«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




RICORDANDO CARLO URBANI (1): Le malattie dimenticate


Nei paesi del Sud del mondo l’accesso alla salute – farmaci, acqua, alimentazione, servizi igienici, istruzione – è ancora un miraggio per la maggioranza della popolazione. In favore di questo diritto negato ha lavorato ed è morto Carlo Urbani.

Nel 2001 nel mondo 18,4 milioni di persone sono morte per malattie infettive/parassitarie, malnutrizione e cause perinatali, la maggior parte di queste nei paesi in via di sviluppo. La maggioranza di queste morti sono dovute a patologie prevenibili e curabili con farmaci e precauzioni igieniche che in Italia sono accessibili a tutti.
È uno scandalo che nel 2003 ancora 1 milione e mezzo di persone siano morte di malaria nonostante ci siano farmaci antimalarici efficaci, e che su 6 milioni di persone affette da Aids nei paesi in via di sviluppo, solo 400.000 abbiano accesso alle cure appropriate. L’accesso alla salute non è solo accesso ai farmaci essenziali: significa anche accesso ad acqua potabile, a latrine e servizi igienici, a scuole ed istruzione, alle cure materno-infantili, ad un’alimentazione sufficiente.
Le disuguaglianze dei paesi con limitate risorse pesano sulla coscienza di tutti: meno del 50% della popolazione ha accesso ai farmaci essenziali, i medici sono al di sotto di dieci per 100.000 abitanti (in Italia sono più di 500), meno dell’uno per mille della popolazione ha accesso ad Inteet (in Italia sono più di 250); il costo dei farmaci nei Paesi poveri, a parità di potere di acquisto, è più elevato che nei paesi industrializzati; la mortalità infantile e quella matea sono 100 volte più alti.

Carlo Urbani ed i medici tutt’ora impegnati nello sviluppo della salute pubblica nei paesi del sud del mondo hanno scelto di lavorare in questa realtà. È uno scenario che è riduttivo descrivere, fatto di sensazioni forti, di silenzi e di spazi immensi, di colori violenti e di odori, di insanabili contrasti, di fatica quotidiana, di contatto continuo con morte e malattia, di ritmi e valori spesso dimenticati nella nostra vita frenetica, consumistica e stressante. Sono sensazioni che solo se vissute e condivise possono essere comprese. Dopo la prima esperienza in Africa sub-sahariana ricordo di aver sofferto della impossibilità di comunicare impressioni, momenti di lavoro, e rapporti umani che hanno profondamente cambiato la mia vita.
Condizione primaria del lavoro in quei paesi, e non solo in ambito sanitario, è sapersi distaccare in maniera critica dalla nostra società occidentale, spesso creduta impropriamente depositaria di cultura superiore e di regole tali da poter essere imposte a gente «sottosviluppata». Lavorando nel terzo mondo ci si accorge che invece l’Occidente oggi è pervaso da una cultura del piacere «facile», volta ad ottenere molto in tempi brevi, prodiga di sicurezze, dove si ha troppo del superfluo, dove il tempo è sempre tiranno, e dove si è condizionati a produrre incuranti del prodotto, senza avere il tempo di guardarsi intorno, di ascoltare e capire in quale direzione stiamo camminando.
Nei paesi in via di sviluppo anche la realtà della morte è vissuta nel senso dello scorrere del tempo ed è mitigata da una grave serenità e da una grande partecipazione al lutto della famiglia allargata. La percezione della morte nella civiltà dei consumi è invece carica di angoscia, è un tabù che si cerca di esorcizzare attraverso paradisi artificiali e cure per l’eterna giovinezza.
Fondamentale diventa poi la dimensione dell’ascolto, il saper condividere il ritmo lento e rilassante, ma non pigro, della vita africana, saper percepire la ricchezza nascosta nella semplicità degli affetti, nel valore dell’ospitalità e della dignità umana. E, d’altra parte, ci si rende conto di essere dei privilegiati, di avere la pelle di un colore che crea una barriera spesso insuperabile nei rapporti con la gente locale.
Bisogna sapere accettare questa differenza ed essee consapevoli per non offendersi della discriminazione, a volte pesante, della gente del luogo dettata da anni non troppo lontani di colonialismo e sfruttamento, e dal neocolonialismo attuale impersonato dall’immagine del ricco turista italiano che va in vacanza in un villaggio turistico di Zanzibar o delle Maldive con l’arroganza della superiorità dettata dal potere economico e con l’ignoranza della cultura locale.

La professione del medico comporta competenza, pazienza, creatività e disponibilità umana, doti che dovrebbero essere applicate in qualsiasi ambulatorio medico di una grande città industriale, ma che in Africa vengono riscoperte come valori essenziali, senza i quali è impossibile svolgere il proprio lavoro.
Si riscopre il valore della visita accurata del paziente, imposto dall’assenza della gran parte di esami diagnostici disponibili nella medicina occidentale. Si deve «costruire» a volte una diagnosi credibile, e bisogna saper gestire con abilità i pochi farmaci disponibili. Si lavora in condizioni logisticamente disagiate: spesso senza disponibilità di acqua corrente, e con scarsa e saltuaria elettricità. Ci si adatta con lampade a cherosene, quando possibile con generatori, si utilizza acqua di pozzo o piovana raccolta in cistee.
Spesso ci si scontra con dubbi e domande alle quali non si riesce a dare una risposta. La disponibilità limitata di risorse porta a confrontarsi con scelte di priorità anche dolorose in cui l’etica professionale viene messa a dura prova. Devo utilizzare risorse per fare operare al cuore un bambino cardiopatico con un intervento salvavita, oppure lasciarlo e curare invece, con le stesse, mille suoi coetanei esposti alla malaria?
L’interesse si sposta dalla medicina individuale, curativa, alla medicina di comunità, soprattutto preventiva. Si interagisce con sistemi sanitari dotati di un grande potenziale e si sente di avere il potere di incidere sulle politiche sanitarie locali. Inoltre si ha la potenzialità di insegnare la professione medica al personale sanitario locale, con attenzione ed adattamento alla realtà e alle risorse del luogo, promuovendo l’uso di tecnologie appropriate e interventi di controllo delle malattie avendo come primo obiettivo il minor rapporto costo/beneficio. La formazione del personale locale è il cardine della sostenibilità di un intervento sanitario di cooperazione che deve essere sempre rivolto a creare una condizione di indipendenza e di autonomia.
Queste sono le immense soddisfazioni professionali che gratificano e largamente compensano la rinuncia a tante sicurezze, a molte comodità, al sacrificio di affetti familiari, al rischio di malattie o incidenti pagati in prima persona. Non si raccontano quasi mai i momenti di profonda solitudine, le lacrime di rabbia, la frustrazione nello scontro con la corruzione, l’ignoranza e l’indolenza umana. Sono però anche questi aspetti ingredienti che, come il sale, danno un sapore più vero all’avventura degli operatori sanitari nei paesi in via di sviluppo.

Vivere nel mondo delle malattie dimenticate è, per chi accetta questa sfida, un’esperienza professionale ed umana che apre, a volte dolorosamente, gli orizzonti; che cambia chi ha il coraggio di esporsi; che fa innamorare di questo mondo chi sceglie di lavorarci e particolarmente i medici che più di altri hanno il privilegio di constatare, capire, testimoniare e, qualche volta, alleviare o risolvere l’assenza di salute. •

“CARLO, AMICO E COLLEGA”

Carlo Urbani è l’autore del libro, che Feltrinelli mi ha chiesto di curare. Non è una biografia: sono i suoi scritti e le sue riflessioni sviluppati negli ultimi 10 anni di lavoro e di viaggi.
Con questo lavoro ho avuto l’opportunità di restituire la memoria di Carlo per quello che lui era veramente: un uomo e un medico capace e generoso. Il libro raccoglie riflessioni sulla povertà e assenza di salute delle comunità nelle quali Carlo lavorava, soddisfazioni professionali, descrizioni di luoghi e di persone incontrate, di emozioni provate. Carlo era anche un ottimo fotografo ed un discreto scrittore (come dimostrano anche gli articoli pubblicati in Come sta Fatou?, la rubrica da lui inventata per la rivista Missioni Consolata). Aveva il talento di saper comunicare la sua passione attraverso parole ed immagini; leggendo le sue lettere si ha l’opportunità di apprezzae l’entusiasmo, la curiosità, l’intelligenza e sensibilità, la capacità di individuare problemi e proporre soluzioni. Ne emerge la sua voce e, posso dire con soddisfazione, un’immagine molto vicina a quella dell’amico e collega che ho perduto, sicuramente diversa da quella del «martire della Sars», immagine mitizzata e per un certo verso riduttiva, che i media ci hanno trasmesso quando la sua curiosità ed il suo entusiasmo sono stati fermati da un incidente di percorso.
La Sars (una malattia in realtà non troppo contagiosa, un’epidemia assai meno importante in termini di mortalità – solo 800 morti – rispetto per esempio all’epidemia di «spagnola», che molti ancora ricordano, o alla malaria e tubercolosi che fanno ciascuna ancora 1 milione e mezzo di morti all’anno) ha acceso i riflettori sull’epilogo della vita di un uomo non comune. Quell’«incidente» ha fatto sì che gli venisse rivolta, pur tardivamente, l’attenzione che da anni meritava per il suo lavoro silenzioso di lotta alle malattie «dimenticate», per garantire il diritto alla salute anche alle popolazioni dei paesi più poveri. I suoi scritti permettono di capire un po’ di più del lavoro e del punto di vista di molti altri, medici e non, che ben al di là della retorica considerano una priorità ragionare e cimentarsi con le scandalose disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo.

Un altro motivo che mi ha spinto ad accettare di curare questo libro è stata la possibilità di divulgare anche ai non addetti ai lavori, le problematiche di salute pubblica e di medicina sociale che Carlo, molti altri colleghi ed io stesso affrontiamo, per stimolare l’interesse alla conoscenza di questi argomenti e possibilmente la condivisione di queste sfide.
Scegliendo e mettendo in ordine gli scritti di Carlo mi sono reso conto di quanto la sua storia personale si sia arricchita progressivamente. La sua vita professionale inizia in medicina generale in un paese di provincia, Castelplanio. Infettivologo e tropicalista, viaggiatore si appassiona a problemi di salute internazionale. Lavora poi come medico ospedaliero e volontario in brevi missioni sul campo, sino alla scelta definitiva di intraprendere la carriera internazionale come responsabile nel Sud-est asiatico del controllo delle malattie trasmissibili. L’epilogo della storia di Carlo è segnato sia dalla sua passione originaria per la medicina individuale che dalle sue doti di medico di sanità pubblica: non è una coincidenza che proprio lui sia stato chiamato a consulto al letto di un paziente con polmonite atipica, sul quale intuirà il potenziale di quella malattia sconosciuta. Lascerà temporaneamente il suo ufficio all’Oms di Hanoi, i suoi parassiti e le malattie per noi dimenticate per infilarsi il camice e dedicarsi con intelligenza e curiosità alla nuova malattia della quale riuscirà in brevissimo tempo a capire abbastanza da bloccarne l’epidemia trascurando, nell’entusiasmo, di pensare anche a salvaguardare la sua persona. Non per rischio calcolato ma per coerenza a saldi principi di etica e passione scientifica. Carlo era fatto così. Dalle sue lettere emergono riflessioni su temi scottanti e di grande attualità (la globalizzazione, il diritto e l’accesso alla salute, i farmaci essenziali, il dovere di lotta alla povertà, la ridistribuzione delle risorse, la tolleranza, le diseguaglianze – non solo di salute – tra il Nord ed il Sud del mondo).

Il libro parte dalla prima esperienza in Mauritania, nel 1993, dove io incontrai Carlo per la prima volta. Era l’epoca dei suoi viaggi in Africa occidentale, durante i quali, con occhio esperto e sensibile, aveva individuato la possibilità di intervenire per arginare un’epidemia di parassiti intestinali e malaria che si era manifestata in seguito alla costruzione di una diga sul fiume Senegal. Carlo coinvolse subito il ministero della sanità del paese e richiese il sostegno tecnico all’Oms. Contemporaneamente coinvolse il suo ospedale e propose un gemellaggio con le scuole del suo paese.
Segue la sua esperienza di lavoro in Cambogia per Medici senza frontiere (Msf), dove era responsabile del controllo della schistosomiasi, trasmessa dalle acque del fiume Mekong.
Al rientro in Italia, nell’ospedale di Macerata dove era aiuto di malattie infettive, Carlo diventa presidente di Msf, lavorando per incrementare la collaborazione tra il mondo ricco occidentale e quello povero. Esempi di questa attività extraospedaliera sono la campagna per l’accesso ai farmaci essenziali e la lotta alle multinazionali del farmaco che badano al profitto invece che alla salute della gente. Va ricordato che 3.000 persone al giorno muoiono di malaria e 8.000 di Aids solo perché non hanno accesso a terapie disponibili in qualsiasi paese occidentale.
Altro esempio di ricerca di contatto tra Nord e Sud è il corso avanzato di medicina tropicale organizzato a Macerata nel marzo 2000, a cui parteciparono una quarantina di medici ed infermieri, la metà dei quali provenienti da paesi del Sud del mondo. Questa esperienza (straordinaria anche perché indipendente dalle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche e dalle università) ci ha permesso di gestire borse di studio ottenute da privati per merito del carisma di Carlo; borse che hanno permesso la partecipazione e la formazione di medici che poi sono tornati ad operare nei rispettivi paesi.

L’ultimo capitolo del libro tratta della scelta definitiva che Carlo Urbani fa nel 2000: accettare l’incarico di esperto di malattie parassitarie dell’Oms ad Hanoi, in Vietnam. In questa scelta coinvolge tutta la famiglia, a dimostrazione di un progetto di vita ampio che ha risvolti importanti sull’impostazione dell’educazione e della vita dei figli. Ad Hanoi, come alto funzionario delle Nazioni Unite, si rende conto di avere l’opportunità di incidere sulle politiche sanitarie nazionali per migliorare lo stato di salute di intere popolazioni con interventi strategici a basso costo. Carlo ha grandi soddisfazioni nel suo nuovo lavoro e si applica con la consueta passione ed impegno. Il 28 febbraio 2003 viene chiamato a visitare il signor Chen, paziente affetto da polmonite atipica, poi riconosciuta come Sars, che infetta ospiti e collaboratori dell’ospedale francese di Hanoi dando inizio all’epidemia. Carlo intuisce la gravità della situazione e lancia l’allerta mondiale. Scrive lucide e dettagliate relazioni per Ginevra e Atlanta. Convince le autorità vietnamite a chiudere l’ospedale, ad istituire la quarantena e a bloccare i voli ed il rilascio del visto, pur in presenza di pesanti risvolti economici per il paese. Contrae la Sars. L’11 marzo viene ricoverato a Bangkok, dove muore 18 giorni dopo. È il 29 marzo del 2003.

Marco Albonico

I dati delle malattie dimenticate (2001)

Malattia: DALYs* N. Morti

Aids 88.500.000 2.900.000
Cause perinatali 98.400.000 2.500.000
Diarree 62.500.000 2.000.000
Elminti Intestinali 39.000.000 135.000
Filariasi 5.600.000 0
Infezioni respiratorie
acute 94.000.000 4.000.000
Malaria 42.000.000 1.500.000
Malnutrizione 33.000.000 500.000
Morbillo 26.500.000 750.000
Schistosomiasi 4.500.000 200.000
Tubercolosi 36.000.000 1.600.000

* Disability-adjusted life years (numero di anni di vita «in salute» persi)
Tabella riportata in «Le malattie dimenticate», Feltrinelli 2004.

Marco Albonico




RICORDANDO CARLO URBANI (2):Il reporter di Missioni Consolata

L’incontro tra Carlo Urbani e la nostra rivista
rievocato in un capitolo del libro «Il medico del mondo».

Nel gennaio 1999, sulla rivista Missioni Consolata edita a Torino, appare una nuova rubrica, «Come sta Fatou?», curata da «Carlo Urbani, specialista in medicina tropicale».
L’incontro fra Carlo Urbani e la rivista Missioni Consolata avviene per caso. Paolo Moiola, classe 1960, abitante a Rovereto, era collaboratore della rivista – ne diventerà poi redattore capo – per i problemi del Sud del mondo. «Ho incontrato Carlo Urbani durante un viaggio nel Nord dell’India organizzato da Globetrotter di Trento nell’agosto 1988. Lui era il capogruppo. Ventidue giorni indimenticabili. Carlo era assieme a sua moglie Giuliana e come tutti noi voleva conoscere questo pezzo di terra fuori dagli schemi e dagli itinerari turistici. Di organizzato, in quel viaggio, c’erano soltanto i voli di partenza e di ritorno. Per il resto siamo andati all’avventura, su un piccolo pullman guidato da un sikh».
Ci sono piccoli episodi che restano nella mente. «Durante quel viaggio mi sono preso un’infezione alla mano, per il graffio involontario di un bambino troppo ansioso di ricevere una moneta. L’infezione si è estesa a tutto il braccio. Carlo Urbani mi ha tagliato e ripulito. Per fortuna c’era lui, in quel viaggio lontano da ospedali e sale operatorie. Da quando l’ho conosciuto, non è mai cambiato. Appassionato, ironico, generoso e anche curioso, fin troppo. Nei villaggi entrava nelle case o nelle capanne e chiedeva di assaggiare ciò che bolliva in pentola. E alla fine del viaggio si è preso la febbre tifoidea. Lo ricordo a Katmandù, davanti a un albergo, tremante di febbre. Lui era a letto, ma c’era stata una scossa di terremoto ed eravamo scappati tutti fuori. Pioveva a dirotto, cercavamo di ripararci in qualche modo. E lui cercava di sorridere. “Ecco” diceva “va tutto bene. Ho la febbre, c’è stata la scossa, sono qui che tremo. Bella vacanza”».
Già allora, anche dopo un viaggio turistico, Carlo Urbani ha voglia di raccontare la propria esperienza. Lo fa su un foglio riservato a pochi lettori, coloro che hanno partecipato ai viaggi di Globetrotter. E già in questo primo racconto (il titolo è «Da un viaggio nel Rajastan») si comprende che Carlo Urbani non riesce mai a essere soltanto un turista. (…)
L’amicizia fra Carlo Urbani e Paolo Moiola, iniziata durante quel viaggio, non è mai finita. «Quando sono entrato nella redazione di Missioni Consolata gli ho chiesto di tenere una rubrica per noi. Lui era già in giro in missione per Medici senza frontiere, ci serviva qualcuno che raccontasse i problemi della salute nel Sud del mondo. Ci abbiamo messo mesi, per trovare il titolo.
Quelli che proponevo io non andavano bene a lui, quelli che venivano in mente a lui non piacevano a me. Alla fine ha proposto: “Come sta Fatou?”, pensando al nome di un bambino africano. Io ho proposto di aggiungere, per spiegare di cosa si trattasse: “Viaggio fra malattie e sottosviluppo”, e finalmente abbiamo trovato il titolo.
Quando è partito per il Vietnam, come dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità, sulla rivista abbiamo annunciato che avrebbe continuato a scrivere la sua rubrica per noi. Ma non è andata così. Mi ha spiegato che, come alto funzionario dell’Oms, non avrebbe potuto portare avanti la sua denuncia contro le multinazionali dei farmaci, contro chi fa le proprie scelte pensando soltanto al profitto. “Non potrei essere così chiaro e netto come in passato, meglio sospendere la mia collaborazione”». (…)
Per ricordare il medico di Castelplanio, Missioni Consolata ha istituito anche un «premio annuale Carlo Urbani», per unire «la professione di medico con quella del giornalista», riservato ai laureati in medicina e chirurgia e odontorniatria. «I partecipanti dovranno cimentarsi in articoli divulgativi – cioè comprensibili da parte di tutti – su tematiche sanitarie riferite a paesi o situazioni del Sud del mondo».
I due vincitori – il mondo ha bisogno di altri Carlo Urbani – andranno a lavorare per qualche mese in ospedali africani.

“CARLO, CONRO LE INGIUSTIZIE”

«Quando verrete là» diceva «capirete di essere una nullità. Una goccia d’acqua nel deserto. Ma capirete quanto quella goccia sia necessaria». In queste parole, con cui Carlo Urbani descriveva il suo lavoro a servizio degli altri nei posti più poveri del mondo, si può concentrare il significato di questo libro. Nessuna affermazione di eroismo o di diversità, ma un’interiorizzazione completa e armonica di un mettersi al servizio degli altri.
Tutto questo in modo assolutamente normale, portando avanti insieme i rapporti familiari, il lavoro professionale, le relazioni con gli amici e una vita spirituale intensa e riservata. Una generosità straordinaria ma anche una normalità straordinaria, come dimostra la gerarchia di valori sempre presente in tutte queste pagine che illustrano la sua vita. Non vi è posto per l’esibizione (nemmeno per l’esibizione del coraggio) ma vi è sempre spazio e tempo per dedicarsi caparbiamente al proprio sogno, che è diventato missione di tutta una vita.
E questo sogno era molto semplice: «Distribuire accesso alla salute ai segmenti più sfavoriti della popolazione». Intendendo per popolazione il mondo intero. Per questo lo vediamo muoversi per l’Africa e per l’Asia, ora assistendo direttamente i malati ora organizzando le strutture necessarie per questa assistenza. Ed è anche singolare che la passione di curare direttamente gli ammalati sia accompagnata da un’uguale passione espressa per le complicate procedure necessarie alla direzione di un ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità in Vietnam o alla presidenza dei Medici senza frontiere.
Carlo Urbani non si è accontentato di dedicare tutto il suo impegno a questo scopo, ma l’ha accompagnato con una continua attenzione «politica» nella lotta contro le ingiustizie. Un’azione, questa, espressa nelle riviste che legano tra loro in modo invisibile ma indissolubile tutti quelli che si dedicano al servizio degli altri, in tutte le parti del mondo.
I reportage che leggiamo sulla rivista delle Missioni Consolata sono semplici e quasi brutali: descrivono le malattie, la loro diffusione e le conseguenze. Ma sempre ti inchiodano osservando come con la mobilitazione di una minima quantità delle risorse di cui disponiamo si potrebbero ottenere risultati straordinari. Il giudizio di condanna (che pure in alcuni momenti è durissimo, come quando denuncia il costo delle medicine nel Terzo mondo) è tuttavia sempre accompagnato dalla fiducia che si possa concretamente agire per allargare a tutti il diritto alla salute. A tutti, perché «non esiste una medicina povera per le popolazioni povere» e «l’accesso ai farmaci essenziali deve essere considerato un fondamentale diritto per tutti gli esseri viventi».
Ci si può chiedere come una visione così ampia e una ricerca di esperienze così diverse possano essere nate in un piccolo paese della provincia italiana. E forse la spiegazione viene leggendo alcuni messaggi che ci arrivano dalla vita dei genitori di Carlo Urbani, con la madre che ha affrontato da sola e in giovane età un cambiamento radicale e un padre che nel lavoro e dopo il lavoro ha sempre avuto il desiderio di cambiare esperienze. E forse la spiegazione è proprio nel fatto che questa provincia raccoglie ancora in questi casi le virtù nascoste, gli insegnamenti e gli esempi per pensare in grande e affrontae i sacrifici conseguenti.
È questa duplice eredità che ha permesso a Carlo di condividere tutta la sua vita con la moglie Giuliana e con i figli, che dovevano crescere rendendosi conto di tutti i problemi e di tutte le diversità. Carlo Urbani non era un cavaliere solitario. Sapeva che per affrontare la disperazione di una parte troppo grande del pianeta l’impegno dei singoli è necessario ma non basta. Per questo è stato presidente di Medici senza frontiere e poi dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ma avere avuto accanto a sé, nelle frontiere nascoste del mondo, la moglie e i figli, è stata forse per lui la consolazione e la gioia più grande.

Romano Prodi

Jenner Meletti




RICORDANDO CARLO URBANI (3): Il libero mercato non basta


La democrazia porta automaticamente alla giustizia e alla eliminazione della povertà? Perché i bisogni essenziali (cibo, salute, casa, lavoro, educazione) non sono soddisfatti per la maggioranza della popolazione mondiale?

di Sandro Calvani

Quarant’anni fa, il presidente americano J.F. Kennedy aveva già intravisto la relazione di dipendenza reciproca tra le realtà contrapposte del Nord e del Sud del mondo, tra i molti poveri e i pochi ricchi. Egli ebbe a dichiarare: «Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può nemmeno salvare i pochi che sono ricchi».
Quattro Decenni dello sviluppo delle Nazioni Unite, i cui obiettivi di giustizia globale sono sempre stati adottati all’unanimità dall’Assemblea generale, hanno tentato di avviare un cammino di restituzione Nord-Sud su quasi tutti i terreni della disuguaglianza.
Sono stati studiati, approvati e messi in pratica piani globali nel campo dell’educazione e cultura, della salute pubblica, dell’ambiente e risorse naturali, dell’alimentazione e agricoltura, dei commerci, dei diritti umani, del lavoro dignitoso e di molti altri settori ritenuti fondamentali per la giustizia e la libertà globali. Sono stati obiettivi condivisi dall’umanità intera, anche se con notevoli differenze di entusiasmo.
Una forte discriminante è la decisione di cosa va costruito prima, per esempio la democrazia o la giustizia, la sicurezza alimentare o il diritto al voto.
Nel suo recente libro di grande successo La Lexus e l’albero d’ulivo, Thomas Friedman, un brillante analista della globalizzazione, cita con approvazione alcuni dei principi di Karry Diamond, editorialista del Joual of Democracy. Diamond e Friedman osservano che ogni paese al mondo con un reddito pro capite superiore a 15mila euro l’anno è anche una democrazia (con la sola eccezione di Singapore, una città-stato dove però la democrazia si dice prossima). È certamente vero ed è un grande argomento citato da tutti coloro che vogliono accelerare la demolizione di tanti regimi non democratici più o meno dittatoriali o monopartitici.
Ma la sua osservazione ha due grossi limiti. Il primo è che non si dice che una gran parte di quei paesi sviluppati che beneficiano di una democrazia hanno avviato la loro industrializzazione e dunque anche la loro accelerazione nel progresso economico quando non erano ancora democratici.
Sei o sette secoli fa, quando le grandi epidemie scuotevano le società e le economie dell’Europa, furono gruppi di persone «illuminate» e «ispirate» a costruire prima i lazzaretti per isolare gli infetti e salvare le società ridotte numericamente del 30 o del 50%, poi costruirono gli acquedotti e le fognature in ogni città e in ogni paesino. Insegnarono l’igiene che era il primo passo della salute pubblica. I conventi e i monasteri avviarono l’alfabetizzazione dei bambini e crearono i primi collegi e le prime università. I nobili più illuminati protessero l’espansione dei commerci, la costruzione di strade, la promozione dell’arte e della cultura per il popolo.
Di democrazia, in tutte quelle prime fasi dello sviluppo, non c’era nemmeno l’ombra. Settecento anni fa, in Europa, e oggi in molte regioni povere del mondo, un padre e una madre, cui muore un figlio su due prima dei 5 anni di età, pensa prima di tutto a trovare il pane o il riso per domani; prima di pensare a lottare per la democrazia e la libertà.
La ricerca della sopravvivenza è così insita nel Dna umano che, quando essa è messa a rischio, ogni persona la cerca per sé e per i propri figli, anche per vie illegali o violente, se non c’è altro modo immediatamente a disposizione.
Non è dunque la democrazia che permette la comparsa del benessere e della giustizia, ma piuttosto è l’aver trovato risposte ai bisogni essenziali – cibo, salute, casa, lavoro, educazione – che crea un ambiente favorevole per la creazione di sistemi di stato moderno, democratico e rispettoso dei diritti umani.

Nel mondo contemporaneo, la difesa della democrazia e dei diritti umani non raramente è la causa di maggiore disperazione e deprivazione per i più poveri.
Dure forme di embargo vengono imposte a paesi governati da regimi autocratici e da dittature. Tra i più poveri, i bambini non vengono più vaccinati dall’Unicef o non ricevono più le zanzariere antimalaria dall’Oms, non ci sono più preservativi gratuiti o a bassissimo costo dell’Unfpa per difendersi dall’Aids, perché qualche parlamentare democratico in Europa o in America ha stabilito un «embargo totale» e sanzioni economiche contro i paesi fuorilegge.
In realtà, i dittatori di quei paesi non rinunciano certo all’acqua fresca San Pellegrino o Evian o al loro champagne preferito solo perché l’embargo vieta quei prodotti nei supermercati dei loro paesi. Un cargo militare va ogni mese a Dubai a fare gli acquisti.
Un paese del Sud-Est asiatico ha subito una storica condanna dell’Ilo (Inteational labour office), e addirittura è stata sospesa la sua partecipazione a quell’organo delle Nazioni Unite, perché il regime al potere tollerava il lavoro infantile e il lavoro forzato. L’embargo economico che ne è derivato ha causato il blocco degli acquisti di tessuti e generi di abbigliamento a basso costo prodotti da quel paese, prima esportati in Europa e America. I paesi vicini hanno bloccato anche il commercio e gli acquisti di prodotti alimentari da fabbriche oltre frontiera, dove le fattorie erano sospettate, a ragione, di impiegare ragazze sedicenni e quindicenni nella catena di produzione di maiali, galline, uova ecc. Tre mesi dopo l’inizio dell’embargo e delle sanzioni economiche, decine di grandi fabbriche e fattorie non hanno potuto sostituire lavoratori ragazzi con lavoratori adulti perché tutti gli ordini erano cancellati. Hanno potuto solo chiudere e licenziare tutti i lavoratori, sia i ragazzi che gli adulti.
Le ragazze sono finite dritte nei bordelli di frontiera dove si può affittare una bambina di 15 anni per una notte a 15 euro. Non pochi adulti, divenuti disoccupati, hanno chiesto alle loro figlie di dare una mano alla sopravvivenza della famiglia. Molte hanno capito come farlo solo arrivate a destinazione, quando i trafficanti di persone hanno imposto loro la prima notte di avviamento al lavoro.
Sono vittime della mancanza di democrazia, direbbero molti avvocati della dea libertà che tutto provvede. Sono in realtà più prosaicamente «vittime dell’ignoranza». Ignoranza dell’Occidente sulla complessità dello sviluppo, vittime degli embarghi, dei diritti umani difesi solo per principio ma non nei fatti. Lo dicono quei missionari che trovano in chiesa i bambini abbandonati – dopo gravidanze accidentali – dalle mamme bambine divenute prostitute per effetto dell’embargo causato da lavoro minorile.

L’altro grande limite del credere che la democrazia basti da sola a far nascere le condizioni che creano la giustizia (invece del contrario) è che – se anche fosse vero – i poveri, gli affamati, gli analfabeti, gli ammalati, i bambini abbandonati non lo possono sapere.
Gli emarginati della Terra, abbruttiti dalle miserie e dalla disperazione, non ascoltano Voice of America, non guardano la Cnn, non leggono i libri di Friedman, non aderiscono alle catene internet per chiedere libere elezioni.
I miei professori della John Kennedy School of Govement all’Università di Harvard erano brillanti e convincenti nell’insegnare che la libertà e la democrazia creano libero mercato che crea iniziativa, lavoro, occupazione e ricchezza.
Ma mi basta guardare negli occhi, in qualunque momento della giornata, i bambini più poveri di un campo di rifugiati di Mae Sot o in una grande pozzanghera della baraccopoli di Klong Thoey, al centro della ricca Bangkok, per capire che nella relazione di causa-effetto tra democrazia ed eliminazione della povertà ci sono più eccezioni che regole.
Harvard si è dimenticata che qui di diarrea si muore in sei giorni, di overdose di anfetamine per vincere la disperazione si muore in una sola notte, di una coltellata per un’usura non pagata si muore in dieci minuti. Troppo poco tempo per costruire la democrazia e la libertà. •

Sandro Calvani




Dall’«asiatica» alla «Sars»


In queste pagine Guido Sattin ricorda Carlo Urbani ripercorrendo la sua vita attraverso gli eventi della storia e della medicina.

Noi che siamo nati alla metà degli anni ’50, che abbiamo visto arrivare nelle nostre case i primi elettrodomestici, che siamo cresciuti con la Tv dei ragazzi in bianco e nero e che andavamo a dormire dopo Carosello; noi che abbiamo frequentato le scuole superiori nei turbolenti anni successivi al 1968 e le Università nel cupo decennio degli anni ’70 e ’80; noi che siamo cresciuti nei grandi ideali di quegli uomini che, al di là delle diverse ideologie e fedi, volevano cambiare il mondo, che abbiamo pianto la morte di Gandhi, Che Guevara, Luther King, John Kennedy, papa Giovanni, Salvador Allende; noi che abbiamo visto crescere e cadere l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, che abbiamo visto sconfitta l’apartheid del Sud Africa, morire con Franco l’ultimo fascismo d’Europa, cadere i colonnelli greci; noi che, nati nel pieno della tragedia dell’Ungheria, abbiamo vissuto poi quelle del Vietnam, della Cecoslovacchia, del Cile e dell’Argentina, della Cambogia dei Khmer Rossi, le guerre in Palestina, il terrore di Sendero Luminoso in Perú; noi che abbiamo vissuto le bombe fasciste degli anni Settanta in Italia e poi la pazzia del brigatismo rosso; noi che, credenti o non credenti, abbiamo però creduto insieme nella possibilità di un mondo migliore fatto di pace, libertà e giustizia sociale; noi che in quegli anni, e con la storia che correva intorno a noi, siamo diventati medici e poi siamo andati a lavorare in Africa, in Asia ed in America Latina, lo sapevamo. Noi sapevamo che un certo tipo di progresso umano si scontrava con l’ambiente che ci circonda e lo comprometteva con l’acqua contaminata, con l’aria appestata dai fumi, con le medicine mal utilizzate, con la concentrazione degli abitanti nelle città e l’abbandono delle campagne, con la manipolazione della natura, con la nostra ricchezza e con la nostra povertà. Èil 19 ottobre del 1956 e a Castelpiano, in provincia di Ancona, nasce Carlo Urbani. Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie infettive che di più uccidono nel mondo in quegli anni. Nel 1957 vengono isolati in Cina i primi casi di «influenza asiatica», un’altra pandemia che però, grazie al progresso medico, non provoca i danni della «spagnola» del 1918.  È il 1965. Carlo frequenta le scuole elementari e, con 4 anni di ritardo (è del 1961 la scelta dell’American Medical Association), viene introdotta in Italia la vaccinazione antipolio con il vaccino di Sabin. Dal 1966 è resa obbligatoria. Nel 1967 il vaiolo è ancora endemico in 31 paesi del mondo. Solo in quell’anno tra 10 e 15 milioni di persone furono colpite dalla malattia. Di queste, circa 2 milioni morirono e, tra coloro che erano sopravvissuti, milioni rimasero sfigurati o ciechi. Carlo Urbani finiva le scuole medie e sicuramente anche lui portava su di un braccio il segno della vaccinazione antivaiolosa.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano ad essere le malattie infettive che di più uccidono nel mondo. Nel 1968 si scatena l’ultima grave pandemia, l’influenza di Hong Kong che provoca in Europa decine di migliaia di morti (20.000 nella sola Francia) fra le persone anziane o già debilitate da altri disturbi. Nel 1969 Piero Sensi, ricercatore della Lepetit, scopre le rifamicine e da queste nel 1969 mette a punto la rifampicina, antibiotico attivo contro la tubercolosi. È l’ultimo dei grandi antibiotici scoperti e tutt’ora utilizzati nella terapia della tubercolosi; evidentemente la ricerca sulla tubercolosi, ha smesso, d’allora, di essere una priorità per l’industria farmaceutica.  Nel 1973 la pandemia di colera coinvolge anche l’Italia toccando Napoli. Carlo frequenta il liceo a Jesi.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono sempre le malattie infettive che di più uccidono nel mondo.  Nel 1976 viene isolato per la prima volta il virus Ebola. L’Ebola è un virus in grado di provocare gravi febbri emorragiche e deve il suo nome al fiume della repubblica democratica del Congo, dove fu isolato per la prima volta. Probabilmente il contagio alla nostra specie è avvenuto dalle scimmie e da qualche altro mammifero della foresta africana, ma l’origine e la modalità di trasmissione rimangono un mistero. A oggi si sono registrate quattro epidemie di Ebola: nello Zaire, nel Sudan, nel Gabon e nella Costa d’Avorio. La mortalità ha raggiunto l’88% dei casi rilevati. La morte sopraggiunge dopo circa 72 ore dall’insorgenza dei primi sintomi. Attualmente non si conosce una cura all’infezione di Ebola, né un vaccino. L’Ebola è stata elencata dalla Nato tra i 31 agenti potenzialmente utilizzabili nelle azioni di bioterrorismo.  Nel 1976 a Filadelfia, tra i partecipanti ad un convegno della legione americana, si manifesta un’epidemia che per questo viene denominata la malattia del legionario. Si tratta di una forma di polmonite che successivamente viene chiamata «legionella » e che si sviluppa nell’acqua, distribuendosi con gli impianti di condizionamento. Continua tutt’ora ad essere una malattia pericolosa e silente, ed interessa particolarmente hotels ed ospedali. Il 26 ottobre 1977 l’ultimo caso conosciuto di vaiolo viene registrato in Somalia, quando Carlo sta frequentando l’Università di Ancona ed iniziava a formarsi come medico. Nel 1981 vengono descritti i primi casi di Aids. La «peste del secolo» è iniziata. In questi anni Carlo si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Ancona. Ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  L’«encefalopatia spongiforme bovina» (ESB), una malattia neurologica degenerativa che colpisce i bovini in maniera costantemente fatale, fa la sua comparsa come nuova malattia nel Regno Unito nel 1985. Viene descritta ufficialmente nel novembre 1986, ma ancora non si immagina il coinvolgimento umano. Carlo si specializza in malattie infettive presso l’Università di Messina. Il 31 maggio 1988, come ogni altro giorno, 1.000 bambini sono paralizzati dalla polio. La maggior parte di loro vive nei paesi più poveri. Nello stesso giorno, a Ginevra i leaders sanitari del mondo hanno deciso di eradicare la poliomielite per sempre.  È il 1989 quando viene individuato il virus dell’epatite C (Hcv). Contrariamente agli altri virus dell’epatite (A, B, D ed E), questa infezione porta, in un numero straordinariamente alto di casi, alla malattia epatica cronica. Si perfezionano i controlli sul sangue e si scopre che, negli anni anteriori, migliaia di persone sono state infettate da questo virus, trasmesso con le trasfusioni e con la dialisi.  Carlo lavora come medico presso l’Ospedale di Macerata. Nel 1991 la pandemia di colera per la prima volta arriva in America Latina, contagiando migliaia di persone in Perù.  Nel 1994 le Americhe sono certificate libere da polio.  La nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob ha fatto la sua comparsa nel Regno Unito nel 1995. Il ministro della sanità inglese successivamente (marzo 1996) ammette che 14 persone sono decedute in seguito a questa nuova forma della malattia e che probabilmente si sono ammalate per aver assunto tessuti bovini infetti da Esb. Le dichiarazioni del ministro della sanità inglese Stephen Dorrell nel marzo 1996 e la pubblicazione dei risultati di queste ricerche nel 1997 scatenano una crisi economico-sociale con notevoli conseguenze sulla zootecnia europea; la crisi è dovuta ad una marcata perdita di fiducia da parte dei consumatori nei confronti del prodotto carne. Carlo entra in «Medici senza frontiere » (Msf) e parte per la Cambogia con la famiglia. Lavora in un progetto per la lotta alla «schistosomiasi», una malattia parassitaria intestinale.  Hong Kong, 1997: l’influenza aviaria provoca la morte di 6 persone. L’anno seguente l’Organizzazione mondiale della sanità la inserisce tra le malattie determinate da nuovi microrganismi capaci di provocare infezioni nell’uomo e invita ad aumentare la sorveglianza. Il 26 novembre 1998 viene segnalato l’ultimo caso di poliomielite nella regione europea. Si tratta di un bambino di nome Melik Milas di 33 mesi, che viveva in un piccolo villaggio della provincia di Agri, in Turchia al confine con l’Iran. Non aveva ricevuto nessuna vaccinazione contro la polio ed è stato colpito da un poliovirus di tipo 1.  Nel 1999 Carlo Urbani viene eletto presidente di «Medici senza frontiere» – Italia (e trova anche il tempo d’inventare questa rubrica per Missioni Consolata).  Nel gennaio 2000, dopo poco più di 10 anni dal lancio dell’iniziativa di eradicazione, sono soltanto 30 i bambini che ogni giorno nel mondo sono paralizzati dalla polio. Ma ancora 30 tutti i giorni.  Tre interi continenti sono già liberi da polio e sempre nel 2000, la regione del Pacifico orientale, che comprende la Cina, viene certificata come libera dalla poliomielite. Nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si sono infettate con l’Hiv nell’Africa a sud del Sahara e 2,4 milioni di persone sono morte per Aids. Nello stesso anno 30.000 persone si sono infettate in Europa occidentale e 45.000 nell’America del Nord. Dall’inizio della pandemia di Aids sarebbero morte 21.800.000 persone.  È il 2000 ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  Carlo inizia la sua collaborazione con l’«Organizzazione mondiale della sanità» (Oms) e con la famiglia parte per Hanoi, in Vietnam. Da 10 anni se ne parla, ma il primo caso italiano di «mucca pazza» scoppia a gennaio 2001. Crollano i consumi di carne, psicosi tra i banconi dei supermercati e delle macellerie, caccia a prodotti alternativi. Partono i controlli che portano a trovare decine di mucche italiane infette. Le autorità prima minimizzano, poi, sull’onda emotiva di un’opinione pubblica sempre più preoccupata, prendono i primi drastici provvedimenti.

29 marzo 2003: Carlo Urbani, medico italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, muore in un ospedale di Bangkok a causa della Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»). La notizia si diffonde e provoca grande emozione. «Il dottor Urbani ha lavorato in programmi di salute pubblica in Cambogia, Laos e Vietnam. La sua sede di lavoro era ad Hanoi. Aveva 46 anni. Carlo Urbani era stato il primo medico dell’Oms ad identificare la nuova malattia in un uomo d’affari americano ricoverato all’ospedale di Hanoi. La sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Ad Hanoi, il focolaio di Sars sembra sulla via di essere messo sotto controllo». «Carlo era una persona meravigliosa e siamo tutti costernati – ha detto Pascale Brudon, il portavoce dell’Oms in Vietnam -. Era soprattutto un medico, il suo primo obiettivo era quello di aiutare le persone. Carlo è stato il primo ad accorgersi che c’era qualcosa di molto strano. Mentre in ospedale le persone diventavano sempre più preoccupate, lui era là ogni giorno, raccogliendo campioni, parlando con il personale dello staff e rafforzando le procedure di controllo dell’infezione». È il 2003. È appena terminata la guerra «preventiva» contro l’Iraq ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  La storia la facciamo noi uomini con le nostre guerre, i nostri interessi economici, ma anche con i nostri ideali, le nostre scoperte, la nostra cultura e la nostra capacità di comunicare. Ma non solo.  La peste, la sifilide e la tubercolosi hanno segnato alcuni secoli della nostra umanità e perfino della nostra cultura.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano a minare l’esistenza di milioni di individui nell’indifferenza generale. Della Sars si sa ancora poco, ma è un altro segnale di pericolo per il nostro mondo, così come poco prima lo è stato la variante umana della malattia di Creutzfeld-Jakob, Ebola o l’influenza aviaria.  L’Aids ha definitivamente cambiato i costumi sessuali della nostra società e sta tuttora cambiando la nostra umanità, incidendo profondamente in tante culture ed economie del mondo, in particolare dell’Africa. Le malattie infettive e parassitarie, causa e conseguenza di tanti passaggi della nostra storia, continuano ad essere protagoniste dell’umanità e delle sue scelte economiche, politiche e sociali.

Guido Sattin




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani