Giacomo Camisassa 100


La beatitudine di essere secondo

Con la Madonna e la missione nel cuore

Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.

Giacomo Camisassa in Kenya con missionari e suore Vincenzine

ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.

Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».

Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.

Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.

Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.

L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.

Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.

La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.

Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.

L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».

Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,

suor Simona Brambilla
 e padre Stefano Camerlengo

(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)

12/11/1916. Visita del cardinal Giovanni Cagliero – nel mezzo tra l’Allamano e il  Camisassa – alla Casa Madre dei Missionari in Torino.


«Non dimenticate quest’uomo!»

Giacomo Camisassa, il gregario ideale

Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.

«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).

Personalità armoniosa

Prima foto di Giacomo Camisassa. Risale al 1884.

Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.

Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».

Uomo concreto

Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.

Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.

«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).

Uomo di Dio

Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.

Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.

«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).

Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).

Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).

Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.

Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.

Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.

Il certificato di battesimo di Camisassa Giacomo Francesco. Secondo questo certificato il battesimo fu fatto il 27 settembre 1954 alle ore 7 di mattina e la nascita avvenne alle ore 11 di notte del 26.

La giovinezza

Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.

Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.

Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.

Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.

Promotore di sinodalità

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.

Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.

Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.

«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».

«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.

L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.

Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).

Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.

Il canonico Camisassa (al centro) con un gruppo di sacerdoti del Convitto ecclesiastico.

Dirsi tutto

Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».

Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.

Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.

Il santuario della Consolata da Via Consolata

Nell’abbellimento del Santuario

Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).

Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.

Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.

Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.

Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.

Rivoli (To), 8 maggio 1902- Allamano e Camisassa con i primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale IMC a Roma, n. 245

Nella fondazione dell’Istituto

Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.

Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.

Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.

Il terreno in Via Circonvallazione(514-516) di 12.000 mq venne acquistato dall’Allamano nel 1905. I lavori iniziarono il marzo 1905 o poco dopo. La nuova Casa Madre venne inaugurata il 23 ottobre 1909. E’ da considerarsi come il memoriale del patto vicendevole intercorso tra l’Allamano ed il Camisassa. – Disegno e direzione sono dell’Ing. E.Ruffoni. Ditta: Fratelli Faia – La facciata é di 90 m – I due fabbricati minori erano adibiti a parlatori, museo, ì segheria … – Nella parte di mezzo avrebbe dovuto sorgere, col tempo, la ì nuova chiesa. Così secondo un “vivo desiderio del Fondatore”. (La Consolata – ottobre 1909, pp.160-161).

Nella costruzione della Casa Madre

Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.

In Kenya, durante uno dei molti viaggi da una missione all’altra.

Nel provvedere per le missioni

Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.

Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.

Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».

Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».

Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».

Incontro con un capo che gli presenta il figlio per farlo ammettere nella scuola detta «Collegio dei principini» per la formazione dei giovani leaders del futuro.

Nella visita alle missioni del Kenya

Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.

Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.

Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».

Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.

Camisassa a Gaighanjiru con (da sx) suore vincenzine, padre G Perlo, fratel Umberto Arossa, suora cottolenghina, padre Angelo Bollani, canonico Camisassa, padre T Gays, padre G Cavallero, fratel Bezzole Luigi, padre Vignoli e suor Scolastica del Cottolengo

Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.

Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.

La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.

Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».

Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».

Confondatore

Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».

In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.

Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).

Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.

«Aveva l’arte di nascondersi»

L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).

Sperimentava la beatitudine di essere secondo.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).

Con il gruppo dei futuri catechisti.

Tessitore di fraternità

Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.

La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.

Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.

Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.

Il beato Allamano e il canonico Camisassa con i sacerdoti convittori.

La morte

Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.

In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.

Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».

Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».

Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».

Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922,

«Era maturo per il cielo»

«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)

Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.

La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.

In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».

Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.

«Proruppe in un pianto dirotto»

Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».

Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».

I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».

L’urna con i resti del Camisassa sullo sfondo, a sinistra, della tomba di Giuseppe Allamano nella chiesa santuario dedicato al beato Allamano in Torino.

Uno accanto all’altro

Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.

Giuseppe Ronco

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922, davanti al santuario della Consolata


Apostoli con la parola e il lavoro

Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu

Torino, 8 marzo 1904

Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.

Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!

Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!

Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.

Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!

Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».

Can. G. Camisassa

La turbina installata a Tuthu da fratel Benedetto con materiali e istruzioni fornite dal Camisassa.

Un uomo dalla fede adamantina

Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944

Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.

Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.

Lettera autografa del Camisassa al fratel Luigi Falda.

Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.

Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]

Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]

Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.

 Coad. Benedetto Falda


Date essenziali

27 settembre 1854
Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)

Ottobre 1868
Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.

22 ottobre 1871
Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.

15 giugno 1877
Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.

8 luglio 1879
Si laurea in Teologia, a pieni voti.

3 ottobre 1880
Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.

15 giugno 1887
Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.

7 luglio 1892
Nominato «Canonico onorario».

20 ottobre 1895
Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».

Gennaio 1899
Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.

10 maggio 1902
Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.

19 giugno 1905
È nominato «Canonico effettivo».

8 febbraio 1911
Inizia la visita alle missioni del Kenya.

26 aprile 1912
Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.

18 agosto 1922
Muore presso il Santuario della Consolata.

15 novembre 1976
La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).

5 ottobre 2001
Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.

Preghiera per l’anno del Camisassa

Foto classica del canonico Giacomo Camisassa

Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.

Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.

Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.

Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!

 

 


Hanno firmato questo dossier:

Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.

A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.

Foto di questo dossier

Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.

Testi

Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.

P Pavese a Tuthu con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda .

 




Cari Missionari

100 anni meravigliosi!

Ordinazioni sacerdotali e pellegrinaggio internazionale a Tosamaganga, 1ª missione IMC in Tanzania

Carissimi,

quest’anno abbiamo celebrato il centenario della missione del nostro istituto in Tanzania. Abbiamo molte ragioni per ingraziare.

Ordinazioni

Anzitutto ringraziamo il Signore per il dono dell’ordinazione sacerdotale di quattro confratelli tanzaniani proprio
durante questo anno giubilare.

Prima l’ordinazione dei diaconi Tito Kimario e Emanuel Temu della diocesi di Moshi, e poi quella di altri due, i diaconi Isack Mdindile e Richard Lusaluwa della diocesi di Iringa (foto sotto). Sono i frutti nati dall’albero della fede seminato nelle varie parrocchie dai missionari in questi 100 anni di evangelizzazione in Tanzania, in particolare nella diocesi di Iringa.

Ringraziamo il Signore non solo per questi nostri confratelli, ma per tutti i figli e le figlie consacrati a Dio di questa diocesi e delle altre diocesi in Tanzania.

Nella messa di ordinazione, durante l’omelia, il vescovo di Iringa, mons. Tarcisius Ngalelekomtwa, ha insistito sul fatto che i nuovi ordinati debbano vivere la loro vocazione con coerenza e impegno, affinché questorealizzi la salvezza loro e di tutte le pecore che verranno loro affidate. Bisogna vivere la vita sacerdotale seguendo l’esempio di Gesù Cristo, il sacerdote per eccellenza. Il vescovo ha anche sottolineato che d’ora in poi tutti dobbiamo chiamare i nuovi sacerdoti «padri», perché dovranno prendersi cura della famiglia formata dai figli di Dio.

Pellegrinaggio da Mshindo a Tosamaganga con sette tappe intermedie, giovani dall’Europo insieme alal gente locale in occasione del centenario IMC in Tanzania

Il pellegrinaggio

Il giorno seguente, il 23 agosto, tutti i gruppi dei giovani provenienti dai vari centri Imc dell’Europa si sono radunati al centro Faraja (Consolazione) situato a Mgongo, dove vengono accolti bambini orfani o provenienti da famiglie in difficoltà. Là c’è stata una conferenza sulla vita e storia dei missionari della Consolata in Tanzania e sul centenario. Padre Cyprian Mvanda e il superiore regionale, padre Erasto Mgalama, hanno raccontato nel dettaglio i primi passi compiuti dai primi missionari agli albori della missione in Tanzania. I giovani europei hanno avuto l’opportunità di conoscere i bambini, giocare, ballare e cantare con loro, trascorrendo una serata meravigliosa, terminata con la cena alla quale ha partecipato anche la comunità della Faraja.

È stato fondamentale incontrarci per sentire le grandi meraviglie che Dio ha operato tramite i missionari nella regione di Iringa per essere pronti all’evento del giorno seguente: il pellegrinaggio a Tosamaganga, la primissima casa dei missionari della Consolata in Tanzania.

In strada

La mattina del 24 agosto (foto sopra), i fedeli e giovani locali insieme ai giovani dall’Europa si sono radunati presso la chiesa di Mshindo per partire in pellegrinaggio verso Tosamaganga.

Ai pellegrini si sono uniti tanti giovani e adulti delle parrocchie della Consolata in Tanzania per formare un lungo e variopinto corteo di persone che si è snodato lungo strade polverose.

È stato un pellegrinaggio colmo di gioia, preghiera, canti, musica, balli e riflessioni, con diverse tappe prima di arrivare a Tosamaganga.

Significativa è stata la penultima tappa all’orfanatrofio gestito dalle suore Teresine, una congregazione fondata da un missionario della Consolata, mons. Cagliero. Ci siamo inoltre recati al cimitero di Tosamaganga, dove riposano in pace tanti missionari che hanno speso tutta la vita per l’evangelizzazione e l’amore delle popolazioni.

A Tosamaganga

Arrivati alla parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Tosamaganga, siamo stati accolti calorosamente dal vicario del vescovo che ha salutato i pellegrini in tre lingue: inglese, swahili e italiano e ringraziato Dio per il lavoro fatto dai missionari dopo aver preso il posto dei Benedettini 100 anni fa.

Dopo varie celebrazioni, alla sera ci siamo trovati per un momento di presentazione dei vari gruppi che hanno anche condiviso le esperienze avute nelle parrocchie prima del pellegrinaggio e anche alcuni aspetti della propria cultura di provenienza con canti, balli e musica. Il 25 agosto nella messa presieduta da padre Erasto Mgalama abbiamo nuovamente ringraziato il Signore per il cammino fatto insieme e per le meraviglie che Dio ha compiuto tramite i missionari. Ha poi sottolineato che una missione riuscita è quella che coinvolge tutti, è quella fatta «con e per gli altri». Celebriamo i 100 anni perché i nostri primi missionari hanno saputo fare e vivere missione insieme. Il successo non è dovuto a un solo missionario, ma a tutti coloro che hanno lavorato durante questi 100 anni in Tanzania.

Ora preghiamo che questo Spirito di fare missione insieme cresca in noi, perché l’essere missionari e il fare missione siano il compito di tutti. «Umisionari ni wajibu wetu, wajibu wetu ni umisionari» (la missione è il nostro dovere/compito/impegno), così dice il motto del giubileo in Tanzania.

Il pellegrinaggio continua

Padre Erasto ringraziando i giovani dall’Europa per la loro partecipazione alle feste del giubileo, ha ricordato che il culmine delle celebrazioni è il 14 ottobre (festa nazionale in Tanzania).

Ha chiesto poi di portare i ringraziamenti alle famiglie e di raccontare l’esperienza vissuta sulle orme di tanti missionari che hanno evangelizzato il Tanzania, invitando a continuare il pellegrinaggio in Europa, diventando missionari nelle proprie comunità parrocchiali, contro l’anonimato delle nostre città e dei nostri paesi, visitando le solitudini delle case, uscendo per cercare e consolare gli smarriti e gli esclusi, accogliendo chi emigra ed è discriminato.

In questo senso, il pellegrinaggio continua, perché la missione non è finita né in Tanzania né in Europa.

padre Thomas Mushi, da Iringa, Tanzania


Ricordando con nostalgia

Caro direttore,
sono l’autore della foto di copertina di dicembre 2017. Come membro del gruppo Gomni (di cui avete scritto a luglio 2018) sono stato in Tanzania sette volte tra il 1992 e il 2008. Esperienze indimenticabili per me. Vorrei condividere questa breve storia allo scopo di far conoscere in questi tempi che le diversità tanto discusse e vituperate possono essere motivo di confronto e magari di ricupero di certi valori che noi abbiamo perso o dimenticato, come l’accoglienza, la condivisione e la fraternità.

Visita ai villaggi con suor Ponziana

Un mattino, dopo la messa, suor Ponziana mi invita ad andare a trovare i vecchi e gli ammalati. Raccolte poche cose dalla mia stanza, messi gli scarponi e preso un bastone, partiamo. È una bella giornata calda. Ci mettiamo in viaggio passando da una specie di emporio per prendere due bottiglie d’acqua per bere, una per uno.

Il percorso è un po’accidentato, con diverse colline da superare. Siamo sugli altipiani della regione di Njombe a un’altezza media di 1.800 m. I villaggi della parrocchia sono numerosi e piuttosto lontani uno dall’altro.

Partiamo spediti. Appena fuori del villaggio della parrocchia, sento una voce in lontananza che grida: «Karibu, Armando (benvenuto Armando)». Il saluto è forte, ma non vedo nessuno. In queste zone e a questa altitudine, senza i rumori tipici del mondo occidentale, il suono si propaga facilmente. Proseguendo il cammino incontriamo un gruppo di donne che vanno al lavoro nei campi trasportando gli attrezzi sulla testa. Il saluto è d’obbligo: «Kamwene, habari, mnaenda wapi?» (buon giorno – in kihehe, hai notizie? dove vai? – in kiswahili). La stretta di mano tripla dà calore all’incontro e all’immancabile scambio di informazioni, senza fretta.

Al primo gruppo di capanne ci fermiamo per salutare, anche se qui non ci sono ammalati ne vecchi. Ci offrono una gallina e io cerco di rifiutarla perché so che questa gente mangia una sola volta al giorno. Suor Ponziana mi prende per un braccio e sottovoce mi sussurra che non si può rifiutare, sarebbe un’offesa per loro.

Riprendiamo il cammino e dopo un’ora arriviamo in un villaggio con molte capanne. Sul sentiero che attraversa il villaggio un giovane sui venti anni si muove trascinando il corpo con le mani. Ha le gambe rattrappite probabilmente dalla nascita. «Weuli (buon pomeriggio – ancora in kihehe). Habari?». «Nzuri (bene)». È la risposta caratteristica della gente. Anche se la situazione non è buona, la risposta è sempre positiva.

«Vado a trovare la nonna», dice il ragazzo. Lo accompagniamo lentamente alla capanna che si trova poco lontano.

«Hodi? (permesso?)». «Karibu (benvenuto)», risponde una voce da dentro. Entriamo attraverso un’apertura in un muro di fango secco. Attraverso il denso fumo di un fuocherello vediamo una donna molto anziana seduta su un gabellino di legno a pochi centimetri da terra. Ci da la mano  dalla pelle molto sciupata e rinsecchita e ci invita a sederci. La vecchia è seduta accanto ad un fuoco formato da tre pietre disposte a triangolo. Non c’è il camino e il fuoco poco vivo crea una coltre di fumo che ristagna nel piccolo ambiente rendendo difficile il respiro.

Dopo i convenevoli, la signora ci racconta la sua storia di persona rimasta sola, con nessun parente e la difficoltà di muoversi a causa delle gambe molto ammalate. Ormai la sua vita è accanto al fuoco che, a queste altitudini, è sempre acceso giorno e notte. La sua esistenza è condizionata dall’aiuto dei vicini che non manca mai e dalla presenza del nipote handicappato che le tiene compagnia durante la giornata. Ma la cosa sorprendente è che trasmette il suo racconto con un sorriso sulle labbra, senza recriminazioni, né lamentele, come se fosse una cosa normalissima, naturale.

Io le offro delle caramelle e la suora le dà una maglietta per ripararsi dal freddo. Concludiamo la visita pregando insieme.

Riprendiamo il cammino in silenzio ripensando alla condizione di quella nonna che affronta la sua situazione difficile con serenità senza drammatizzare, con dignità e l’orgoglio di esistere.

La lebbrosa

Dopo un paio di colline e mezzora di cammino arriviamo a un piccolo insediamento, con cinque o sei capanne e poca attività, nessun movimento. La suora va diritta verso una capanna. Si ferma prima di entrare e girandosi verso di me dice: «Tu stai qui, non entrare, aspettami». Dopo un quarto d’ora, suor Ponziana esce e mi dice: «Twende (andiamo)».

La osservo mentre si pulisce le mani con l’erba alta bagnata di rugiada. Incuriosito, le chiedo perché non mi ha lasciato entrare in quella capanna. Con la testa abbassata mi risponde sommessamente: «In quella capanna c’è una persona molto ammalata, ha la lebbra».

Rimprovero suor Ponziana per quella pericolosa mancanza di igiene e le consiglio di munirsi di un disinfettante comune mentre le offro una  bottiglietta di Amuchina che abitualmente mi porto nello zainetto.

«Turudi (torniamo)», mi dice. Ci mettiamo sulla strada del ritorno, silenziosamente. Poco dopo incontriamo un gruppo di giovani donne che rientrano al villaggio. L’incontro vivacizza l’atmosfera con i saluti e le notizie che ci scambiamo. Io ne approfitto per familiarizzare con loro. Arriviamo alla missione abbastanza stanchi ed accaldati. Mi accorgo che la bottiglia dell’acqua della suora è ancora piena. «La bevo con le mie consorelle», mi dice suor Ponziana. Questa cosa mi fa ricordare l’importanza dell’acqua per questa gente. Nella parrocchia non esiste ancora un impianto di acqua potabile e utilizziamo l’acqua piovana e quella bollita per le nostre esigenze. Se è così in missione, nel villaggio è molto peggio.

«Tutaonana kesko (ci vediamo domani)», mi saluta la suora. A domani.

Armando Favaro
23/09/2019 Balangero (To)