India: Intoccabili, ma carne da lavoro

Testo e foto di Mario Ghirardi


Quasi un quarto della popolazione indiana, composta da «dalit» e «adivasi», viene considerata inferiore. Con questa scusa i lavoratori di questi gruppi sono sfruttati in tutti i settori dell’economia e utilizzati per gli incarichi più umili. E la globalizzazione economica ha aumentato le disuguaglianze. Alcuni elementi dallo studio dell’antropologa indiana Alpa Shah.

In India ci sono 2,6 milioni di gabinetti «a secco», ovvero latrine di fortuna, le quali, non avendo acqua corrente disponibile, vengono tenute in efficienza e pulite da oltre 53mila persone, i cosiddetti «scavengers», tramite lavoro manuale. Si tratterebbe di un’attività lavorativa vietata da 25 anni. Quelli citati sono dati ufficiali del ministero competente, sottostimati, perché non tengono conto di chi lavora nel settore ferroviario, dove il numero delle latrine è enorme, né delle 182mila donne che svolgono questa attività nei villaggi rurali (cifre di un censimento relativamente recente), ricompensate con due pezzi di pane al giorno e un pugno di cereali ogni sei mesi. Il pagamento in denaro, pochissimi spiccioli, è previsto in rari casi. I rischi connessi a questa attività sono molto alti: il ministero parla di 300 morti nel solo 2017, ma gli attivisti umanitari citano cifre ben più elevate.

Gli intoccabili

La vicenda potrebbe sembrare la terribile stortura di un sistema specifico di lavoro, invece non è che una piccola fetta di quello sfruttamento indistinto che colpisce due gruppi specifici di persone: i «dalit», gli intoccabili, la classe più bassa nel sistema indiano delle caste, e gli «adivasi», ovvero le popolazioni indigene e quelle tribali, che abitano boschi e zone rurali. Nel complesso si tratta di ben 300 milioni di individui, quasi un quarto della popolazione indiana. Questi uomini e donne sono considerati secondo la religione stessa così sporchi e «inquinanti» da meritare il nome di «intoccabili». Sono quasi ridotti alla schiavitù, perché le poche monete con le quali sono pagati, senza contratti, sia quando lavorano nei campi, sia in miniera, non bastano a restituire i prestiti che spesso si trovano a dover chiedere ai loro datori di lavoro per sostenere le spese necessarie in famiglia per matrimoni, parti, funerali e cure sanitarie. L’incredibile boom economico che l’India ha vissuto dagli anni ’90, quando l’economia è stata liberalizzata, non ha fatto altro che peggiorare questa situazione che dura da secoli. La diseguaglianza è ancora aumentata. Il più recente rapporto dell’Ong Oxfam racconta che l’1 per cento della popolazione ha in mano il 77,4 per cento della ricchezza nazionale e che il 60 per cento più povero ne usa il 4,8. Ottocento milioni di indiani sopravvivono con meno di due dollari al giorno.

Per mitigare le diseguaglianze più atroci, la Costituzione indiana, al momento dell’indipendenza dall’impero inglese nel 1947, pensò di citare direttamente gli adivasi per tutelarli, riservando loro quote nelle assunzioni nella pubblica amministrazione. La situazione oggi è peggiorata, nonostante le statistiche indichino una diminuzione della povertà in termini generali.

Una ricerca per i diritti

La crescita economica quindi, non ha affatto portato vantaggi a tutti, come affermano i globalisti. Per combattere il modello di sviluppo neoliberista, l’erosione dei diritti legati al lavoro, la discriminazione, la repressione del dissenso, l’indebitamento che rende schiavi, l’antropologa Alpa Shah ha condotto un approfondito progetto di ricerca intitolato: «Dietro il boom indiano, diseguaglianza e povertà nel cuore della crescita economica». Partita da Londra, ha iniziato a fare il giro del mondo con conferenze, dibattiti e mostre fotografiche coordinate dal filmmaker Simon Chambers. Vi lavora con un gruppo di ricercatori della London School of Economics e con il geografo sociale Jens Lerche della School of oriental and african studies. Il finanziamento è del Consiglio europeo della ricerca.

«L’obiettivo – racconta Shah nella sua ricerca – è appunto quello di suscitare la massima attenzione sulle condizioni di vita e sfruttamento anche in altre parti della terra, sulla necessità di lottare per i diritti di chi lavora, i diritti sulla terra degli adivasi, popolazioni originarie del subcontinente, colpevoli solo di abitare da secoli nei territori e tra le foreste su cui hanno messo gli occhi le multinazionali, interessate ai ricchissimi giacimenti di carbone, ferro e alluminio e che intendono sfruttare, anche distruggendo l’ambiente, trasferendo gli indigeni, oppure usandoli. Bisogna combattere ogni forma di oppressione e violenza perpetrata nel nome di uno sviluppo falsato: ognuno ha diritto alla sussistenza. Non importa quanto piccoli possano sembrare su scala globale, gli sforzi che si stanno compiendo in questo senso sono significative testimonianze di impegno per un mondo più giusto ed equo».

Nelle piantagioni

I dalit sono reclutati come neppure il peggior caporalato italiano fa e sono licenziabili in qualsiasi momento. Il 92 per cento della forza lavoro indiana non ha alcuna tutela. Sono assegnati loro i lavori più degradanti, logoranti e pericolosi.

I migranti stagionali nel biennio 2016-17 sono stati almeno 140 milioni, e le cifre sono sempre calcolate in difetto.

Nonostante in India sia stata abrogata formalmente la schiavitù nel 1833, continuano le lunghe migrazioni per lavorare nelle piantagioni di tè nel Nord Est del Bengala, nell’Assam e nel Kerala. Se fino al 1833, questi contadini erano addirittura incarcerati per qualsiasi inadempienza contrattuale, oppure puniti corporalmente o abbandonati alla morte per inedia, oggi devono resistere anni per ripagare il costo del loro trasporto e del loro vitto e alloggio nelle baracche fatte di teloni e lastre di eternit, collocate sui dolci declivi delle piantagioni del Sud, ormai diventate anche mete turistiche.

I miglioramenti di condizioni economiche faticosamente raggiunti sono stati recentemente vanificati dalla crisi del settore, tanto che, pochi anni fa, 12mila donne impegnate nella raccolta del tè hanno trovato il coraggio di scioperare, mobilitandosi persino contro il parere dei sindacati, per far rispettare la legge che prevede per loro un lavoro massimo di 9 ore giornaliere.

Lavori al limite

I migranti stagionali sono anche alla base dell’industria delle costruzioni, sia nelle piccole fornaci di mattoni sparse qui e là, sia nei grandi cantieri allestiti per edificare importanti infrastrutture. Il lavoro è molto pericoloso. Arrampicate su precarie impalcature di bambù, senza funi né caschi, oppure trasportando ghiaia e cemento in cestini sulla testa, sono 50 milioni le persone impiegate nel boom edilizio che contribuisce all’8 per cento del Pil nazionale. Le giornate lavorative sono di 12 ore anche 7 giorni su 7, con compensi che non raggiungono spesso neppure il basso salario minimo previsto per legge.

Nei campi di raccolta del cotone la situazione è pressoché identica. Il lavoro di semina, eliminazione delle erbacce e mietitura si svolge sotto un’estrema calura per gran parte dell’anno. Chi ha provato a sottrarsi alla condizione di bracciante acquistando un fazzoletto di terra, non ha ottenuto altro che l’indebitamento per acquistare sementi e fertilizzanti, e per mettere il terreno in condizione di essere irrigato. Data l’impossibilità di risalire la china, visti i recenti crolli del prezzo della materia prima, nel solo 2013 si sono contati 34 suicidi al giorno tra i piccoli imprenditori. La produzione del cotone è infatti oggi crollata in quantità, insieme al prezzo di vendita, a causa del cambiamento climatico in atto che porta piogge torrenziali, e per l’introduzione di sementi geneticamente modificate che non resistono agli attacchi del verme del cotone e obbligano all’acquisto di quantità sempre crescenti di costosi e inquinanti pesticidi.

Nemmeno i dalit che hanno il coraggio di vivere nelle inospitali paludi di mangrovie del Bengala per rifornire di granchi le mense asiatiche, se la passano meglio. Il loro primo nemico è la tigre, animale protetto, che li attacca con frequenza, riproponendo lo stesso conflitto che altri contadini vivono con gli elefanti che si spingono in prossimità dei raccolti. Le foreste di mangrovie hanno poca terra ferma, sono circondate da acque salate che portano periodiche inondazioni in un ambiente peraltro devastato dai cicloni. I granchi sono pagati a prezzi altissimi da chi li consuma, mentre a chi li raccoglie sono riservate poche rupie.

I ricercatori dell’équipe coordinata da Shah e Lerche puntano il dito anche contro l’attività mineraria in mano alle grandi multinazionali che operano senza scrupoli nei confronti dell’ambiente e dei diritti degli indigeni, grazie anche al sostegno rinnovato cinque anni fa dal governo centrale che vuole posizionare l’India come «global hub» di estrazione e lavorazione di metalli. Sotto il manto di foreste dell’India centrale e orientale, abitate dagli adivasi, si nascondono tesori immensi di ferro, bauxite, carbone, rame, grafite, mica, caolino, persino oro e uranio. La gente è evacuata dalla terra degli avi in massa, chi resta lavora in miniera, a piedi nudi impugnando un piccone, con evidenti scarsissime garanzie di sicurezza e salario. Le terre sono espropriate, chi cerca di resistere subisce brutali repressioni. Per le imprese è più conveniente far lavorare gli operai con la sola forza muscolare, anziché investire in costosi macchinari di sgombero terra. Le miniere censite sono oltre 300mila, ma solo lo 0,1 per cento offre minimi standard di agibilità. La produzione di elettricità nel paese per il 70 per cento è affidata proprio al carbone fossile e non ci si stupisce se 14 delle 20 città più inquinate del mondo si trovano in India. Inoltre, le emissioni di gas serra, che costituiscono la causa principale del cambiamento climatico globale, continuano ad aumentare, grazie anche alle acciaierie e alle fornaci produttrici di cemento.

Altri adivasi, in questo quadro di boom economico oppressivo, sono persino costretti a sopravvivere con i miserevoli ricavi prodotti dalle scorie di carbone che recuperano dai cumuli residuali a cielo aperto. Si caricano le schegge sulle biciclette o le trasportano a piedi in sacchi di iuta per venderli a chilometri di distanza. Oppure setacciano con calamite i residui ferrosi scartati durante l’estrazione e cercano di venderli con il medesimo sistema. O ancora, anche in stati sviluppati come Kerala e Tamil Nadu, raccolgono rifiuti nelle discariche e lungo i bordi delle strade selezionando carta, plastica, vetro o metallo già scartato da altri, ricevendo un compenso molto basso.

Del resto, lo sfollamento dalle loro terre espropriate li riduce spesso a dormire per strada, nonostante alcuni abbiano ricevuto in cambio della loro partenza piccolissimi lotti di terra.

«La crescita non va a vantaggio di tutti. Le enormi diseguaglianze sono l’altra faccia della prosperità economica globale», commenta Alpa Shah. Un caso emblematico di come stia progressivamente degenerando la situazione delle comunità più svantaggiate – dicono i ricercatori – è stata la costruzione della mega diga Sardar Sarovar iniziata negli anni ’90 che interessa tre stati centrali, il Maharashtra, il Madya Pradesh e il Guyarat. L’impianto, che comprende decine di altre dighe più piccole, è stato inaugurato solo due anni fa dal premier Narendra Modi dopo sollevazioni popolari di ogni tipo. Manifestazioni che hanno portato addirittura la Banca mondiale a ritirare la sua partecipazione di 450 milioni di dollari al progetto. La diga ha causato il trasloco forzato di decine di migliaia di persone in nome di irrigazione e progetti idroelettrici, senza ricadute benefiche di nessun tipo sulla popolazione locale, che invece ha perso non solo casa e campi da coltivare, ma anche la sua identità culturale e i rapporti sociali. Una spirale che crea ulteriore emarginazione e che non sembra conoscere inversione di marcia.

Mario Ghirardi

Archivio MC


I moti insurrezionali dei Dalit

L’insurrezione armata più lunga

Negli anni ‘70, nel Bengala, gli adivasi iniziarono una ribellione armata che continua ancora oggi. Le tecniche sono quelle della guerriglia, ma la popolazione viene presa in mezzo. Una guerra dimenticata che è costata 7mila morti negli ultimi dieci anni.

I primi moti insurrezionali violenti organizzati per combattere lo sfruttamento e la confisca delle terre agli adivasi scoppiarono negli anni ’70 del secolo scorso in una remota città del Bengala settentrionale e proseguono ancora oggi, tanto che questa pare essere la lotta rivoluzionaria armata più lunga al mondo.

L’antropologa sociale Alpa Shah ha studiato a lungo questi moti, descrivendoli in numerosi saggi e in un volume pubblicato in Italia da Edizioni Meltemi con il titolo «Marcia notturna». La ricercatrice ha studiato il fenomeno a partire da un villaggio dello stato del Jharkhand divenuto roccaforte della guerriglia. Qui si concentrano infatti le mire di sfruttamento delle risorse minerarie da parte delle multinazionali. Mire che portano con sé anche la distruzione delle foreste e degli habitat tipici degli adivasi, sino ad allora completamente ignorati dai governi centrali. Vivono in villaggi che non hanno mai conosciuto elettricità, scuole e assistenza sanitaria.

Il risultato è che, dopo la prima insurrezione di ispirazione maoista e marxista leninista, il governo ha etichettato i rivoltosi come maoisti e dà loro una caccia spietata da almeno una dozzina di anni, ovvero da quando le foreste dell’India centrale e orientale sono pattugliate con continuità dall’esercito e da corpi specializzati che li combattono usando le loro medesime tecniche. Da un lato i guerriglieri cercano di farsi amiche le popolazioni abolendo le oppressive gerarchie di tribù e casta, dall’altra squadre di vigilantes puntano a mettere gli adivasi gli uni contro gli altri, con conflitti locali che degenerano in spedizioni punitive contro i villaggi che spesso finiscono dati alle fiamme.

Sull’altro fronte i guerriglieri vogliono stanare i militari e li attaccano facendo saltare con bombe i loro mezzi e uccidendo coloro che ritengono informatori della polizia. Questi rispondono con azioni altrettanto violente contro chi dà ospitalità ai rivoltosi. Ai morti negli scontri a fuoco, secondo alcune fonti, stando sempre a quanto riferiscono i pochi giornalisti e avvocati per i diritti umani che riescono ad entrare in quelle zone, si devono aggiungere anche quelli uccisi durante la prigionia e che vengono fatti passare come vittime in battaglia. Alla fine, delle circa 7mila persone che si stima abbiano perso la vita in questi conflitti nell’ultimo decennio, il 40 per cento sono civili, con il resto suddiviso tra guerriglieri e militari. Altre 7mila persone, secondo i dati del South Asia Terrorist Portal, si sarebbero arrese e 8mila sarebbero state arrestate.

M.G.




A mani nude

 

Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.
Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.

I Valmiki, fuori casta, sembrano avere il destino segnato. Vuotare le latrine private. Qualcuno cerca di opporsi e liberarli da una vita tra le più degradanti. Ma la tradizione è più forte della legge. E della religione. Reportage dall’India.

Fino al matrimonio, Meena non era mai stata del tutto cosciente di essere una Dalit, ovvero un’intoccabile. Per l’esattezza, una Valmiki, cioè membro di un gruppo di fuoricasta che occupa i gradini più bassi nell’intricata gerarchia sociale induista. Lo erano i suoi genitori, ma lei si era sempre presa cura dei fratelli minori e non li aveva mai seguiti nei loro giri mattutini.

Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto
Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto

Una volta diventata madre, ha cercato lavoro, ma ha scoperto che non c’erano possibilità per una Valmiki come lei, se non pulire latrine. Per 15 anni, ogni giorno, ha così percorso le strade di Ramnagar, un sobborgo alla periferia Est di Nuova Delhi, reggendo sulla testa una cesta di vimini traboccante di escrementi umani. Lavorava per dieci famiglie della zona e cominciava il suo giro all’alba. Le facevano trovare la porta posteriore aperta. Lei si dirigeva in silenzio verso la latrina di casa e raccoglieva le feci aiutandosi con una scopetta o, a volte, a mani nude. Poi si spostava in un’altra casa. A fine mattina, svuotava il contenuto della cesta in una fogna aperta.

In cambio, ogni famiglia le versava 20 rupie al giorno (meno di 50 centesimi di euro, ndr), ma non sempre. A volte pagavano in ritardo, altre non pagavano affatto. Ma tutti le lanciavano i soldi a distanza.

La prima volta

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Il primo giorno lo ricorda bene. Il tanfo proveniente dalla sua stessa pelle le ha aggredito le narici, lei ha provato a reprimere i conati di vomito, ma invano. Le vertigini l’hanno sopraffatta, e il contenuto della cesta le si è riversato addosso. I passanti le giravano al largo, guardandola furtivamente e procedendo oltre. Trattenendo il respiro fin quasi a soffocare ha raggiunto una pompa d’acqua nel cortile di una casa. Alle prime gocce spillate, è sbucata la padrona, che le ha urlato contro. «Quella donna apparteneva alla casta dei Brahmini, e quella era l’acqua con cui lavavano il tempio», ricorda oggi Meena. «Una come me l’avrebbe contaminata».

Come lei, secondo un rapporto del 2014 di Human Rights Watch, esistono tuttora nel paese almeno 300mila famiglie. Donne e uomini che sopravvivono con la pratica della raccolta manuale di rifiuti umani, nota come «manual scavenging». E questo nonostante una legge approvata dal parlamento indiano nel settembre 2013 l’abbia messa al bando, e una sentenza della Corte suprema del marzo 2014 abbia richiamato gli stati indiani a far rispettare la legge e ad avviare programmi di «riabilitazione» per i raccoglitori manuali.

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Secondo Bezwada Wilson, fondatore e leader di Safai Karmachari Andolan (Ska), un’organizzazione che si batte per l’eradicazione della pratica della raccolta manuale, le leggi non bastano. «L’India si muove sempre in due opposte direzioni: il rispetto della Costitutione e la nostra cultura. E quest’ultima ruota attorno al sistema delle caste, che permea tutta la società indiana».

Figlio di raccoglitori manuali lui stesso, Bezwada ha abbracciato la battaglia contro la discriminazione di casta dopo aver letto «L’abolizione delle caste», un pamphlet scritto da Br Ambedkar nel 1936.

Oltre le caste

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Una foto del primo intellettuale dalit indiano campeggia nell’ufficio di Bezwada, a Nuova Delhi, e in case dalit in tutto il paese. Il tema delle caste è stato al centro di una polemica, cruciale per le sorti dell’India, che Ambedkar, sconosciuto all’estero, ebbe con il ben più noto Mahatma Gandhi. Per quest’ultimo le caste erano il collante della società indiana, mentre per il primo cristallizzavano le strutture di potere, legittimando sopraffazioni e abusi.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.

Negli ultimi decenni, personalità dalit sono emerse nella politica indiana, ma le violenze di casta continuano, e i dati, quelli noti per lo meno, sono raggelanti: secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche sul crimine, tredici Dalit sono assassinati ogni settimana, e almeno quattro donne dalit sono stuprate da membri di caste superiori ogni giorno. «Lo stupro di una donna dalit non è sempre percepito come un crimine», spiega Bezwada. «Per alcuni uomini di casta superiore, stuprare una Dalit è addirittura un modo per purificarla».

Soprattutto nel Nord dell’India, i Dalit sono associati ad attività che hanno a che fare con la materia organica, residuale: tagliano i capelli, trattano i cadaveri, conciano le pelli, puliscono latrine.

La raccolta manuale dei rifiuti umani è l’aspetto più evidente che alimenta l’intoccabilità, attraverso il contatto con liquami impuri che grondano tra i capelli, impregnano gli abiti, scivolano sulla pelle. La questione dei raccoglitori manuali s’intreccia così sia con la condizione dei fuoricasta che con le problematiche dell’igiene.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), circa la metà della popolazione indiana pratica ancora la defecazione all’aperto. Nelle aree rurali e nelle baraccopoli urbane, dove mancano fogne e fosse asettiche, le famiglie usano latrine a secco o le cosiddette wada, aree comunitarie che richiedono una pulizia manuale. Quando nel 2014, Narendra Modi è stato eletto primo ministro, ha annunciato una campagna nazionale per modeizzare la situazione sanitaria indiana. Da allora, le amministrazioni locali hanno messo a disposizione della popolazione dei fondi per l’acquisto di articoli sanitari. Ma sono molte le famiglie in povertà che riscuotono il contributo senza però cambiare le proprie abitudini igieniche, e continuano ad affidarsi ai Valmiki.

Puro e impuro

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Secondo l’antropologo Assa Doron, non è solo una questione di latrine: la dicotomia tra puro e impuro è alle fondamenta dell’induismo. La pratica dei raccoglitori manuali appare difficile da sradicare perché crea, attraverso la degradazione e l’umiliazione dei Valmiki, la base materiale della rigida piramide sociale induista. Ma la religione è solo una delle lenti attraverso cui osservare il fenomeno.

A Durga Kund, un sobborgo di Varanasi, cuore della spiritualità induista, lo conoscono tutti come Safai Basti, il quartiere dei raccoglitori manuali. L’agglomerato di case basse sorge a poca distanza dal tempio principale, celebre per l’intonaco rosso fuoco che si staglia sul cielo dell’Uttar Pradesh, ma è distinto dall’abitato circostante come un’isola in mezzo al mare. Su quasi la metà delle centinaia di abitazioni spicca una croce. Molti dei Valmiki che vivono nella baraccopoli ammettono che, con la conversione al cristianesimo, speravano di sfuggire ai propri obblighi di casta. Come Saroch, oggi 40enne, rimasta orfana quando aveva 14 anni.

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attività di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Racconta di aver provato a ribellarsi, rifiutando di seguire le orme dei genitori, ma nella comunità cominciò a circolare la voce che praticasse la magia nera. Si avvicinò così a una chiesa evangelica, immaginando che abbracciare una nuova fede avrebbe cambiato la sua vita. E invece rimase una Valmiki anche tra i nuovi confratelli cristiani, incapace di scrollarsi di dosso la sua identità di casta e trovare un lavoro diverso.

Inoltre, essendosi convertita, perse anche il diritto ad accedere al sistema di quote previsto nell’amministrazione pubblica per i Dalit. Saroch, anche se cristiana, riprese in mano la cesta di vimini dei genitori.

Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Il sistema delle caste che plasma il presente e il futuro dei Valmiki va così oltre l’induismo: riguarda anche cristiani, musulmani e, in misura minore, buddisti. È stato addirittura rinvigorito dall’apertura del paese al libero mercato. Come spiega Ramesh Nathan, segretario generale del Movimento nazionale dalit per la giustizia, l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 ha creato un sistema di appalti che premia gli imprenditori capaci di tagliare al massimo i costi. Un caso esemplare è quello della rete ferroviaria indiana, un gigante di 65.000 km su cui 14.300 treni trasportano 25 milioni di passeggeri ogni giorno. Gli scarichi l’hanno resa la latrina a cielo aperto più grande del mondo. Per ripulire i binari, le società private impiegano la manodopera più economica sul mercato: gli uomini valmiki. La servitù di casta si sposa così con la logica neoliberista.

Difficile uscie

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Per le donne valmiki, impegnate soprattutto nella pulizia di latrine in case private, Ska ha avviato dei programmi di sostegno economico. A Ghaziabad, un villaggio a Nord di Delhi, una trentina di donne cuciono borse vendute nel circuito del commercio equo e solidale. L’età è varia, ma condividono esperienze simili. C’è chi ha praticato la raccolta manuale dall’adolescenza e chi ha cominciato dopo il matrimonio perché così faceva la famiglia del marito. Hanno abbandonato da poco l’attività ma molte continuano a soffrire l’umiliazione degli avanzi di cibo lanciati in una busta, o dell’acqua negata, o della loro stessa identità ridotta alle ceste che trasportano sul capo.

Nelle manifestazioni organizzate per richiamare l’attenzione del governo sul dramma delle donne valmiki, quelle ceste hanno alimentato dei falò, ma c’è chi non esclude la possibilità di tornare al lavoro di raccoglitrice manuale: anche chi si dice felice della nuova attività non riesce a liberarsi dal timore di essere prigioniera di un destino già tracciato.

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Lo stesso fatalismo è espresso da Leela, che abita a pochi passi dalla casa in cui Meena vive con il marito e una figlia a Ramnagar. «Perché non sono riuscita a trovare un altro lavoro? Forse perché non era destino». Continua a pulire latrine nella zona, aiutata talvolta dalla figlia e dal figlio, mentre il marito lavora per una società che si occupa della manutenzione delle fogne. Un tempo si accompagnava a Meena, ma da un anno Meena ha preso un’altra strada: grazie all’aiuto di Ska ha ricevuto un risciò elettrico per il trasporto passeggeri. Leela nota che la vita di Meena è cambiata: sembra più sicura di sè e, anche se continua a subire discriminazioni, non ha più paura. «Dopo aver bruciato la sua cesta di Valmiki – dice Meena – non è certo il traffico di Nuova Delhi a spaventarmi».

Gianluca Iazzolino


Gianluca Iazzolino, africanista, è collaboratore di MC. | Eloisa d’Orsi, fotogiornalista freelance, collabora con diverse testate. I suoi ultimi lavori riguardano le frontiere in area Schengen (www.eloisadorsi.com).