruguay per due mandati. Foto: Presidencia de la República Mexicana.

Tabaré Vazquez, il medico riformatore

Prima e dopo Mujica, presidente è un uomo la cui storia racconta molto dell’anima dell’Uruguay: Tabaré Vazquez. Il Frente vince le elezioni del 2004 e arriva per la prima volta al governo nazionale con quest’uomo, un medico socialista figlio dell’Uruguay popolare, nato nel 1940 nel quartiere operaio La Teja. Tabaré Vazquez cresce in una casa con le pietre sul tetto per non farlo volare via quando c’è vento forte, gioca come portiere nei campetti di terra battuta. All’università sceglie medicina e, nel frattempo, si innamora di Maria Auxiliadora Delgado, con la quale resterà unito tutta la vita. Siamo a metà degli anni ’70. L’Uruguay, come tutto il Cono Sur, vive la dittatura militare, i morti e gli scomparsi caduti nella rete di repressione della polizia politica.

La vita di Tabaré si divide tra la famiglia, l’impegno sociale e il mestiere di medico. Si specializza in oncologia, perché «ho perso i miei genitori e mia sorella per il cancro. Ho un nemico e lo voglio combattere», e diventa uno degli specialisti più importanti della regione.

Nel 1979 diviene presidente del Club Progresso, la piccola squadra di calcio de La Teja. Tabaré usa il calcio per promuovere attività sociali nel quartiere e porta la squadra alla consacrazione. Nel 1989, il Progresso vince lo scudetto e gioca la Coppa libertadores, la Champions league latino-americana.

In quell’anno ci sono le elezioni a sindaco di Montevideo e il Frente amplio cerca una figura fuori dagli schemi. Scelgono lui. Tabaré presenta un programma di proposte concrete e lo slogan è «consideralo fatto». Va in giro a piedi. Nelle assemblee è lui che passa il microfono per ascoltare più che per parlare. La politica, dice, è come la medicina: «Bisogna ascoltare chi vive un problema poiché spesso ne conosce la soluzione, come il malato conosce la sua malattia». Vince e diventa il primo sindaco di sinistra della capitale, è la prima vittoria nella storia del Frente amplio. Mantiene le promesse e raggiunge livelli di consenso altissimi, smentisce la leggenda nera per cui il ruolo di sindaco di Montevideo è una tomba per la carriera politica. E la sua carriera fa un balzo: nel 1994 è candidato del Frente amplio a presidente della Repubblica. Perde, ma il Fa diventa un attore politico alla pari dei partiti storici. Tabaré comincia a modellare la coalizione sulla sua idea di riformismo pragmatico.

Il suo riferimento era Salvador Allende, anche lui medico, socialista e massone. «Da lui, possiamo apprendere molto. Anche gli errori da non ripetere», diceva riferendosi al presidente cileno eletto democraticamente e poi rovesciato da un golpe sostenuto dagli Stati Uniti.

Quando si va alle elezioni presidenziali del 2004, il paese non si è ancora rialzato dalla crisi bancaria del 2002, trasformatasi nella peggiore crisi economica della sua storia, spingendo due persone su cinque in povertà. Tabaré come candidato del Fa deve scontrarsi con la propaganda della destra: «Con la sinistra arriveranno povertà e conflitti sociali, le istituzioni saranno distrutte, finiremo come Cuba». Lui non è certo un estremista, ma questa retorica ha sempre funzionato in Uruguay.

Stavolta però l’aria è diversa, lo si capisce nella chiusura della campagna elettorale a Montevideo, un immenso fiume di persone riempie l’Avenida del Libertador, mentre suona «Todo cambia» di Mercedes Sosa. Il Frente amplio vince e finisce il bipolarismo che durava dal 1828.

L’attuale presidente Luis Alberto Lacalle Pou del Partido blanco, storico partito conservatore tornato al potere nel marzo 2020, dopo 15 anni di Frente amplio. Foto Presidencia de la Republica.

Dopo 15 anni, tornano i conservatori

Comincia un’azione di governo su due assi. Primo: verità e giustizia per i crimini della dittatura militare. E poi le riforme: immediato sostegno ai poveri. Tabaré risponde alle critiche: «C’è chi dice che i poveri useranno il denaro del piano di Emergenza per comprarsi il vino. E io chiedo: perché i poveri non possono bersi un vino?». La gestione dell’economia è sapiente, viene approvata una riforma fiscale in senso progressivo, i conti tornano in ordine e il paese riparte. Nasce poi il Sistema di salute universale, la legge sul lavoro domestico, l’Agenzia per l’innovazione e la ricerca, gli investimenti sulla digitalizzazione. Ma la riforma che tutti ricordano è il Plan Ceibal: un computer per tutti i bambini. Molti, durante la pandemia di Coronavirus e la quarantena, hanno ricordato il primo governo del Fa, la salute pubblica e l’educazione digitale grazie alle quali il paese ha reagito bene al Covid-19. La critica principale al suo primo governo è il veto presidenziale posto alla legge pro-aborto, già votata dal Parlamento, che lo porterà a dimettersi dal Partito socialista (componente del Frente).

Con il secondo governo Tabaré, tra il 2015 e il 2020, viene estesa la copertura pubblica per le cure ad anziani, bambini, disabili; si decreta l’educazione come bene essenziale; col Plan Ceibal arriva un tablet a tutti gli anziani. Secondo la Confederazione sindacale internazionale, l’Uruguay diventa il paese più avanzato nelle Americhe, da Nord a Sud, per rispetto dei «diritti del lavoro, della libertà di associazione, della contrattazione collettiva e dello sciopero».

Nel 2019 muore la moglie e quello stesso giorno Tabaré annuncia che sta lottando contro un cancro al polmone. Una beffa: l’uomo colpito dal male che ha studiato da medico e combattuto da presidente, con le sue leggi antifumo. A fine anno, il Partido blanco – grazie a una vittoria risicata – torna al governo. Cala il sipario sul lungo quindicennio del Fa, senza una polemica né un ricorso da parte degli sconfitti. La transizione è esemplare: un altro dei falsi miti sulla sinistra rotti da Tabaré.

Tabaré muore il 6 dicembre 2020, a ottant’anni. Il governo dichiara tre giorni di lutto nazionale, le strade si riempiono di persone emozionate, fiori e messaggi. Uno dice: «Una maestra, grata di aver vissuto mentre eri presidente». La sua figura è la personificazione della saga della sinistra uruguaiana, una storia di molte sconfitte ma che alla fine trova la strada per la vittoria, assicurando stabilità democratica, crescita con uguaglianza e redistribuzione del potere. Un ciclo lungo 15 anni, conclusosi con la morte di Tabaré e il ritiro dalla vita pubblica di Pepe Mujica. Oggi il Frente amplio cerca nuove strade.

 Federico Nastasi

Mappa dell’Uruguay, paese stretto tra l’Argentina e il Brasile. Illustrazione Treccani.

Uruguay

  • Forma di governo: Repubblica presidenziale.
  • Presidente: dal 1 marzo 2020, Luis Alberto Lacalle Pou (Partido blanco, di centro destra).
  • Superficie: 176mila km² (circa metà dell’Italia).
  • Abitanti: 3,4 milioni (circa 40% sono di origine italiana).
  • Popoli indigeni: sono quasi estinti come popoli autonomi.
  • Città principali: Montevideo (capitale con 1,9 milioni di abitanti), Salto, Punta del Este (principale centro turistico), Colonia del Sacramento (città storica).
  • Religioni principali: 58% cristiani (42% cattolici, 16% protestanti); 17% credenti senza affiliazione; 16% atei; 5% agnostici; 5% altre religioni.
  • Economia: agricoltura (soia) e allevamento (bovino e ovino); Pil pro capite 22.400 Usd (secondo paese dell’America Latina dopo il Cile).
  • Vaccino anti-Covid principale: Sinovac.

L’arcivescovo cardinale Daniel Sturla durante una messa nella parrocchia della Annunciazione, nel quartiere Cerrito de la Victoria, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.

La Chiesa cattolica

Piccola (eppure presente)

Meno della metà della popolazione si dichiara cattolica. Eppure, il cattolicesimo è componente essenziale della cultura nazionale. I cattolici sono tra i conservatori, ma anche nel Fronte ampio. E c’erano tra i tupamaros.

Il 25 dicembre in Uruguay si festeggia il giorno della famiglia, la Settimana santa è la settimana del turismo. «La chiesa cattolica è piccola e povera. E un prete che cammina per strada attira l’attenzione», spiega Eduardo Murias, ex seminarista, funzionario pubblico e «fervente cattolico». Nel paesito, meno della metà della popolazione si dichiara cattolica, un unicum in un’America Latina dove il cattolicesimo è sempre stato molto diffuso.

«La nascita dell’Uruguay non è frutto dell’evangelizzazione dei popoli indigeni, come in altri paesi della regione. I migranti arrivati dall’Europa erano liberali, socialisti e anarchici, riuniti in logge massoniche anticlericali. E inoltre, con la separazione chiesa-stato iniziata a metà Ottocento, presto la religione divenne un fatto privato e i poteri pubblici pienamente laici. Il presidente José Batlle y Ordóñez canalizzò il liberalismo radicale delle classi medie urbane e accelerò la laicizzazione dello stato», spiega a MC Juan Pablo Martí, professore di storia economica della Universidad de la Republica, e «cattolico poco praticante, aderente alla Comunidad de Vida Cristiana dei gesuiti». «Qui, essere sacerdote non eleva a nessuno status particolare. Ricordo quando dissi alla mia famiglia e agli amici che volevo essere sacerdote: “Che peccato, che spreco”, mi dissero. Nessuno mi incoraggiò, sembrava una scelta senza senso», racconta Murias, che ha abbandonato il seminario, ma non la fede.

All’opposizione della dittatura

Nonostante queste premesse, il cattolicesimo è una delle principali componenti della cultura nazionale. «L’azione pubblica tra fine ‘800 e inizio ‘900 nasceva dall’impulso dei cattolici: si pensi alle società di mutuo soccorso; alle cooperative di risparmio, alle casse popolari, ai sindacati di lavoratori cristiani», spiega Martí. «E anche se l’educazione del mio paese è assolutamente laica, storicamente, le scuole delle congregazioni gesuite e domenicane sono state fondamentali, molti presidenti passarono da quelle aule», afferma lo storico.

Politicamente, non vi è un partito cattolico di riferimento, vi sono settori cattolici nei partiti tradizionali, nel partito conservatore blanco soprattutto. Ma anche tra i colorados e il Frente amplio, nato nel 1971 grazie al contributo della Democrazia cristiana e della gioventù cattolica di sinistra. E anche tra i guerriglieri tupamaro c’erano cattolici.

Durante la dittatura, la Chiesa divenne uno spazio di militanza e mobilitazione sociale contro il regime, grazie all’impegno del clero e dei fedeli. A differenza dell’Argentina, qui le gerarchie non supportarono i militari: l’arcivescovo Carlos Parteli di Montevideo fu – discreto ma inarrestabile – una spina nel fianco della dittatura. Marcelo Mendiharat, vescovo della diocesi di Salto, fu perseguitato e se ne andò in Argentina, altri sacerdoti furono perseguitati come oppositori alla dittatura. Le parrocchie aprirono le porte agli incontri politici, in un’epoca in cui sindacati e partiti erano vietati. Fu in quei saloni che crebbe una parte della classe dirigente del Frente amplio. «Un quarto dei deputati del Fa sono cristiani, alcuni cattolici altri evangelici. Si riconoscono come militanti cristiani. Javier Miranda, presidente del Fa, figlio di un comunista desaparecido, è cresciuto in un collegio gesuita e spesso afferma che la sua militanza si deve alla sua formazione religiosa», spiega Martí.

«Durante i cacerolazos contro la dittatura, le chiese facevano suonare le campane a sostegno della protesta. Nel 1983, nel salone della chiesa Los Capuchinos San Antonio y Santa Clara, nel centro di Montevideo, si tenne uno sciopero della fame per la scarcerazione di Adolfo Wassen, dirigente tupamaro affetto da un cancro mortale, perché potesse passare in casa gli ultimi giorni della battaglia contro la malattia», mi racconta Martin, maestro di yoga e cattolico.

Offerta durante una cerimonia dell’Umbanda celebrata sulla spiaggia Ramírez, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20200202 – Mae Susana de Oxum realiza una ofrenda a la diosa de Umbanda Iemanjá en la Playa Ramírez de Montevideo, Uruguay

Pro o contro Francesco

Il rinnovamento della Chiesa con il Concilio Vaticano II (1962-1965) trovò terreno fertile in Uruguay, dove già da inizio Novecento si anticipavano alcune delle conclusioni del Concilio, in particolare l’idea di una «Chiesa vicina ai bisognosi e lontana dal potere». Spiega Martì: «Negli anni Sessanta, la gioventù cattolica, l’Azione Cattolica in particolare, era molto attiva nel sociale ed era molto progressista, il Concilio formalizzò questo impegno». E, all’epoca, non mancavano i preti operai «come il mio, nel quartiere la Blanqueda, che lavorava in fabbrica perché non voleva essere mantenuto dalla Chiesa», ricorda Martin.

Quella che si conosce come teologia della liberazione, in Uruguay ha diversi esponenti, tutt’ora in gran forza. E genera diffidenza verso chi, come Eduardo Murias, vive la fede in maniera diversa. Un punto di dissidio tra i fedeli è la figura di Francesco. Il papa argentino qui divide: «A volte lo chiamo Bergoglio, non Francesco, mi viene difficile riconoscerlo come papa. Non lo critico, ma le sue posizioni teologiche mi generano confusione, non danno certezze a noi fedeli. E la Chiesa dev’essere di tutti, la sua figura ha diviso più che unire. In Argentina lo accusano di essere peronista, a me non interessa la politica, mi chiedo però perché stia cambiando le nostre tradizioni liturgiche», si anima Eduardo e aggiunge: «La Chiesa è di tutti. Io vengo dalla tradizionale spiritualista, ma ho fatto molte azioni per i più deboli. Non voglio vivere in una Chiesa di soli seguaci della teologia della liberazione. Per me la fede è azione e preghiera insieme».

A Murias piacerebbe una Chiesa meno legata al prete e con più attivismo dei fedeli, «come dice Francesco», afferma, dopo aver chiarito le sue critiche al papa. «Durante la pandemia, ho fatto molto volontariato e la gente l’ha apprezzato, adesso alcuni vengono in chiesa con me. Per superare la diffidenza verso il cattolicesimo, bisognerà sviluppare di più l’impegno dei fedeli e non aspettare le iniziative del prete. Ci sono pochi movimenti di base, bisognerebbe rafforzarli». E bisognerebbe «sanzionare con forza i preti che commettono violenze sessuali, non solo cambiarli di parrocchia», continua Eduardo, riferendosi ai recenti scandali che hanno riguardato abusi sui minori nella chiesa di Minas. «Siamo una iglesia chica e molte cose si sanno prima che scoppino gli scandali, la vox populi corre più della giustizia ordinaria. La nostra è una Chiesa apatica che non ha preso le dovute misure in tempo», critica Eduardo. Bisognerebbe «dare ai preti la formazione adatta sul voto del celibato. Ricordo che quando ero in seminario, un prete spagnolo ci disse che quando incrociavamo una bella ragazza per strada, dovevamo cambiare marciapiede. Ma non si può scappare tutta la vita», conclude Eduardo.

Federico Nastasi

Daniel Manuelian, a Casa Armenia, nel quartiere Prado, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20210304 – El Presidente de la Colectividad Armenia Daniel Manuelian, posa para un retrato en la Casa Armenia del barrio Prado en Montevideo, Uruguay

La comunità armena

Uruguay, un paese accogliente

«Sono armena», mi dice con il suo spagnolo rioplatense Silvana, una libraia della Ciudad Vieja di Montevideo. Silvana, benché sia nata in Uruguay, non parli armeno e non abbia mai messo piede in Armenia, ci tiene alla sua identità. E come lei ci sono circa quindicimila armeni nel paesito, grati all’Uruguay per essere stato il primo paese al mondo ad avere riconosciuto il «Medz Yeghern», il genocidio armeno, con una legge nel 1965.

Tra il 1915 e il 1916, l’Impero ottomano, guidato dal governo dei «Giovani Turchi», pianificò e realizzò la deportazione della popolazione armena dal proprio territorio, autorizzata con la legge Tehcir del 29 maggio 1915, provocando la morte di un milione e mezzo di armeni. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, con un’operazione che decapitò l’intellighenzia armena, più di mille tra giornalisti, scrittori, poeti, delegati al parlamento, furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1,2 milioni di persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. I maschi delle famiglie, adulti e bambini, vennero trucidati, e le donne trascinate attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia.

Malgrado l’esodo e le prove fotografiche che testimoniano l’accaduto, la Turchia non riconosce quello che molti storici definiscono il primo genocidio moderno, basato sulla programmazione «scientifica» dello sterminio.

Nel 2016, in occasione del centenario del genocidio, papa Francesco ha visitato l’Armenia, condannando il genocidio e ha pregato per evitare che questa tragedia possa ripetersi. Durante la visita a Erevan, ha sottolineato come la memoria possa essere «fonte di pace» per portare i due paesi sulla strada della riconciliazione.

Il paese che chiedeva migranti

«Negli anni ‘20 e ‘30, l’Uruguay faceva propaganda pro immigrazione: arrivarono italiani, spagnoli, e anche sette-ottomila armeni. Partivano dal Libano, dalla Francia o dalla Siria. Erano cresciuti negli orfanotrofi, poiché il genocidio si era già perpetrato. «Erano smarriti, non avevano idea di dove fossero arrivati, non avevano niente in mano», spiega a MC Diego Karamanukian, intellettuale della comunità armena di Montevideo, che parla un perfetto armeno e dirige Radio Arax, programma radiofonico di cultura armena.

Com’è possibile che dopo un secolo dal genocidio, quattro generazioni e 13mila chilometri di distanza dal luogo degli avvenimenti, l’identità armena sia ancora così forte sulla sponda nord del Rio de La Plata? «Sono cresciuto con i racconti di terrore di mia nonna, che è stata serva di una famiglia turca. Arrivò qui non per cercare lavoro, ma per non farsi ammazzare. Curare questa identità è una reazione al genocidio e al negazionismo che dura tutt’ora», spiega Daniel Manuelian. Lui e Diego sono dirigenti di Hnchakian, il partito socialdemocratico armeno presente in molti paesi, tra cui Libano, Usa e anche Uruguay. Per questa intervista, ci ricevono a Casa Armenia, un bell’edificio con giardino nel quartiere residenziale del Prado, nella parte Ovest di Montevideo. È sede del partito, luogo di cultura, sport e feste.

«È incredibile pensare come un gruppo di persone, arrivate coperte solo di stracci, in poco tempo non solo trovò lavoro e mise su famiglia, ma organizzò la comunità, fondò scuole, chiese, associazioni, giornali, radio, cori, festival musicali. Così curarono l’identità perseguitata dall’Impero ottomano, la misero in salvo dall’oblio», ragiona con orgoglio Diego, descrivendo l’attività dei primi armeni di Uruguay. «Sono arrivati sapendo che non c’era un biglietto di ritorno, hanno costruito qui la patria che avevano perso. Si sono riuniti attorno al centro di Montevideo, dove c’erano le industrie. E forse c’è anche una ragione geografica e nostalgica: andarono lì perché cercavano le montagne del loro paese», continua Diego. I primi arrivati, all’inizio, lavoravano come operai, in attività che non richiedevano la conoscenza dello spagnolo. Poi, si dedicarono ai piccoli commerci e alle botteghe, agli almacenes. Nei vecchi edifici nella parte occidentale della città, ci sono ancora insegne in spagnolo e armeno. L’ex presidente Tabaré Vazquez raccontava che nel suo quartiere, La Teja, la sua famiglia, in un periodo di ristrettezze, aveva ricevuto aiuto e cibo da un commerciante armeno.

«Qui gli armeni si sono fatti volere bene e hanno contribuito alla costruzione del paese. Non ci siamo ghettizzati, al contrario. Prima di tutto siamo armeni, ma siamo uruguaiani: tifiamo Nacional e Peñarol (i due club di calcio più seguiti del paese, ndr), abbiamo visto l’Uruguay due volte campione del mondo. La nostra cucina si è mescolata con quella uruguaiana: qui puoi mangiare un buonissimo lehmeyun (una specie di pizza armena, ndr) con aggiunta di mozzarella locale. Abbiamo ricevuto accoglienza e riconoscimento: a Montevideo si può passeggiare su Rambla Armenia, ci sono monumenti e targhe che ricordano il genocidio, e il 24 aprile è il Giorno della Memoria. Se in Armenia dici che sei uruguaiano, ti si aprono le porte», spiega Diego.

Difendere l’identità armena

«È il negazionismo che mi fa rabbia. Io sono la prova viva del genocidio. Se non ci fosse stato, semplicemente non sarei qui. Me lo ha spiegato uno psicologo: ci teniamo così tanto alla nostra identità perché il nostro è un trauma non riconosciuto», racconta Daniel. Ma oggi l’identità della comunità in Uruguay è a rischio: «Mio figlio non parla l’armeno, non si interessa molto alla storia, non vive il mio stesso trauma. Ma se per strada gli gridano “armeno” si gira. È la quarta generazione, l’identità col tempo si perde», confessa un po’ sconsolato Daniel.

«In Libano, Turchia, Siria, l’identità armena si mantiene attraverso la religione cristiana ortodossa: essere armeni è un modo per non essere musulmani. Qui in Uruguay, un paese così laico, il tema religioso non è conflittuale. Quindi, è più difficile curare l’identità», ragiona Diego. Che prosegue un po’ sconfortato: «La lingua è un problema, è difficile, pochi la parlano e pochissimi la insegnano, non si parla più in famiglia». Ma poi ha un guizzo: «A volte la curiosità risorge. C’è chi segue corsi online di armeno, adesso c’è anche un corso universitario. E poi, con internet, molti seguono le notizie dell’Armenia, come adesso con il conflitto del Nagorno Karabakh. Si sta affievolendo l’identità, ma non scomparirà. L’identità è volontà», conclude con un po’ di speranza.

Federico Nastasi

L’entusiasmo di un gruppo di tifosi della nazionale. Foto Jimmy Baikovicius.

Il calcio, una religione laica

È celeste il colore della passione

In Uruguay, il calcio è una vera religione laica. Lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Anche per questo un paese tanto piccolo ha mietuto successi.

Viaggiando per l’Uruguay, un giorno sono arrivato a Mercedes, un paese sulla riva del Rio Negro, il fiume che fa da frontiera con l’Argentina. Pochi giorni prima, il fiume aveva esondato e rimaneva fango e acqua stagnante sulla sponda, attrezzata con panchine, altalene e (naturalmente) griglie per la carne. Quella volta mi sono incantato a fissare una partita di pallone, zaini per terra a indicare le porte, undici contro undici con l’acqua fino alle caviglie.

Il calcio è la vera religione dell’Uruguay, lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Così si spiega come un paese così piccolo abbia vinto due Coppe del mondo (1930 e 1950) e due medaglie dei Giochi Olimpici (1924 e 1928), quattro trofei come le stelle che la Celeste, la nazionale uruguaiana, espone sulla maglia. Dal paesito provengono campioni in ogni epoca, da Juan Alberto Schiaffino – campione del mondo nel 1950 con l’Uruguay e titolare anche della nazionale italiana – a Luis Suarez, centravanti dell’Atletico Madrid e massimo realizzatore con la nazionale. È la Celeste che accende la passione degli uruguaiani, quando finalmente possono vedere tutti insieme i loro campioni, normalmente impegnati nei club europei. Da quindici anni, alla guida della nazionale c’è Óscar Tabárez, detto il Maestro, ex insegnante di scuola e filosofo del pallone. Lui ha costruito un modello di selezione di giovani campioni (El proceso) che ha permesso la crescita costante degli atleti, dalle giovanili, fino all’affermazione in nazionale. Il suo motto, «il cammino è la ricompensa», esemplifica la dedizione e la passione grazie alla quale è diventato l’allenatore di nazionale più longevo del mondo.

Ed è nel paesito che si è giocata la prima edizione della Coppa del mondo, al Estadio Centenario, nel 1930. Oggi lo stadio ospita il Museo del calcio che, insieme ai cimeli delle imprese della Celeste, mostra i numeri della passione: 598 club di calcio per bambini con 60mila aderenti, si giocano duemila partite a settimana, recita un tabellone con malcelato orgoglio.

Di recente, la passione si è diffusa anche tra le donne. Jessica, trentenne funzionaria del ministero della Cultura, mi racconta che da bambina le piaceva giocare a calcio, ma negli anni ’90 non era ben vista una bimba con gli scarpini e dovette rinunciare. Oggi finalmente si possono osservare partite di calcio femminile sulla rambla e l’Uruguay ha ospitato il mondiale under-17 di calcio femminile nel 2018.

Un’immagine storica del «Maracanazo» quando l’Uruguay sconfisse per 2 a 1 i padroni di casa del Brasile nella finale della Coppa del mondo, a Rio de Janeiro (16 luglio 1950).

Il calcio e la dittatura

Le vicende calcistiche si legano anche alla storia politica del paese. Nel 1980, l’Uruguay ospitò il Mundialito, un torneo a inviti per le sei nazionali vincitrici della Coppa del Mondo. Ad un mese dall’inizio del torneo, il 30 novembre, si svolse un referendum costituzionale, che nelle intenzioni dei militari avrebbe dovuto legittimare il governo dittatoriale di Aparicio Méndez. Il risultato fu sorprendente: la giunta al potere fu sconfitta. La dittatura cercò di evitare che il torneo si trasformasse in un megafono per l’opposizione, provando a strumentalizzarlo a proprio favore, secondo l’esempio di due anni prima offerto dalla giunta militare di Videla con i mondiali argentini. Al Mundialito, l’Uruguay giocò alla grande, superò l’Italia di Bearzot per 2-0, e in finale incontrò il Brasile. Si ripeteva una sfida epica, con lo storico precedente del campionato del mondo 1950, il Maracanazo, che vide la Celeste festeggiare la sua seconda Coppa del mondo, e la Seleção vivere una delle sue peggiori tragedie sportive. Anche al Mundialito, la Celeste uscirà vincitrice per 2-1 contro un Brasile di campioni, guidato da Santana. E la dittatura militare, perso il referendum e fallito il tentativo di strumentalizzazione del torneo, si avviò sul viale del tramonto, sancito con il ritorno della democrazia quattro anni dopo.

Panoramica sullo stadio del Centenario, a Montevideo. Foto Rodrigo Soldon.

Una passione interclassista

Al calcio è dedicato Splendori e miserie del gioco del calcio, uno dei libri più famosi di Eduardo Galeano, nel quale si chiede: «In cosa il calcio rassomiglia a Dio? Nella devozione dei suoi fedeli, nello scetticismo di molti intellettuali».

Nel paesito, a dire il vero, la passione per il pallone è interclassista e negli stadi si mescolano persone di ogni origine. «L’Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l’aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici», ha scritto l’argentino Jorge Valdano. Ripensando alla partita vista sul lungofiume di Mercedes, con la palla che neanche rimbalzava nel prato zuppo d’acqua, credo che Valdano avesse proprio ragione.

Federico Nastasi

Un momento di Uruguay-Messico, Coppa America 2011. Foto Sam Kelly.

Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

Federico Nastasi – dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua seconda collaborazione con MC dopo il dossier Cile dello scorso marzo.

A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Due bambine a cavallo alla «Rural del Prado», a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20190420 – Niñas montan un caballo durante la Rural del Prado en Montevideo, Uruguay




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia