Il potere debordante delle multinazionali
Senza consapevolezza non ci sono speranze di cambiamento. Potrebbe essere riassunta così la motivazione che spinge il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) a predisporre ogni anno (siamo alla 14a edizione) un report sulle 200 multinazionali economicamente più importanti. L’argomento di per sé sarebbe molto complesso, ma il Cnms coordinato da Francesco Gesualdi (da anni collaboratore della rivista Missioni Consolata, ndr) riesce a renderlo comprensibile a tutti, con testi chiari, tabelle e grafici esplicativi.
Il confronto tra la situazione del 2013 e quella del 2023 indica le tendenze in atto. I dipendenti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati in dieci anni da 39 a 42 milioni (+7,8%), il fatturato da 20mila a 27mila miliardi di dollari (+33%) e i profitti da 1.438 a 2.114 miliardi di dollari (+47%). Tra le Top200 soltanto 9 chiudono il 2023 con perdite anziché profitti. La peggiore è la russa Gazprom che nel 2023 con un fatturato di 100 miliardi di dollari, ha registrato un disavanzo di 7,3 miliardi.
Tra le Top200 ce ne sono 60 con sede negli Usa, 55 in Cina, 16 in Giappone, 12 in Francia e 11 in Germania. Le italiane sono 2: Enel al 97° posto (61mila dipendenti, 103 miliardi di fatturato e 3,7 miliardi di profitti) e Eni al 98° (33mila dipendenti, 102 miliardi di ricavi e 5,1 miliardi di utili).
Restringendo il campo di osservazione alle prime 10 multinazionali, si scopre che 6 hanno la sede principale negli Usa, 3 in Cina e 1 in Arabia Saudita. L’Europa è fuori dalla Top10. Al primo posto della classifica troviamo stabilmente Walmart, nel settore del commercio e dei trasposti, con 2,1 milioni di dipendenti, 648 miliardi di dollari di fatturato e 15,5 miliardi di profitti. Al secondo posto si colloca Amazon con 1,5 milioni di lavoratori, 575 miliardi di ricavi e 30,4 miliardi di dollari di guadagni. Sul terzo gradino del podio c’è la cinese State Grid (che fornisce gas, luce e acqua) con 1,3 milioni di dipendenti, un giro d’affari di 545 miliardi e 9,2 miliardi di utili.
Al di là della fotografia della situazione attuale è utile cercare di comprendere l’evoluzione della classifica delle multinazionali. Ad esempio, si può notare come Amazon in un decennio sia passata dal 112° al 2° posto della graduatoria. State Grid dieci anni fa era al 7° posto ed ora è al 3°. Apple raggiunge il 7° posto provenendo dal 15°. La finanziaria americana UnitedHealth Group sale dal 39° all’8° posto. A fare evidenti passi indietro sono invece le principali società multinazionali che si occupano di energia e petrolio: Shell che scende dal 2° al 13° posto, Exxon Mobil dal 5° al 12° e BP dal 6° al 25° posto.
Dai dati presenti nel report si può calcolare il rapporto tra profitti e fatturato, evidenziando i relativi margini di utile. In questa logica al 1° posto troviamo la Taiwan Semiconductor Manufacturing con profitti pari al 39,4% del fatturato, seguita dalla banca svizzera Ubs con il 39%, dalla Johnson & Johnson nel settore della chimica con il 36,9% e dalla Microsoft con il 34,1%.
In alcuni settori si nota una predominanza cinese. Ad esempio, sono cinesi 6 delle 7 multinazionali delle costruzioni inserite in Top200, 6 su 8 della metallurgia e minerali, 6 su 9 della chimica e farmaceutica. Nel settore bancario, assicurativo e della finanza ai primi 14 posti troviamo 8 multinazionali degli Usa e 6 della Cina.
Particolarmente illuminante è il confronto tra i fatturati delle multinazionali e le entrate degli stati. In una classifica unificata ai primi 100 posti troviamo 70 stati nazionali e 30 multinazionali. La Walmart ha ricavi superiori alle entrate dell’Australia e di poco inferiori a quelle della Spagna. La Saudi Aramco ha un fatturato nettamente superiore alle entrate dello stato dell’Arabia Saudita.
Le classifiche sulle multinazionali in realtà rappresentano soltanto la prima parte del report predisposto dal Cnms, che contiene alcuni approfondimenti davvero interessanti. Il primo focus è sulle più importanti società «multifondo», che investono denaro in partecipazioni societarie: in particolare vengono analizzate le multinazionali statunitensi Black Rock, Vanguard, Fidelity e State Street, che complessivamente gestiscono patrimoni per quasi 30mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra enorme che può condizionare fortemente la finanza, l’economia e la politica mondiali.
Un altro approfondimento ricostruisce le vicende e le contraddizioni dell’impero economico e patrimoniale di Elon Mask, oggi considerato l’uomo più ricco del mondo. Molto attuale è anche la pagina dedicata alle azioni di boicottaggio delle multinazionali che conducono affari in Israele, che mostra come in alcuni casi stiano funzionando.
Non mancano i dati sulle multinazionali di origine europea, oltre alla preziosa informazione che l’Unione europea ha recentemente approvato una normativa che impone alle aziende che producono e vendono in tutto il mondo l’obbligo di verificare che lungo tutte le proprie filiere produttive e commerciali siano rispettati i diritti umani e l’ambiente.
Il sottotitolo del report Top200 è inequivocabile: «La crescita del potere delle multinazionali». Dopo averlo letto è più facile capire le pressioni e i condizionamenti che le multinazionali possono esercitare nei confronti del potere pubblico. «Possiamo – ha detto il giudice Louis D. Brandeis (membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939) – avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose»
Rocco Artifoni