Mondo. Pena di morte: sempre attuale

 

Sempre più paesi decidono di abolire la pena capitale, ma il numero di esecuzioni nel mondo continua a crescere a causa di pochi governi. Spesso è uno strumento di paura e di controllo, ce lo racconta il rapporto 2023 di Amnesty International.

Il 29 maggio Amnesty International ha condiviso il rapporto sull’uso della pena di morte nel mondo nel 2023. Quello che ne esce è un quadro complesso, di una situazione generale in miglioramento, visto che sempre meno paesi applicano la pena capitale, ma le situazioni di alcuni Stati sono invece molto gravi e in peggioramento. Il risultato è un numero di esecuzioni che non si vedeva da diversi anni.

Il totale calcolato da Amnesty è di 1.153, il più alto dal 2015, quando erano state 1.634. In entrambi i casi il numero è sottostimato, in quanto è spesso difficile, se non impossibile, arrivare a dati attendibili. La Cina è il più grande assente, Amnesty stima infatti abbia portato a termine migliaia di esecuzioni nel 2023.

Il dato positivo che emerge dal report è il numero di Stati che ha eseguito pene di morte ha raggiunto il suo minimo storico: solo 16. Questo dato, incoraggiante sull’orizzonte verso il quale si sta muovendo la comunità internazionale, fa però emergere il lato oscuro della medaglia: in diversi paesi, infatti, la situazione è nettamente peggiorata e le esecuzioni sono aumentate esponenzialmente.

Lo stato protagonista dell’incremento calcolato quest’anno è sicuramente l’Iran le cui autorità stanno usando la pena di morte come arma politica e per mantenersi stretto il potere. Le esecuzioni per reati di droga, ritenute illegali dal diritto internazionale, sono state il 56% del totale e sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente. Sono 853 le persone messe a morte in Iran nel corso del 2023.

Dopo Cina e Iran, per numero di esecuzioni, si piazzano l’Arabia Saudita, dove la cifra si attesta a 172 con un leggero calo, la Somalia, dove sono sestuplicate arrivando a 38 e gli Usa dove si è visto un lieve aumento con un totale di 24 esecuzioni. Proprio negli Stati Uniti un piccolo numero di Stati continua a essere molto attaccato a questa pratica e le promesse del presidente Joe Biden di abolirla a livello federale, per ora, non hanno trovato riscontri nella realtà.

Ci sono diversi altri paesi di cui i dati sono tenuti segreti, oltre alla Cina si stima che anche Corea del Nord e Vietnam facciano largo uso della pena capitale pur non avendo nessun numero su cui trarre conclusioni. Restano comunque evidenze di come questi governi utilizzino la pena di morte come minaccia per tenere soggiogate le popolazioni con la paura.

Nonostante alcuni numeri scoraggianti il rapporto di Amnesty mostra che comunque i passi avanti continuano ad esserci, aumentano i paesi abolizionisti della pena di morte, sia quelli che l’hanno abolita nella prassi. E in diversi paesi ne sta venendo ridotto il suo campo di azione o se ne sta discutendo il completo superamento.

Mattia Gisola

 




Il carcere uccide


Il 2024 potrebbe essere l’anno che segna un nuovo record di suicidi nelle carceri italiane. Aumentano le leggi repressive che portano a reati ma mancano gli spazi e le risorse per percorsi dignitosi. Facciamo un approfondimento delle condizioni della detenzione insieme a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Matteo, Stefano, Alam, Fabrizio, Andrea, Mohmoud. Questi sono alcuni dei nomi delle dodici persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel primo mese di questo 2024. Dodici persone che hanno scelto, se di scelta si può parlare, di stringersi un nodo intorno alla gola piuttosto che affrontare la detenzione.

A febbraio sono stati nove i suicidi, a marzo sette, ad aprile cinque. Una lista di nomi che ogni mese diventa più lunga e straziante. Una lista di nomi che, se trasformata in una fredda serie di numeri, ci mostra una statistica che non accenna a migliorare. Il record, negativo, è stato raggiunto nel 2022, con un totale di 85 suicidi; nel 2023 sono stati 70 e i dati del 2024 sembrano tendere a un nuovo primato, tanto che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è sentito in dovere di intervenire per chiedere cambiamenti urgenti sul tema.

L’articolo 27 della nostra Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Se il sistema che dovrebbe rieducare le persone incarcerate per reintrodurle nella società migliori di prima le porta, invece, a togliersi la vita con questa frequenza, diventa necessario interrogarci su quanto funzioni e rispetti i diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale.

Celle ad Alcatraz, San Francisco, USA. (© Lisa Blue)

La situazione nelle carceri

A portare avanti la discussione su questo tema c’è in prima linea, dalla fine degli anni Ottanta, l’associazione Antigone.

Fin dalla sua nascita, l’associazione si impegna per i diritti e le garanzie nel sistema penale compiendo ricerche, indagini e promuovendo dibattiti. Il 22 aprile è uscito il suo nuovo rapporto annuale, intitolato «Nodo alla gola», che per questo 2024 mette a fuoco proprio il tema dei suicidi nelle carceri.

Abbiamo intervistato Patrizio Gonnella, giurista e docente universitario che dal 2005 è anche presidente di Antigone, per provare a comprendere più a fondo i problemi che affliggono il carcere e i suoi abitanti.
Gonnella spiega che, prima di tutto, le condizioni di vita nelle carceri sono fortemente condizionate dal numero di persone detenute. Il giorno del nostro incontro di aprile erano 61mila le persone in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila posti, senza contare ulteriori 3.500 chiusi temporaneamente per diverse ragioni.

«Ciò significa che le persone presenti devono dividersi gli spazi residui che rimangono e questo, come si può immaginare, incide sulla qualità delle condizioni di vita», dice Gonnella, spiegando che gli spazi sono innanzitutto quelli fisici delle celle. Queste sono spesso troppo piccole e inospitali e, in alcuni casi, comprendono, senza separazione, anche i servizi igienici, come hanno potuto constatare gli operatori di Antigone durante le loro visite.

Gonnella aggiunge poi che si parla anche di mancanza di spazi dedicati alle attività scolastiche, educative, di cura e socializzazione. Attività fondamentali per costruire un percorso dignitoso che punti davvero al reinserimento nella società.

Persone fragili

«Questa è una condizione generale che, ovviamente, viene aggravata dalla tipologia delle persone presenti, – continua Gonnella -. Molti di loro oggi presentano condizioni pregresse di vulnerabilità sociale, sanitaria o sociosanitaria, problemi di dipendenze, di doppie diagnosi, sia psichiatrica che tossicologica, stranieri che sono già a loro volta esclusi e che finiscono in carcere completando questo percorso di esclusione».

Aggiunge poi che «soprattutto nelle grandi carceri delle metropoli è possibile osservare una vera e propria reclusione di massa di persone che sono i reietti sociali e quindi l’ultimo gradino nella gerarchia delle classi sociali». Sono persone che spesso non hanno gli strumenti per gestire il forte stress della detenzione e che, se non seguite adeguatamente, vanno ad aggravare la situazione di un ambiente già segnato da alta tensione.

Tutto questo si ripercuote sulla psiche delle persone detenute che si ritrovano catapultate in uno stato di isolamento, abbandonate a loro stesse, con pochissime possibilità di essere seguite in una qualche forma di percorso socializzante ed educativo, e a cui sono spesso limitate fortemente le possibilità di contatti verso l’esterno.
Quando sollecitato su come tutto questo influisca sulla loro salute mentale, Patrizio Gonnella fa notare come nella stessa etimologia della parola «pena» sia intrinseca la componente della sofferenza. Spiega poi come il carcere rappresenti di per sé una condizione di disagio e induca patologie. Inoltre le persone che vi entrano, spesso presentano già da prima stati ansiosi e depressivi. Questi possono innescare episodi di tensione, violenza, autolesionismo, o addirittura portare al suicidio.

Filo spinato ai confini con la Russia (© Evgeny Kuklev)

Isolamento letale

Il suicidio è un gesto che va analizzato caso per caso, ogni episodio ha la sua storia e le sue motivazioni. Quando però i casi sono così numerosi è chiaro che ci sono delle condizioni di sistema che influiscono sul fenomeno. Diventa quindi fondamentale studiare la situazione per poter intervenire in maniera puntuale.

Gonnella elenca alcuni ambiti su cui agire. Spiega come sia necessario «far sì che la prima accoglienza sia una delle fasi nelle quali si investano più energie umane ed economiche. La persona quando entra in carcere deve essere presa in carico, in cura, e non messa nei luoghi peggiori dell’istituto, dove le idee suicidarie possono rafforzarsi». Dalle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere si nota, infatti, come spesso l’atto estremo sia avvenuto nel primo periodo di detenzione.

L’isolamento è sicuramente uno dei fattori centrali nel determinare il deterioramento psicofisico che l’esperienza carceraria induce. «Bisogna aumentare i rapporti con l’esterno – continua Gonnella -, aumentare il numero delle telefonate e la durata delle stesse, aumentare i colloqui e le videochiamate. Bisogna far sentire la persona il meno sola possibile e far sì che ci sia vita all’interno del carcere. Vita significa che girando per le sezioni i detenuti possano sentire di non essere completamente abbandonati, che ci sono opportunità, possibilità di svago, di pensare ad altro e non solo alla propria condizione di recluso. Questo è l’impegno che deve avere l’amministrazione: modernizzare, innovare e umanizzare la pena».

I tassi di recidiva

Non è solo una questione di sacrosanto rispetto della dignità umana dei detenuti. Il sistema penale, infatti, oltre a non garantire un trattamento adeguato alle persone che ha in carico non riesce nemmeno a dare una vera sicurezza al resto della società.

La maggior parte della popolazione detenuta non si trova in carcere per la prima volta, ma per la seconda, terza, quarta o quinta. I tassi di recidiva sono altissimi, secondo alcuni recenti dati diffusi dal Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) circa il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati. Emerge in maniera chiara, quindi, che la funzione rieducativa del carcere richiesta dalla nostra Costituzione non è solo un dovere nei confronti della persona che si è macchiata di un reato, ma anche nei confronti della società che si aspetta di poter reintegrare gli ex detenuti.

I dati ci dimostrano che uno degli strumenti più potenti in questa direzione è il lavoro. Gli ex detenuti reintrodotti nel mondo del lavoro tornano a commettere reati solo nel 2% dei casi (sempre secondo i dati diffusi dal Cnel). A riprova che percorsi virtuosi ed efficaci possono esistere e che il carcere, ricevendo persone spesso ai margini della società, deve lavorare per ridare loro dignità e non per alimentarne l’esclusione.

Il presidente di Antigone sottolinea un’altra criticità: i dati in materia di recidiva sono pochissimi. Non ci sono indagini ufficiali per capire quali tipi di percorsi culturali, scolastici, lavorativi o psicologici, possano impattare su questi numeri. Una buona politica criminale dovrebbe, invece, cercare di capire quali percorsi ed elementi possano influire per potenziare determinate aree di intervento.

Populismo penale

Queste storie tragiche e questi numeri dovrebbero indurre a utilizzare la strada della detenzione esclusivamente come ultima spiaggia, quando proprio non c’è alternativa. C’è però una tendenza della politica a utilizzare il carcere come risposta ai problemi di sicurezza del nostro paese, per rassicurare le persone promettendo la via più rapida e scenica, quella di togliere dalle nostre città le persone che potrebbero procurare qualche tipo di disagio.

Anche Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, ha spesso criticato questo approccio durante la sua carriera. Pochi minuti dopo il suo giuramento al Quirinale, avvenuto il 22 ottobre 2022, aveva affermato alla stampa: «La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati. Quindi anche eliminando questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali. Questo non è vero».

Il governo di cui fa parte non sembra però seguire la stessa linea. La squadra guidata da Giorgia Meloni ha, in questi mesi, aumentato e introdotto ulteriori reati per rispondere a diversi fenomeni, più o meno gravi.

«È quello che possiamo chiamare populismo penale -, spiega Gonnella – una tendenza a rassicurare l’opinione pubblica attraverso l’opzione carceraria. È una rassicurazione simbolica, perché in realtà non c’è un legame tra aumento delle pene e aumento della sicurezza collettiva. È una risposta rassicurante che viene data prescindendo dai dati statistici e di realtà e che parla alla pancia delle persone».

Alternative

Discutendo con il nostro interlocutore, infine, su come bisognerebbe agire emerge la necessità di intervenire su due assi: ridurre il numero di reati punibili con il carcere e il numero dei detenuti, e migliorare le condizioni della detenzione.

Patrizio Gonnella sostiene che andrebbero fortemente limitate le fattispecie dei reati che portano alla carcerazione, escludendo da questo ragionamento il crimine organizzato, i delitti contro la persona e alcuni contro il patrimonio. Per tutto il resto invece bisognerebbe sanzionare in modo diverso e più efficace, ad esempio con attività a favore della collettività, sempre con l’attenzione a non limitare le attività lavorative e di istruzione. Il presidente di Antigone afferma con decisione la necessità di «sganciare dal penale tutto ciò che ha a che fare con il disagio, perché il disagio va affrontato con le politiche di welfare». Bisogna infatti evitare di costruire una spirale che escluda sempre di più gli emarginati e favorire azioni che aiutino le persone a superare le difficoltà che le spingono nella criminalità.

L’altro versante è quello del carcere, ambiente che andrebbe fortemente modernizzato e umanizzato. Stare in carcere non deve significare stare in cella, ma piuttosto, ricorda ancora Gonnella, «trascorrere le ore notturne in cella e le ore diurne in attività che possono essere di scuola, lavoro, sport, cultura, intrattenimento e così via. In modo tale che si possano avere a disposizione quelle opportunità che nella vita non si sono ancora avute o che non si sono volute prendere».

Mattia Gisola




Carceri Italia. Tre metri quadrati a testa

 

Inasprire le pene è utile per i consensi elettorali ma inutile per migliorare la convivenza civile. Intanto i carcerati vivono sempre peggio.

Da mesi l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati sembra essere diventata la principale risposta (inutile) dello Stato alle «emergenze» sulle quali si focalizza periodicamente la cronaca nazionale: dalla violenza di genere alle gang giovanili, dalle proteste ambientaliste alle rivolte nelle carceri, e così via.

Il populismo penale produce consensi elettorali, ma non aiuta a risolvere i problemi. E ha tra le sue conseguenze la violazione sempre più frequente dei diritti delle persone incarcerate. Queste aumentano di numero senza vedere aumentare gli spazi e migliorare la qualità della vita dietro le sbarre.

Due dati possono dare un’idea delle condizioni disumane nelle quali vivono molti detenuti (e, spesso, anche il personale che nei penitenziari lavora): la densità di popolazione ristretta e il numero di suicidi.

 

Al 31 dicembre 2023, secondo i dati del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria era di 60.166 persone. L’associazione Antigone, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, indica in un suo breve report che la capienza complessiva effettiva del sistema carcerario è di circa 48mila posti, e sottolinea il fatto che i detenuti abbiano in media meno di 3 metri quadrati a testa a disposizione nelle proprie celle.

Tra le carceri visitate dall’associazione ve ne sono alcune che ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza della struttura: a Brescia il 200%, a Foggia il 190%, a Como il 186%, solo per fare alcuni esempi. Questo significa che in uno spazio per due persone vivono in quattro. Celle nelle quali manca troppo spesso il riscaldamento (9% delle strutture monitorate da Antigone), l’acqua calda e la doccia (52,2%), uno spazio separato per il wc (4,5%).

 

Il secondo dato da sottolineare è quello relativo ai suicidi. Nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 68 persone. L’età media era di 40 anni. Quindici tra loro non ne aveva più di 30 (questi e altri dati sono consultabili al questo link).

Se consultiamo il sito del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, troviamo maggiori dettagli, benché gli ultimi dati si riferiscano al 2022: su una popolazione carceraria che in quell’anno contava 55mila detenuti, se n’erano suicidati 85. L’età media era di 40 anni. I più giovani avevano 21 anni. Il più anziano 83. Trentasei erano stranieri, 20 dei quali senza fissa dimora. Fa riflettere il dato riguardante gli stranieri: essi rappresentano il 31,4% della popolazione carceraria, ma il 42% dei suicidi.

In generale è impressionante il confronto tra il numero di suicidi riferito alla popolazione italiana (0,6 ogni 10mila persone) e il numero di quelli riferiti alla popolazione carceraria (15 ogni 10mila nel 2022, 11 ogni 10mila nel 2023: tra le 19 e le 25 volte più frequenti).

Accanto ai dati «grezzi» sui suicidi in carcere, l’Associazione Antigone ne riporta altri che aiutano ulteriormente a comprendere il contesto: «Nel corso del 2023, negli istituti visitati da Antigone, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute». Ci sono state 13 diagnosi psichiatriche gravi ogni cento detenuti, sono stati somministrati farmaci stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, antidepressivi a 19,2 detenuti su cento, sedativi e ipnotici a 38,4 su cento.

 

Per dare un volto umano e una storia ad almeno uno dei tanti che per l’opinione pubblica rischiano di rimanere solo numeri, vale la pena riportare alcuni stralci di una lettera datata 9 gennaio 2024, diffusa via newsletter dalla rivista «Ristretti orizzonti», scritta da Manuela Mezzacasa, una professoressa volontaria al carcere Due Palazzi di Padova, sul suicidio di un suo ex studente ventiseienne detenuto da pochi mesi:

L’ultima volta che l’ho intravisto […] camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente […]. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia.
In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi […]. Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…. Già, e lui era un ragazzino molto speciale.

Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno […]. Mai frequentato regolarmente la scuola […]. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. […]. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo.
Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. […].
Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. […] Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?
Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. […] Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”.

[…] Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati […]. Abbiamo parlato, dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. […]. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche […].

Non l’ho più rivisto».

Luca Lorusso




Filippine: La (sporca) guerra alla droga


Il presidente Rodrigo Duterte ha fatto della lotta alla droga la sua bandiera. I metodi che usa, tuttavia, non sono dei più legali. Spacciatori e consumatori possono essere freddati dalla polizia al minimo sospetto. Mentre le carceri del paese sono sovraffollate e i centri di riabilitazione (per tossicodipendenti) pure. Reportage (a caldo) dal paese delle settemila isole.

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone

Canottiera bianca, pantaloni neri e mocassini marroni. Orly Fernandez veste sempre alla stessa maniera. Il viso, scarno, è incorniciato da capelli a caschetto neri corvino. Gli rimangono pochi denti, ma, tutto sommato, dimostra meno di sessant’anni, la sua età.

Esce dal suo laboratorio con un foglio tra le mani. «Glielo hanno appiccicato sul petto con del nastro adesivo. C’è scritto: “Sono uno schifoso tossico”. Gli hanno legato mani e polsi e gli hanno sparato alla tempia. Ha il cervello spappolato».

A Malabon, una città di quasi 400mila abitanti a pochi chilometri a Nord della capitale delle Filippine, Manila (nella Regione capitale nazionale), tutti conoscono Orly. Dal 2001 manda avanti la Eusebio Funeral Services, la più famosa agenzia di pompe funebri della zona.

Siede alla scrivania nello studiolo dove tiene la contabilità, accanto alla sala del commiato. Osserva per qualche secondo un cartello sopra la sua testa con la scritta «L’autopsia è gratis».

«I nostri prezzi sono competitivi. Per le persone uccise per fatti di droga – di solito le più povere – chiediamo 35mila pesos (quasi 600 euro). I nostri concorrenti arrivano a chiedere anche più del doppio».

Guerra alla droga

I governi che negli ultimi anni si sono succeduti nelle Filippine hanno dichiarato guerra allo shaboo, una metanfetamina molto potente. Il suo costo è accessibile: un grammo può valere tra gli 80 e i 100 euro, di solito è acquistato con una colletta. Le diffuse problematiche sociali hanno favorito l’ingresso e la diffusione dello shaboo nel paese. Ma è stato con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, che si è registrato un netto aumento delle operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti. Un personaggio, Duterte, che ha fatto della guerra alla droga la sua personalissima crociata. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime, nda) […] ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli. […] Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me». Queste le sue parole al momento dell’insediamento.

Sia in patria che all’estero Duterte è accusato di essere il mandante di esecuzioni extragiudiziali. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio del suo mandato i morti ammazzati per questioni relative allo shaboo sono più di 20mila. Per la polizia questi sarebbero meno di un quarto – tutti passati a miglior vita perché avrebbero messo a rischio l’incolumità degli agenti -, mentre il numero degli arresti ammonterebbe a 100mila.

I fatti parlano chiaro: oggi nelle Filippine chi viene sorpreso a spacciare o a consumare shaboo muore. Chi ammazzato da sicari in motocicletta – qui meglio conosciuti come vigilantes -, che non si prendono nemmeno la briga di coprirsi il volto; chi in retate della polizia che viene sospettata di introdurre sulla scena del crimine armi posizionate ad hoc, per sostenere che l’agente di turno ha dovuto fare fuoco per legittima difesa; chi giustiziato con un colpo in testa e fatto ritrovare in una pozza di sangue su un marciapiede.

Così l’avvento di Duterte ha fatto la fortuna delle pompe funebri, tra cui la Eusebio. «Ho molti contatti con la polizia. Quando trovano un morto chiamano me. Anche cinque o sei cadaveri in una notte.

Ci tengo però a dire che non paghiamo nessuno per questi favori». Chi muore per fatti di droga non viene neanche più portato all’obitorio. La scientifica fa i suoi rilievi e il medico legale si limita a constatare il decesso. Lo spacciatore, o il tossicodipendente di turno, va liquidato subito, facendo spendere il meno possibile allo stato, così le forze dell’ordine si rivolgono direttamente alle pompe funebri.

«Nel caso in cui nessuno viene a reclamare il corpo – spiega Orly – lo avvolgiamo in un lenzuolo bianco e lo portiamo al cimitero. Lì viene seppellito insieme ad altri corpi non reclamati o identificati».

Pronto intervento

Sono quasi le undici di sera. Squilla il cellulare di Orly. «Ok», si limita a rispondere. Mette giù e corre ad avvisare i suoi due «giovani»: è così che chiama i suoi assistenti, coetanei Carlos e Joseph. «Andiamo, hanno trovato il corpo di un ragazzo non molto lontano da qui».

A quest’ora non c’è traffico e in pochi minuti raggiungiamo il luogo del misfatto: un vicolo cieco poco illuminato nel baranggay (quartiere) Baritan. La pioggia battente non fa desistere i più curiosi intorno al perimetro delimitato dalla scientifica.

Una signora anziana si dispera. Ha continui mancamenti. È la madre della vittima e Orly si catapulta su di lei mettendole in mano il suo biglietto da visita. Le sussurra qualcosa all’orecchio e sale sul furgoncino.

Herman, questo il nome del ragazzo ammazzato. Ventotto anni. Era uno del baranggay. È stato freddato con un colpo di pistola in un occhio mentre rincasava. Ha il volto e il busto interamente coperti dal sangue. La scientifica non si degna neanche di coprirlo.

«Fumava shaboo tutto il giorno. Sapeva quali rischi correva», dice a bassa voce una sua giovane vicina di casa. «Mi hanno detto che aveva cominciato a spacciare», le fa eco un signore di mezza età.

I poliziotti finiscono i rilievi e fanno cenno ai «giovani» di Orly di prendersi il loro morto. Lo spettacolo è finito e la folla si disperde.

Il «metodo» Duterte

Punta di diamante della crociata di Duterte è la strategia tokhang (dalla contrazione delle parole toktok «bussare» e hangyo «richiesta»), già ampiamente rodata ai tempi in cui era sindaco a Davao. I poliziotti, grazie a una rete di informatori, sono dotati di elenchi dettagliati di utilizzatori e venditori di shaboo. Sulla base di questi invitano gli spacciatori a consegnarsi alle autorità e ad avere in tal modo salva la vita. Un solo avvertimento: chi sgarra ha le ore contate. Il tokhang sembra avere dato i suoi frutti. Secondo gli archivi della polizia nazionale, in poco più di due anni di governo Duterte sarebbero state più di un milione e mezzo le autodenunce che hanno comportato un impressionante sovraffollamento delle carceri e dei centri di riabilitazione.

«La polizia ha almeno una spia in ogni baranggay. Quando questa viene a sapere di un tossico o di uno spacciatore in zona, spiffera tutto ai poliziotti che fanno fare il lavoro sporco ai vigilantes».

Fe Siega Peregrino ha 54 anni, è vedova e vive insieme ai quattro figli nell’umilissimo Distretto 2 a Quezon City, una città di oltre due milioni di abitanti confinante con la capitale Manila, sempre nella Regione capitale nazionale.

Da un anno a questa parte alla famiglia Peregrino si è aggiunta Lady Love, 12 anni, figlia di un cugino di Fe Siega. «I suoi genitori sono stati uccisi davanti ai suoi occhi. Adrian e Vivian sono stati giustiziati con una pistola da uomini mascherati. Non è importato loro di farlo davanti alla bambina. È stata Lady Love a raccontarcelo. La polizia non ha mai aperto un’indagine».

Con una scopa Fe Siega caccia un ratto che si è intrufolato in casa. «Mio cugino Adrian tirava un risciò, un lavoro molto faticoso. Non guadagnava abbastanza per mantenere moglie e figlia. Vivian faceva l’estetista a domicilio e anche i suoi guadagni erano scarsi. Poi, un giorno, hanno provato lo shaboo. Annullava la stanchezza, così potevano lavorare più ore al giorno. Hanno cominciato a spacciarla entrambi per fare più soldi. Le spie sono venute a saperlo e li hanno uccisi. Non so se avessero avuto qualche avvertimento».

In un recente dossier di Amnesty International dal titolo Se sei povero, vieni ucciso1, supportato da inchieste, reportage e testimonianze, viene spiegato come nelle Filippine nascono le liste stilate dagli informatori della polizia. Viene dato risalto a dicerie, rivalità, trascorsi reali o completamente inventati. Un agente riceve delle mazzette per delle esecuzioni: tra i 155 e i 285 euro, talvolta con un’aggiunta da parte delle autorità locali. Succede anche che un ufficiale retribuisca i vigilantes per ammazzare al posto suo.

La via della riabilitazione

Per gli spacciatori grandi, medi e piccoli delle Filippine dell’era Duterte, è possibile scegliere tra morte violenta e carcere: sono le uniche due alternative. Per i tossicodipendenti si aggiunge una terza scelta: la riabilitazione. Essere accettati in un centro di riabilitazione è una vera e propria benedizione: non c’è il rischio di essere ammazzati e dopo un periodo, relativamente breve, di trattamento, si può ricominciare una nuova vita.

Il Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Bitucan si trova a Taguig City, altra città alle porte di Manila. Ubicato all’interno di un compound della polizia, è uno dei più grandi del paese e rientra nelle quaranta strutture di recupero riconosciute dal governo.

Il dottor Bien Leabres è il direttore sanitario della struttura: «Nell’agosto del 2016 abbiamo toccato un picco di 1.500 persone. Da allora la media mensile è di mille pazienti, anche se il nostro centro non potrebbe ospitarne più di 500 tra uomini e donne».

Tutti s’inchinano al suo passaggio. «Good morning Sir!», sono le uniche parole proferite dalle bocche dei pazienti. Ovunque regnano il silenzio più assoluto e la disciplina. Indipendentemente da età e sesso, sembrano tutti automi svuotati di ogni volontà.

«Nel 90 per cento dei casi, i nostri pazienti fanno uso di shaboo. Il restante 10 per cento si divide tra marijuana, ecstasy e cocaina». Il dottor Leabres viene interrotto in continuazione da infermieri che gli portano incartamenti da firmare. «L’intero ciclo di riabilitazione può andare dai sei mesi a un anno. Successivamente i nostri pazienti devono tornare qui con una certa regolarità, di solito una volta a settimana, per seguire un altro programma sanitario. Pagano solo una parte della quota mensile, 3mila pesos (circa 50 euro), mentre alla parte restante, 12mila pesos (circa 200 euro), ci pensa lo stato. Ma se il paziente è povero è lo stato a sobbarcarsi l’intera retta. Quasi il 70 per cento dei nostri pazienti è qui a titolo gratuito». Nella clinica, che dipende dal ministero della Sanità, ci sono scuole, atelier, mense, dormitori e un campo da pallacanestro, lo sport nazionale. I pazienti indossano dei pantaloncini e una t-shirt il cui colore varia a seconda dello stadio di guarigione. Chi è all’inizio del percorso porta il verde, chi è alla fine il bianco.

Sveglia alle cinque di mattino. Poi attività fisica e pulizie degli spazi comuni. Corsi di teatro, pittura e falegnameria. Il pasto, a pranzo e a cena, è sempre lo stesso: riso, pollo, verdure e un frutto. Nel tardo pomeriggio ogni paziente deve scrivere su un diario personale come ha trascorso la giornata, che sarà letto dalla squadra di psicologi. Alle nove in punto si spengono le luci.

«Tutte le rehab (i centri per la riabilitazione) – dice il direttore – sono sovraffollate. È per questo motivo che in parlamento si è votato lo stanziamento di fondi per la creazione di un nuovo centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Manila che potrà arrivare a ospitare fino a 5mila persone».

Nelle carceri di Mindanao

Le rehab hanno molto in comune con le carceri. Il sovraffollamento prima di tutto. L’intero sistema penitenziario filippino sembra dovere implodere da un momento all’altro. Le prigioni, sia maschili che femminili, ospitano da due a quattro volte il numero di persone per cui sono state pensate. Costruzioni che, già sul nascere, non rispettano neanche lontanamente gli standard dettati dalle Nazioni Unite.

Dall’isola di Luzon, dove si trova la Regione capitale nazionale, andiamo in aereo a Davao, una delle città più grandi del paese, sull’isola di Mindanao. Davao è la roccaforte della famiglia Duterte, e oggi è governata dalla figlia di Rodrigo, Sara. Qui tutto inneggia ai meriti del presidente per aver ripulito le strade dell’arcipelago da tossici e spacciatori. La prigione e fattoria penale di Davao si perde a vista d’occhio. Un’area di 30mila ettari, 8mila dei quali destinati a due carceri, una maschile e una femminile. Un’immagine che più di tutte descrive le condizioni in cui versa la struttura e, più in generale, l’universo delle prigioni filippine ai tempi di Duterte è la seguente: letti a castello fino a quattro piani, due persone per materasso e amache – per chi se le può permettere – montate all’interno degli stessi letti a castello.

Nella sezione maschile, che potrebbe ospitare massimo 3mila detenuti, ce ne sono 5.400. I dormitori sono un’accozzaglia di spranghe di ferro – i letti – malamente saldate una all’altra. I prigionieri più anziani si trovano in una camerata dove i letti a castello non superano i due piani. C’è anche una camerata riservata agli stranieri, in buona parte occidentali.

Il carcere maschile di Davao è diviso in tre sezioni separate una dall’altra da una rete di ferro ricoperta di filo spinato. Nella prima, chiamata Inmate Minimum, i detenuti indossano una maglietta marrone e scontano pene sotto i dodici anni; nella seconda, Inmate Medium, magliette blu e pene dai dodici ai ventidue anni; nella terza, Inmate Maximum, indumenti colore arancione e pene dai ventidue anni all’ergastolo. In quest’ultima sono rinchiusi quasi esclusivamente tossicodipendenti e spacciatori.

Le giornate sono scandite da un programma denso. Sveglia alle 4:30; ginnastica con tracce pop e dance, doccia, colazione a base di riso e uova, lavanderia, attività facoltative come artigianato e corsi di teologia. I detenuti con la maglietta marrone possono andare a lavorare, retribuiti, nella fattoria penale. Poi pranzo, pomeriggio libero durante il quale è possibile continuare con le proprie attività, i corsi letterari, guardare la Tv o giocare a biliardo e a pallacanestro, andare a messa in chiese improvvisate o a pregare alla moschea e infine la cena. Le luci si spengono alle 21:30 in punto.

La voce dei reclusi

Incontriamo alcuni detenuti: «Il mio vicino di casa aveva allestito nel suo appartamento un piccolo laboratorio per la produzione di shaboo. Una sera, durante una retata, mi trovavo sul pianerottolo. Gli agenti arrestarono anche me credendomi un suo collaboratore». Quando accadde il fattaccio, Brian aveva 23 anni. Oggi ne ha 38. Il giudice lo ha condannato all’ergastolo.

Persone nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambi di persona, errori giudiziari nella classificazione delle prove. Già da prima dell’arrivo di Duterte, la politica della «tolleranza zero» nei confronti delle droghe era in voga. Ufficialmente il suo governo non ha fatto altro che inasprire le leggi e mostrare i muscoli attraverso le retate della polizia.

«Vi rendete conto che sono qui per due maledettissimi grammi di shaboo? Forse ci dovrò passare tutta la vita. Non sono un drogato, volevo solo provare una cosa nuova». Ronald ha appena 22 anni.

Virgilio, 56 anni, dovrà invece scontare una condanna di vent’anni per tentato omicidio. «Un anno fa ho provato ad ammazzare mio nipote perché era diventato il disonore della famiglia. Si drogava e vendeva shaboo». Eric, 47 anni, ha stuprato una minorenne. È accaduto quasi due anni fa. «Sono pentito», è l’unica frase che si sente di dire. Dovrà rimanere dietro le sbarre sedici anni.

Le sentenze per il tentato omicidio e lo stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Poco importa se i quantitativi di droga siano bassissimi. Tocchi lo shaboo e, se non vieni giustiziato, finisci al fresco per oltre vent’anni o fino all’ultimo dei tuoi giorni, a discrezione del giudice.

Ciò che più sorprende, parlando con i detenuti, è che quasi nessuno si lamenta del sovraffollamento del carcere. In molti lamentano l’ingiustizia per la condanna ricevuta – quasi il 70 per cento dei prigionieri si trova qui per reati connessi alla droga – ma tutti sembrano sopportare senza eccessive rimostranze una vita tanto congestionata.

«Certo – spiega Arthuro, 61 anni, un ex professore di liceo, mentre gioca con un cucciolo di cane divenuto la mascotte del suo dormitorio – non è piacevole vivere così. Alla radio ho sentito che il congresso sta votando un disegno di legge per stanziare 3 miliardi di pesos l’anno (quasi 50 milioni di euro), per cinque anni, affinché vengano migliorati e ampliati gli istituti penitenziari esistenti. Ma io penso che siano altri i problemi. Ad esempio le visite. Sono permesse tutti i giorni, ma molti di noi provengono da altre località, da altre isole e i nostri parenti e amici devono sopportare alti costi per raggiungerci. Io vengo da lontano, sono qui da cinque anni e in tutto questo tempo ho ricevuto solo tre visite».

Chi è sposato e possiede un documento che lo certifichi, ha diritto ad accedere alla room for conjugal visit use, una stanzetta dove è possibile avere rapporti sessuali con la propria coniuge. L’ambiente consiste in quattro pareti di legno senza tetto all’interno delle camerate. Ogni camerata ha almeno quattro di queste stanze per le visite coniugali, ognuna delle quali contrassegnata da un carattere # seguito da un numero. Pertanto la moglie, non solo deve attraversare ali del carcere colme di detenuti, ma deve anche consumare l’atto con il marito nella totale assenza di privacy. A completare la scena, immagini pornografiche che tappezzano le pareti della room e ciabatte messe a disposizione delle signore. Nelle carceri femminili, invece, le camere per le visite coniugali non sono previste perché a seguito del rapporto la reclusa potrebbe rimanere incinta.

Altro fatto impressionante è il numero delle guardie. La buona condotta dei galeotti influenza il numero dei secondini preposti alla loro sorveglianza. Nella sezione Maximum, che ospita circa 1.500 persone, ci sono appena tre agenti. Una guardia per 500 persone. «Ad aiutarci – confida un secondino che chiede di rimanere anonimo – ci sono alcuni detenuti modello, come i capi dormitorio. Hanno il compito di far rispettare le regole e raccogliere eventuali lamentele. Vanno in giro con i nostri stessi manganelli, ma è raro che se ne servano. Lavoro qui da diversi anni e non abbiamo mai registrato disordini».

Luca Salvatore Pistone

 

(1) Il rapporto di Amnesty International citato è reperibile sul web: www.amnesty.it/filippine-la-guerra-della-polizia-ai-poveri.