Trascorso oltre mezzo secolo dalla sua fondazione, la Missione Catrimani prosegue la sua esperienza nella terra degli Yanomami. Una terra assediata dai garimpeiros che avanzano e fanno disastri nella più totale impunità. La malaria è sempre presente e le «attrazioni» dei Bianchi catturano una parte degli indigeni. Eppure, nonostante tutti questi problemi, la Missione Catrimani rimane un posto unico. Che merita una lunga vita.
Sono ancora a Manaus quando mi raggiunge una email di padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani nella Tiy, la Terra indigena yanomami. Dice di essere di passaggio a Boa Vista e che tra pochi giorni tornerà in foresta. «Ti interesserebbe venire con me?», domanda. Se mi interessa? È da anni che ho a che fare con gli Yanomami, ma li ho sempre incontrati a Boa Vista. In vari luoghi: alla sede della loro associazione Hutukara, come nella filiale del Banco do Brasil, però sempre fuori dal loro contesto territoriale.
«Certo che accetto», rispondo. «Per farti spazio sull’aereo io rinuncerò a caricare un sacco di pane secco», spiega il missionario. Mi ha paragonato a un sacco di pane e neppure fresco, penso tra me e me. Vabbè se questo è il prezzo da pagare, lo pago. Purtroppo però non è il solo. «Niente foto agli Yanomami, per favore», aggiunge padre Corrado. Anche se la mania dei selfie ha svilito il ruolo delle foto, per un giornalista non poter fotografare è un divieto pesante. Tuttavia, non discuto. «Va bene – rispondo -. Accetto le tue condizioni».
Dopo una notte in bus, al mattino raggiungo Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.
Per raggiungere Catrimani
A Boa Vista operano alcune compagnie di piccoli aerei (quasi sempre Cessna) che monopolizzano il mercato: il business è grosso. Non certo per merito dei pochi missionari, però. A parte qualche eccezione, non sono loro a volare nella Terra indigena Yanomami. Sono (purtroppo) i garimpeiros e coloro che stanno dietro il malaffare minerario. Va ricordato che, in linea teorica, chiunque voglia entrare in terra indigena dovrebbe chiedere il permesso alla Funai1.
Negli anni Ottanta-Novanta, durante le invasioni del territorio yanomami e ye’kwana, vennero identificate 82 piste d’atterraggio clandestine2. Quante siano oggi è difficile dirlo anche perché le operazioni di contrasto sono molto più blande che nel recente passato.
Perché – viene da chiedersi – andare alla Missione Catrimani con un aereo? Perché raggiungerla via fiume è pericoloso a causa della presenza delle rapide. Raggiungerla via terra è invece lungo e difficile: sono 5 giorni di cammino con esperte guide indigene. Tuttavia – occorre sottolinearlo con forza -, è un bene che vie semplici da percorrere non ce ne siano: una strada sarebbe la fine di tutto, come ha dimostrato la devastante esperienza della Perimetral norte, la via oggi abbandonata che portò morti e distruzione a metà degli anni Settanta.
Dalla savana alla foresta
Il decollo è tranquillo, favorito da una giornata relativamente limpida. Schiacciato sullo stretto sedile posteriore, alla mia sinistra una pila di scatole di cartone contenenti non so cosa e un paio di sacchi di yuta con alimenti, i piedi posti sopra le nuove batterie solari per la missione, accompagnato dal pigolio continuo delle decine di pulcini che, chiusi all’interno di uno scatolone bucherellato, viaggiano nel vano bagagli sulla coda del Cessna, in tutto questo ammiro (e filmo) il panorama sotto di noi.
I primi 15 minuti di volo mostrano un paesaggio dominato dal lavrado, la savana amazzonica. Poi, l’ecosistema cambia: inizia la foresta e qualche rilievo, che può superare i 1.000 metri d’altezza. Sono le propaggini della Serra da Mocidade, dai missionari chiamata Serra dos Opikɨtheri per ricordare i loro veri abitanti. Da qui in avanti inizia la Terra indigena yanomami (Tiy).
Ecco il fiume Catrimani, che – lo raccontò negli anni Sessanta padre Silvano Sabatini nei suoi appassionati reportage3 – sarebbe un punto di riferimento se non fosse che il giovane pilota del Cessna ha un Gps portatile (posato sulle sue ginocchia).
Ecco alcune maloche (yano) ed ecco la Missione Catrimani. Il Cessna fa alcune virate per mettersi in condizione di atterrare sulla pista in terra battuta.
La pista della Missione Catrimani, costruita dai padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri, venne ufficialmente inaugurata il 7 marzo 1966, quando vi atterrò il primo aereo4. All’epoca era una striscia di terra ed erba lunga circa 400 metri e larga 30, con tutt’attorno una fitta foresta. Oggi, essa è lontana dalla pista varie decine di metri, lasciando spazio a una radura (e ciò – a dire il vero – non è un buon segno dal punto di vista ambientale).
Il piccolo aereo tocca terra con qualche scossone dovuto al terreno sconnesso ma senza difficoltà.
La pista è a circa duecento metri dalle costruzioni della missione, dalla quale qualcuno ci fa cenni di saluto. Uno Yanomami dall’età imprecisabile (ma non giovane) ci viene incontro e saluta padre Corrado. Strano – penso tra me e me – che non ci siano più persone. Saprò più tardi che, proprio in questi giorni, quasi tutti gli Yanomami di Catrimani sono ospiti in altre maloche per una festa.
Iniziamo subito a scaricare i numerosi bagagli stipati sul velivolo, che si fermerà soltanto poche ore. Nel frattempo, l’anfitrione indigeno è tornato con una carriola, che però non è utile per trasportare le pesanti batterie solari. Così, lui ed io assieme, parlando a gesti e sorrisi, uno da una parte e uno dall’altra, le solleviamo e le portiamo verso la missione.
Per la salute, per l’istruzione
Ci sono alcune donne con neonati in braccio e vari bambini, subito attratti dallo scatolone con i pulcini, anch’essi atterrati sani e salvi come gli umani. E ci sono due suore della Consolata, che mi accolgono con calore.
Sono l’italiana Giovanna Geronimo e Noemi del Valle Mamani, argentina di etnia kolla. È invece in trasferta la suora che da più tempo vive a Catrimani, la keniana di etnia kikuyu Mary Agnes Njeri Mwangi5.
La missione è un piccolo complesso composto da casette di legno a un piano, la maggior parte di un color verde foresta che s’intona perfettamente con l’ambiente amazzonico. Le suore m’invitano a dissetarmi in quella che ospita la cucina e il refettorio, luogo giusto per scambiare qualche parola. Suor Giovanna, nativa di Martina Franca, è l’ultima arrivata essendo qui dal settembre 2018, ma opera in Brasile da oltre 30 anni. Suor Noemi è a Catrimani dall’agosto del 2009, pur con una pausa di alcuni anni. «Mi occupo degli insegnanti – spiega -. Una sorta di accompagnamento pedagogico». L’insegnamento – e questa è una conquista fondamentale – avviene sia nella lingua indigena che in portoghese. «Il primo anno è in yanomae, gli altri due in portoghese», precisa la suora.
Usciamo per una visita alla missione, che si conferma molto curata: erba tagliata, piante da frutto, fiori, nulla fuori posto.
Ci dirigiamo verso la casetta che ospita l’ambulatorio gestito dalla Sesai (Secretaria especial de atenção à saúde Indígena), organizzazione pubblica per la salute indigena che il presidente Bolsonaro vuole eliminare o almeno ridimensionare.
L’ambulatorio è una stanza essenziale alle cui pareti interne sono appesi manifesti informativi. Ci sono i farmaci e poi, poggiato su un bancone, lo strumento forse più importante: il microscopio per l’individuazione del parassita della malaria. «In questo momento – racconta suor Noemi -, c’è un aumento dei casi di malaria per varie cause, non ultima la rottura della macchina che serve per spargere lo spray anti zanzare».
Nel frattempo, arriva anche l’infermiere di turno in questo periodo. Si chiama João Lima Dias, 47 anni. «La difficoltà principale – mi spiega – nasce dal fatto che dobbiamo seguire 22 comunità. Dato che siamo pochi, è difficile curare tutte le persone nelle varie maloche disperse sul territorio».
Saluto João, perché padre Corrado vuole mostrarmi la maloca (yano) di una delle comunità più vicine.
La maloca e il suo mondo
Camminiamo veloci all’ombra di un bosco non fitto. All’improvviso questo lascia il posto a una piccola radura occupata da una maloca a cielo aperto, casa della comunità Maamatheri (dove il suffisso – theri indica gruppo, comunità, e maama significa pietra). Passiamo da un’entrata che è poco più di un pertugio, ma che dà accesso a un mondo.
La yano ha una intelaiatura di base fatta di sottili pali di legno ai quali vengono applicate foglie di una palma (nota come ubim, nome scientifico geonoma) e liane per formare le pareti e il tetto. La grande tettoia forma una sorta di anello al cui centro rimane una piazza utilizzata per feste e danze, distribuzione di alimenti, cerimonie con gli sciamani, accoglienza degli ospiti.
La maloca è una casa comunitaria, cioè polifamiliare o, per meglio dire, a famiglia estesa (- theri). «Qui vivono 30 persone – spiega padre Corrado dal centro della piazzetta -. Nella maloca ciascuna famiglia occupa uno spicchio delimitato dalle amache stese attorno a un fuoco». Non ci sono dei contenitori tipo armadi: tutto è in vista. Gli unici oggetti che riesco a vedere sono alcune pentole di varie dimensioni. Ci sono anche un tavolone, delle panche e una lavagna: è il piccolo spazio destinato alla scuola.
Oggi, sotto la grande tettoia circolare, razzolano le galline e giocano alcuni bambini. L’unico adulto è una donna che, seduta sul pavimento in terra battuta, è intenta a grattugiare i tuberi della manioca con la cui farina gli Yanomami preparano delle focacce chiamate naxihi (beijù, in portoghese). Dal tetto scende una grata in legno su cui ci sono un paio di pesci arrostiti. Mi spiegano che sono noti come aracu.
Nella maloca le amache sono poche, segno che la maggior parte degli abitanti è in trasferta. «Sì – mi spiega padre Corrado -, come ti ho detto gli abitanti sono andati a una festa». Visto che la yano è quasi disabitata, il missionario mi concede di scattare qualche foto. Quello di padre Corrado è un atteggiamento di difesa verso gli Yanomami sotto due punti di vista: uno culturale per rispettare o preservare la concezione dell’ũtupë, l’immagine spirituale della persona6; uno antropologico volto a frenare la reazione di una parte degli indigeni che ai fotografi hanno iniziato a chiedere un compenso per lasciarsi fotografare. Chissà cosa avrebbe fatto padre Corrado se fosse stato presente quando, nel marzo 2014, accompagnata da una troupe della Bbc, passò dalla missione una celebrità internazionale come l’ex calciatore David Beckhamp7.
Il Rio Catrimani
Lasciata Maamatheri, c’è il tempo per una visita alla sponda del Catrimani, il fiume che bagna la missione e che le dà il nome. L’acqua pare normale, ma non c’è certezza che i detriti – in primis, il pericolosissimo mercurio – prodotti dai garimpeiros installatisi a monte non siano giunti fin qui. La sponda opposta dista vari metri e dal letto del fiume spuntano rocce e sassi.
La pesca è praticata dagli Yanomami ma non ha mai avuto il rilievo della caccia ed è sempre stata un’attività (praticata con la tecnica del veleno sparso in acqua) prevalentemente femminile.
Sulla riva, all’ombra degli alberi, è legata una piccola barca. Risalendo il Catrimani con piccole imbarcazioni a motore in 4-5 ore si raggiungono le ultime comunità; scendendo si può arrivare, dopo 3-4 giorni, fino al Rio Branco, il fiume che attraversa Roraima da Nord a Sud. Padre Corrado chiosa: «Queste sono le nostre strade. Perché qui i fiumi non ci dividono, ma al contrario ci uniscono.
Unica
Non c’è più tempo: il pilota vuole ripartire. Debbo risalire sul Cessna. Sul sedile posteriore si accomoda un anziano Yanomami che ha chiesto di essere portato a Boa Vista. Io mi sistemo accanto al pilota.
Alla Missione Catrimani ho trascorso soltanto mezza giornata, la grande maggioranza degli Yanomami era in trasferta e praticamente non ho potuto scattare foto. Eppure, a dispetto di tutto questo, è stata un’esperienza unica perché unica è la Missione Catrimani.
Paolo Moiola
Note:
(1) Sulle modalità di entrata in terra indigena si veda quanto scritto nel sito: http://www.funai.gov.br.
(2) Isa, Mineria Ilegal en los Territorios Yanomami y Ye’kuana (Brasil-Venezuela), 2017.
(3) Silvano Sabatini, Le prodezze del vostro aereo, in «Missioni Consolata», n. 9, maggio 1968.
(4) Bindo Meldolesi, Il campo è pronto!, in «Missioni Consolata», n. 7-8, luglio-agosto 1966.
(5) Una sua intervista è stata pubblicata sul numero di marzo.
(6) Su questo concetto proprio degli Yanomami si rimanda a Corrado Dalmonego, «Il corpo e l’immagine», in Nohimayu – L’incontro, Editrice Emi, Verona, settembre 2019. (Qui sopra la copertina del libro.)
(7) Da quella visita è stato ricavato un documentario: David Beckhamp – Into The Unknown.
Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.
Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.
Cacciatori e contemplatori
Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?
«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».
Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?
«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».
Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?
«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».
E degli Yanomami?
«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».
Maloca, comunità, famiglia
Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?
«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».
E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?
«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».
E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?
«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».
Banane per tutti, dunque?
«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».
I misteri dello sciamano
Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?
«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».
Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.
«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.
Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».
Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?
«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».
Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?
Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».
Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?
«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.
Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».
La poligamia: responsabilità e sorellanza
Rimaniamo in tema di bambini. Quanti sono in media per famiglia?
«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».
Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.
«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.
Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».
La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros
A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.
«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».
Si tratta di persone singole o di vere imprese?
«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».
Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?
«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».
Senza strade è meglio
Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?
«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).
Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».
Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.
«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».
Donne indigene, donne yanomami
Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?
«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».
Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?
«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».
Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?
«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.
Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.
Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».
La malaria a Catrimani
Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?
«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».
Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.
«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».
Paolo Moiola
Terminologia:
maloca – la casa comune degli indigeni;
sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.
(pa.mo.)
Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore
Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri
Sommario
«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)
Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.
Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.
Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.
La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.
Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.
Ernesto Billò
Da Carrù al rio Alalaú:
quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»
Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.
Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.
Da Carrù al seminario
Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.
A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.
Vicecurato «dirompente»
Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.
Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».
Il sogno della Missione
Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.
Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».
A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».
Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.
Missionario della Consolata
Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.
Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.
L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».
Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.
La partenza
Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.
All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».
In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.
Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».
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Catrimani
In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.
La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.
La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.
Il missionario si converte
Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.
Ecco alcune linee-guida da lui maturate:
Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.
Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».
Salvare i Waimiri-Atroarí
Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.
Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.
Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:
«Cara mamma e care sorelle,
[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.
L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.
Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…
Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!
Giovanni».
Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.
Ernesto Billò e Margherita Allena (con inserzioni da pubblicazioni dei missionari della Consolata)
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami
Da napë a xori
Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.
Lavorare insieme
Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.
«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.
In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».
[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».
[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.
Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».
I primi contatti
Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.
«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].
Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.
Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].
In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.
Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.
In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.
Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.
In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.
Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».
La paura delle donne
Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.
«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.
Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».
[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].
I ricordi della sorella, monaca di clausura
Il coraggio di fare il bene bene
Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.
Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.
«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».
Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.
Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.
«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».
Fu una delusione, il dover tornare indietro?
«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».
«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».
Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.
«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».
Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.
«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».
Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.
«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».
Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.
Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».
Ugo Pozzoli
Giovanni Billò – Margherita Allena
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio
Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]
Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)
Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it
Bibliografia essenziale
Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.
Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.
Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.
Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.
Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.
Come missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato.
Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.
Dialogo senza pregiudizio – Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro giornie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione.
Uno stile rispettoso– È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno.
Presenza, denuncia, annuncio – Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come – ad esempio – la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.
Tanti, ma non abbastanza – Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.
Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.
Il dovere «etico» di rimanere – Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.
Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così.
Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.
Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui.
Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.
Boa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo.
Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura.
«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lontano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita – proseguiva il prelato – e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».
Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato-selvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.
«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.
Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per cambiare gli indios – hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6.
La missione in riva al Catrimani, sullo sfondo la maloca Yanomami.
Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.
Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9.
Nelle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata – fisica e culturale – dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat.
Paolo Moiola
Note
(1) Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è andato al riposo eterno nel settembre 2014.
(3) Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritoo alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5) Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65.
(6) Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7) Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968
(8) Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9) Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.
La maloca
I TESTIMONI
Lo stile nuovo di Catrimani
La cappella non è al centro
di Guglielmo Damioli
Cinquant’anni fa – era l’ottobre del 1965 – i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.
Da bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano?Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popolato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo. Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America.
Damioli Guglielmo che rimase venti anni al Catrimani.
Brandendo la croce e la spada
Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù… sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritoo alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati – Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli – di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.
«Il Dio dei bianchi è cattivo»
Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «… il Dio dei bianchi è cattivo».
Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria. Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.
Non ricordo i testi biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «…e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi…».
Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigante-fiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo.
Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani – dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del Cimi) fino a noi – battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentirneri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.
Una breccia mortale: «napë pë mohoti»
Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto… Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti…».
Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yanomami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.
A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquillizzato gli indios, salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell’equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.
I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.
Sciamano che cura un malato.
Autodifesa: terra, lingua, identità
Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata».
La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.
Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribù attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»).
In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni… La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio.
L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.
Guglielmo Damioli (Hewësi Par+ki)
Dall’incontro alla condivisione
I nostri primi cinquant’anni
di Corrado Dalmonego
In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.
«Molto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi, quando io ero un bambino di circa 10 anni, i padri risalirono il fiume Catrimani […]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. […]». Con queste parole, Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani.
Padre Corrado Dalmonego.
Esotici, strani, misteriosi
Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria.
Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina – allora superiore generale dell’Istituto – aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos – bravos significa selvaggi […]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami – che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni – seguivano le tracce lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.
Secondo: questo trovarsi – seppure segnato da concezioni molto diverse – ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che – nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione – il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte – in una notte di pioggia – a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.
Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.
Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.
Padre Bindo Meldolesi in un viaggio dei primi anna Sessanta.
Invasori e missionari
Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette – per la esiguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli – a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa.
Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» – le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti – come unica possibile forma di azione evangelizzatrice.
La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente.
Ancora padre Bindo Meldolesi sul fiume Catrimani.
La prossimitànel quotidiano
La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che – all’inizio della presenza missionaria, come oggi – anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comunità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute.
In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.
Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci – soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale – sono molto apprezzate da loro.
Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)
Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.
Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare foendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro).
Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentirneri nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà.
Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato.
Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.
Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre più pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.
Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome – per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente – o festeggiano una nascita.
Padre Silvano Sabatini che ha dedicato la vita alla causa degli Yanomami.
Il segreto sta nella condivisione
Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando – quando accolti – in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione:
– togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti – fra spine, zone allagate, liane – per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo;
– imparando un’altra lingua – che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria – per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;
– cercando di conoscere – condotti dalle nostre guide – la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio – anche se trascendente – ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto;
– apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana – alle volte… troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di manioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;
– imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita.
È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari – fragili messaggeri – scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte.
Suor Florënça Lindey Águida
Avvicinarsi e rimanere
Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che – essendo voi religiosi e conoscendo Dio – Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, così come sono stati creati i non-indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».
Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per… altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante».
Corrado Dalmonego
(Hewësi Ihurupë)
Note
(1) Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3) Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4) Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5) Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42, luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Dieci anni tra gli Yanomami
Circondati dal mondo
di Laurindo Lazzaretti
Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative. Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti, fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per dieci intensissimi anni.
Prima dell’arrivo a Roraima il mio contatto con i popoli indigeni era stato minimo1. Porto con me un’immagine dell’infanzia in cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il mio stato di nascita) passavano per la strada in gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né capivo che la loro terra era stata invasa e presa in mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da 1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe).
A favore della vita
L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo di conversione che mi ricordò l’esperienza della caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco, guarire e infine vedere le cose con occhi diversi, con un altro cuore e con motivazioni molto più profonde che non fossero soltanto quelle emotive. Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha colpito durante i dieci anni – dal 2001 al 2011 – trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da quelli che avevo vissuto fino ad allora.
Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la maggior parte di loro italiani, rimasti per molti anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche – all’interno della chiesa e dell’istituto – per un impegno più a favore della vita che della dottrina e della evangelizzazione.
Primo missionario brasiliano a rimanere così a lungo tra gli?Yanomami di quella missione, con una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne ricorderò qualcuna.
Catrimani, centro di resistenza
Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare. Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di resistenza alle invasioni e di critica alle politiche poste in essere dalle autorità brasiliane.
Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni. Attraverso questi programmi la missione venne «invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa per cose che non competevano loro o per le quali non erano preparati. I missionari stavano lì per la formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami. Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si tornavano a brevi intervalli. L’equipe missionaria era vista come «manodopera a basso costo», e ovviamente questo causò molti conflitti, malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario.
Il denaro e le sue conseguenze
Al primo incontro a cui partecipai alla missione rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati preparati in microscopia e come agenti di salute e che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più svolto questi servizi. Molto era stato investito nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista una remunerazione per questi giovani e in seguito essi avrebbero lavorato con un contratto formale. Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi nelle mani di questi giovani produssero furono (sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse, tabacco, sale, …); non era (è) più necessario essere un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano più di andare in città con gli stessi pantaloncini rossi, di serie, foiti dalla missione. Ora volevano comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali.
Strade, alcol e lavoro schiavo
Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un tratto di strada che dalla missione proseguiva per 110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano per uno scambio e un accompagnamento. Con l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena.
Le «cose» come fattore disgregante
Al centro della missione c’era una piccola casa che per lungo tempo servì come luogo di scambio con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati dagli Yanomami erano scambiati con manufatti dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica per la comunità influenzando i comportamenti di missionari e indigeni. La nuova conformazione della équipe della missione, la diminuzione dei progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio di comprare cose che non erano nelle opzioni della missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto.
Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria.
Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri programmi del governo, in futuro i cambiamenti potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi.
Attrazioni fatali?
Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri urbani, chiedono di studiare e laurearsi.
La politica economica del paese sta costringendo allo spopolamento delle zone intee per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti.
Laurindo Lazzaretti
Note
(1) Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, Labiodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015.
(2) Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone.
(3) Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su una popolazione di circa 900 persone.
Incontro con Carlo Zacquini
«Io sono Hokosi»
di Daniele Romeo
Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali.
Incontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista. Siamo in gennaio, piena estate a Roraima, e le giornate nella casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia di immagini e documenti, mi racconta i primi anni della presenza dei missionari a Catrimani.
Anni Cinquanta: i primi viaggi
«Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a realizzare una piccola piantagione con a fianco una tettornia di foglie di palma. Qui coltivava alcune piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per poi tornare a Boa Vista».
«Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo».
«Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare».
Requisito essenziale: una pista di atterraggio
Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica autornironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni».
Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2.
«Quando arrivai a Catrimani – racconta fratel Carlo – padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali».
La lingua yanomae
«Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto».
«Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato».
«Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama… chama!».
«Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo provvedere la carne per i lavoratori e per quelli che venivano con me. Praticavo la caccia con la carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma era molto difficile senza barca. A dire il vero gli Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete, scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora».
Indios, «caboclos», «civilizados»
«Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si rese conto che veniva usato dal potere locale e cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni coraggiose insieme a noi».
«A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios: erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche capo di vestiario e a volte parlavano un po’ di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in maniera chiara in difesa della causa indigena».
«I civilizados facevano apparire il mondo indigeno come un’isola fortunata dove tutti stavano bene. In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados erano invitati a fare da padrini di battesimo. La cosa era andata avanti per generazioni e una parte degli indios si era abituata e difendeva gli invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera per la definizione del territorio, una parte di loro era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere nella loro terra, dicevano che andando via loro avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto che in passato non avevano mai avuto bisogno del riso. Soltanto col tempo esso era diventato una necessità».
La devastante corsa all’oro
«Quel che andava per la maggiore, a Roraima, erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un prezzo più conveniente sia perché furono scoperti molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro furono facilitati da un programma finanziato dal governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões. Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero».
«Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami totalmente in balia di questi cercatori che provocarono livelli di mortalità altissima a causa delle malattie da loro portate. Fu un genocidio».
«Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate e fecero ripartire le attività di appoggio cercando di utilizzare uno schema diverso perché la realtà era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano capito, erano molto pericolosi per loro».
Anno 2015: ancora invasioni
Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di una protezione più teorica che reale. «Ancora nel 2015 – conclude con evidente rammarico fratel Carlo3 – centinaia o forse migliaia di cercatori d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminare l’acqua con il mercurio, a causare epidemie e danni irreparabili alla cultura yanomami».
Daniele Romeo
Note
(1) Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013.
(2) Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC, luglio-agosto 1966.
(3) La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia.
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Dati base
Dove sono – Il popolo degli Yanomami vive in un’area di foresta tropicale a Ovest del massiccio delle Guiane, sui due lati della frontiera tra Brasile e Venezuela.
Superficie – Occupano un territorio di circa 192.000 chilometri quadrati (quasi 2/3 dell’Italia), di cui 96.650 in Brasile.
Popolazione – Sono circa 33.100 persone (fonte: Albert – Milliken, 2009).
Lingue – Gli Yanomami si riconoscono come un popolo che presenta, al suo interno, diversità culturali e che parla lingue appartenenti alla stessa famiglia e mutuamente comprensibili.
In Brasile – La Terra indigena Yanomami è localizzata all’estremo Nord del Brasile e ha un’estensione di 9.664.975 ettari, essendo abitata da 21.249 persone, organizzate in 285 comunità (Distrito sanitário especial indígena yanomami, 2014).
Localizzazione della Missione Catrimani – La Missione Catrimani è localizzata sulla sponda sinistra del fiume Catrimani (N: 02°21’167’’; W: 063°00’447’’), affluente del Rio Branco, di fronte alla rapida del Cujubim.
Comunità e popolazione – Nella regione della missione Catrimani esistono 22 comunità con una popolazione di quasi 900 abitanti.
Dati demografici – Gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica, perciò la popolazione è molto giovane. Nella regione del Catrimani, 408 persone hanno meno di 14 anni, corrispondendo al 49 % del totale.
Distanze – La Missione Catrimani dista circa 250 Km in linea d’aria da Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.
Mezzi di trasporto – Partendo da Boa Vista, è raggiungibile con piccoli aerei leggeri che atterrano sulla pista della missione (circa un’ora di volo), ma si può arrivarvi per via fluviale, risalendo il fiume Catrimani (circa tre giorni di navigazione), o per via terrestre, utilizzando veicoli fino a dove esistono strade e … continuando a piedi nella foresta, meglio se ben accompagnati (circa cinque giorni).
Salute – Le patologie più diffuse: infezioni respiratorie, gastroenteriti/verminosi, malattie della pelle/dermatiti, tubercolosi, malaria, denutrizione. Alla missione esiste un ambulatorio con farmacia, ma i casi più gravi sono trattati in città.
Educazione – Ogni comunità, in genere, possiede una piccola scuola con il proprio maestro Yanomami che vi risiede. Alla missione esiste un Centro di formazione usato per la formazione di maestri, di tecnici indigeni di salute, per corsi, incontri e assemblee.
Mondo Yanomami
A causa dell’isolamento e di un’esistenza millenaria nell’ambiente della foresta tropicale dell’Amazzonia, il popolo Yanomami ha sviluppato una cultura e un sistema simbolico propri, molto differenti dalla simbologia biblica frutto di un ambiente e di una cultura di pastori del deserto. Qualsiasi traduzione letterale, tipo Dio = Omã, risulta insostenibile. La tradizione orale yanomami, miti e storie esemplari rivissute nei rituali, spiega le origini e orienta il comportamento sociale e etico della società che vive in foresta. In una cultura orale come quella yanomami, i miti sono dinamici, raccontati o celebrati, liberamente adattati alla situazione ma conservandone inalterato il nucleo.
Le origini
Invece di un Dio creatore, alle origini ci sono due gemelli: Omâ e Yoasi. Omâ rappresenta l’intelligenza creativa, la furbizia, la generosità. Yoasi, il caimano, rappresenta la stupidità e l’egoismo.
Gli Yanomami sono figli di Omâ e i napëpë (= non Yanomami) sono figli di Yoasi, egoisti e irresponsabili (mohoti) • Omâ ha dato queste terre agli Yanomami, ai napëpë ha dato Boa Vista, São Paulo… • Omâ si è ritirato sulle montagne del Parima, ma è chiamato in causa quando c’è bisogno. • Il figlio di Omâ aveva sete. Omâ fece un buco nella terra causando la grande inondazione.
L’Universo e l’armonia
La foresta (urihi) è il mondo, il pianeta, il cosmo dove vivono tutte le cose che esistono, materiali e spirituali: Yanomami, napëpë, spiriti, ancestrali, animali, piante, fenomeni naturali… Una struttura molto instabile frutto di un cataclisma originale causato dalla rottura dell’equilibrio. Se si rompe l’armonia dell’insieme tutto cade, è la fine di tutto.
Ferire la foresta, tagliare o strappare alberi in grande quantità, aprire strade, scavare buchi per estrarre metalli libera un fumo, una nebbia mortifera invisibile che si sparge seminando epidemie, malattie mortali (xawara).
Nella foresta ci sono luoghi dove abitano animali mostruosi, Teperesik+, Terema… sono luoghi protetti, nessuno può andare là per cacciare o pescare impunemente. Sono nidi di riproduzione della biodiversità.
Gli xapuripë (sciamani) yanomami, grandi alberi materiali e spirituali, sono le colonne del cielo. Quando l’ultimo sciamano morirà, anche l’ultimo albero sarà abbattuto e il cielo cadrà nuovamente.
Gli sciamani (xapuripë)
Lo sciamanismo e l’endocannibalismo sono i rituali più affascinanti della cultura yanomami. Gli sciamani, mediante l’uso di allucinogeni, di canti e danze, sono il ponte tra il mondo materiale e quello spirituale con la funzione di mantenere l’equilibrio, l’armonia della foresta/mondo.
Quando uno sciamano muore, gli elementi si infuriano, particolarmente il vento e il tuono. (In occasione della morte di una persona importante ho visto una donna gridare allo sciamano: «Il tuono sta dormendo, scuoti la sua amaca»).
La morte di uno sciamano scuote l’equilibrio, asce tagliano i pilastri del cielo, gli sciamani alzano le braccia per reggere un peso che può diventare insostenibile. I pianti rituali, le grida, i canti e le danze mimiche creano un clima di grande drammaticità, letteralmente da fine del mondo.
Lo sciamano viaggia nel mondo degli spiriti animali, incarna e imita l’animale appropriato, succhia e poi soffia buttando via lo spirito responsabile per la malattia. Il rituale, eseguito singolarmente o in gruppo, può durare una notte intera.
L’endocannibalismo consiste nella consumazione rituale e in gruppo delle ceneri delle ossa di uno Yanomami morto sciolte in una zuppa di banane.
I rituali funebri valorizzano le qualità a servizio del gruppo. È una forma di comunione per perpetuare questi valori e stringere alleanza con altri gruppi.
Gli animali
I personaggi dei miti delle origini, dei racconti e dei disegni sono animali della foresta, indicando una intima unione ancestrale e attuale.
Ogni Yanomami ha un «alter ego» (altro-io) animale, il falco reale è il più rappresentativo, la sua uccisione richiede rituali di purificazione. • Il giaguaro ruggisce nel petto degli sciamani e dei giovani cacciatori. • Il colibrì ha estratto il fuoco dalle fauci del caimano e l’ha posto dentro il legno della pianta di cacao. • Il sangue della puzzolente e antipatica mocura (faina) stà all’origine dei colori degli animali. • Il tacchino selvatico, dalle penne nere e petto bianco, sta all’origine della alternanza del giorno e della notte. «Voi napëpë pensate che l’aurora viene meccanicamente? Sono gli uccelli che, cantando, chiamano l’aurora. Se uccidete tutti gli uccelli, la notte si estenderà per sempre».
L’intima unione di tutti gli elementi della foresta / mondo fa sì che non ci sia distinzione tra voce e rumore, tutti parlano, tutti si comunicano: la voce degli Yanomami, la voce del tucano, del giaguaro… del tuono, delle rapide dei fiumi, del vento.
Ritengo che le tradizioni racchiuse nella sapienza yanomami possano realmente trasmettere segnali e valori alla nostra società occidentale. A garanzia della vita e soprattutto della sopravvivenza del pianeta.
Guglielmo Damioli*
(*) Per approfondire le tematiche della cultura yanomami rimandiamo a: Guglielmo Damioli, Giovanni Saffirio, Yanomami. Indios dell’Amazzonia, Edizioni Il Capitello, Torino 1996.
Cronologia
1929 – 1930 – Una spedizione raggiunge il fiume Catrimani e incontra un gruppo di Yanomami. Ne fa parte il benedettino Alcuino Meyer.
1948 – I missionari della Consolata arrivano a Roraima in sostituzione dei Benedettini.
1953 – Primo viaggio di padre Riccardo Silvestri (Imc) tra gli indios isolati del fiume Apiaú.
1960 – Primo viaggio di Bindo Meldolesi (Imc) tra gli indios del fiume Apiaú.
1965, ottobre – I padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri fondano la missione sulla sponda sinistra del fiume Catrimani.
1966, marzo – Il primo aereo Cesna 170 atterra sulla pista della missione, appena terminata.
1967, dicembre – Viene creata la Funai (Fundação Nacional do Índio) in sostituzione dello Spi (Serviço de Proteção aos Índios).
1968, gennaio – All’equipe missionaria di Catrimani si aggrega fratel Carlo Zacquini.
1968, novembre – Massacro della spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri-Atroaris.
1972 – Viene fondato il Conselho indigenista missionario (Cimi), un’organizzazione che si rivelerà fondamentale per la difesa dei popoli indigeni del Brasile.
1974 – Inizia la costruzione della Perimetral Norte (Br-210). Prime invasioni di lavoratori e macchine. Si lavorerà per poco più di tre anni. Poi il progetto verrà sospeso per mancanza di fondi.
1974 – Prima epidemia di morbillo.
1977 – Seconda epidemia di morbillo.
1987, agosto – I missionari sono espulsi dalla Missione Catrimani. Vi torneranno soltanto un anno e mezzo più tardi (novembre 1988).
1988, ottobre – Viene emanata la nuova Costituzione brasiliana contenente anche il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni.
1989, marzo – I missionari iniziano il progetto di etno-alfabetizzazione.
1992, maggio – Esce il decreto presidenziale con il quale viene finalmente omologata la Terra indigena yanomami.
2015, agosto – Cinque anni dopo la sua uscita in Francia, anche in Brasile, esce la biografia di Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni leader riconosciuto degli Yanomami.
(a cura di Paolo Moiola)
Glossario
Urihi – Terra-foresta. Per gli Yanomami la foresta è viva, popolata da un’infinità di esseri viventi: umani, animali, spiriti ecc.
Yano – La casa comunitaria, una costruzione circolare unica, di pali e paglia, condivisa fra i parenti. Possiede al centro un’area destinata alle funzioni rituali e socio-politiche, e non esistono pareti divisorie che separino gli spazi occupati dalle diverse famiglie. È l’ambito privilegiato delle relazioni sociali, ma anche metafora del cosmo. Spesso è chiamata «maloca», che però è un termine tupí-guarani.
Hutukana – La piantagione dove sono coltivati prevalentemente banani, piante di manioca, canna da zucchero, papaie, tabacco, cotone, piante curative e magiche ecc.
Wakatha u – Nome yanomami di una specie di armadillo e, con l’aggiunta del suffisso «u», del fiume Catrimani, sulla cui sponda sinistra, all’altezza della rapida del Cujubim, è stata fondata la Missione Catrimani.
Xapuri – Il termine si riferisce sia agli spiriti ausiliari invocati durante le sessioni sciamaniche che agli sciamani stessi che viaggiano nel tempo e nello spazio, visitando altre dimensioni.
Napë – In contesti diversi, assume significati differenti: puó indicare un nemico, ma anche uno straniero, un non-Yanomami o un bianco. Plurale: napëpë.
Xawara – Epidemia. Per gli Yanomami le gravi epidemie che hanno decimato la popolazione a partire dal contatto con i bianchi sono attribuite ai fumi prodotti dalle sostanze e dai macchinari usati dai bianchi e dai cercatori d’oro in particolare.
Xori – Cognato. La relazione fra due cognati promuove alleanza, amicizia e facilità di scambio. Sin dal principio, i missionari sono stati classificati con questo termine.
Nohimayou – La parola «nohi» significa amico. Il verbo nohimayou si riferisce all’abilità di suscitare nell’altra persona un sentimento di amicizia. Gli Yanomami usano quest’espressione per descrivere anche l’atteggiamento dei missionari del Catrimani.
Garimpeiros (port.) – Cercatori d’oro che invadono illegalmente la Terra indigena. Gli Yanomami li denominano anche con i termini: «napë wareri pë», spiriti pecari stranieri, o «urihi wapo pë», mangiatori di terra, poiché devastano il suolo e scavano buche per estrarre i minerali.
Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami
In questa Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO
La parola agli Yanomami
Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria
Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo
Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
La parola agli Yanomami
Testimonianza di K. YANOMAMI
(morto in marzo 2014, a circa 75 anni). Stralcio della deposizione raccolta e registrata, a gennaio 2013, presso la comunità di Waroma (regione Missione Catrimani).
«Ci presero con loro» «[Poco dopo la fondazione della Missione Catrimani] padre Giovanni Calleri disse proprio così: “Voi, altri bianchi, non dovete più venire qui, non dovete risalire il fiume. No! Io ho già preso sotto la mia protezione gli Yanomami”. […]
Che cosa passava per la testa dei padri, quando sono arrivati? Padre Calleri diceva così: “Molto bene, io sono venuto a cercarvi, per prender con me voi Yanomami”. […]
I padri hanno preso con sé noi Yanomami, perciò hanno detto: “È bene che vi prendiamo con noi […]: noi vi cureremo, vi difenderemo dai garimpeiros, quando questi arriveranno per stabilirsi”. Così, quando hanno iniziato a costruire la strada [BR 210] loro sono rimasti qui».
Testimonianza di ALEXANDRE?YANOMAMI
(di circa 55 anni) Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, a gennaio 2015, presso la comunità di Hawarixa (regione Missione Catrimani).
«Ma lui fu ucciso»
«Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del Catrimani] e raggiunse le altre comunità dei nostri avi. In seguito, lo raggiunsero altri e chiamò molti abitanti di questa regione. [Padre Calleri] vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari [un tipo di cinghiale] per lisciare l’arco, […] l’utensile di denti di aguti [un roditore] legato al braccio. […]
Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”. In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli antenati: le donne cuocevano la focaccia di mandioca sulle pietre, grattuggiavano i tuberi di mandioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema, spremevano la polpa di mandioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò: li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui” e i nostri genitori andarono ad aprire la pista di atterraggio. […] Venendo da tutte le comunità, gli Yanomami, insieme, costruirono questa pista. In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i coltellacci che aveva portato con sé da Manaus.
I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri: tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui. Ma lui fu ucciso».
L’epidemia di morbillo
«Questo qui [indicando fratel Carlo Zacquini] era un papà. Aiutò i nostri anziani. Loro piangevano di dolore, ma li soccorse. Molti furono curati. Vedendo che le persone venivano curate, [i nostri anziani] lo chiamarono di xapuri [sciamano/curatore] bianco.
Dissero: “Lui è xapuri bianco, per questo guariamo, recuperiamo la salute”. […]
Nel 1977, quando i nostri genitori morivano nei pressi del fiume Hwaia u, corse insieme alla mamma Claudia (Andujar, fotografa svizzera molto conosciuta per il suo lavoro tra gli Yanomami, ndr), per soccorrerci durante l’epidemia di morbillo. Questi due accorsero per darci ausilio, mentre noi e altri Yanomami ammalati, qui [nell’alto corso del fiume] stavamo correndo [cercando soccorso alla Missione Catrimani]. […]
In quel tempo, quando il morbillo aveva già ucciso molti ed era calata l’intensità dell’epidemia, questi due arrivarono. Ci raggiunsero nella comunità ormai spopolata. Portarono vaccini e medicine contro il morbillo, con i quali – noi che eravamo sopravvissuti – fummo curati e ci ristabilimmo.
A causa di questa situazione [di grave sofferenza degli Yanomami], Claudia e Carlo Zacquini, cominciarono la lotta per la [demarcazione della] terra indigena. Iniziarono questa nuova lotta perché volevano prendersi cura di noi. […] I missionari della Consolata ci aiutarono realmente. Padre Giovanni [Saffirio] corse al Posto indigeno della Funai [Fondazione Nazionale dell’Indio] al Watorik? [Demini], per richiedere il soccorso di un elicottero. […]
Loro hanno inviato [più di una] proposta [di demarcazione] al governo [brasiliano]. [Affermando:] “Il popolo Yanomami è importante”. […] Tutto questo perché potessimo vivere in salute, [continuare a] realizzare le nostre feste reahu, fare le nostre piantagioni, crescere [allevare] i nostri figli».
Testimonianza di PEDRO?YANOMAMI
(di circa 80 anni, comunità di Maamapi)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, in gennaio 2015, presso la comunità di Maamapi (regione Missione Catrimani).
«Noi due moriremo insieme»
«Fratel [Carlo Zacquini] andava a caccia con me, in quella direzione. Noi cacciavamo là tapiri e scimmie. Adesso è anziano. Io sono divenuto anziano, e lui, come me.
[Rivolgendosi a Fratel Carlo che da qualche anno vive a Boa Vista:] Fratello tu tornerai? Vieni di nuovo a visitarci alla Missione. Vieni ad abitare qui di nuovo. Moriremo insieme. Noi due moriremo insieme. [Gli altri Yanomami] realizzeranno il rituale con le nostre ceneri. Se seppelliranno il tuo corpo, tu [in questo passaggio] soffrirai: i bianchi sono irresponsabili, non sanno le cose. Solo se sarà realizzato qui il rituale delle ceneri, andrà tutto a buon fine.
Io ho pensato che sarà bene così per noi, perciò ti chiamo: ritorna qui.
[Fra qualche settimana,] quando realizzeremo la festa reahu, nella mia comunità, visitaci di nuovo. Anche se anziano, danzerai nella mia casa. Noi due anziani danzeremo. Io non vedo più le persone e le cose con i miei occhi, ma ancora posso camminare. Invece, i tuoi occhi scorgono ancora chiaramente: solo io sono immerso in una grande oscurità.
Sento molta nostalgia. Tu hai cacciato e pescato per alimentarmi, perciò ti ricordo, ti conservo nel cuore. Se io avessi occhi buoni, ti visiterei varie volte a Boa Vista, dopo aver volato con l’aereo. Domanderei: “Tu stai bene?”. Questo è ciò che penso».
(a cura di Corrado Dalmonego)
Indigeni e mondo dei bianchi / 1
Esiste una strada per la convivenza?
La storia della Missione Catrimani può contribuire a gettare luce sulle vicende più recenti relative alla conquista dell’Amazzonia e sul modello di convivenza possibile tra indigeni e mondo dei bianchi.
Ci ricorda, ad esempio, che i protagonisti dell’epopea della conquista furono uomini che inseguivano promesse ingannevoli, come quella contenuta nello slogan «terra senza gente, per gente senza terra!», dietro alla bandiera illusoria di un progresso che non sarebbe mai stato per loro. È a questi avventurieri che inizialmente si associarono i missionari per realizzare la propria opera in terra amazzonica, ovvero portare il Vangelo a popoli allora considerati selvaggi e senza Dio.
Benché il suo territorio fosse stato raggiunto dalla «Commissione nazionale per l’ispezione delle frontiere» già nel 1927, nei primi anni ‘60, quando il desbravamento (colonizzazione) del Brasile centrale era già stato completato, Roraima ospitava ancora indios non contattati come i Vaikà (nome dispregiativo dato agli Yanam, sottogruppo yanomami).
I missionari della Consolata, catapultati in quell’ambiente ostile e sconosciuto, non avevano altra scelta se non quella di mettersi al seguito degli «invasori»: come il cacciatore di pelli Joãozinho, che risalendo il rio Ajaraní, aveva «scoperto» gli Yanam e i raccoglitori di gomma che invitarono padre Bindo Meldolesi ad accompagnarli in un viaggio sul rio Catrimani dove avevano individuato gruppi di indios.
Già nella spedizione successiva al Catrimani, organizzata dallo stesso Meldolesi e da padre Calleri nel 1965, i missionari rinunciarono ad appoggiarsi a intermediari «bianchi». Individuata la sede per la missione, i due padri iniziarono a preparare la pista di atterraggio, che sarebbe stata inaugurata nel 1967 con un volo dell’aereo della Diocesi di Roraima, avvenimento documentato fotograficamente da padre Silvano Sabatini, al tempo amministratore della Consolata in Brasile.
In pochi anni, tra il ‘65 e il ‘68, i missionari della Consolata, anche grazie al nuovo metodo di approccio stimolato dal Concilio Vaticano II che li portò alla costituzione della prima equipe diocesana di pastorale indigena del Brasile, la Commissione Pro-Indio (Coprind), passarono dall’idea di integrazione a quella di avvicinamento graduale degli indios alla società bianca, incarnata dal progetto di «pacificazione» dei Waimiri Atroari. Nello stesso periodo, la Coprind elaborò anche un primo progetto di demarcazione di riserve indigene nell’area yanomami, che preludeva a quello di creazione del Parco Yanomami presentato dalla Ong Ccpy nel 1978 e poi ufficialmente approvato nel 1992.
Per Sabatini, allora presidente della Coprind, quello fu il momento d’oro della Consolata a Roraima: la Missione Catrimani venne ampliata con l’invio di due giovani missionari, fratel Carlo Zacquini e padre Giovanni Saffirio e la Commissione avviò una collaborazione proficua con i vertici della Funai, il nuovo organo indigenista appena creato, che però sarebbe durata poco. La realizzazione della Perimetrale Nord, nel 1971, inaugurò l’invasione massiccia del territorio yanomami, aprendo la strada ai cercatori d’oro. L’ambiguità della Funai che soccorreva i superstiti senza cercare di impedire l’invasione (come poi avrebbe fatto nel caso dei Waimiri-Atroari), sfociò in uno scontro aperto con la missione che durò vari anni. Malgrado le pressioni e le minacce della nuova presidenza della Funai, retta per più di un decennio dai militari, l’equipe del Catrimani rimase a fianco degli indios, stimolando il mantenimento delle istituzioni culturali indigene come la maloca e la pratica dello sciamanesimo, tanto che la Conferenza nazionale dei vescovi definì quella di Catrimani come «esperienza missionaria profetica» del Brasile.
Nella storia della Missione Catrimani, padre Silvano Sabatini è stato un protagonista, pur non essendo stato uno specialista di cultura yanomami. Sin dai primi contatti con gli indios, le sue intuizioni sono state segnate da una grande libertà di pensiero e dalla capacità di sospendere il giudizio anche di fronte a pratiche facilmente condannabili – secondo il nostro sistema di valori – come l’infanticidio o la guerra, giungendo a conclusioni radicali e illuminanti per il modo in cui il missionario dovrebbe approcciare contesti culturali altri: «Non ha senso battezzare l’indio fuori dalla comunità… Il missionario deve “essere Cristo” invece di nominarlo…».
Sabatini si è spinto anche oltre. Avventurandosi nel territorio caro agli antropologi, egli ha riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dai leader indigeni (come Gabriel Macuxi e Davi Yanomami) come «mediatori dell’alterità», in quanto figure «di confine» in grado di tradurre la nostra cultura all’interno del proprio gruppo e di operare una rielaborazione della cultura indigena il più possibile rispondente alle esigenze dell’immaginario occidentale dominante, per renderla intellegibile all’esterno e «attuale», garantendole così il diritto di continuare a esistere. E ancora, Silvano Sabatini e la Missione Catrimani hanno dimostrato come solo la piena legittimazione dei valori delle culture altre possa oggi dare nuovo senso non solo alla pratica missionaria ma, più in generale, alla nostra stessa cultura occidentale, che ha bisogno, questa sì, di una «nuova evangelizzazione» se vuole gettare le basi per una convivenza pacifica con l’Altro.
Silvia Zaccaria
Sopravvivranno alle contaminazioni?
C’è qualcosa di inevitabile nella distruzione delle società tribali? Quello che sta accadendo oggi nei territori Yanomami dell’Amazzonia brasiliana – furto delle terre, estrazione indiscriminata di minerali pregiati, sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e della biodiversità – fa sorgere questa domanda. I governi brasiliani e gli amministratori locali di Roraima hanno sempre spiegato (e giustificato) questa situazione come una conseguenza secondaria dello sviluppo e del progresso.
Quando, nel gennaio 2015, sono arrivato a Roraima e a Boa Vista, avevo una sorta di pregiudizio che considerava l’estinzione degli Yanomami come una condizione tragica ma inevitabile.
In effetti, una lotta impari sta portando gli Yanomami a modificare rapidamente la loro esistenza, passando da un isolamento millenario a indossare i nostri abiti, acquistare telefoni di ultima generazione, guardare la tv satellitare nel mezzo alla foresta. Si tratta di un processo di implosione e di «evoluzione sociale» – inconsapevole, incontrollato e forse oscuramente «pilotato»-, che sta modificando e distruggendo tradizioni e abitudini di vita.
La terra è da sempre il cuore del conflitto e dello sterminio del popolo yanomami che, fino a qualche generazione fa, conosceva la nostra esistenza solo grazie ai contatti con i missionari. Uno di loro, tra i pochi superstiti di una generazione probabilmente eroica, è fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata. Da quasi 50 anni Carlo vive a contatto con la realtà indigena e per questo era la miglior guida possibile nell’area del Catrimani. Lungo i percorsi fluviali, durante gli spostamenti tra i villaggi e durante le serate trascorse insieme sotto la tettornia della missione, ho ascoltato dalla sua voce racconti emozionanti di anni vissuti tra gli indigeni, dai primi contatti fino alla costruzione e allo sviluppo della missione. Attraverso i suoi racconti ho ripercorso la storia degli ultimi anni degli indios del Catrimani, le leggende, gli aneddoti, le tradizioni, le difficoltà incontrate e i momenti difficili. Fratel Carlo rappresenta un parte importante della memoria storica degli ultimi decenni del popolo yanomami del Brasile. Un testimone vivente la cui esistenza è stata dedicata alla causa indigena. Parte del lavoro suo e di altri missionari è raccolto e custodito in maniera precaria a Boa Vista. Due piccole stanze – soggette alle intemperie e sotto la minaccia costante dell’umidità e delle termiti – raccolgono anni di immagini, giornali, carteggi, libri, testimonianze, oggetti della cultura yanomami. Un patrimonio inestimabile che, con fatica, fratel Carlo cerca di difendere, preservare e accrescere. Nella speranza che possa diventare un giorno un punto di riferimento per gli indigeni, i giovani missionari, gli studiosi, i ricercatori e la gente comune.
Il mio timore di una lenta contaminazione degli Yanomami ha trovato riscontri concreti durante la mia pur breve permanenza tra loro: operatori dei punti di salute disinteressati alla causa, strutture di supporto e personale inadeguato. Tuttavia, l’aver visto le loro vite integrate con i ritmi della foresta e fatte di straordinaria umanità, mi ha anche aperto la strada verso una più ampia visione del futuro: lottare per la causa Yanomami dando supporto a quanti di loro, attraverso il principio di autodeterminazione e autodocumentazione, si stanno attivando per sensibilizzare altri Yanomami e per cercare di essere preparati ad affrontare le sfide portate dall’invasione occidentale.
Di certo, sono molte le domande senza risposta. Cosa sarà degli Yanomami (come di molti altri popoli indigeni del mondo) in un futuro nemmeno tanto lontano? Cosa possiamo fare noi per contribuire alla loro lotta? Quanti sono a conoscenza della loro esistenza, dei drammi e dei pericoli per la loro stessa sopravvivenza? Da ultimo, cosa sarà delle testimonianze e dei materiali raccolti e custoditi dai missionari?
Daniele Romeo
Il Comitato Roraima (Co.Ro.)
«Nada se compara a Catrimani»
Un medico torinese e un gruppo di volontari, innamorati della realtà indigena brasiliana, hanno fondato un comitato che da anni opera per appoggiare indigeni e missionari.
Durante l’anno Santo del 2000, con la mia famiglia e alcuni amici decidemmo di andare in Brasile, nello stato di Roraima, alla ricerca di padre Silvano Sabatini, un amico missionario che da un po’ di tempo non dava più notizie. Era infatti nascosto perché minacciato di morte, da quando, due anni prima, era uscito il suo libro Massacre, con nomi e testimonianze precise che inchiodavano gli autori del massacro della spedizione in cui fu ucciso padre Calleri (esponenti militari, compagnie minerarie, sette nordamericane).
«Padres ladroes e viados»
Giunti a Boa Vista, capitale di Roraima, subito respirammo il pesante clima di persecuzione nei confronti della Chiesa. La città era tappezzata di manifesti del governo di Roraima e di associazioni di commercianti e agricoltori che attaccavano i missionari per la loro lotta in difesa degli indios: «Una diocesi deve catechizzare e non interessarsi delle terre indigene!»; «La diocesi è nociva alla società di Roraima». Sui muri vistose scritte: «Padres ladroes e viados!», «Padres corruptos!»
Al mattino seguente i missionari ci svegliarono dicendo che c’’era la possibilità per una persona di raggiungere con un piccolo aereo la missione Yanomami di Catrimani, in foresta, dove gli indios avrebbero tenuto una riunione sui problemi sanitari. Ma le speranze appena accese si spensero presto: la piccola pista di atterraggio di Catrimani era allagata e tale sarebbe rimasta per tutta la settimana. Catrimani divenne per noi un mito, una sorta di irraggiungibile Eldorado: tanto più che Carlos, il simpatico factotum della missione, che con un fuoristrada ci accompagnava nei nostri spostamenti, continuava a martellarci, di fronte al nostro stupore per la bellezza della savana o dei grandi fiumi, che comunque «Nada se compara a Catrimani», «Nulla è paragonabile a Catrimani».
Il mio contatto con Catrimani avvenne l’anno dopo, accompagnato da fratel Carlo Zacquini: portavo con me due giornalisti di Famiglia Cristiana perché documentassero le vessazioni a cui gli Yanomami erano (e sono) sottoposti.
Restammo conquistati dall’affetto con cui fratel Carlo, uno dei primi missionari che avevano «scoperto» gli Yanomami, era accolto dagli indigeni, che facevano a gara per abbracciarlo, stringerlo a sé con le lacrime agli occhi per la gioia e la riconoscenza. Fratel Carlo aveva vissuto con gli Yanomami lunghi periodi in solitudine, indio tra gli indios, incurante dei pericoli, del clima umidissimo, di scorpioni, serpenti, giaguari e dei terribili «piun» (le micidiali piccolissime zanzare), della fame, delle malattie (quante volte ha avuto la malaria, e alcune volte anche il coma malarico).
E davvero constatai che «nada se compara a Catrimani». Nulla è paragonabile per il fascino della foresta amazzonica, la bellezza del fiume Catrimani, i meravigliosi pappagalli multicolori che volteggiavano attorno alla missione, l’imponente tucano, i voraci piranha pescati dagli indigeni insieme agli enormi «pesce gatto», l’anaconda, fortunatamente «piccola», che aveva dilaniato la gamba di un giovane yanomami, le cui ferite riuscii a suturare alla meglio poco prima della mia partenza, i canti degli uccelli, le urla delle scimmie.
«Nada se compara a Catrimani» per l’incontro con gli indigeni, che ci accolsero con calore misto a curiosità, e che per noi organizzarono una festa con canti e danze, e l’immancabile frullato di banane. Il sonno della prima notte fu interrotto da urla disperate di uno Yanomami che gridava: «È morto mio figlio! È morto mio figlio!». Quando accorremmo, scoprimmo che gli era morto… il cane, considerato però come un membro della famiglia. In quei giorni ricordo i bambini che si affollavano intorno a me perché fischiettavo bene, cosa che loro non sanno fare. E ancora la paura di quando, uscito con un gruppo di indios a caccia nella foresta, mi attardai un attimo per fare una fotografia e mi ritrovai sperduto tra alberi altissimi, assolutamente incapace di orientarmi: mi misi allora a gridare e altre grida indigene mi indicarono il cammino. Rammento gli sciamani che prima che sorga l’alba, nel tepore dei fuochi della maloca, raccontano i miti della tribù e ricordano a tutti che, se gli Yanomami smettessero di sostenere con la loro preghiera la volta del cielo, questa si schianterebbe sulla terra. La giovane mamma yanomami affetta da mastite che rifiutava la terapia antibiotica da me proposta, perché voleva una mastectomia, confusa notizia arrivatale chissà come dal mondo dei bianchi. E la pazienza di fratel Carlo che si accovacciò accanto a lei (all’uso indigeno), abbracciandola e convincendola, attraverso un lungo colloquio, ad accettare la mia cura, che risolse poi il problema con due sole iniezioni intramuscolo.
Nascita e attività del Co.Ro.
Dopo il viaggio del 2000, dall’indignazione per l’etnocidio in atto e dall’ammirazione per il lavoro dei missionari, nacque il Co.Ro. Onlus, Comitato Roraima di solidarietà con i popoli indigeni del Brasile. Oltre a interventi per altre popolazioni indigene di Roraima (Macuxi, Wapichana, Tuarepang, tra le principali), per la missione di Catrimani il Comitato ha reso possibili numerosi progetti come: la ristrutturazione delle strutture adibite ad accoglienza, ambulatorio e scuola; la foitura di barche per raggiungere le maloche più distanti lungo il fiume Catrimani; l’impianto di pannelli solari che oggi foiscono energia per le attività sanitarie ed educative; la formazione degli agenti indigeni di sanità; la organizzazione di incontri formativi per i leaders delle 24 comunità che afferiscono alla missione; la preparazione di incontri dei tuxaua (capi) per partecipare ad eventi inteazionali in difesa degli indios e sulla possibilità di un’agricoltura ecologica e sostenibile; il mantenimento di un prezioso collaboratore laico, indispensabile motorista, meccanico, carpentiere; il progetto di documentazione audiovisiva sulla storia della missione e sulle sfide affrontate dagli Yanomami. Infine, una curiosità. Non poche difficoltà sorsero tra noi quando ci fu proposto di sostenere un corso di formazione per gli sciamani. Alla fine le perplessità furono superate: i missionari ci aiutarono a comprendere che gli sciamani erano (e sono) insostituibili custodi della tradizione e della spiritualità yanomami.
Catrimani: una missione estrema, con missionari che incarnano concretamente una Chiesa che sta con gli ultimi o, come dice papa Francesco, «con gli scarti, alla periferia del mondo».