Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.
Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»
1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela
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- Popoli indigeni, afro e periferie
- La scelta degli indigeni della Guajíra
- Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
- Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
- La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
- L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana
Nei «barrios» di Caracas
Periferia esistenziale
Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.
Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.
Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.
Promesse (non mantenute) di Caracas
Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.
Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.
La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.
Il populismo di Chávez e Maduro
Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.
Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.
I missionari nel barrio
I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.
Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.
Sergio Frassetto
Carapita
Salita al barrio
Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.
Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.
Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.
Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.
Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.
Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.
Primi passi a Carapita
Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.
È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.
Un discernimento fatto con attenzione
Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».
Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.
Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».
I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).
La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).
Missionari delle periferie
Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.
È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.
Sergio Frassetto
Vita nelle barriadas
Missione nei vicoli dell’alveare
Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.
«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.
Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».
Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.
«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».
Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.
«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».
Tra pendenze e spazi risicati
Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.
Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.
Parrocchia missionaria
Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.
I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.
Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).
Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).
Organizzare una parrocchia immensa
I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.
I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.
In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.
Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».
Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».
Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».
La «olla solidaria»
Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).
L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.
L’87% della popolazione vive in povertà e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.
Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.
Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.
Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.
Un parroco psicoteraperuta
D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.
«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».
Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».
Sergio Frassetto