Brasile. Un mondo senza carceri


Dentro la pastorale carceraria, con padre Gianfranco Graziola

La prigione non ha mai risolto i problemi sociali. Diventa una forma di controllo della società stessa e della povertà. La Chiesa cerca di dare risposte con la pastorale carceraria. In Brasile c’è un esempio unico al mondo di lavoro di squadra.

Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, trentino, da trent’anni in Brasile, fa parte del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria (Cnpc). Si tratta di un organo della Chiesa brasiliana che ha appena compiuto cinquant’anni, come pure il Consiglio indigenista missionario (Cimi). Entrambe le strutture sono nate sulla scia delle conferenze dell’episcopato latino-americano di Medellin (1968) e di Puebla (1979).
«È un ente unico al mondo. Da noi non esiste la figura del cappellano delle carceri. Si tratta di una pastorale vera e propria, portata avanti da una équipe». Così ci racconta padre Gianfranco, che incontriamo di passaggio a Torino.

Lui «alle carceri» è arrivato un po’ per caso. Ci racconta: «Lavoravo a Roraima, nel Nord del Brasile, ed ero in missione a Catrimani, in foresta amazzonica, con gli Yanomami. Monsignor Roche Paloschi, all’epoca vescovo di Roraima, chiese ai missionari della Consolata qualcuno che andasse a occuparsi di diritti umani, di migranti e di pastorale sociale in seno alla diocesi. Tra le tante pastorali sociali, c’era quella carceraria, ma non stava passando un buon momento. Così chiesero a me, e dalla selva andai a Boa Vista, la capitale. Subito si stabilì un’ottima sintonia con il vescovo. Un giorno, ricordo, un gruppo di donne carcerate durante un evento fece dei cori, e poi mi disse: “Una volta c’era la pastorale carceraria”. «C’è ancora!», risposi con risolutezza, e da allora siamo ripartiti».

Un approccio unico

La pastorale carceraria in Brasile lavora su tre livelli: il coordinamento nazionale, i coordinamenti statali (è un paese federale di 26 stati più la capitale Brasilia) e quelli a livello delle diocesi. È portata avanti dagli agenti di pastorale: preti, suore, vescovi e anche laici, uomini e donne, di tutte le età. Visitano le carceri in tutto il paese settimanalmente, due volte al mese, oppure ogni mese.

Il coordinamento nazionale si trova a São Paulo, perché è lo stato con la maggiore popolazione carceraria del Brasile, 22mila detenuti solo nell’arcidiocesi della metropoli.

Esso si occupa anche dell’approccio politico, dell’intervento in caso di denunce, e di pressione su chi governa (lobbying), oltre che delle visite pastorali.

Padre Gianfranco allarga la visuale a livello continentale: «A livello di  America Latina, di Celam (Consiglio episcopale latinoamericano e caraibico), il nostro slogan è “Un mondo senza carceri”.

Ci sono state varie riunioni tra tutte le conferenze episcopali, e c’è questo sogno. Noi non crediamo che il carcere sia la soluzione ai problemi del nostro mondo, al contrario. Infatti, il carcere è fonte di tortura, è una sua espressione moderna, perché un carcerato o una carcerata, secondo la Costituzione brasiliana, dovrebbe perdere il diritto di muoversi liberamente e i diritti politici solo una volta avvenuta la condanna definitiva, ma questo non accade.

Si verifica una serie di violazioni di diritti: tortura (nel senso classico), sovraffollamento, cattiva alimentazione, scarsa cura della salute, pessime condizioni di vita.

Lo stato ci risponde dicendo: allora costruiamo nuovei carceri. Noi sosteniamo, però, che quantie più prigioni si costruiscono, tanto più aumenta il numero della popolazione detenuta.

Per fare un esempio, nei due anni di pandemia, siamo passati da 800mila carcerati a 930mila (in Italia siamo a circa 52mila, nda), di cui circa 50mila sono donne. Queste normalmente hanno a che fare con il traffico di stupefacenti, sono chiamate mule (corrieri, nda)».

Il peso delLa droga

Padre Gianfranco specifica che il riempimento delle carceri è direttamente legato alla legislazione sulla droga: «La grande questione che proponiamo è di non considerare la droga una questione di polizia, ma di salute. In Brasile, se ti trovano con un grammo di droga, anche la più leggera, vai in carcere. Perché stanno seguendo l’approccio di guerra totale agli stupefacenti. È uno degli elementi importanti che oggi alimenta la popolazione carceraria».

Poi la cocaina circola nelle feste di privati a un certo livello, e non c’è il problema morale di consumarla. Inoltre, negli incontri delle élite la polizia non entra.

Il missionario ci ricorda che l’incarceramento in Brasile ha un colore e uno status sociale: finiscono in prigione i neri, i poveri delle periferie, e i giovani. C’è un’alta percentuale di questi ultimi, quasi il 50% ha tra i 18 e i 29 anni. Sotto i 18 è previsto un sistema diverso, chiamato socioeducativo, che non dipende dal sistema penitenziario, ma è simile al carcere minorile.

(Photo by ANDRESSA ANHOLETE / AFP)

L’organizzazione

Chiediamo a padre Gianfranco come è organizzata la pastorale carceraria.

«Abbiamo una coordinatrice, la suora tedesca Petra Silvia Pfaller, un vicecoordinatore, padre Almir Ramos, di Santa Catarina, e una coordinatrice della questione delle donne in carcere, Rosilda Ribiero Rodrigues Salamão, perché a livello femminile il carcere ha prerogative particolari. Ad esempio, dal 2014 a oggi, abbiamo avuto un aumento del 700% di incarceramento femminile».

Padre Graziola racconta poi che c’è un nucleo di dipendenti che lavorano nella gestione economica, nell’amministrazione dei progetti e nel settore giuridico, ad esempio per le denunce di tortura, e, infine, sulla comunicazione. «Per la tortura, si lavora non tanto su casi singoli, ma sulla politica. In tempo di pandemia le denunce di tortura sono raddoppiate. Sul nostro sito si può fare denuncia anonima e non anonima. Il settore giuridico, in coordinamento con ogni stato, interpella i giudici, il difensore civico, chiedendo loro di intervenire. Ma non sempre si muovono, a volte danno risposte evasive».

La struttura prevede poi una serie di coordinamenti, con il coinvolgimento di periti. Padre Gianfranco è nella sezione teologica, dopo essere stato il vicecoordinatore nazionale. Lui fa anche parte della presidenza dell’associazione che gestisce i progetti per finanziare la struttura.

L’associazione ha alcuni finanziatori internazionali, come la tedesca Misereor, e altri nazionali. Anche se il missionario non nasconde che trovare finanziamenti è diventato sempre più difficile.

«Le altre conferenze episcopali in America Latina non hanno questa organizzazione. Qualcuna ha il cappellano, stipendiato dallo stato. Noi abbiamo scelto di non dipendere dallo stato».

La pastorale carceraria prevede poi gli agenti di pastorale, tutti volontari. Secondo una ricerca recente, sono circa 5mila.

Giustizia e altri temi

«Uno dei grandi temi su cui lavoriamo, con forte connotazione politica, è quello della giustizia riparativa, o restaurativa, come diciamo in Brasile (cfr. MC dicembre 2013).

Lavoriamo in rete con Espere (la scuola di pace di padre Lionel Narváez Goméz in Colombia, cfr. MC agosto 2018), sulle pratiche di giustizia riparativa. Ma utilizziamo anche la filosofia clinica, che tratta la questione dell’identità e dell’unicità. Un filosofo brasiliano, Lucio Packter, fa un lavoro sulla storia della persona e la sua unicità. Per esempio, in merito alla convinzione: “sono nato delinquente e resto tale”, noi diciamo di no. E ancora lavoriamo sul linguaggio nonviolento.

Sono tutti temi sui quali abbiamo lavorato molto in questo ultimo periodo e, data la pandemia, abbiamo anche dato un’attenzione particolare alle persone stesse che operano nella pastorale. Si tratta di avere cura di chi opera, di chi si prende cura».

AFP PHOTO / NELSON ALMEIDA (Photo by NELSON ALMEIDA / AFP)

L’agenda

Padre Gianfranco si entusiasma quando spiega l’approccio della pastorale con le famiglie dei carcerati. «È molto cresciuto il lavoro che facciamo con i parenti dei detenuti. Appoggiamo le famiglie, cercando di dare loro più margine di manovra per difendere i congiunti (impoderamento, in brasiliano, ndr). Le accompagniamo in un processo che porti a “un mondo senza carceri”. Per questo abbiamo creato un’agenda per il “desencaceramento” in dieci punti, che è stata sottoscritta da cinquanta entità impegnate nel settore (vedi box).  È nata nel 2013 dal fatto che visitavamo il carcere, vedevamo, denunciavamo, ma non succedeva nulla. Da lì si è originata una riflessione e poi questo decalogo.

Oggi è una rete molto grande che va avanti in un lavoro di squadra. E sono i parenti che portano avanti questa agenda. Noi stiamo nella retroguardia. All’inizio ci davano dei pazzi, ma da questa agenda è nato un meccanismo, riconosciuto dallo stato, di lotta alla tortura. Si tratta del Comitato nazionale e statale: ci sono periti indipendenti a livello nazionale che sistematicamente visitano le carceri e verificano se ci sono casi di tortura. È pagato dallo stato federale, è un ente governativo, ma è stato proposto da noi. Nel comitato c’è un rappresentante delle famiglie. Questo strumento si è affermato dopo l’eccidio del 2019 a Manaus (morirono 55 detenuti, nda)».

Uno dei punti concerne la droga, e propone non solo la depenalizzazione, ma la decriminalizzazione. Questo non vede tutti d’accordo neppure all’interno della chiesa brasiliana, perché c’è una questione morale.

Quando fare lobbying

Chiediamo a padre Gianfranco come funziona quando c’è una denuncia. «Ad esempio, c’è un problema e ci arriva una denuncia. Gli avvocati entrano in contatto con il coordinatore della pastorale carceraria in quello stato e si cerca di indagare. A livello centrale abbiamo relazioni con molte altre entità nazionali e internazionali che lavorano per i diritti umani. Facciamo lobbying di tipo politico. C’è stata la visita dell’alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, per denunce. La stessa Suprema corte brasiliana dice che il carcere in Brasile è anticostituzionale.

Si lavora sui diversi livelli, diocesano, statale e federale. Si fanno pressioni.

Noi, rispetto ad altre istituzioni, ci siamo costruiti una credibilità molto grande. Se c’è qualche problema, ci chiamano.

Ma oltre alla parte che riguarda i diritti umani, c’è l’impegno pastorale. La promozione umana e l’evangelizzazione sono parte della cura della persona. Quindi facciamo celebrazioni, diamo sacramenti, abbiamo agenti di pastorale presenti».

Prigioni private

In Brasile si sta diffondendo la privatizzazione delle carceri. Ne esistono due forme: la cogestione e la privatizzazione totale.

Nel primo caso, il penitenziario esiste già, viene mantenuto il direttore che, di norma, è un militare, e tutto il resto viene appaltato a privati (cibo, sanità, agenti penitenziari, ecc.). La guardia esterna, invece, non può mai essere data a privati.

Nel secondo caso, lo stato assegna un terreno a un’impresa. Su questo, il privato costruisce l’infrastruttura. Il direttore è appannaggio dello stato, ma tutto il resto è del privato.

Nella cogestione c’è super affollamento, mentre nel secondo caso no. Si tratta però di penitenziari disumani, molto tecnologici, nei quali non ci sono contatti tra detenuti. Ci racconta padre Gianfranco: «Ad esempio, ho incontrato in una di queste strutture una persona paraplegica abbandonata in una situazione tale da non potersi muovere. Ha insultato il direttore in mia presenza, chiedendo di tornare al sistema superaffollato, dicendo che “almeno ho qualcuno con cui stare”. Sono quasi dei lager».

Carandiru

Il 2 ottobre scorso ricorreva il trentennale del maggiore eccidio accaduto in un carcere brasiliano. Avvenne a Carandiru, a São Paulo. I morti ufficiali furono 111, ma si sa che furono molti di più. Furono portati via con i camion dell’immondizia. A tutt’oggi gli autori sono impuniti. «Carandiru è un po’ il simbolo della lotta contro il carcere. Nel 2017, negli stati di Roraima, Amazonas e Rio Grande do Norte ci furono quasi 200 morti per scontri nelle prigioni. Nel 2019 a Manaus morirono 55 detenuti. I funzionari dicono che sono le fazioni interne in lotta tra di loro. Ma noi rispondiamo: guardate che i responsabili siete voi, il sistema giudiziario. Durante la presidenza Bolsonaro, inoltre, gli agenti penitenziari sono stati autorizzati a portare le armi, per cui abbiamo assistito a una militarizzazione delle carceri», il che può ulteriormente peggiorare la situazione. Chiediamo a padre Gianfranco quali siano le maggiori difficoltà incontrate oggi dalla pastorale carceraria.

«Stiamo vivendo un momento difficile, perché molti agenti di pastorale si sono dovuti ritirare perché anziani e non se la sentono più.

Inoltre, ci sono difficoltà di relazione con i movimenti pentecostali e neo pentecostali. Stanno entrando nella pastorale, vogliono convertire tutti e hanno un aspetto moralistico che noi non abbiamo. Vanno a predicare, in modo molto emotivo, creando un po’ di conflitto, non ascoltano la gente. Noi siamo una pastorale di ascolto della persona, sulla quale c’è la nostra attenzione. È un approccio che parte dalla giustizia riparativa».

Marco Bello

Le richieste dei movimenti della società civile e della Chiesa

Agenda nazionale per il «descarceramento

Il decalogo, scritto inizialmente nel novembre 2013 da movimenti e organizzazioni sociali, allo scopo di promuovere la modifica del sistema carcerario, era centrato sull’esigenza di un programma per la riduzione concreta e rapida della popolazione detenuta. Nel 2016, tale agenda è stata attualizzata e ha ricevuto ulteriore appoggio da collettivi, organizzazioni e pastorali sociali. Nel primo incontro nazionale per il «desencarceramento» (traducibile come riduzione del peso delle carceri nella società), realizzato a São Paulo l’8 ottobre 2016, gli enti che assumevano l’agenda erano 30, mentre al secondo incontro, l’anno successivo, è stata sottoscritta da oltre 40.

Di seguito la sintesi del decalogo. Per approfondire si veda sul sito carceraria.org.br le versioni in portoghese, inglese e tedesco.

  1. Sospensione di qualsiasi costruzione di nuove carceri o struttura detentiva.
  2. Esigenza di riduzione massiccia della popolazione carceraria e della violenza prodotta nelle prigioni.
  3. Modifiche legislative per limitare al massimo la prigione preventiva.
  4. Contro la criminalizzazione dell’uso e del commercio di droga.
  5. Riduzione massima del sistema penale e recupero della autonomia comunitaria per la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
  6. 6. Aumentare le garanzie della Legge di esecuzione penale (Lep).
  7. Apertura del carcere e creazione di meccanismi di controllo popolare (sempre in ambito della Lep).
  8. Proibizione della privatizzazione del sistema carcerario.
  9. Prevenzione e lotta alla tortura.
  10. Smilitarizzazione della polizia e della società.

Ma.Bel.

________________

La versione integrale è disponibile sul sito: carceraria.org.br/agenda-nacional-pelo-desencarceramento.




Carcere e Covid-19. Aggravante pandemia


Sono passati due anni dal sorgere della pandemia e dalle rivolte nelle carceri, seguite da una violenta limitazione dei diritti delle persone detenute. I fatti di Santa Maria Capua Vetere ne sono un brutale indicatore. Anche il Covid-19 ci dice che è tempo di ripensare la pena e le sue forme.

La pandemia ha raggiunto l’Italia come un treno in corsa. Il 21 febbraio 2020 è scoppiata la notizia di un focolaio nel nostro paese, il primo in Europa. In pochi giorni le autorità hanno dovuto prendere misure mai sperimentate prima nel mondo occidentale. Le carceri ne sono state investite.

L’8 marzo un decreto del presidente del Consiglio ha stabilito che i detenuti non potessero più avere colloqui con i loro parenti. Una misura a termine. Ma il termine non poteva essere fissato in anticipo. E non solo dei parenti si trattava, ma dell’ingresso negli istituti di tutti coloro che ne riempiono la vita interna: insegnanti, volontari, chi tiene laboratori, attività sportive e molto altro. All’improvviso, un isolamento immobile e totale dal mondo.

Chi ha spiegato e chi no

In alcune carceri queste misure sono state spiegate alle persone detenute. Il direttore o altri operatori sono andati nei reparti detentivi, hanno organizzato momenti di confronto, assemblee, hanno raccontato i rischi del virus e le misure che era necessario prendere per provare a contenerlo, hanno spiegato il carattere temporaneo delle restrizioni, hanno ragionato insieme su possibili strade da percorrere.

In questi istituti, le misure sono state accettate con spirito di collaborazione e maturità.

Altrove è accaduto che il decreto sia piovuto addosso alla vita del carcere come un macigno, senza che i diretti interessati potessero comprendere quanto stava accadendo.

Prigione di Secondigliano, Napoli. Proteste dei parenti fuori delal prigione (Photo by Carlo Hermann / AFP)

«Hanno pure la TV»

«Hanno pure la televisione», si sente dire spesso a proposito dei detenuti. «Hanno solo la Tv», sarebbe più corretto affermare. In carcere, infatti, il principale strumento d’informazione è proprio quello. I giornali entrano poco, internet per niente. E tutti ricordiamo cosa diceva la Tv in quei primi giorni di emergenza sanitaria: della nuova malattia non si sapeva nulla, qualcuno sosteneva che fosse come un’influenza e qualcun altro che fosse pericolosissima, tutti concordavano sul distanziamento, la mascherina, lavarsi spesso le mani. Ma in carcere la distanza è una chimera, le mascherine non c’erano, e il sapone scarseggia.

Chi era dentro non riusciva ad avere notizie sui propri cari fuori dal carcere. Chi era fuori immaginava scenari apocalittici che potevano verificarsi dentro.

Scoppiano Le rivolte

È in questo contesto che, tra l’8 e il 9 marzo 2020, sono scoppiate rivolte in ben 49 istituti di pena italiani. Sono morti 13 detenuti. Da subito è stato detto che le persone carcerate avevano assaltato l’infermeria e che avevano ingerito metadone.

Ci auguriamo che le inchieste della magistratura possano fare il proprio corso e far piena luce su quanto accaduto.

Nei giorni successivi, Antigone (associazione per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) ha ricevuto dalle carceri varie segnalazioni di ritorsioni violente che sarebbero avvenute sui detenuti dopo la fine delle rivolte.

I nostri avvocati hanno presentato quattro esposti per tortura relativi a quattro carceri diverse. Non sono coinvolti nelle denunce solo poliziotti penitenziari, ma anche alcuni medici che avrebbero prodotto referti falsi.

Anche su questi procedimenti ci auguriamo di avere presto una pronuncia ufficiale.

Santa Maria Capua Vetere

A circa un mese di distanza, il 6 aprile, una protesta è scoppiata nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere: i detenuti battevano le barre dei cancelli. Si era, infatti, diffusa la notizia che un detenuto avesse il Covid ed era scoppiato il panico.

Nei giorni successivi Antigone ha ricevuto segnalazioni che parlavano di un pestaggio di massa che sarebbe avvenuto nelle ore successive la fine della protesta.

Anche in questo caso, dopo aver verificato che i vari racconti erano credibili e tra loro coerenti, gli avvocati di Antigone hanno presentato un esposto in procura dandone contestualmente notizia ai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), dai quali non hanno ricevuto risposta.

Stato di diritto sospeso

Si è dovuto attendere settembre 2020 perché le indagini partissero con decisione, quando il quotidiano Domani ha pubblicato un’inchiesta su quegli eventi, annunciando anche la presenza di un video. Nei mesi successivi il video è stato reso pubblico, e tutta Europa ha assistito a una grande sospensione dello stato di diritto che ha riguardato centinaia di persone.

Nel settembre del 2021 è stato depositato l’atto di chiusura delle indagini: è lungo 176 pagine, conta 177 vittime tra le persone detenute e 120 indagati tra poliziotti e funzionari. I capi di accusa sono 85. L’associazione Antigone è citata tra le persone offese, cosa che accade quando i fatti sono tanto gravi da riguardare la società intera.

Ma senza quel video probabilmente nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Le videocamere nelle carceri spesso non ci sono e, quando ci sono, sovente sono rotte. Quando ci sono e non sono rotte, mantengono la registrazione per poche ore. Forse altre violenze avvenute nelle carceri sarebbero potute emergere se l’istituzione avesse impartito le adeguate direttive.

2012 Carcere Sollicciano (Fi), immagine realizzata da Next New Media e Antigone

Carcere extrema ratio

Uno degli effetti dell’arrivo della pandemia sulle carceri è stato quello di farne diminuire la popolazione, come è avvenuto in molti altri paesi del mondo.

In Italia, fin dal febbraio 2020, Antigone, insieme ad altre organizzazioni e con il consenso di tutti coloro che sono esperti in questioni penitenziarie, ha sottolineato la necessità di creare spazio all’interno degli edifici carcerari. Per il distanziamento sociale, i reparti per le quarantene, i reparti Covid, c’era bisogno di locali ben diversi da quelli sovraffollati e igienicamente a rischio cui siamo abituati.

Con altri soggetti, Antigone ha presentato un elenco di proposte per far uscire dal carcere le persone detenute che presentavano una scarsa pericolosità sociale o problemi di salute.

Il decreto cosiddetto Cura Italia del 17 marzo 2020, seppur con un’eccessiva timidezza, si è mosso in quella direzione.

Se all’inizio di marzo nelle carceri italiane c’erano più di 61mila detenuti (per una capienza ufficiale di 51mila posti, che scendeva a 47mila considerando le sezioni chiuse per ristrutturazione), due mesi e mezzo dopo, ce n’erano 8.500 in meno.

Questo accadeva grazie a quattro ragioni: la diminuzione dei reati dovuta al fatto che l’intera popolazione italiana era in lockdown, le norme introdotte dal decreto che consentivano un maggiore accesso alla detenzione domiciliare, un utilizzo più ponderato da parte della magistratura della custodia cautelare in carcere e un’applicazione più rapida e ampia delle norme ordinarie sulle alternative al carcere da parte della magistratura di sorveglianza. Tutte misure che hanno dimostrato come la risposta carceraria, che dovrebbe rappresentare una extrema ratio, sia utilizzata di solito ben al di là di quanto sarebbe necessario.

Allentata la tensione dovuta all’ondata di Covid, i numeri hanno lentamente ripreso a salire. Se nel maggio 2020 c’erano meno di 53.400 persone detenute nelle carceri italiane, al 30 novembre erano già oltre 54.350. Un anno dopo, quasi 54.600.

Uno degli insegnamenti che si potevano apprendere dall’esperienza della pandemia per le carceri italiane è rimasto purtroppo per molti versi inascoltato.

Immagine del Carcere di Secondigliano (Na) di Katia Ancona per Next New Media e Antigone

L’occasione tecnologia

Speriamo invece che un altro insegnamento possa avere effetti duraturi: quello sull’uso delle nuove tecnologie negli istituti di pena. Esse non solo non sono pericolose per la sicurezza, ma hanno enormi potenzialità.

In molti paesi del mondo la pandemia ha costituito l’occasione per l’ingresso di molte innovazioni tecnologiche in carcere.

Le carceri italiane sono, da questo punto di vista, ferme a molti decenni fa. Il mondo è cambiato, ma il sistema penitenziario è stato incapace di andargli dietro.

Con la chiusura dei colloqui dovuta al Covid, e sotto la pressione di Antigone che, insieme ad altri soggetti, ha portato avanti una forte azione di advocacy, alla fine del marzo 2020 il ministero ha annunciato l’acquisto di 1.600 smartphone da distribuire nelle carceri al fine di far effettuare videochiamate tra detenuti e famigliari.

Chi non conosce il mondo carcerario da vicino non può comprendere pienamente di quale grande rivoluzione si sia trattato.

Al termine della prima ondata di Covid, l’utilizzo delle videochiamate come strumento di comunicazione non è venuto meno. Anzi, si è esteso ad altri ambiti, come, ad esempio – seppur con grandi differenze da un carcere all’altro -, la didattica a distanza.

Ci auguriamo che sempre più si possa utilizzare l’accesso al web e le nuove tecnologie per tutte le attività – quali ad esempio l’informazione – che potrebbero avvicinare la vita in carcere a quella del mondo esterno.

Vita dentro e vita fuori

Tra i massimi insegnamenti del Consiglio d’Europa ce n’è uno che invita a fare diventare la vita interna alle carceri il più possibile simile a quella nel mondo libero. Questo per avvicinare le persone detenute al contesto nel quale torneranno una volta terminato il tempo di detenzione.

Che senso può avere, infatti, recidere i contatti e gli stili di vita che la persona aveva fuori dal carcere? Quando li dovrà riannodare al termine della pena, sarà tutto più tortuoso e faticoso.

La reintegrazione sociale, che dovrebbe essere il fine costituzionale della pena, non sarebbe raggiunta con maggiore facilità e pienezza se la vita carceraria fosse improntata a questi criteri?

Eppure, in molti ambiti della vita penitenziaria si può osservare un grande scollamento dalla vita ordinaria. Il carcere non riesce a proporre alle persone detenute quelle opportunità che possono indirizzare la loro vita verso un duraturo percorso non deviante. Se guardiamo, ad esempio, all’ambito lavorativo, notiamo che al 31 dicembre 2020 i detenuti impegnati in qualche mestiere erano solo 17.937, ovvero il 33,6% del totale. Di questi, la stragrande maggioranza (15.746 persone) lavorava alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, spesso (14.023 persone) per la manutenzione, la pulizia e altre piccole necessità relative alla vita d’istituto.

Si tratta di lavori poco qualificati, che difficilmente riescono a porre le basi per la futura vita esterna della persona. Inoltre, sono spesso lavori di poche ore settimanali, con salari del tutto inadeguati a qualsiasi percorso di emancipazione.

Se guardiamo ai corsi di formazione professionale, nel secondo semestre del 2020, solo 1.279 detenuti – di cui 507 stranieri – in tutta Italia hanno avuto la possibilità di iscrivervisi. I corsi attivati in maggior numero hanno riguardato la cucina e la ristorazione (35), seguiti dai corsi di giardinaggio e agricoltura (18).

Il grosso delle attività di sostegno o delle attività culturali, ricreative e sportive è affidato al volontariato e non all’istituzione. Al 31 dicembre 2020 erano quasi 10mila i volontari autorizzati a fare ingresso negli istituti di pena italiani. Di questi, oltre 4mila si occupavano del supporto alla persona o alle famiglie, con colloqui di sostegno, consegna di pacchi ai meno abbienti, contatti con i parenti. Circa 1.500 erano impegnati in attività religiose. Se infatti il cappellano cattolico è una figura istituzionale in ogni carcere, previsto nell’organico e stipendiato dal ministero della Giustizia, i ministri di culto delle altre religioni sono più o meno equiparati agli altri volontari.

Carcere Marassi Genova

Riformare il sistema

La pandemia, con tutto quello che ha comportato, ha spinto le istituzioni di molti paesi del mondo a una riflessione sul modello di detenzione e sul suo rinnovamento. Anche in Italia si è aperto un percorso riformatore che vede, da un lato, la delega del parlamento al governo per riformare il processo penale e, dall’altro, i lavori della Commissione ministeriale guidata dal professor Marco Ruotolo per ripensare la vita carceraria interna.

Sul fronte processuale, le modifiche normative che il governo è chiamato a fare avranno una ricaduta anche sulle carceri. La delega parlamentare prevede, infatti, che si introduca una serie di sanzioni sostitutive alla pena detentiva, che il giudice di merito potrà comminare in sentenza al posto della pena carceraria fino a quattro anni. È sicuramente un primo passo verso il disconoscimento di quella centralità assoluta del carcere che ha dominato il sistema penale italiano fin dalla nascita della Repubblica.

Se i padri costituenti hanno scritto, all’articolo 27 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, declinando al plurale il sostantivo «pena», significa che avevano in mente una pluralità di possibilità sanzionatorie. Sicuramente il carcere, se guardiamo agli altissimi livelli di recidiva, non si è rivelato la più efficace.

Sul fronte amministrativo, la Commissione potrà suggerire una serie di direttive cui improntare la vita interna alle carceri che saranno capaci di renderla, da un lato, più rispettosa della dignità e dei diritti delle persone detenute e, dall’altro, più responsabilizzante nei confronti di queste ultime e utile in vista del loro futuro rientro in società.

Sicuramente tutto ciò che riguarda l’utilizzo delle nuove tecnologie avrà un’importanza fondamentale. Non è pensabile tendere alla reintegrazione sociale delle persone lasciandole nell’analfabetismo informatico.

Le tecnologie potranno aiutare anche nel tentativo di non sradicare la persona detenuta dal suo contesto lavorativo, contemplando la possibilità di smart working come accade ormai in gran parte del mondo esterno.

Inoltre, i contatti tra i detenuti e le persone care, che sono la cosa più importante per chi vive in carcere, potranno essere potenziati senza che vi sia alcuna motivazione contraria sensata.

Immagine del Carcere di Secondigliano (Na) di Katia Ancona per Next New Media e Antigone

Una battaglia decisiva

Spesso nella storia le emergenze di vario tipo hanno costituito le cause iniziali per una compressione dei diritti che poi ha visto nel tempo successivo una stabilizzazione ingiustificata. Questo è un rischio concreto che si è corso nel sistema penitenziario con l’emergenza Covid-19. Un rischio che si è corso e che non è ancora del tutto scongiurato, se non per una esplicita volontà di mantenerlo, almeno per un’inerzia del sistema.

Come ogni emergenza che comporta dei rischi, la pandemia però può anche essere colta come un’occasione di allargamento dei diritti e di avanzamento del modello detentivo.

Se sapremo farlo, avremo vinto una battaglia decisiva.

Claudio Paterniti Martello
(membro dell’Osservatorio  Nazionale carceri di Antigone)

2012 Carcere Sollicciano (Fi), di Next New Media e Antigone




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Chiamiamola tortura

testo di Patrizio Gonnella |


Ai tempi del G8 del 2001, in Italia non era ancora reato. Eppure, il nostro paese aveva firmato la convenzione Onu del 1984. Dopo troppa attesa, nel 2017 è finalmente entrata nel codice penale, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

In questi giorni, ricorrono i vent’anni dai fatti del G8 di Genova, dalle brutalità e dalle torture nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto.

Sono trascorsi, dunque, due decenni da quel caldo luglio del 2001, quando la tortura divenne notizia di prima serata. Tortura usata su un movimento variegato che manifestava e lottava contro le ingiustizie di una globalizzazione fortemente iniqua.

In quella circostanza, una buona parte delle istituzioni si sentì legittimata a ragionare e agire come se si fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di autorizzare l’eccezionalità di quanto stava accadendo.

Ci furono le brutalità della Diaz, e poi le torture di Bolzaneto.

Uno dei torturatori di Bolzaneto, dopo essersi vantato di essere nazista e di provare piacere a picchiare un manifestante «omosessuale, comunista», dopo averlo offeso dicendogli «frocio ed ebreo», gli strizzò i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste a Firenze o a Villa Grimaldi in Cile.

Machismo e fascismo, come sempre, insieme.

Prima di Genova, e dopo

Le torture a Genova non furono episodi marginali ascrivibili alle solite mele marce. Fu qualcosa di sistemico e strutturale.

L’anno prima, nel 2000, vi erano state le violenze di Napoli in occasione del Global forum, e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari.

Nel luglio del 1998 l’Italia aveva firmato solennemente, al Campidoglio, lo statuto della Corte penale internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l’umanità, tra cui, appunto, la tortura.

Tredici anni prima di Genova, nel 1988, l’Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che, all’articolo 1, definiva il crimine e, agli articoli successivi, impegnava tutti i paesi firmatari a punirlo.

Finalmente è reato

In Italia la tortura divenne reato solo nel 2017, dopo le condanne del nostro paese da parte della Cedu (Corte europea dei diritti umani) nei casi Cestaro e Asti.

Era il 18 luglio del 2017 quando fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge che finalmente introduceva nel codice penale, all’articolo 613-bis, il delitto di tortura. Era una legge scritta male perché definiva il crimine di tortura in modo non del tutto sovrapponibile con quanto previsto dall’articolo 1 della Convenzione Onu del 1984, ma sappiamo – grazie a Voltaire – che il meglio è nemico del bene. Fu perciò ragionevole giungere comunque alla sua approvazione contro l’opposizione della destra, da sempre preoccupata di non porre limiti all’azione delle forze di polizia, e anche contro coloro che, senza sguardo strategico, avrebbero preferito non avere nessun reato di tortura piuttosto che quello oggi codificato.

Oggi, in Italia, la tortura è reato, e ci sono le prime condanne per fatti avvenuti negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano.

Altri procedimenti penali per tortura nelle carceri sono in corso.

Dunque, ora nei tribunali possiamo formulare un nome tragico che, fino al 2017, era impossibile e vietato pronunciare. Si poteva parlare di abusi, maltrattamenti, lesioni, ma non di tortura.

Una lotta culturale

È importante, ora, che tutti gli attori del sistema della sicurezza, compreso quello penitenziario, facciano convergere le loro forze intorno alla repressione e alla prevenzione della tortura. La criminalizzazione della tortura, infatti, va a beneficio anche degli operatori della sicurezza che si muovono nel solco della legalità.

Nessuno era così ingenuo da pensare che una volta ottenuta la legge, buona o brutta che fosse, la tortura sarebbe stata bandita di punto in bianco dalle nostre prigioni, caserme, centri per migranti, e dalle strade.

Il fatto che la tortura sia un reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per la sua prevenzione e per la punizione di chi commette tali atti.

È fondamentale che vi sia una rivoluzione che metta al centro la persona e la sua dignità.

Speriamo che tutte le forze dell’ordine se ne rendano conto e diano un segnale culturale in questa direzione, ad esempio rendendosi disponibili a compiere un percorso di prevenzione concreta della tortura. Un tema rimasto irrisolto, ad esempio, è quello dell’identificazione del personale di polizia, dentro e fuori le carceri. Basterebbe una parola dei vertici affinché possa essere conseguito un risultato. Non ci sarebbe neanche bisogno di una legge, basterebbe un diverso modello organizzativo.

Un altro tema è la costituzione di un fondo per le vittime di tortura. È questa una richiesta che arriva direttamente dalle Nazioni Unite, ma non ve n’è traccia nel nostro ordinamento.

Sighetu Marmației – Maramureș

Formare gli operatori

Ai fini della prevenzione della tortura, un’attenzione più significativa dovrebbe essere rivolta alla formazione degli operatori di polizia e, guardando alle carceri, dello staff penitenziario. Per un personale che non di rado opera in condizioni difficili, infatti, la formazione dovrebbe prevedere, oltre alla teoria, anche la pratica utile per la gestione non violenta dei casi complessi.

È necessario che la formazione sia multidisciplinare e coinvolga operatori non solo di polizia: in carcere un caso difficile si affronta tutti insieme: direttore, poliziotti, educatori, mediatori, psicologi, medici. Fuori dal carcere ugualmente. Si pensi alla neutralizzazione di una crisi di una persona che presenta disturbi psichiatrici: essa non può essere affidata ai soli poliziotti, alle loro armi, alle loro pistole con scariche elettriche.

Dunque la formazione deve essere coordinata e integrata, deve riguardare insieme assistenti sociali, educatori, personale in divisa. E deve riguardare anche i medici. Nelle ultime inchieste per violenze, abusi e tortura nei confronti di detenuti, il ruolo dei medici, seppur gregario, è emerso drammaticamente. Qua e là ci sono incriminazioni per non avere certificato le lesioni viste, per non avere visitato la persona che ne aveva diritto; per negligenza, complicità, soggezione all’apparato securitario.

Il ruolo dei medici è emerso in tutta la sua tragicità nelle violenze avvenute nei confronti dei detenuti delle carceri italiane dopo le rivolte del marzo 2020, in piena pandemia.

Il medico è un avamposto contro le tentazioni di violenza, e deve rispondere al proprio codice deontologico prima che allo spirito di corpo dei custodi.

Lo spirito di corpo

Fortunatamente, diverse inchieste stanno andando avanti da quando è stato introdotto il delitto di tortura nel Codice penale.

Queste azioni giudiziarie ci rassicurano, perché mostrano uno stato che non si lascia plagiare dallo spirito di corpo, e non rinuncia a indagare dentro le proprie istituzioni.

È lo spirito di corpo, infatti, il nemico numero uno per chi vuole reprimere la tortura. Esso è come una cortina fumogena che annebbia la vista degli investigatori. Solo se viene rotto dall’interno, com’è accaduto nel processo Cucchi, c’è la possibilità di avvicinare la verità giudiziaria alla verità storica.

La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato, anche un’amministrazione dello stato disposta a sanzionare. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non si ispiri al machismo, ma alla prevenzione sociale.

Richiede anche la dismissione di squadre e corpi speciali.

La tortura non è mai una questione di mele marce: si insinua là dove trova spazio e terreno fertile, là dove il sistema consente che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. Nel lavoro pubblico, al centro deve esservi sempre la protezione della dignità delle persone, libere o detenute che siano.

Colpa e vergogna

Per l’azione pubblica, l’uomo deve essere sempre un fine, mai un mezzo. La tortura è un crimine contro la dignità di una persona che viene ridotta a cosa, producendo in lei vergogna e finanche senso di colpa.

La vergogna nasce sempre all’interno di una relazione interpersonale, quando l’altro s’impossessa dell’io e lo degrada a oggetto. Il senso di colpa, a sua volta, può nascere nella vergogna. La colpa, infatti, non è solo quella criminale provocata dalla trasgressione, è anche quella politica, quella morale, metafisica o collettiva. Scrive Karl Jaspers che è una colpa anche il fatto di essere ancora vivi dopo Auschwitz. Anche i sopravvissuti, con il loro carico di dolore, hanno il senso di colpa di essersi salvati a differenza degli altri.

Vergogna e senso di colpa fanno parte della semantica della tortura: il torturato, per ottenere giustizia, deve essere capace di raccontare le violenze subite, spesso umilianti, a qualcuno che potrebbe non credergli. Per ridurre i danni sulla sua vita futura, avrà bisogno di anni di psicoterapia senza la quale potrebbe non uscirne salvo, sempre che disponga dei soldi per pagarsi un buon terapeuta. L’idea del suicidio resta sempre sullo sfondo come via di scampo alla vergogna e alla colpa.

Il torturato, per fare sapere agli altri cosa ha subito, potrebbe essere costretto a denudarsi e mostrare le ferite sul proprio corpo.

Crimine contro la dignità

A Bolzaneto, a una ragazza che chiedeva di andare in bagno e di avere un assorbente, venne gettata della carta appallottolata sul pavimento, attraverso le sbarre. La ragazza fu costretta a cambiarsi l’assorbente in cella usando pezzi di vestiti. Il tutto alla presenza anche di uomini.

Esiste un consolidato orientamento della giustizia internazionale secondo cui il rifiuto di dare gli assorbenti a una donna, di tenere conto dei suoi bisogni intimi, equivale a torturarla.

Quella ragazza probabilmente avrà provato vergogna di essere donna. La tortura spesso fa vergognare di essere se stessi.

A volte, la violenza che origina la tortura è una violenza sessuale. In alcuni casi la violenza sessuale è brandita come minaccia.

Sempre a Bolzaneto, una ragazza italiana, mentre veniva accompagnata dalla cella al bagno, fu costretta a camminare lungo il corridoio con le mani sulla testa abbassata. Fu colpita con calci. Venne derisa e minacciata. E venne, infine, insultata con i peggiori epiteti. Frasi offensive intrise di riferimenti sessuali.

Quella ragazza, una volta uscita dal tunnel di quella violenza, probabilmente avrà sviluppato un doppio senso di colpa: per essersi trovata in quel luogo, ma anche per avere avuto paura di quei miserevoli torturatori.

La persona torturata prova vergogna per la propria debolezza, per la propria scarsa resistenza alle pressioni psicologiche.

Se la persona torturata è un uomo, prova vergogna per non avere reagito. Se ha parlato, si vergogna per avere ceduto alle pressioni e avere confessato, il vero o il falso che sia. Non avrà più il coraggio di guardare in faccia i propri amici. Proverà vergogna di se stesso.

Vergogna e senso di colpa permangono anche durante il processo che dovrebbe restituire giustizia. Sono sentimenti conosciuti anche dai familiari delle vittime torturate e uccise.

Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha raccontato di come, nel processo, lei da vittima è stata ridotta a imputata.

Si parla, in quei processi, dello stile di vita dei loro congiunti, si indaga sulla famiglia, si cerca di infangare l’immagine del torturato, così da fare provare vergogna e colpa ai familiari, forse per farli desistere dall’andare avanti.

Papa Francesco e la tortura di tutti i giorni

La tortura è un reato che si consuma lentamente. Durante la tortura la persona prova paura, terrore. E terrore è quello che i migranti vivono nelle prigioni libiche, nelle quali gli organismi internazionali hanno provato esservi tortura sistematica, insieme a stupri e omicidi.

«Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena», così papa Francesco, in un discorso del 2014 all’Associazione internazionale dei penalisti.

Il papa, con poche parole intrise di forza argomentativa e chiarezza, rimuove la tortura dai libri della storia delle pratiche plausibili della giustizia, e la colloca dentro un presente tragico. Distingue tra la tortura giudiziaria, praticata per estorcere confessioni o indurre alla delazione, e la tortura quale esercizio ordinario del potere di punire.

La tortura su cui maggiormente si sofferma il papa non è quella che ha un fine investigativo, ma la tortura di tutti i giorni, quella che non fa notizia, invisibile, quella data per scontata, accettata come se fosse normale condimento della sanzione legale. Quella che i migranti respinti dalle nostre coste potrebbero raccontare facendo impallidire il mondo dei benpensanti.

La contemporaneità restituisce una casistica dolorosa delle torture possibili. Papa Francesco, con il motu proprio dell’11 luglio del 2013, introdusse il delitto di tortura nell’ordinamento giuridico interno allo stato del Vaticano, fino ad allora quasi del tutto sovrapposto a quello italiano. Fu utilizzata la definizione presente all’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura.

La tortura è, dunque, quel plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. La detenzione produce sofferenza. È di per sé un male. La tortura è un’ulteriore inflizione di dolore, oltre a quello oggettivamente prodotto dalla perdita o dalla limitazione della libertà.

Nelle guerre, nelle deportazioni, nelle follie di regime, nei campi profughi, nei luoghi di confine, nelle carceri legali e illegali, viene azzerata la dignità umana e la persona viene degradata a cosa.

La tortura ordinaria

Papa Francesco non si scaglia solo contro la tortura «eccezionale», quella scenica, quella usata come strumento di repressione dalle dittature spietate o dai regimi militari o teocratici. Papa Francesco si preoccupa della tortura «ordinaria», quella delle democrazie contemporanee, degli stati liberali. Si preoccupa della tortura di tutti i giorni.

La tortura è una delle forme di management della sovranità. La sovranità è il nemico da sconfiggere. Fino a quando la sovranità sarà eretta a baluardo etico, filosofico e giuridico dello stato moderno, ci saranno sempre guerre. E ci sarà sempre la tortura. Perché la tortura si nutre dello stesso concime della guerra. Si nutre di sovranità. La sovranità è belligena, nonché intrinsecamente violenta.

Attraverso, dunque, la lente della tortura (e la lotta per la sua proibizione) è possibile comprendere il rilievo del processo di desovranizzazione dello stato quale antidoto alla violenza. Va rotto il circolo vizioso della violenza. Più nonviolenza uguale più dignità umana. Più dignità umana uguale meno sovranità. Meno sovranità uguale meno tortura.

Patrizio Gonnella*

 *Patrizio Gonnella è presidente dell’Associazione Antigone. Insegna sociologia e filosofia del diritto all’Università Roma Tre. Ha scritto numerosi saggi e articoli sui temi della pena e dei diritti umani. È editorialista del quotidiano «il Manifesto» e cura una
trasmissione radiofonica su Radio Popolare.


La tortura secondo l’Onu

Convenzione Onu del 1984 contro la tortura, ratificata dall’Italia con la legge n. 498/1988.

Articolo 1.

  1. Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate.



Il silenzio nella città:

un eremo nell’ex-carcere


Nel cuore di Torino c’è un eremo nato dentro l’ex carcere della città. Incontriamo l’uomo che l’ha fatto nascere, Juri Nervo, laico, operatore sociale nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri. Piccolo fratello secolare che abita la quotidianità e le povertà urbane partendo dalla sua relazione liberante con Dio.


Testo e foto di Luca Lorusso


«Non ho tempo. Le giornate volano e non riesco mai a fermarmi. Cerco di mettere ordine in casa, ma abbiamo troppi oggetti, sembra che si moltiplichino». A chi non succede di sentire dire o di pronunciare queste parole?

La vita quotidiana incalza, e il desiderio di fermarsi è messo da parte. Viviamo in una continua tensione tra opposti: da un lato andiamo di fretta, con superficialità, facciamo gesti automatici svuotati di senso, siamo immersi nel rumore, ci sentiamo soli; dall’altro sentiamo il richiamo della lentezza, della profondità, il desiderio di compiere gesti che nascano da un senso e si orientino a un senso, il bisogno di silenzio e di relazioni autentiche.

A dicembre, nel periodo natalizio, questa tensione cresce. Gli stimoli aumentano di numero, mentre il Natale richiama a un evento singolo, a una persona; cresce il pericolo del consumismo, degli acquisti compulsivi, mentre il richiamo dell’incarnazione è al gustare le cose e alla consapevolezza del dono; ci troviamo a planare su giornate costellate di cose da fare, mentre l’invito è a scendere in profondità; siamo spinti all’azione, mentre il richiamo è alla contemplazione; veniamo colpiti da bagliori intermittenti e violenti, mentre sentiamo di aver bisogno di luci tenui che non feriscano gli occhi.

Un eremo in città

Veniamo a scoprire che c’è un luogo a Torino che richiama al silenzio e alla profondità fin dal suo nome: l’Eremo del silenzio.

Un eremo in città. Subito pensiamo che l’idea ci piace: la città è un luogo dove si cercano relazioni ma si sperimenta la solitudine; in un eremo, all’opposto, si va in cerca di solitudine, e si fa esperienza di non essere soli.

Incuriositi, andiamo a bussare alla sua porta nella speranza di trovare qualche risposta alle tensioni di cui parlavamo sopra.

Arrivati in via Paolo Borsellino 3, siamo sorpresi dal luogo: ci troviamo nella zona centrale, a due passi dalla stazione di Porta Susa e dal palazzo di giustizia, di fronte al nuovissimo grattacielo di una nota banca. Ma, soprattutto, ci troviamo davanti al muro alto e scuro dell’ex carcere «Le nuove», fondato a metà Ottocento e attivo fino al 2001.

Accanto a un pesante portone carrabile c’è un portoncino verde, piccolo ma dall’aspetto altrettanto pesante. Un’insegna ci dice che siamo di fronte al museo del carcere di Torino.

L’unico indizio sull’Eremo sta nella scritta incollata sopra una delle due buche per le lettere a sinistra del portoncino.

Ad accoglierci viene Juri Nervo, l’uomo che ha dato vita nel 2011 all’Eremo del silenzio dentro la piccola palazzina interna al carcere dedicata alle donne terroriste: occhi vivaci dietro un paio di occhiali tondi dai colori brillanti, barba brizzolata più folta dei capelli, indossa un giubbotto sportivo sopra un maglioncino grigio. All’anulare sinistro porta la fede nuziale. Si definisce un «ricercatore», un cercatore di silenzio, ma anche un cercatore di pratiche sociali, d’iniziative di aiuto nei confronti di persone in difficoltà: a scuola, in carcere, in ospedale.

Il luogo

Oltrepassato il portoncino del muro perimetrale, ci troviamo di fronte a un altro portone nel secondo muro che circonda tutte le strutture dell’ex carcere. La vista è piuttosto desolante: muri spessi e alti, macchiati dall’umidità e dallo smog, con pezzi d’intonaco staccati, tubi che scorrono lungo le pareti. In più oggi è una giornata senza sole.

Più avanti, attraversando un cortile, un’altra porta conduce dentro la struttura. Alla sua destra, alcuni finestroni lasciano intravedere l’ambiente nel quale le persone recluse ricevevano le visite dei famigliari. Ora è la biglietteria del museo: un muretto di circa un metro di altezza con lastre di vetro di 30-40 cm sulla sua sommità separa la stanza in due. Di qua sedevano i famigliari su delle specie di panche in muratura, di là i detenuti. Oggi, negli orari di apertura del museo, di là c’è il bigliettaio, di qua le persone, spesso studenti accompagnati dai loro insegnanti, che vogliono visitare il carcere.

Juri è attivo sia nel mondo carcerario che in quello della scuola. Ed è stato proprio grazie alle visite al museo delle classi accompagnate da lui che un giorno, otto anni fa, ha scoperto, nella sezione femminile, un piccolo ambiente abbandonato. Lì avrebbe fatto sorgere l’Eremo.

«Ero arrivato in anticipo. Conoscevo da tempo il direttore del museo del carcere, quindi mi sentivo libero di girare nella struttura. Mentre aspettavo che arrivasse la classe che dovevo accompagnare, ho scoperto questa palazzina abbandonata». Attraverso qualche corridoio e diverse porte, Juri ci ha condotti in un piccolo cortile con un po’ di orto, di prato e qualche pianta. Indica di lato, a sinistra, una piccola struttura di due piani. «Negli anni Settanta c’era bisogno di posto per le detenute terroriste, e allora hanno costruito questo fabbricato. Era il loro 41bis. Quando l’ho scoperto, era in condizioni di completo abbandono. Era da un po’ che riflettevo su un luogo nel quale potermi “ritirare”, allora ho parlato con il direttore del museo che mi ha concesso l’utilizzo di quegli spazi, e di lì a poco ho iniziato a venire per risistemarli. Non c’era riscaldamento, luce e nemmeno acqua. Il tetto era bucato e pioveva dentro. Un po’ per volta, con tanto lavoro manuale, sono riuscito a risistemare tutto. Sono stato spesso aiutato da amici e volontari. Molte volte venivo da solo».

Sarà per il tau presente nel logo dell’Eremo, sarà per i quadri e le icone francescane appesi ai muri, ma questo racconto di Juri ci fa pensare a san Francesco che ristruttura la piccola chiesa di san Damiano.

Le celle

Quando entriamo nell’Eremo ci sembra di entrare in un piccolo palazzo di edilizia popolare: oltre il portoncino ci si trova di fronte a una scala che porta al primo piano. Del piano terreno vediamo solo un breve corridoio accanto alla scala che porta a una stanza dove Juri ci dice che stavano gli agenti. Ora fa da magazzino.

L’Eremo vero e proprio si trova al piano superiore: cinque celle che si affacciano su uno stretto corridoio. Tutto qui. Due celle usate come uffici: uno da Juri, uno da Matteo, l’amico e collaboratore con il quale ha fondato «Essere Umani Onlus», l’ente attraverso il quale lavorano nelle scuole, nelle carceri e ospedali. Una cella è stata trasformata in cappella, una in sala incontri e l’ultima in uno spazio da usare per scopi vari.

Sembrerebbe un posto come un altro se non fosse per le sbarre che chiudono (o aprono) ciascuno dei cinque ambienti.

Perché un eremo in città

L’Eremo del silenzio è un luogo appartato ma aperto, difficile da trovare, ma accogliente: «Alla gente piace perché non è bello, perché qui senti più il calore umano che non il calore della struttura», dice Juri Nervo.

Tutti i giovedì dalle 19 alle 20,30 un gruppo di circa 20 persone si trova per pregare, riflettere, condividere. Una volta al mese la preghiera prende la forma di un’adorazione silenziosa. Anima degli incontri è lo stesso Juri accompagnato dal francescano padre Zeno.

Altra figura importante fino a qualche tempo fa è stata suor Silvia, domenicana di Betania la cui congregazione fu fondata da un sacerdote francese di metà Ottocento dopo aver predicato gli esercizi spirituali in un carcere ad alcune detenute. È stata lei a introdurre all’Eremo il giovedì di adorazione silenziosa.

Oltre alle persone che partecipano agli incontri comuni, diverse altre arrivano all’Eremo in orari e giorni diversi per fermarsi, entrare nella cella della preghiera e lì confrontarsi, ciascuna, con la propria cella, il proprio carcere personale di fronte a Dio.

«Le celle, che prima erano di segregazione obbligatoria, diventano celle di segregazione volontaria. Qui sta la follia», dice con risolutezza Juri. «Esci da casa, vieni qui, ti chiudi in un ex carcere perché vuoi trovare la libertà. Chi ti vede pensa che sei matto. Oppure si domanda se c’è una ragione che ancora non vede. Le suore di clausura fanno la stessa cosa. Nel carcere posso trovare la libertà? Secondo me sì, in tutte le carceri. Ad esempio, i genitori con un figlio disabile che vivono in modo sereno quello che ai nostri occhi è un carcere; oppure chi è malato: ad esempio Chiara Corbella (giovane donna malata di tumore che ha rifiutato le cure per portare a termine la gravidanza e morta un anno dopo il parto, ndr), in quello che noi vediamo come il suo carcere, ha trovato la libertà. Ci sono tante carceri che possono essere luoghi di libertà. Certo è che uno deve fare i conti con se stesso: le proprie ferite, lo sbagliare in continuazione e rialzarsi. Senza, ovviamente, arrivare a dire che il carcere, o la malattia, abbiano un senso». E chiosa: «Sapere che io ho un carcere, abitarlo, è già una cosa diversa dal dire “io non ho un carcere e non so dov’è”. No. L’invito è a iniziare a entrarci, a farci i conti. Sei già molto più libero».

Vivere l’eremo per vivere la città

La sfida rappresentata dall’Eremo del silenzio, per Juri, è quella di vivere la preghiera continua e il silenzio anche fuori dall’Eremo. «Anche quando sei nel mondo puoi vivere una dimensione di silenzio e di preghiera. Anche se non sei dentro un eremo», ci dice mentre ci sediamo uno di fronte all’altro attorno a un tavolino nel suo «ufficio». «Ecco che qui entra il discorso della preghiera del cuore del pellegrino russo, della preghiera silenziosa, del konboskini, il rosario ortodosso. Se sei sul pullman, preghi. Se sei all’ufficio postale e stai facendo la fila, hai due opzioni: o ti arrabbi perché l’impiegata è lenta, oppure vedi la fila come una benedizione perché ti stanno dando del tempo per pregare». Per Juri è così: l’Eremo è il luogo dove si ricarica al mattino e dove ritorna nel pomeriggio a ruminare tutto ciò che vive durante la giornata. Nel suo libro scritto a quattro mani con Chiara M., intitolato La cella e il silenzio, afferma: «Sono come un’ape che va in giro nel mondo, a prendere il polline per poi riportarlo nell’alveare e così trasformarlo». A voce aggiunge: «Al mattino esco da casa presto, vado a messa, vengo qui, prendo un caffè nel silenzio, mi organizzo la giornata, poi esco e vado a lavorare in giro, a seconda delle cose che ho da fare nella scuola, negli ospedali… e poi ritorno per ricaricarmi. È bello avere qui il mio ufficio e sapere che oltre il muro c’è la cappella. Ma questo significa che tutti devono avere un eremo? No, io sono convinto che l’eremo non deve essere per forza uno spazio fisico. Per me è un percorso di santità».

Carceri vere

Quando Juri esce dall’Eremo per il suo lavoro, va negli angoli più disparati di Torino: «La mia attività di lavoro coincide con l’attività di Essere Umani, la onlus che ha preso forma con Matteo che collaborava con me già quando io lavoravo in un altro ente». Juri, da sempre impegnato in ambito sociale, quando sentiva che l’organizzazione per la quale lavorava iniziava a stargli stretta si licenziava. L’ha fatto due volte, fino a creare la sua. «Il nome della onlus, Essere umani, ha a che fare con i ragionamenti che ci sono dietro: mi devo ricordare che ho a che fare con gli esseri umani e devo essere umano io stesso. Nelle scuole vado a parlare attraverso le campagne: ad esempio parlo di mediazione dei conflitti in risposta al problema del bullismo. Andiamo a parlare di carcere perché abbiamo l’esperienza del lavoro nelle carceri. Facciamo “didattica sociale”, cioè andiamo a parlare di quello che abbiamo vissuto in prima persona. Ad esempio, parliamo di carcere nelle scuole perché tutti e cinque gli operatori di Essere Umani hanno vissuto e vivono il carcere. Da poco parliamo anche di ospedale: da quando è nato con il Cottolengo un tavolo di lavoro per costruire un percorso di accompagnamento delle persone malate e delle loro famiglie. Siamo partiti con la nostra presenza nel reparto di oncologia dove seguiamo le donne che vengono raggiunte dalla diagnosi di cancro e le loro famiglie, fino a dopo l’operazione. Nel frattempo siamo presenti anche in altri due reparti di lunga degenza fornendo relazioni d’aiuto».

Le carceri sono l’ambito storico di impegno di Juri: «La onlus è giovane, ma l’équipe è vecchia. Matteo lavora con me da 10 anni. Io lavoro al Ferrante Aporti (carcere minorile di Torino, nda) da 18 anni. Inizialmente andavo per proporre attività sportive, poi con il tempo abbiamo iniziato a fare altro, ad esempio lavoriamo con i ragazzi reclusi per i servizi alla struttura, le pulizie interne, la lavanderia, abbiamo fatto un laboratorio sul miele, facciamo accompagnamento allo studio. Nel frattempo, ragioniamo molto se cambiare delle cose, se sviluppare nuovi progetti, nuovi approcci. L’esperienza educativa nella lavanderia funziona così: un operatore sta con un ragazzo per tre ore, tre volte alla settimana. Nove ore alla settimana in un rapporto individuale. Anche il progetto del miele era pensato uno a uno: apicoltore-ragazzo, così anche il sostegno allo studio. Questi però sono progetti complicati da portare avanti, perché nel carcere non ci sono soldi».

Dio abita la quotidianità

Nella ricerca di una dimensione più umana, più profonda, più essenziale del Natale, ci pare che l’Eremo del silenzio, con il suo essere dentro la città, possa forse dirci qualcosa: è un luogo di silenzio immerso nel cuore del baccano quotidiano. La quotidianità qui non è rifiutata o fuggita, ma accolta e abitata attraverso il silenzio che apre la strada a un livello più profondo. Sembra evocare in qualche modo l’incarnazione: l’umanità contraddittoria e dispersa, la città confusa, diviene dimora di Dio.

Così come l’eremitaggio urbano – ci pare di capire – non è il rifiuto dell’urbanità, ma il tentativo di viverla riempiendola di senso, così l’essenzialità del Natale, forse, non sta nel rifiuto superficiale di fare o ricevere regali, di partecipare a banchetti e feste, ma nel vivere tutto questo partendo dal suo senso profondo, compreso nel silenzio, nell’ascolto, nell’accoglienza. Lì si può capire anche quali sono le cose davvero superflue da abbandonare.

Questo eremo sembra evocare l’incarnazione anche per il luogo in cui è sorto. Dio s’incarna, nasce dentro la condizione di uomo, per liberare ogni persona che si trova ristretta in prigioni di ogni tipo.

Chiediamo a Juri un commento sul Natale: «Quando arriva il Natale, con il presepe, il silenzio, la culla, l’asinello, il bue, siamo tutti lì che ci gongoliamo, ma poi facciamo “punto e a capo”, e partiamo con “che cosa regaliamo a tua madre? Che cosa facciamo per i miei genitori? E per i bambini? E per l’amico?”. Io penso che dobbiamo cercare il modo di fare del Natale un momento di vero silenzio. Silenzio personale. Se ci si riesce, è un silenzio che inquieta. Quando tu entri in questo eremo, ed entri in un’ex cella – che rappresenta la tua cella personale, ed è come una “pseudo mangiatornia” -, quando vieni, ti prendi il tempo, stai lì chiuso e stai in silenzio, lì iniziano i problemi, l’incontro con te stesso, cominci a sentirti, con tutti i tuoi pasticci, i pensieri, i problemi… dopo un po’ di decantazione, inizi a capire dove ti trovi, e poi avviene il tuo incontro con Lui.

Il presepe lo vedi quando riesci finalmente a far tacere tutto. La libertà dell’eremita passa dal fare i conti con se stesso. Il Natale dovrebbe essere anche questo: fermarsi realmente, fermarsi per ripartire. Il Natale è l’evento scatenante che rigenera, e non è un caso se nella liturgia c’è tutti gli anni. Perché noi abbiamo bisogno tutti gli anni di ricordarci chi siamo e da dove veniamo e soprattutto cosa abbiamo scelto: Gesù».

Luca Lorusso