Daadab. La città dei tendoni


Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Immaginate una città grande come Firenze. Senza però monumenti e strade asfaltate. Senza case in muratura. Senza un fiume che l’attraversa. Una distesa infinita di rifugi improvvisati, capanne, tende, circondata da un deserto arido dove a farla da padrona è una terra rossa che impregna l’aria e riempie i polmoni.

Di fronte a voi, ecco Dadaab, il più grande campo profughi dell’Africa che sorge nel Nord del Kenya, nell’Africa orientale.

Fondato nel 1991 dalla Croce rossa internazionale e gestito dal governo keniano e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), da allora ha continuato a ospitare un flusso imponente di somali in cerca di rifugio, inizialmente dagli scontri tra le milizie claniche seguiti alla deposizione del presidente somalo Mohamed Siad Barre, poi dalla violenza delle milizie fondamentaliste di al-Shabaab (cfr. MC maggio 2018) e dalla siccità.

Sono trascorsi 32 anni e, nonostante Dadaab fosse stato concepito come un’infrastruttura temporanea, la maggior parte dei rifugiati che vivono nell’insediamento è nata qui e qui ha sempre abitato. Dadaab è la loro città e, spesso, è l’unico posto che conoscono.

Refugees stand in line at Kenya’s sprawling Dadaab refugee complex during a visit of Pakistani activist for female education and the youngest-ever Nobel Prize laureate Malala Yousafzai organised by the UN High Commissioner for Refugees, in Garissa on July 12, 2016. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

I quartieri della «città»

Il campo si compone di cinque insediamenti principali, noti come Ifo, Dagahaley, Hagadera, Kambioos e Ifo 2. Ciascuno di essi ha il proprio centro sanitario, scuola e servizi di base. Negli anni scorsi, il campo ha ospitato fino a 500mila persone, scese poi a 250mila e risalite a 350mila negli ultimi sei mesi. Tanto è vero che il governo keniano ha ordinato la riapertura di due quartieri di Dadaab che erano stati chiusi nel 2019 a seguito della riduzione dei rifugiati per effetto di un programma di rimpatrio volontario in Somalia.

Il rapporto tra Kenya e Daadab è controverso. A più riprese i politici keniani hanno annunciato, anche a scopo di consenso elettorale, l’intenzione di chiudere il campo e rimpatriare i rifugiati in Somalia, ma l’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie hanno sollevato preoccupazioni per la sicurezza dei rifugiati e per la situazione umanitaria in Somalia. Il campo di Dadaab è quindi rimasto aperto e, nel tempo, è diventato sempre più una questione urgente e complessa da gestire per la comunità internazionale.

Nel rapporto Emergency watchlist che ogni anno la Croce rossa internazionale stila per individuare quali sono i paesi a maggiore rischio di crisi umanitarie, la Somalia è al primo posto. Oltre duecentomila persone nel Paese stanno soffrendo le conseguenze di un aspro conflitto civile contro la milizia fondamentalista al-Shabaab, e questo numero, si prevede, triplicherà entro novembre 2023.

Al conflitto, che interessa soprattutto le regioni centrali e meridionali, si sta aggiungendo una forte siccità causata dalla quinta stagione consecutiva di scarse o nulle precipitazioni atmosferiche (le previsioni annunciano che anche il 2023 sarà asciutto). Ciò ha provocato una diffusa insicurezza alimentare e una forte dipendenza dalle importazioni di cibo dall’estero. Anche queste, però, si sono ridotte per l’instabilità causata prima dalla pandemia di Coronavirus e poi dalla guerra tra Russia e Ucraina (tra i maggiori esportatori mondiali di cereali).

Di fronte a questa situazione drammatica, migliaia di famiglie abbandonano le loro case cercando rifugio in altre zone del Paese o all’estero.

Fuga dalla Somalia

Le storie di chi arriva a Dadaab sono drammatiche. Dekow Derow Ali, padre di quattro figli, faceva affidamento sui suoi raccolti e sul suo bestiame per sostenere la famiglia. Ma tre anni senza pioggia hanno distrutto i suoi mezzi di sostentamento. «Si piantano i semi, ma poi non c’è nulla da raccogliere – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr, agenzia Onu per i rifugiati -. Le mie mucche sono morte all’inizio della siccità. Ho perso anche alcune capre». Allora Dekow ha venduto le capre rimaste e, con i soldi ricavati, ha pagato il trasporto per sé e la famiglia fino a Dadaab. «Sono venuto senza nulla, tranne i miei figli», ha detto.

Come lui, almeno 80mila somali hanno deciso di attraversare il confine e rifugiarsi a Dadaab negli ultimi due anni, di cui circa 45mila sono arrivati nel solo 2022. Molti di essi non hanno niente. Sopravvivono grazie agli aiuti internazionali e sono costretti ad abitare in sistemazioni di fortuna in attesa di ricevere lo status di rifugiato.

«Nelle grandi tende che li ospitano – spiega Andrea Bianchessi di Avsi, Ong italiana che da anni lavora nel campo – le condizioni di vita non sono ottimali. Una volta che hanno ottenuto il riconoscimento di rifugiati, viene loro assegnato uno spazio all’interno del campo e vengono dati loro strumenti e materiali per costruire abitazioni più confortevoli.

Young Somali refugees sit with their families, who have volunteered to be repatriated back to Somalia from the Dadaab refugee camp in northern Kenya, prior to a visit by the Canadian Minister for Immigration, Refugees and Citizenship and the UN High Commissioner for Refugees in Dadaab on December 19, 2017. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Nutrire Dadaab

Per il cibo, i rifugiati possono far conto su quello distribuito dal Programma alimentare mondell’diale, un’agenzia Onu. «Ricordo le lunghe code per la distribuzione delle razioni sotto il sole, in mezzo alla polvere – osserva Angelo Pittaluga, ex direttore del Jrs Kenya (Jesuit refugee service, Ong di emergenza dei gesuiti, ndr) e ora responsabile dell’advocacy del Jrs -. Sono distribuzioni mensili che, nel tempo, si sono ridotte a causa della contrazione dei fondi a disposizione delle organizzazioni internazionali. La nuova emergenza umanitaria in Europa ha drenato fondi per l’Africa e a pagarne le spese sono state le popolazioni più svantaggiate come quelle che vivono nei campi profughi».

Hussein Ibrahim Mohamed è stato tra i primi ad arrivare nel 1992. Ora, in qualità di operatore comunitario, sta aiutando i nuovi arrivati ad ambientarsi. «Queste persone si trovano in una situazione difficile – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr -. Hanno viaggiato molto lontano. Così ho deciso di chiedere in giro dei contributi, in denaro o in vestiti. Ho una parte del denaro donato e ho intenzione di comprare delle lenzuola di plastica per loro».

Aiuti «distratti»

A Dadaab, l’Unhcr fornisce alle famiglie assistenza in denaro, acqua potabile e strutture igieniche, oltre a servizi mirati per i più vulnerabili, come i bambini malnutriti. Le risorse sono però limitate. «Per rispondere a questa situazione stiamo utilizzando solo le scarse risorse che abbiamo per i nostri programmi regolari – ha dichiarato Martha Kow Donkor, responsabile dell’Unhcr per la protezione delle comunità -. I bisogni sono molto elevati e stiamo facendo appello ai donatori affinché forniscano maggiori finanziamenti».

Attualmente i principali donatori sono gli Stati Uniti, l’Unione europea e i paesi del Golfo Persico, che garantiscono abitualmente il 40% circa degli 80-100 milioni di dollari necessari per gestire Dadaab ogni anno.

«I contributi sono però precipitati drasticamente nell’ultimo anno, con il mondo distratto dalla guerra in Ucraina – ha detto Guy Avognon, capo delle operazioni dell’agenzia per Dadaab in un’intervista al Wall street journal -. Quest’anno, si prevede che le donazioni copriranno solo il 27% dei 102 milioni di dollari necessari».

Di fronte alla mancanza di tutto scatta, però, una gara di solidarietà. Khadija ha raccontato di essere stata accolta a braccia aperte dai rifugiati che già vivono a Dadaab, compreso un parente che le ha costruito un rifugio. «Ma non abbiamo cibo, né un riparo, né latrine», ha detto. Lo scorso anno il sovraffollamento e la mancanza di strutture igieniche nel campo hanno contribuito a un’epidemia di colera, con quasi 500 casi identificati dalla fine di ottobre, molti dei quali bambini.

Tra i minori è molto diffusa anche la malnutrizione. In una nota diffusa a gennaio, Medici senza frontiere (Msf) ha affermato che la sua struttura sanitaria a Dagahaley, un campo nel complesso profughi di Dadaab, ha curato il 33% in più di pazienti – principalmente bambini – per mancanza o scarsità di cibo nell’ultimo anno, mentre il tasso di malnutrizione nei campi è cresciuto del 45% negli ultimi sei mesi del 2022. «Abbiamo dovuto estendere il reparto per ospitare questo numero di bambini – ha dichiarato Kelly Khabala, vice coordinatore medico di Msf -. Le condizioni di vita nel campo ora non sono accettabili».

Su Dadaab grava anche lo spettro di al-Shabaab. La milizia jihadista somala affiliata ad al-Qaeda effettua continui attacchi sul lato keniano del confine, che dista circa 45 miglia dal campo, piazzando bombe lungo la strada e sparando alle stazioni di polizia. Gli operatori umanitari si muovono a Dadaab scortati dalla polizia armata di fucili militari, anche se le stesse forze di sicurezza sono spesso bersaglio di attacchi fuori dai campi.

Dadaab è anche un luogo in cui i miliziani fondamentalisti arruolano ragazzi per ingrossare le loro fila.

A Somali refugee walks along a dirt road in nothern Kenya’s Dadaab refugee camp near a rehabilitation centre for refugee women-survivors of Gender-based violence (GBV) on December 19, 2017. – The sprawling Dadaab complex 100 kilometres (60 miles) from Kenya’s border with Somalia has housed Somali refugees for around 26 years. There were about 239,500 people in Dadaab at the end of September, according to UN figures. The population peaked at around 485,000 in 2012 following a new influx after famine in Somalia. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Istruzione, arma di riscatto

A lanciare segnali di speranza sono le Ong che lavorano all’interno del campo. Avsi e Jrs da anni ormai seguono programmi formativi a Dadaab, ma anche nel campo «gemello» di Kakuma (che si trova più a nord, verso il confine con il Sud Sudan, in condizioni non dissimili rispetto a quelle di Dadaab).

L’educazione dei più piccoli e la formazione degli insegnanti sono una scommessa sul futuro. «Lavoriamo a Dadaab dal 2009 – osserva Andrea Bianchessi -. In questi anni ci siamo occupati della scuola primaria. Abbiamo seguito almeno 30mila ragazzi e ragazze e abbiamo formato 3.500 insegnanti. L’educazione di base è fondamentale per garantire un futuro meno duro a questi giovani. È per questo motivo che abbiamo offerto questi stessi servizi formativi anche alle popolazioni keniane che vivono nei dintorni del campo, per non creare disparità tra chi vive dentro e chi vive fuori».

Un progetto complesso quello di Avsi che prevede programmi scolastici elaborati in coordinamento con le autorità keniane e somale, in modo che i ragazzi e le ragazze somale che dovessero rientrare in patria possano comunque vedere i loro studi riconosciuti. Un progetto che prevede anche la nascita di gruppi scout che impegnano i più piccoli e gli adolescenti in attività extrascolastiche ricreative. «Gli scout impegnano utilmente il tempo libero, ma non solo – continua Bianchessi -. Si pensi che, grazie alle loro attività, sono riusciti a entrare in contatto con 5mila coetanei e a convincerli a tornare a scuola. Un lavoro preziosissimo».

Il Jrs invece si è concentrato sulla scuola secondaria, soprattutto a Kakuma. «La nostra organizzazione si è presa in carico la formazione superiore – osserva Pittaluga -. Sono servizi che dovrebbero essere garantiti a tutti. Ma, anche in questo caso, i finanziamenti delle organizzazioni internazionali non sempre sono sufficienti. Per pagare gli insegnanti e il materiale didattico stiamo quindi lavorando per raccogliere fondi e coprire le necessità di base delle scuole. Un compito non sempre semplice».

Il futuro per decine di migliaia di persone che vivono nel Corno d’Africa è ancora precario.

Il Kenya settentrionale e la Somalia sono stati duramente colpiti dalla peggiore siccità che abbia interessato l’Africa orientale negli ultimi 40 anni. La regione si sta preparando alla sua sesta stagione delle piogge con scarse o nulle precipitazioni. La guerra in Somalia non sembra essere alle battute finali. Difficilmente il campo sarà smantellato. Anzi. Dadaab, nella sua drammatica precarietà, sembra tuttora essere un’ancora di salvezza per molte famiglie.

Enrico Casale




Nord Kivu senza pace


Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Nell’est della Repubblica democratica del Congo, da circa un anno la milizia M23, sostenuta dal Rwanda, sta causando grandi spostamenti di popolazione. Secondo il sito umanitario Reliefweb, al 31 gennaio 2023, gli attori umanitari e statali hanno stimato in almeno 602mila unità il numero di persone sfollate a causa della guerra nei territori di Rutshuru, Nyiragongo, Masisi, Walikale, Lubero e nella città di Goma (capitale del Nord Kivu). Nel marzo 2023, il numero di sfollati solo intorno alla città di Goma è stimato in circa 200mila.

Julienne, residente a Goma nel quartiere di Ndosho, descrive la loro situazione: «Abbiamo sofferto nella Rdc orientale per molto tempo. Ho visitato alcuni campi di sfollati. Non hanno riparo dalla pioggia, né servizi igienici, né bidoni della spazzatura, né cibo o vestiti. Alcuni hanno preso il colera. Una volta arrivati a Goma, alcuni vengono accolti in famiglie allargate, ma non hanno mezzi per sopravvivere sul lungo termine. Sperano di tornare nel loro territorio dove hanno lasciato tutto. A Goma sono aumentati i prezzi dei prodotti alimentari al mercato. Le strade sono chiuse, la guerra ha bloccato tutte le aree da cui proviene il cibo. I negozi non hanno più nulla da vendere».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

M23 alla ribalta

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i ribelli dell’M23 hanno paralizzato le strade principali che collegano Goma al resto della provincia.

In quella zona, a una trentina di chilometri dalla città, sono stati dispiegati i soldati burundesi presenti nella Rdc come membri della forza militare della Comunità dell’Africa orientale (Eac). Con base a Mubambiro, le truppe burundesi si sono unite a un contingente dell’esercito keniano, di circa mille uomini, schierati a Goma e dintorni dal novembre 2022.

Sempre a marzo, molto più a nord, nel territorio di Beni, anch’esso nella provincia del Nord Kivu, più di quaranta persone sono morte in un nuovo attacco attribuito ai ribelli dell’Adf (Allied democratic forces), affiliati al gruppo Stato islamico. L’Adf ha origine da ribelli ugandesi, in prevalenza musulmani, che sono arrivati nell’est della Rdc a metà degli anni ‘90 e sono accusati del massacro di migliaia di civili.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni Don Bosco. Pascal Martin 2023.

La voce dei diritti

Abbiamo intervistato Christophe Mutaka, attivista per i diritti umani e direttore del gruppo Martin Luther King a Goma.

Signor Mutaka, può riassumere il lavoro del gruppo Martin Luther King?

«Organizziamo le nostre attività con pochi mezzi. Realizziamo un lavoro di monitoraggio, che ci aiuta a sapere cosa avviene sul campo in modo che, in futuro, coloro che compiono gravi e massicce violazioni dei diritti umani, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e persino atti di genocidio, non sfuggano alla giustizia internazionale.

Negli ultimi mesi, il gruppo Martin Luther King, al fine di evitare che la situazione degenerasse in atti di violenza etnica, ha fatto sensibilizzazione affinché le persone distinguano chiaramente e non confondano coloro che sono al fronte o sul campo di battaglia con le popolazioni civili che non sono responsabili di ciò che accade, indipendentemente dalla loro origine etnica.

Ma continuiamo anche a monitorare ciò che avviene in prima linea affinché gli autori di crimini di guerra, massacri e atti di genocidio siano identificati.

Sono un esempio i massacri di Kishishe e Bambu nel territorio di Rutshuru. Atti che non potranno rimanere impuniti perché i loro autori sono noti e identificati. La documentazione raccolta consentirà alle generazioni future di chiederne conto. Nella parte settentrionale della provincia del Kivu, le persone sono state massacrate per più di un decennio. Molte di esse appartengono alla comunità nande nel territorio di Beni.

Per quanto riguarda gli sfollati, ovvero persone che hanno lasciato i loro villaggi d’origine temendo per la propria vita e che si sono trovate in pericolo a causa dei disordini, anche nel loro caso gli autori delle violazioni dei diritti umani che hanno subito potrebbero essere perseguiti».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

Perché e quando l’M23 ha ripreso i suoi attacchi nella parte orientale della Rdc?

«La ripresa degli attacchi, in particolare quelli dell’M23, risale al marzo 2022. Affermano di averli ripresi perché la comunità tutsi (etnia presente in Congo, Rwanda e Burundi, ndr) è minacciata. Ma non è vero: essi si trovano nel governo a livello nazionale, sono presenti nell’Assemblea nazionale, nel Senato, nelle aziende statali e parastatali, nelle aziende private strategiche, nell’esercito e nei servizi di sicurezza. È quindi inaccettabile che si descrivano come una minoranza minacciata o schiacciata del paese. I tutsi hanno tra i membri della loro comunità ministri, generali, alti ufficiali dell’esercito.

L’argomento della minaccia non regge. Come prova, i banyamulenge (tutsi congolesi, ndr) che l’M23 dovrebbe difendere, hanno dichiarato che preferiscono risolvere le loro questioni da soli, con gli altri congolesi.

Il secondo argomento è il rientro nelle loro terre dei rifugiati tutsi che sono ancora nei campi in Rwanda e Congo. Qui nessuno è contrario al loro ritorno, ma sarebbe necessario identificarli in anticipo, conoscere il loro luogo di origine e sapere da quale villaggio provengono. La contraddizione è che quando l’M23 attacca il Congo, crea insicurezza nelle loro zone di origine. Inoltre, c’è il timore che, nella confusione, approfittino del ritorno dei rifugiati per fare arrivare ruandesi non di origine congolese, che quindi non possono indicare il loro villaggio di provenienza.

Infine, questi gruppi richiedono di essere integrati nell’esercito. Anche questo non sta in piedi. Molti ufficiali tutsi, maggiori, colonnelli e caporali sono già nell’esercito, mentre la legge congolese proibisce il reclutamento collettivo di ribelli. Ognuno si fa arruolare individualmente.

Queste argomentazioni ci sembrano quindi infondate e noi pensiamo che le ragioni della ripresa delle ostilità siano altre.

In Rdc vivono circa 450 gruppi etnici che sono ciascuno una minoranza rispetto al resto. La minoranza tutsi non è la più piccola comunità del Paese. Ci sono gruppi etnici più piccoli dei tutsi che non usano questi argomenti di discriminazione. La tutela delle minoranze è garantita dalla Costituzione. Inoltre, non è corretto usare le armi per rivendicare diritti.

Occorre dunque operare una netta distinzione tra coloro che hanno preso le armi contro la Repubblica democratica del Congo (ad esempio l’M23) e i civili che non hanno nulla a che fare con il conflitto armato».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

La Rdc fa parte della Comunità dell’Africa dell’Est (sigla inglese, Eac), come il Rwanda che però sostiene l’M23. Questa posizione non è contraddittoria?

«Rispetto all’impegno dell’Eac, ci sono cose che non si comprendono. Ad esempio, come sia possibile che la Rdc rimanga suo membro mentre un altro la attacca, e come mai gli altri membri non prendano posizione. Come società civile, avremmo trovato normale che la Rdc si ritirasse dall’Eac, perché non possiamo rimanere membri di una unione che mantiene un silenzio colpevole di fronte all’aggressione di uno dei suoi membri. Anche l’impegno delle truppe Eac a fianco delle Fardc (Forze armate della Rdc) è difficile da capire. Come le truppe burundesi abbiano attraversato il Rwanda per venire a combattere l’M23 in Congo è qualcosa che non possiamo comprendere. Tuttavia, il Rwanda è membro dell’Eac.

Quindi c’è un gioco di menzogne in questa alleanza, e questo spiega perché ci sono state manifestazioni qui a Goma per chiedere alla Rdc di lasciare l’Eac. Una volta fatto questo, il nostro Paese sarà in grado di cercare sostegno militare o di altro tipo da qualsiasi altro paese del mondo».

Alcuni capi di stato hanno recentemente visitato la Rdc. Possiamo ricordare la visita del sovrano belga, re Filippo, del presidente francese, Emmanuel Macron e del presidente dell’Angola, João Lourenço. Ma anche la visita di papa Francesco. Questo balletto diplomatico ha cambiato qualcosa sul terreno?

«A parte il Papa, le altre autorità che ha citato hanno un’agenda nascosta, che include interessi sulla guerra che si svolge nella Rdc. È quindi normale che il loro passaggio non possa cambiare molto sul terreno.

La Francia, ad esempio, in quanto membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbe essere in grado di influenzare i suoi membri per fermare la guerra in Congo. Ma, poiché ci sono altri interessi, le visite non hanno cambiato la situazione.

Neppure la popolazione congolese ha capito il significato di queste visite.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

La visita del Papa, invece, è ben diversa. È stata un campanello d’allarme per la popolazione congolese in generale. Nel suo messaggio, Francesco ha detto ad alta voce ciò che tutti stanno sussurrando: ha parlato del coinvolgimento occidentale nella crisi che ha lacerato la Rdc per più di due decenni. Quando il Papa chiede di “togliere le mani dalla Rdc e dall’Africa”, denuncia queste ingerenze esterne.

Come in Burkina Faso, che non ha avuto una guerra prima che i suoi minerali fossero scoperti, o il Nord del Mali, dove sono state scoperte risorse naturali. Tutte risorse di interesse per l’Occidente, e quindi portatrici di guerre. Il commercio di armi è anch’esso un grande business.

Nessuno combatterà per la Rdc, a parte noi congolesi. Le autorità devono capire che gli unici amici del Congo sono i congolesi stessi. Tutte queste missioni esterne vengono nel Paese per interessi personali e non per quelli della Rdc e del suo popolo.

Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite è qui da più di 20 anni, la più grande missione di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Ma la pace è arrivata? C’è la guerra con scontri continui a soli 30 km da Goma. E i caschi blu dell’Onu sono sul posto.

Capiamo quindi, che tutte queste missioni, che si tratti dell’Eac o delle Nazioni Unite, non sono venute per il Congo, ma per qualcos’altro.

Dobbiamo identificare chi, nel nostro Paese, sostiene la guerra e chi la sostiene al di fuori del Paese. Sarà quindi necessario attaccare gli interessi di coloro che fomentano la guerra, in modo che capiscano che non vale la pena avere le risorse della Rdc passando dalla finestra, ma devono passare dalla porta. Ovvero ottenere le risorse dai congolesi stessi.

Se i paesi occidentali, le multinazionali vogliono sfruttare le risorse naturali del nostro territorio, stabiliscano una partnership alla pari con il Congo, invece di massacrare l’intera popolazione solo perché abbiamo minerali».

In questo anno elettorale, quali sono le correnti di opposizione che possono presentare un’alternativa e canalizzare le aspirazioni del popolo?

«In quest’anno elettorale la posta in gioco è alta. Non dimentichiamo che alcuni politici a caccia di poltrone vogliono approfittare di questa situazione di guerra per posizionarsi e ottenere il sostegno di alcuni Stati occidentali.

Abbiamo anche le nostre responsabilità come congolesi. Siamo in parte responsabili delle nostre disgrazie perché siamo noi che votiamo per le persone che governano il paese. Accettiamo cose inaccettabili e quindi dobbiamo anche lavorare molto sulla governance. Il buon governo consentirà di evitare ingiustizie e di organizzare un’equa redistribuzione delle risorse a livello della popolazione. Se le risorse andranno a beneficio del paese e saranno ben gestite, le persone vivranno in condizioni soddisfacenti.

L’anno elettorale viene osservato con molto interesse anche fuori del paese».

Quali leader democratici emergono per proporre alternative alla popolazione?

«Ci sono leader che hanno una visione diversa della Rdc e un’idea affinché la popolazione possa beneficiare delle risorse del Paese. Ma chi li sostiene? Dovremo sostenere questi leader in modo che possano cambiare qualcosa nel Paese. Sfortunatamente non hanno ancora mobilitato la massa. I congolesi si stanno mobilitando e combattendo per la loro patria, attraverso marce pacifiche, scioperi, giorni di blocco delle città, nonostante tutti i rischi che corrono durante questi eventi.

La popolazione congolese non si lascia abbattere. Resiste in maniera nonviolenta.

Chi sogna la balcanizzazione del Congo si sbaglia: se noi siamo umiliati oggi, domani non umilieranno i nostri figli e nipoti. Perché sono essi che stanno vivendo le disgrazie del popolo congolese: rimanere senza acqua, cibo, elettricità in un paese così ricco è una contraddizione. Un giorno tireremo fuori questo paese da questa vergogna a livello globale».

Quale segno di speranza vede in tutto ciò che il Congo sta attraversando oggi?

«I congolesi stanno combattendo contro diversi paesi contemporaneamente: Rwanda, Uganda e diversi paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e altri).

C’è un barlume di speranza se a livello di società civile continuiamo a sensibilizzare la popolazione affinché tutti capiscano che il futuro del Congo è nelle mani dei congolesi e soprattutto dei giovani. Il futuro dell’Africa è nelle mani degli africani. Non possiamo svendere la nostra dignità e la nostra sovranità. È una consapevolezza che deve aumentare.

Inoltre, è necessario esercitare pressioni sui nostri leader per una sana gestione degli affari pubblici. La liberazione del popolo passa anche attraverso questo. Altrimenti, continueremo a cadere nella miseria e a essere considerati come subumani usati da coloro che ne hanno bisogno. Dobbiamo anche lavorare sull’educazione civica degli elettori, in modo che le autorità che gestiranno questo paese possano essere degne di questo compito. Che lavorino per il benessere della popolazione.

C’è anche l’advocacy. Non lavoreremo da soli. Ci sono persone che vogliono sostenere il Congo, che si chiedono perché il popolo congolese sia schiacciato. Dobbiamo andare da queste persone per spiegare cosa sta succedendo e attivare una diplomazia che possa far capire la causa congolese al mondo.

Perché abbiamo visto paesi mobilitarsi per i terremoti mentre poco o per nulla è stato fatto a favore del nostro Paese? La causa congolese deve essere resa nota all’estero. Il popolo congolese non ha solo bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto di porre fine alle ostilità. In modo che tutti possano tornare a casa, nel loro territorio, e riprendere le loro attività».

Pascal Martin*

*Nato e cresciuto a Goma in una famiglia di volontari, ha poi lavorato per oltre 20 anni come cooperante in Africa, tra Congo Rd, Burundi, Madagascar e altri paesi. Ha già scritto per MC.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Rusayo. Pascal Martin 2023.

 




Siria: Accerchiati e bombardati


I curdi del Nord Est della Siria sono stati fondamentali per fermare gli estremisti dello Stato islamico (Isis-Daesh). Dimenticato il loro contributo, oggi sono in balia dei vicini, la Siria di Assad e l’ambigua Turchia di Erdogan.

Semalka (confine Kurdistan iracheno-Siria), 10 novembre 2022. Entrare in Rojava non è semplice per uno straniero. Riesco a varcare il confine, con il visto giornalistico, dopo circa due mesi di iter burocratico. L’unico accesso al Nord Est della Siria è via terra, dal Kurdistan iracheno attraverso Semalka, valico aperto tre giorni a settimana. I controlli di sicurezza durano ore, sei nel mio caso. Attraverso la frontiera insieme ad altre poche decine di persone. Alcuni tornano a casa dopo essere stati, per motivi di salute, a Erbil, città curda con ospedali più moderni ed equipaggiati. Sono migliaia invece le persone in uscita, chi ne ha la possibilità prova a fuggire per cercare un futuro migliore.

Sono diretto a Qamishle (anche Qamishlo, ndr) una delle città principali del Nord Est della Siria e, per la sua posizione, un ottimo luogo come base logistica. A parte questo, le città del Rojava non hanno molto da offrire, quasi tutto sembra in uno stato di semi abbandono: case distrutte e mai ricostruite, cantieri di palazzi iniziati e mai terminati. Molte delle strade, fatta eccezione per alcune costruite con l’aiuto di Ong straniere, somigliano a sentieri sterrati. Piove molto al mio arrivo. Il maltempo ha tenuto alla larga per qualche giorno i droni della Turchia, ma ha riversato terra e fango sulle strade, rendendo ancora più difficile ogni spostamento. Tutte le città sono divise in quartieri, alcuni dei quali ancora sotto il controllo del regime di Assad.

Il medico «terrorista»

Per poter comprendere meglio quello che accade, visito il centro di riabilitazione della Mezzaluna rossa di Qamishle. Nella struttura vengono curati centinaia di pazienti feriti dai bombardamenti, dagli attentati e dalle decine di mine antiuomo lasciate dall’Isis, prima della sua ritirata.

È qui che incontro il dottor
Adnan Malla Ali, direttore del centro e medico degli sfollati interni (Internally displaced persons, Idp) che, in più di 300mila, dovettero fuggire da Afrin durante l’invasione turca del gennaio 2018.

«Non potrò mai dimenticare – racconta il medico – il giorno dell’attacco. Erano le 4 di pomeriggio, stavo curando dei bambini. Sentii il rumore dei razzi. All’inizio pensai fossero solo delle esplosioni isolate, la Turchia ha sempre attaccato le nostre città, come a “ricordarci” della sua presenza. Ma quel giorno è stato diverso. Gli aerei turchi hanno sganciato ben 72 bombe».

Perché la Turchia ha invaso proprio Afrin?, gli chiedo. «I fattori sono diversi: la vicinanza con il loro confine prima di tutto. Afrin poi, è anche la zona più verde di tutta questa regione, famosa anche per la qualità del suo olio d’oliva, forse il migliore di tutto il Medio Oriente. Ma a parte questo, è un’affermazione di potere. Erdogan ha manie di espansione e considera tutti i curdi dei terroristi. Io stesso sono annoverato nelle “liste nere” come terrorista, semplicemente perché, da medico, ho curato dei combattenti delle milizie curde».

Oltre a quanto affermato dal medico, molto dell’interesse nel Rojava deriva dalle sue risorse. Qui, infatti, si trova l’80% del petrolio di tutta la Siria. Il Rojava, però, non possiede raffinerie, infrastrutture che si trovano tutte nel territorio sotto il regime di Assad.

Nonostante le sue risorse e il suo ruolo chiave nella lotta al terrorismo, il Rojava oggi versa in uno stato di estrema povertà. Materie prime, forniture ospedaliere, medicine e qualsiasi prodotto inviato dall’estero non possono arrivare direttamente qui (almeno legalmente), tutto deve passare da Damasco. La logistica è sempre complicata, perché il regime di Assad non ha mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza di questo stato. L’unico canale di accesso è il Kurdistan iracheno, via però tutt’altro che semplice a causa di una grande mancanza di strade e un grave problema di sicurezza.

Inoltre, le città del Nord Est della Siria hanno pagato e pagano ancora un prezzo altissimo per la guerra contro l’Isis. Interi quartieri nelle città di Kobane e Raqqa sono in rovina, distrutti dai bombardamenti americani alcuni, e fatti saltare in aria dagli uomini di Daesh altri.

dottor Adnan Malla

Il campo di Al-Hol

E poi c’è l’onnipresente Turchia. L’operazione «Claw-Sword» (riquadro a pag.14) non è terminata con gli eventi del 19 novembre 2022. La sera del 23 novembre, infatti, alle 19.30, un nuovo attacco di droni ha colpito il campo di rifugiati di Al-Hol, uccidendo otto militari che lo sorvegliavano.

Vi arrivo qualche giorno dopo il bombardamento. Al-Hol è un campo di detenzione dove si trovano famiglie dei membri più radicali dell’Isis. Le persone al suo interno, ufficialmente, non sono accusate di nulla, ma per le forze di sicurezza curde sono potenziali terroristi. All’interno è impossibile vedere il volto di una donna adulta senza il burqa, molte hanno anche gli occhi coperti da un velo.

Lo spazio, dove sorge questa enorme tendopoli, è circondato da pali e reti metalliche. Ci sono diversi check point, guardie e veicoli blindati a presenziare ogni accesso. Ad accogliermi c’è Gihan, una giovane donna curda che si occupa della gestione del campo: «Qui vivono circa 53mila persone, l’80% sono donne, bambini e bambine fino ad un massimo di 12 anni. Il resto sono anziani e alcuni uomini adulti “Idp” (sfollati interni), che hanno perso la casa durante i vari conflitti. Il campo è diviso in diverse zone, quello dove ci sono gli Idp appunto, poi un’ulteriore divisione viene fatta per nazioni: c’è un settore dove si trovano solo iracheni e siriani. Un altro ancora raccoglie gli stranieri che arrivano da oltre 50 nazioni diverse, la maggior parte da Egitto, Tunisia e Kuwait».

Chiedo a Gihan se può spiegarmi cosa è accaduto la sera del 23 novembre, quando la Turchia ha lanciato l’attacco. Qual era il loro scopo? Perché attaccare voi? La donna racconta: «Erano le 19.30 quando abbiamo sentito due forti esplosioni. Abbiamo in seguito capito che erano state delle bombe sganciate da droni. Ci sono state diverse ore di panico ma l’attacco è stato ben mirato: ha colpito e ucciso otto delle nostre guardie. Le bombe non sono cadute nel campo ma bensì fuori dalle reti di protezione per colpire noi, le forze di sicurezza curde. Lo scopo, che la Turchia cerca di raggiungere da tempo, è quello di creare caos e destabilizzare il governo di Rojava. Uno dei metodi più usati è quello di colpire luoghi come il nostro in modo che potenziali terroristi possano scappare e riunirsi alle cellule di Daesh operanti così da organizzare nuovi attentati. Qui, fortunatamente, siamo riusciti a riprendere chi cercava di fuggire. In un altro campo invece, nella città di Al-Hassakah, dopo i bombardamenti ci sono state diverse evasioni. Se usiamo le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e riprendere chi scappa, saremo più deboli nel momento in cui la Turchia dovesse invaderci. Questo sembra essere il loro piano».

Chiedo: «Pensa che, all’interno dei campi come questo, ci siano davvero molti potenziali terroristi?». «Assolutamente sì – risponde sicura -. Lo sappiamo noi, lo sa la Turchia, lo sanno le forze di coalizione. Posso fare molti esempi a riguardo. Qualche giorno fa, nel settore degli egiziani, sono state trovate due ragazzine morte, due sorelle assassinate. Abbiamo allora fatto una perquisizione e, nelle tende, abbiamo trovato centinaia di armi, soprattutto Kalashnikov e Rpg (entrambi di produzione russa, ndr). C’era un arsenale sufficiente a cominciare una nuova guerra. All’interno del campo abbiamo scuole e anche 20 ambulatori. In uno di questi uno dei nostri dottori ha curato la gamba di un ragazzino, per mesi. Il bambino di sette anni era stato colpito da alcune schegge di granata. Alla fine della cura, il bambino ha detto al medico: “Quando sarò grande, uscirò da qui e ti ucciderò. Lo farò velocemente, tagliandoti la testa per non farti soffrire perché, mi hai curato, ma sei pur sempre un infedele”. Noi operatori, molto spesso, abbiamo paura perché il campo è enorme e gli eventi sono imprevedibili. Il prossimo passo per la sicurezza sarà un’ulteriore divisione dei settori, in modo da poter avere più controllo. Benché la maggior parte dei residenti siano donne e bambine, ogni anno nel campo ci sono circa sessanta nuove nascite».

«Allah Akbar»

Lasciato l’ufficio di Gihan, comincio a camminare per le stradine fangose della tendopoli, mi rendo subito conto dei problemi di sicurezza di cui mi parlava la manager. All’ingresso del settore egiziano e tunisino, io e il mio interprete siamo bersagli di una sassaiola. Il lancio di pietre comincia prima da alcuni ragazzini a cui, man mano, se ne aggiungono altri e in seguito anche donne. Molti urlano: «Allah Akbar» (Dio è grande), esclamazione spesso usata prima degli attentati. Siamo costretti a lasciare questo primo settore.

Entrando nella zona a maggioranza irachena e siriana, l’accoglienza è molto diversa. Vengo accerchiato da tantissime donne, non vogliono darmi il proprio nome ma vogliono descrivermi le condizioni in cui vivono. Una signora, nella parte del campo destinata al mercato, mi racconta: «I nostri mariti sono in galera ma noi non abbiamo fatto nulla. Siamo rinchiuse qui a crescere i nostri figli, senza soldi né risorse. È vero, il cibo è gratis ma è poco, non basta praticamente mai. Manca tutto, sono tre giorni che siamo senza corrente e per quattro siamo stati senz’acqua. Non c’è il diesel per il riscaldamento e nelle tende si muore dal freddo. Veniamo trattate come criminali. Alcuni militari mi hanno anche rubato i soldi».

I racconti di chi gestisce il campo, e di chi ci vive, sono tra loro estremamente contrastanti. In questo clima, è molto difficile capire chi, tra le persone rinchiuse qui, sia innocente e chi un potenziale pericolo.

Incertezze e pericoli

I bombardamenti degli ultimi mesi sono solo l’ultimo capitolo di una regione che non trova pace. Nella conferenza stampa del 30 novembre, il generale Abid Mazloum, comandante dell’Sdf (Syrian democratic force) ha dichiarato: «In caso di invasione da parte della Turchia saremo pronti a combattere e combatteremo. Quello che però gli stati occidentali devono capire è che, se saremo impegnati in una guerra contro la Turchia, non potremo usare le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e mantenere quello stato di sicurezza garantito fino ad ora. Una nuova guerra, inoltre, significherà migliaia di nuovi profughi che scapperanno dai luoghi in conflitto e quindi, una nuova emergenza umanitaria. Una guerra in Rojava non riguarderà solo il Rojava, ma sarà un problema anche per tutti quegli stati che hanno interessi in Medioriente».

Nel 2018, dopo le molte battaglie vinte contro l’Isis, i media occidentali osannavano le milizie curde. Si guardava al Rojava come un grande esempio di democrazia e convivenza tra religioni. Il Nord Est della Siria oggi è circondato dai suoi nemici: da una parte le forze ostili del regime di Assad, dall’altra le numerose cellule dell’Isis ancora attive. A tutto questo, si aggiunge la Turchia con i suoi raid aerei e una lotta senza sosta contro l’etnia curda. Erdogan continua a mantenere le proprie truppe vicine al confine, pronte per un’invasione via terra. Nonostante Onu e Usa abbiano condannato gli attacchi contro il Rojava, nessun passo concreto è stato fatto per scongiurare quello che potrebbe essere un nuovo, sanguinoso conflitto in quest’angolo di Medio Oriente.

Angelo Calianno
(1- continua)


Il Rojava e i curdi

La lotta per uno stato indipendente

Il Rojava è uno stato, autoproclamatosi indipendente, che comprende i territori del Nord Est della Siria. In lingua curda, la parola Rojava sta a identificare il luogo dove tramonta il sole: l’Ovest. Non essendo ufficialmente riconosciuto da nessuna nazione, a parte il Kurdistan iracheno, nei documenti ufficiali ci si riferisce a quest’area geografica come: Siria del Nord Est o Kurdistan dell’Ovest.

Gli storici fanno risalire la lotta curda per una propria patria al 1916 con l’accordo Sykes-Picot, conosciuto anche come accordo sull’Asia minore.

Questa trattativa stipulava un’intesa segreta fra l’Inghilterra, rappresentata da Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, con l’assenso della Russia zarista. L’accordo ridefiniva confini e controllo dei territori dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Il piano Sykes-Picot lasciava i curdi senza una propria nazione, divisi in un territorio frammentato tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.

La prima forma di governo in Rojava arriva nel 2012 quando le milizie curde prendono il controllo di alcune delle principali città istituendo il Dfns (Democratic federation of north-eastern Syria). La nascita ufficiale dello stato e la sua dichiarazione di indipendenza avviene nel 2016.

Oggi il Rojava è amministrato dall’Aanes (Autonomous administration of North and East Syria), una coalizione politica formata da: Sdc (Syrian democratic council), e dall’Sdf (Syrian democratic forces). Quest’ultimo gruppo racchiude, in un unico corpo militare, milizie curde e ribelli di diverse etnie e credi religiosi.

L’esperimento democratico in Rojava è stato oggetto di studio di centinaia di attivisti e ricercatori di tutto il mondo. La sua «Carta del contratto sociale» (una sorta di Costituzione provvisoria) prende ispirazione dall’ideologia del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), e dalla filosofia del suo leader Abdullah Ocalan che, nel 1978, fondò il partito di stampo marxista leninista. L’idea di base del Pkk e di Ocalan è quella di un decentramento del potere denominato: «Confederalismo democratico». I punti fondamentali sono: uguaglianza e pari rappresentanza per ognuna delle religioni ed etnie presenti nello stato; istruzione gratuita e accessibile per tutti; assoluta parità nei ruoli tra uomini e donne. Detto questo, Ankara considera il Pkk, e chiunque gli sia collegato, come un gruppo terroristico. Da 22 anni, Ocalan è incarcerato nell’isola prigione di İmralı a Bursa, in Turchia, dove sta scontando l’ergastolo.

Le continue migrazioni, lo spostamento dei confini e le migliaia di profughi interni, rendono difficile una stima del numero degli abitanti in Rojava. L’ultima statistica risale al 2021 e contava 4 milioni e 500 mila abitanti. Il 60% della popolazione è di etnia curda anche se, dopo l’annessione delle città di Manjin, Deir ez Zor e Raqqa, riconquistate dopo essere state sotto il controllo dell’Isis, la proporzione della popolazione araba ha quasi eguagliato quella curda.

Le altre minoranze sono rappresentate da: Yazidi, Turkmeni, e Cristiani (divisi tra Siriaci, Assiri, Armeni, Greco ortodossi). Prima della guerra contro l’Isis, i cristiani erano 150mila, ora una stima approssimativa ne conta 55mila.

Gli abitanti del Rojava si considerano in guerra con la Turchia, anche se nessuna comunità internazionale riconosce questo conflitto. Un’inchiesta della Bbc, effettuata tra il 2016 e oggi, ha contato più di duecento «incidenti di confine», azioni in cui la Turchia, con diversi pretesti, ha attaccato e provato a invadere il Nord Est della Siria.

Angelo Calianno


I giochi politici della Turchia

La guerra di Erdogan ai Curdi

Il 19 novembre 2022 la Turchia ha lanciato l’operazione Claw-Sword (spada-artiglio), una serie di bombardamenti aerei che hanno attaccato il Nord Est della Siria, la regione a maggioranza curda conosciuta come Rojava (*).

L’offensiva ha colpito diversi obiettivi nelle città di Kobane, Raqqa, Al-Hassakah, Al- Malikiyah e Darbasiya. I portavoce dello Stato maggiore turco hanno dichiarato di aver centrato solo bersagli militari e potenziali terroristi. In realtà, ci sono state anche diverse vittime civili, tra cui Issam Abdullah, giornalista siriano ucciso durante un raid aereo mentre intervistava dei contadini nelle zone rurali di Al-Malikiyah. L’operazione Claw-Sword è nata come risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre 2022 quando, su Istiklal street, una delle principali vie dello shopping della capitale, una forte esplosione ha ucciso 6 persone e ferito altre 81. Il giorno dopo veniva arrestata una donna di origine siriana, Ahlam Albashir, accusata di essere l’esecutrice materiale dell’attentato. I primi comunicati stampa da parte del governo turco hanno affermato che la donna è stata addestrata dalle milizie curde dell’Ypg (unità di protezione popolare curda), e che l’attentato sarebbe stato ordinato dal Pkk (Partito dei lavoratori).

Il ministro dell’interno turco Suleyman Soylu, a seguito del messaggio di cordoglio da parte degli Stati Uniti, ha dichiarato: «Rifiutiamo le condoglianze da parte degli Usa. Sono nostri alleati ma, nello stesso momento, finanziano organizzazioni terroristiche curde che minacciano la nostra libertà».

Cosa accade ora in Rojava dopo l’offensiva turca? Ci sono davvero le milizie curde dietro l’attentato a Istanbul? Ad oggi non si hanno più notizie di cosa sia accaduto alla sospettata, Ahlam Albashir. Nessuna novità riguardante le sue dichiarazioni o quelle degli altri 46 arrestati. Sia il Pkk che l’Ypg negano con forza qualsiasi coinvolgimento, accusando Erdogan di aver strumentalizzato la tragedia, usandola come ennesima scusa per attaccare e invadere il Rojava. Non è la prima volta, infatti, che la Turchia lancia offensive verso questa parte della Siria. Anzi, queste sono state una costante sin dalla nascita di questo stato. Uno degli attacchi più cruenti, poi seguiti da un’invasione e occupazione da parte dei Turchi, è avvenuto nel 2018 per l’importante città di Afrin. Durante quell’anno, le milizie curde dell’Ypg si rendevano protagoniste nella guerra contro l’Isis, sconfiggendo decine di cellule terroristiche e costringendo gli uomini dello Stato islamico a fuggire dai principali centri abitati. Subito dopo queste vittorie, la Turchia attaccava e invadeva Afrin, considerato luogo di nascita e attuale centro dei movimenti politici curdi. Questa operazione, denominata Olive Branch (Ramoscello d’ulivo), fu eseguita anche con il supporto economico dell’amministrazione Trump.

Gli Stati Uniti hanno un ruolo molto ambiguo nel Nord Est della Siria, essendo da una parte al fianco dei curdi nella coalizione anti Isis, dall’altra alleati strategici della Turchia.

An.Ca.

(*) La regione è stata interessata dal devastante terremoto dello scorso 5-6 febbraio (mentre questa rivista andava in stampa). In particolare, è stata colpito il centro di Afrin, oggi in mano turca.




Libano, rifugiati e con pochi diritti /2


Tra i profughi palestinesi e siriani in alcuni dei molti campi presenti in un paese attraversato da una profonda crisi sociale ed economica che pesa anche sulla vita dei rifugiati.

Accompagnato da personale della Wpa (Women’s program association), da Beirut scendo verso Tyre (l’antica Tiro dei Fenici). Qui ci sono tre campi profughi: Rashidiye, Burj Shamali e El Buss.

Come per tutti i campi, l’accesso a Rashdiye è permesso solo attraversando un checkpoint presidiato da militari armati e dotati di mezzi blindati. Il campo è circondato da muri di recinzione sormontati da filo spinato. Per problemi di sicurezza posso visitare solo la sede della Wpa. Alcune donne siriane mi raccontano della loro fuga dalla guerra e delle enormi difficoltà che ancora oggi affrontano a causa delle discriminazioni che il governo libanese attua nei loro confronti. Diritti negati soprattutto per le cure mediche dei loro bambini a volte affetti da patologie che richiederebbero anche un ricovero ospedaliero. Durante la riunione, sentiamo diversi colpi di arma da fuoco esplosi a poca distanza. I responsabili di Wpa mi chiedono di abbandonare rapidamente il campo.

Campo di Burj Shamali

Ci muoviamo alla volta del campo di Burj Shamali. Qui, come da prassi comune ovunque, ogni rifugiato riceve 17 dollari al mese dall’Unrwa, del tutto insufficienti per la sussistenza e per garantire ai bambini l’istruzione e il diritto di frequentare la scuola. Manal mi invita a visitare la sua casa dove vive con i suoi quattro figli dopo essere fuggita senza il marito, catturato e probabilmente ucciso dai militari in Siria. La donna era un’insegnante e oggi vive una vita di stenti, priva di riconoscimento dello status di rifugiata e alle prese con una malattia del sangue di suo figlio minore di nome Mostafah. Incontro decine di famiglie. Quasi tutte prive della figura paterna. Ognuna di esse porta con sé la testimonianza di una vita distrutta dalla guerra e di un dolore passato che si lega alle difficoltà presenti.

Campo di El Buss

El Buss è uno dei campi più grandi del Libano. Al centro educativo del Wpa siamo accolti dalle donne e dai bambini che seguono le attività formative pomeridiane. I bambini sono attratti dalla mia macchina fotografica e così improvviso un corso di fotografia accelerato. Mentre i piccoli prendono confidenza con la mia reflex, una bambina attira la mia attenzione per la sua spontaneità e per il fatto per porta un rosario attorno al collo. Il suo nome è Asia, ha undici anni ed è l’unica che ho visto manifestare apertamente la sua fede cristiana (foto qui a destra).

Frequentare le attività post scolastiche ha un costo mensile di 10mila lire libanesi (circa 7 €) per bambino, ma la maggior parte delle famiglie non riesce a sostenere questa spesa.

Nel campo di El Buss incontro una coppia di anziani palestinesi che mi invita nella propria abitazione. I due sono in compagnia di figli e nipoti, e mi raccontano la storia drammatica del loro arrivo in questo campo. La donna (nella foto qui a destra) è arrivata nel 1948, aveva dodici anni ed era fuggita a piedi nudi, da sola, per raggiungere il Libano. Nel campo ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito, anch’egli arrivato a El Buss in condizioni disperate.

Campo di Wavel

Situato nella regione orientale del Libano al confine con la Siria, il campo profughi di Wavel era originariamente un sito dell’esercito francese nella valle della Beqaa. Ha fornito rifugio ai palestinesi nel 1948 e l’Unrwa ne ha assunto la responsabilità nel 1952. Grazie alla lontananza da Beirut, i controlli da parte dell’esercito libanese per l’accesso sono meno severi che altrove.

Qui l’istruzione viene fornita a circa mille studenti della Secondary School e sono presenti due asili entrambi gestiti da organizzazioni non governative locali. A causa della posizione remota del campo, l’accesso ai servizi sanitari è difficile e costoso.

Per la vicinanza alla Siria, ci sono migliaia di profughi siriani e palestinesi-siriani. Questi ultimi sono palestinesi che erano rifugiati in Siria e che oggi si trovano a essere nuovamente rifugiati in Libano. Molti di loro mi raccontano che nell’area intorno a Wavel ci sono decine di campi non ufficiali e fuori dalla giurisdizione libanese e dagli aiuti ufficiali di Unrwa.

Una delle famiglie accetta di farmi visitare la propria casa. Il filo conduttore dei loro racconti è sempre la guerra in Siria. Fuggiti dalla guerra, i due genitori con i quattro figli si sono rifugiati in Libano. La casa ha due stanze molto piccole. Durante l’inverno sono costretti ad installare un sistema molto precario di riscaldamento a carbone che scarica all’interno delle due stanze gran parte dei fumi della combustione. La donna non ha un lavoro stabile e l’unico sostentamento per i suoi figli è quello che arriva da Unrwa, appena sufficiente per sfamarli, ma non per la scuola. Il loro desiderio più grande, come per tutti gli altri rifugiati che ho incontrato, è quello di raggiungere un qualsiasi paese europeo. Con ogni mezzo.

Quale futuro

Il giovane scrittore siriano palestinese Bassam Jamil, incontrato nel campo di Wavel, mi spiega che i rifugiati sono convinti di essere tenuti in ostaggio in modalità indefinita senza una seria e concreta intenzione di risolvere la loro situazione. Una condizione di immobilità priva di ogni diritto umano. Ciò che più manca loro è di avere un’opportunità per dimostrare di poter emergere, di essere in grado di costruire il proprio futuro attraverso un lavoro riconquistando la loro dignità. Non hanno bisogno di sussidi. Hanno bisogno di opportunità.

Dan Romeo

Prima puntata: Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi, MC 03/2022

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(Libano 2 – fine)

 




Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi /1


Ritorno nel Libano segnato dalla crisi economica e politica, dalla distruzione del porto di Beirut, e dalla presenza dei campi dei palestinesi, arrivati a partire dal 1948 e poi moltiplicatisi con il divampare della guerra in Siria.

Nell’ottobre del 2021 sono tornato in Libano a due anni dal reportage nel campo di Burj El Barajneh di Beirut (vedi MC 8-9/2020) grazie alla collaborazione con Wpa – Women’s program association, un’organizzazione umanitaria palestinese che svolge la propria attività nei campi profughi del paese.

Travolta dalla crisi economica iniziata nel 2018, Beirut è una città profondamente cambiata in termini di organizzazione, condizioni di vita, povertà, disagio sociale, igiene pubblica, livelli di militarizzazione. A contribuire a questo degrado c’è stata anche l’esplosione del porto del 4 agosto 2020 a causa della quale persero la vita 218 persone.

Un po’ di storia

Nel Medio Oriente ci sono 58 campi profughi palestinesi ufficiali. Si trovano in Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano. Molti sono stati creati nel 1948 a seguito della prima guerra arabo israeliana. Altri sono nati dopo le guerre del 1967 e 1973 e, più recentemente, dopo la guerra in Siria, per i palestinesi siriani. Circa 1,5 milioni di rifugiati vivono nei campi ufficiali. I rifugiati palestinesi, secondo la definizione accettata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero le «persone il cui luogo di residenza era la Palestina nel periodo dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948 e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sussistenza a causa del conflitto del 1948».

Dal 1948 ne sono stati registrati circa 450mila in Libano. Più della metà vive in 12 campi sovrapopolati che avrebbero dovuto fornire loro alloggi temporanei. Tuttavia, settanta anni dopo, centinaia di migliaia di palestinesi apolidi vivono ancora in quelle strutture ormai fatiscenti.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Vita nei campi

Le condizioni di vita nei campi sono pessime. Le abitazioni sono sovraffollate e i campi mancano di infrastrutture di base come strade o servizi igienico sanitari. Spesso, durante i periodi di crisi, rimangono senza elettricità anche per tempi molto lunghi. Circa un quarto delle famiglie non ha il riscaldamento e la maggior parte delle abitazioni sono in condizioni di elevata umidità e hanno perdite d’acqua.

Ad aumentare le precarie condizioni è la carenza di finestre nelle abitazioni. Queste, quindi, hanno una ventilazione molto bassa, oltre all’assenza di illuminazione naturale. Il problema maggiore è il sovraffollamento: quasi la metà delle famiglie vivono in spazi ristretti e con una media di quattro persone per stanza.

Salute, igiene e nutrizione

I rifugiati palestinesi hanno un accesso limitato a cure mediche e farmaci e soffrono di un’alimentazione non adeguata e di una scarsa igiene. La malnutrizione è un problema in tutti i campi del Libano, indipendentemente dalla loro ubicazione. Questa costituisce il principale ostacolo al normale sviluppo dei bambini. Le organizzazioni internazionali e l’Unrwa (United Nations relief and works agency for palestine refugees in the Near East) forniscono assistenza sanitaria di base, ma spesso i rifugiati devono ricorrere a ospedali privati, quindi costosi. Un alloggio fatiscente e una cattiva igiene portano a malattie e problemi di salute che creano altre difficoltà finanziarie per le famiglie e le spingono ancora più nella povertà.

Lavoro

Il tasso di disoccupazione tra i profughi palestinesi arriva al 56% e la quasi totalità dei rifugiati vive con l’equivalente di 6 dollari al giorno. Circa il 50% della popolazione ha solo le competenze minime necessarie per un lavoro. Un altro 10% non ha mai frequentato la scuola. La situazione è particolarmente grave per i profughi palestinesi giunti dalla Siria. In Libano solo il 38% dei rifugiati in età lavorativa ha un impiego. Sebbene nove su dieci siano nati in Libano, questi sono trattati come lavoratori stranieri. Inoltre, per lavorare sono necessari permessi costosi, che pochi datori di lavoro libanesi sono disposti a pagare. I rifugiati non possono svolgere una serie di professioni, come quelle di avvocati, ingegneri e medici. La competizione per i posti di lavoro disponibili è diventata ancora più serrata da quando la crisi siriana ha portato in Libano due milioni di rifugiati siriani. Questi, disperati per sostenere le loro famiglie sono disposti a lavorare spesso per un salario al di sotto del minimo. È difficile per i palestinesi trovare un lavoro diverso da mansioni umili con salari molto bassi in settori come servizi igienico sanitari, agricoltura, edilizia. Le donne trovano invece lavoro come badanti, infermiere o domestiche.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Istruzione non adeguata

Un altro grave problema nei campi è la mancanza di accesso a un’istruzione adeguata. L’Unrwa provvede risorse educative a mezzo milione di bambini nei vari campi, e organizzazioni locali come la Wpa – Women’s program association – offrono risorse e supporto aggiuntivo. Tuttavia, queste risorse sono insufficienti e non forniscono ai giovani palestinesi le competenze di cui hanno bisogno per trovare un lavoro. Nei campi le scuole sono sovraffollate e oltre i due terzi di esse funzionano su doppi turni. Un altro ostacolo all’istruzione è l’impossibilità per i rifugiati di accedere alle scuole pubbliche libanesi. Ciò significa che l’unico accesso all’istruzione è consentito in una di quelle gestite dall’Unrwa o in quelle private, che però vanno al di là dei mezzi finanziari di quasi tutte le famiglie. Le scuole nei campi sono spesso fatiscenti. Ai rifugiati palestinesi non è permesso riparare alcun edificio per questo le strutture sono destinate a un inesorabile degrado.

I tassi di abbandono scolastico in Libano sono più alti che in Giordania, Cisgiordania e Gaza, arrivando a circa il 25% tra i bambini di età superiore ai sei anni. Coloro che nonostante tutte le difficoltà riescono a diplomarsi alla scuola secondaria non proseguono con l’istruzione superiore (collegi professionali o università) sia a causa dei costi per loro inaccessibili, sia perché sentono che non saranno in grado di trovare un lavoro al termine degli studi.

Dan Romeo
(Libano 1 – continua)

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Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




Burj El Barajneh

testo e foto di Daniele Romeo |


È uno dei campi profughi più pericolosi del Libano. Dove rifugiati palestinesi e siriani sono «incarcerati» e abbandonati senza speranza.

Entrato nel campo da una delle poche strade principali, mi ritrovo in un labirinto di vicoli bui. Allungando le braccia posso toccare gli edifici su entrambi i lati. I vicoli creano un senso di intimità e di comunità. Camminando tra le viuzze, posso ascoltare conversazioni, musica e il suono dei televisori. La notizia dell’arrivo di uno sconosciuto corre velocemente. Insieme al senso di comunità è forte anche il senso del controllo sociale.

un murales bellissimo di un martire

Palestinesi e siriani

Burj El Barajneh è un campo profughi palestinese situato nella periferia Sud di Beirut, la capitale del Libano. Fu fondato nel 1948 dopo la «Nakba», termine che in lingua araba significa «catastrofe», quando i palestinesi furono costretti a fuggire dalle loro case e dai loro villaggi. Costruito su un chilometro quadrato di terra per ospitare 10mila rifugiati, oggi ne ospita circa 50mila, compresi alcune migliaia, soprattutto donne e bambini, fuggiti dalla guerra in Siria.

Burj El Barajneh è un campo profughi a lungo termine. Le strade sono vicoli drappeggiati da un groviglio di fili elettrici e tubature dell’acqua. I bambini giocano e vanno a scuola sotto questo «tetto» pericolosamente intrecciato sopra le loro teste e molto spesso ad altezza uomo. Ci sono decine di decessi ogni anno per elettrocuzione.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

L’accesso al campo

Gli stranieri hanno bisogno di un permesso speciale per entrare nel campo. La Ong palestinese che mi ha invitato, me lo ottiene facilmente dal Mukhãbarãt, il servizio di intelligence dell’esercito. Questo mi permette di muovermi liberamente in entrata e uscita. Il sistema dei permessi scoraggia i curiosi e aiuta le autorità a monitorare la popolazione. Nello stesso tempo fa percepire il campo come una grande prigione a cielo aperto nel bel mezzo di una città cosmopolita come Beirut. Controlli di accesso rigorosi e sorveglianza costante riducono le visite di amici e familiari e ricordano ai rifugiati che la loro vita non è interamente loro.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Crisi senza fine

In Libano, la crisi (o meglio la lunga serie di crisi) è in atto dal 1948. Più di un milione di siriani e 450mila palestinesi vivono in dodici campi ufficiali e centinaia di insediamenti informali. I campi più antichi come Burj El Barajneh, una volta considerati temporanei, ospitano rifugiati di terza e quarta generazione. Non si tratta di campi tendati, ma di spazi di cemento e asfalto, agglomerati urbani in un continuo stato di emergenza i cui abitanti vivono in condizioni precarie e in piccoli appartamenti sovrapposti l’uno sull’altro.

Secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), due rifugiati palestinesi su tre in Libano vivono in condizioni di povertà. Circa il 60% dei rifugiati è disoccupato e i posti di lavoro che ricoprono sono quasi sempre non qualificati. A causa dell’insufficiente accesso all’istruzione e alle poche opportunità di crescita personale, è estremamente difficile per loro ottenere le competenze di cui hanno bisogno. Il Libano proibisce ai rifugiati palestinesi di lavorare nelle 72 professioni più importanti, dalla medicina all’ingegneria. Molte famiglie fanno affidamento sui fondi di parenti all’estero e i giovani sognano di emigrare. Questa situazione rende i rifugiati molto vulnerabili e ciò è particolarmente vero per le donne all’interno del campo, che affrontano abitualmente discriminazioni di genere e trovano particolarmente difficile ottenere opportunità di lavoro retribuito.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Campo di «battaglia»

Il campo è disseminato dei segni di battaglie e guerriglie passate. Proiettili e fori da armi pesanti fanno da monito sulle facciate di decine di edifici, mentre poster di leader politici e «martiri» coprono pareti come cartelloni pubblicitari. Molti murales raffiguranti giovani uomini armati, insieme a emblemi che indicano alleanze e lealtà, segnano i confini territoriali delle diverse fazioni politiche. Simboli di Fatah, Hamas e bandiere gialle di Hezbollah dominano nel campo e ancora oggi ci sono ovunque immagini di Yasser Arafat, dai poster retrò del giovane leader palestinese con gli occhiali da sole ai murales del presidente, capo della Anp. Una preoccupazione recente è la possibilità che Da’esh possa infiltrarsi e minacciare l’equilibrio della comunità, poiché il campo ospita sia nuclei sciiti palestinesi che cristiani.

Mariam Shaar mentre mi porta in giro per il campo e mi racconta della sua vita e della vicenda palestinese

Le donne del campo e il progetto Soufra

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Le immagini di queste pagine fanno parte di un più ampio reportage realizzato nel maggio 2018 per documentare la condizione di vita di un gruppo di donne del campo e, in particolare, un progetto legato alla loro formazione ed emancipazione tramite la cucina. Il reportage è stato realizzato in collaborazione con la Ong palestinese Women Program Association (Wpa) e con quella svizzera Cuisine sans frontières.

Mariam Shaar è nata da genitori palestinesi all’interno del campo ed è qui che attualmente vive. È un’assistente sociale da quasi vent’anni e dirige la Wpa. Mariam è stata la mia guida. Mi ha ospitato nella casa dei suoi genitori in un appartamento del campo. Ha raccontato la sua storia, quella del suo popolo, la tragedia della deportazione prima e dei rifugiati siriani poi; le guerre, le speranze, i suoi sforzi per aiutare le donne della comunità.

La Wpa ha filiali in nove dei dodici campi profughi palestinesi in Libano, incluso il campo di Burj El Barajneh. L’organizzazione offre formazione professionale per le donne, microcredito ai membri della comunità e opportunità di impiego attraverso il progetto Soufra, una start up di catering fondata dalla stessa Mariam nel 2013.

Grazie agli investimenti di alcune Ong internazionali, Wpa è riuscita a realizzare un film documentario sulla vita di Mariam, diretto da Susan Sarandon, che ha permesso di finanziare il primo progetto sostenibile di food truck in Libano: un’unità di ristorazione del progetto Soufra gestito completamente da donne palestinesi. «I rifugiati come noi sanno che la carità non è abbastanza. Ne siamo stanchi. È necessario fare in modo che le persone, le donne del campo, siano autosufficienti. Bisogna insegnare loro come pescare. Questo è ciò che il progetto Soufra e il nostro food truck rappresentano per noi».

Sono questi il pensiero e la filosofia che spingono Mariam a lottare quotidianamente per le donne del campo. A seguito delle richieste della comunità e al supporto di numerose organizzazioni internazionali, la Wpa è anche riuscita ad aprire nel campo di Burj El Barajneh la scuola materna Nawras che offre l’opportunità di istruzione a bambini palestinesi e siriani.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it

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Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.