Mondo. È lontana la «pace con la natura»

Era bello il titolo assegnato alla sedicesima Conferenza sulla biodiversità tenutasi a Cali, in Colombia, dal 21 ottobre al 1 novembre: «Paz con la naturaleza». Il vertice, organizzato dalle Nazioni Unite e noto come Cop (Conference of the parties) 16, è arrivato a due anni dall’ultimo, tenutosi a Montréal nel dicembre 2022. In quell’occasione, quasi 200 paesi avevano sottoscritto un ambizioso piano in 23 obiettivi – denominato the Kunming-Montreal global biodiversity frameworkper invertire la perdita di biodiversità entro la fine del decennio.

Con il termine biodiversità s’intende la varietà della vita presente sulla Terra: animali, piante, funghi e microrganismi come i batteri. Nel suo insieme, essa fornisce il necessario per la sopravvivenza, tra cui acqua dolce, aria pulita, cibo e medicine. Da tempo, questa biodiversità si sta rapidamente riducendo, principalmente a causa delle attività umane, come espansione della frontiera agricola e delle attività minerarie, inquinamento e mutamenti climatici. È stato calcolato che circa il 40% degli habitat naturali (foreste, fiumi, oceani) sia degradato e un milione di specie vegetali e animali sia a rischio estinzione.

Dopo due settimane di trattative, sabato 2 novembre (in ritardo rispetto al calendario ufficiale e con molti negoziatori già ripartiti) i delegati rimasti hanno concordato su due questioni centrali, da qualcuno già definite storiche: istituire un organismo sussidiario che includerà i popoli indigeni nelle future decisioni sulla conservazione della natura e obbligare le grandi aziende (per esempio, quelle farmaceutiche) a contribuire alla difesa della biodiversità quando, per la produzione dei loro prodotti, vengano utilizzate informazioni genetiche naturali (Digital sequence information, Dsi, ovvero i dettagli del Dna e dell’Rna di un organismo).

Una salamadra pezzata. (Foto Biodiversity Credit Alliance)

L’accordo sul «the Cali found» stabilisce anche quanto esse dovrebbero pagare: l’1 percento dei loro profitti o lo 0,1 percento delle loro entrate. I singoli governi sono invitati ad adottare misure legislative o di altro tipo che possano spingere le aziende a contribuire. Secondo una ricerca, un fondo del genere potrebbe raccogliere un miliardo di dollari all’anno per la conservazione della biodiversità. Tuttavia, non sono stati stabiliti né obblighi né tempistiche.

L’effettiva portata delle decisioni della Cop16 potrà essere valutata soltanto nei prossimi mesi. Però, gli impegni finanziari assunti sono stati irrisori e non promettono nulla di buono. Inoltre, molte organizzazioni ambientaliste hanno espresso forti perplessità sui contenuti del vertice. «Siamo profondamente delusi – ha affermato Amazon Watch – dal fatto che gli accordi finali e le posizioni della maggior parte dei governi alla Cop16 non abbiano preso gli impegni necessari per salvaguardare tutta la vita sulla Terra e il nostro futuro collettivo. Questioni chiave, come l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, sono state escluse dai documenti finali, mentre vengono promosse false soluzioni che mercificano la natura, come i “crediti per la biodiversità”, per mantenere il business come al solito».

Al di là delle critiche, di sicuro rimane il solito dubbio di fondo: pur importante (è sempre fondamentale che i Paesi s’incontrino e si confrontino sulle tematiche comuni), il vertice di Cali riuscirà a passare dalle dichiarazioni di principio alle azioni? Nel frattempo, chiusa la Cop16 sulla biodiversità, dall’11 al 22 novembre si terrà la Cop29 sui cambiamenti climatici. Sarà ospitata nell’Azerbaijan del petrolio e dell’autocrate Ilham Aliyev.

Paolo Moiola




Mongolia. Il lievito della democrazia

 

In questo 2024 di elezioni, venerdì 28 giugno è andata al voto anche la Mongolia – estesa 1,6 milioni di km2, ma con solo 3,5 milioni di abitanti (2 per chilometro quadrato) -. Si è votato per eleggere i rappresentanti del «Grande Hural di Stato», il parlamento unicamerale del Paese asiatico.

Al potere si è confermato il Partito del popolo mongolo (Man), formazione socialdemocratica nata nel 1990 dalle ceneri del partito comunista. Il Man avrà ancora la maggioranza, avendo ottenuto 68 dei 126 seggi totali (numero innalzato con la riforma costituzionale del 2023). Al secondo posto il partito democratico e, a distanza, altre tre piccole formazioni.

Schiacciato tra la Russia e la Cina, all’inizio del 1992 la Mongolia ha approvato una nuova Costituzione che ha posto le basi di un sistema democratico: multipartitismo, separazione dei poteri, riconoscimento dei diritti dei cittadini (libertà di religione compresa). Nonostante la vicinanza con i due grandi regimi totalitari, i dati delle principali organizzazioni internazionali (Freedom House, ad esempio) confermano la sua svolta democratica.

Privo di sbocchi al mare e con pochissima terra coltivabile a causa del clima rigido, il Paese è soprattutto un paese di allevatori – di pecore, capre, yak, cammelli, cavalli – nomadi o seminomadi. Ricca di risorse minerarie (carbone, rame, uranio, tungsteno, molibdeno su tutte), la Mongolia risulta molto attrattiva per gli investitori stranieri, in primis quelli della confinante Cina.

I problemi sono principalmente tre: la precaria condizione economica della maggioranza dei cittadini, la corruzione degli organi statali e le (gravi) conseguenze del cambiamento climatico.

I primi due hanno portato alle proteste di piazza del dicembre 2022, mentre i mutamenti climatici hanno reso ancora più aspro il fenomeno meteorologico noto come «dzud», ovvero un inverno particolarmente rigido (anche meno 30 gradi) e nevoso che non consente al bestiame di sopravvivere. Si calcola che quest’anno lo dzud abbia ucciso 7,1 milioni di animali, più di un decimo dell’intero patrimonio zootecnico del Paese.

Stando ai dati 2022 dell’Asian development bank, il 27,1 per cento della popolazione mongola vive sotto la linea della povertà. La maggior parte dei poveri si trova nella capitale Ulaanbaatar, dove si concentra quasi la metà della popolazione complessiva e che è considerata una delle città più inquinate del mondo.

Paolo Moiola

 




Kenya. Sotto l’acqua

 

Da quando è iniziata la stagione delle piogge, nel marzo scorso, il Kenya ha subito diverse inondazioni, che hanno causato crolli di ponti, interruzioni di strade, e sfondamenti di dighe. Ad oggi il bilancio delle vittime è di 210 morti e 200mila sfollati. Al momento sono circa 90 i dispersi. Oltre la metà dei quali, a causa del cedimento della diga di Mai Mahiu, contea di Nakuru, nella notte tra il 28 e il 29 aprile, a un centinaio di chilometri a Nord della capitale Nairobi. Qui il conto provvisorio delle vittime è di 50.

Le piogge hanno riempito la diga fino a farla cedere. I villaggi a valle sono stati investiti da una massa d’acqua e fango che ha portato via tutto, comprese le abitazioni. Il presidente William Ruto, il primo maggio, in visita al sito, ha detto che è necessario evacuare gli abitanti rimasti. Diverse sono le dighe a rischio a causa delle violente piogge. Il ministro dell’Interno ha annunciato un’ispezione a 178 dighe per verificare il loro stato.

Particolarmente importante è stata l’inondazione causata dalle piogge iniziate lo scorso 24 aprile. Diverse località del Kenya e la capitale sono state allagate. A Nairobi i quartieri popolari di Kibera e Mathari hanno subito inondazioni, con diverse decine di vittime, mentre 60mila sarebbero le persone colpite. Si ricorda che molti di questi quartieri, noti come slum, non hanno sistemi fognari o di scarico delle acque.

L’oppositore Raila Odinga ha subito chiesto che fosse dichiarato lo «stato di emergenza» il che permetterebbe di usare misure eccezionali, come ad esempio l’intervento dell’esercito.

Gli abitanti dei quartieri, soprattutto poveri, se la prendono con il governo che non ha fornito loro aiuto e attrezzi per cercare i sopravvissuti e i cadaveri.

Il presidente William Ruto, accusato di inefficienza, il 3 maggio ha annunciato che interverrà con misure adeguate.

La causa delle volenti piogge è attribuita al fenomeno climatico conosciuto come «El niño», che si sviluppa nel Pacifico. Intanto, sabato 4 maggio era previsto l’arrivo del ciclone Hdaya a lambire le coste di Tanzania e Kenya, ma fortunatamente si è depotenziato all’avvicinarsi delle coste. Il governo aveva ordinato l’evacuazione di tutte le zone a rischio, comprese diverse aree della capitale. In alcuni quartieri popolari, lungo le rive dei fiumi, i bulldozer hanno raso al suolo le abitazioni per favorire il percorso delle acque. La popolazione, però, non è stata ricollocata e molte famiglie si sono trovate all’improvviso senza casa. Si parla di un migliaio di persone. I residenti protestano anche per non aver ricevuto nessun tipo di soccorso o di aiuto (come cibo o acqua) da parte delle autorità.

Secondo l’istituto nazionale meteorologico le piogge potrebbero continuare nei prossimi giorni. Intanto, le scuole restano chiuse fino a nuovo ordine, con evidente preoccupazione dei genitori.

Marco Bello




Clima: ultima occasione


In attesa delle elezioni europee, il cui risultato sarà decisivo per contrastare la crisi climatica, ripercorriamo l’evoluzione del movimento «Fridays for future» e di come ha cambiato il dibattito sul clima.

Il 20 agosto del 2018 una ragazza svedese ha innescato la scintilla che avrebbe cambiato il dibattito mondiale sul clima in maniera irreversibile.

Stiamo parlando di Greta Thunberg che, all’età di15 anni, ha iniziato la sua protesta per il clima, e per tre settimane ha saltato la scuola recandosi invece di fronte al parlamento del suo Paese. Indossava un iconico impermeabile giallo e reggeva un cartello che recitava «Skolstrejk for klimatet», sciopero della scuola per il clima.

Una semplice ragazza angosciata per il futuro incerto del suo pianeta chiedeva alla classe politica svedese, che si stava avvicinando a nuove elezioni in quel periodo, di attuare azioni rapide e concrete di contrasto alla crisi climatica. Greta Thunberg ha iniziato sola, ma presto i media hanno incominciato a darle attenzione, ragazzi e ragazze da ogni luogo hanno iniziato a emulare le sue azioni e il mondo si è accorto che le sue preoccupazioni erano condivise da una massa di persone, giovani e non solo, in tutti i paesi.

Molti hanno iniziato a seguire il suo esempio, e quella protesta individuale ha assunto una dimensione globale prendendo il nome di Fridays for future, venerdì per il futuro, in riferimento al giorno della settimana scelto da Greta e i suoi compagni per continuare i loro scioperi anche dopo le elezioni svedesi.

Il neonato movimento portava avanti istanze precise, a partire dalla richiesta alla comunità internazionale di sviluppare politiche definite per rispettare l’impegno preso con l’Accordo di Parigi del 2015. Il trattato, sviluppato con la partecipazione di 196 paesi alla Cop21, fissava come obiettivo il mantenimento «dell’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5°C, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».

Una rapida crescita

Per approfondire incontriamo Luca Sardo, 24 anni, torinese, neolaureato in economia dell’ambiente e attivista per il clima già da prima dell’arrivo di Fridays for future nel capoluogo piemontese. Ci racconta come lui e i suoi compagni abbiano visto nel nuovo movimento uno spazio entusiasmante, giovane e fluido nel quale impegnarsi per essere protagonisti del cambiamento. Racconta: «Questo ti faceva sentire che, anche se avevi 17-18 anni, potevi comunque fare la differenza e sentirti parte di qualcosa di molto più grande».

Secondo il giovane attivista, uno dei principali pregi del movimento nato da Greta Thunberg è stato quello di aver aumentato la consapevolezza pubblica sul tema, offrendo «un’inquadratura diversa della crisi climatica: essa non è solo un problema di natura scientifica, ma anche di giustizia climatica, di impatti differenti che la crisi ha sulle diverse fasce della popolazione».

Grazie a queste caratteristiche Fridays for future si è espanso in fretta in tutto il mondo, approdando in Italia con l’iniziativa di Bruno Fracasso, giovane studente di biologia che il 30 novembre 2018 ha indetto il primo sciopero per il clima di fronte alla sede del comune di Pisa. Dopo la sua iniziativa, il movimento ha raggiunto presto anche altre città.

foto Fridays for Future – Torino

2019, l’anno verde

Dopo le prime manifestazioni organizzate localmente, gli esponenti del movimento hanno capito di poter mobilitare grandi masse e di poterlo fare in molti paesi contemporaneamente provocando un impatto maggiore sull’opinione pubblica. Così Fridays for future, insieme ad altre organizzazioni ambientaliste, ha organizzato per il 15 marzo 2019 il primo Global strike for future, uno sciopero globale che, secondo le stime degli organizzatori, ha portato oltre un milione di studenti per le strade di 125 paesi.

Da quel momento i movimenti ambientalisti hanno vissuto la loro età dell’oro, le manifestazioni si sono susseguite una dopo l’altra e con una partecipazione oceanica. Tra il 20 e il 27 settembre 2019 la Climate action week ha visto la realizzazione di più di 6.100 manifestazioni in 185 paesi, coinvolgendo un numero record di persone, che gli organizzatori hanno stimato di 7,6 milioni. Altre fonti hanno riportato cifre leggermente più basse, ma in ogni caso è stata la manifestazione globale per il clima più partecipata di sempre e una delle più grandi proteste della storia. L’Italia, con un milione e mezzo di partecipanti, è stata uno dei paesi più attivi.

Il clima è così entrato con una nuova forza nel dibattito pubblico e si è fatto largo nelle agende mediatiche e politiche. Le posizioni e le affermazioni sui problemi ambientali sono diventate il metro per giudicare politici, partiti, influencer e aziende. Tanta è stata anche la disinformazione in questi anni, dalle prime pagine del giornale Libero che parlavano dei «gretini» alle dichiarazioni negazioniste di Matteo Salvini, ma ormai il tema era sul tavolo, e non se ne sarebbe andato facilmente.

Sardo ci racconta: «Il principale successo ottenuto a livello europeo, anche se ora è in grande discussione, è stato l’approvazione del Green deal. Rappresenta un punto di non ritorno nelle politiche per il clima a livello dell’Unione, ha segnato una svolta importante».

Il Green deal è stato presentato dalla Commissione europea ai cittadini a fine 2019 con l’obiettivo, tanto ambizioso quanto necessario, di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Tra i passi da fare vi è la riduzione delle emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990, da attuarsi entro il 2030. Le iniziative da mettere in campo includono la decarbonizzazione del settore energetico e l’introduzione di forme di trasporto pubblico e privato più pulite.

Lo stop e la ripartenza

Con la diffusione, a inizio 2020, della pandemia da Covid-19, l’onda di mobilitazione scatenata da Thunberg ha subito un brusco arresto. Di colpo il mondo si è bloccato, le manifestazioni sono state vietate e l’emergenza climatica è passata in secondo piano rispetto alla crisi sanitaria e alle sue disastrose conseguenze.

«Nel 2021 abbiamo ricominciato a manifestare – spiega Luca Sardo – ma la copertura mediatica era molto scemata rispetto ai livelli pre pandemia e anche quell’aria di novità, di moda e di tendenza che avevamo era scomparsa».

Nel 2021 ci sono stati alcuni grandi eventi degni di nota, come la mobilitazione di migliaia di attivisti arrivati da tutto il mondo a Glasgow in occasione della Cop26. Tra essi era presente anche un’importante rappresentanza dei Mapa (dall’inglese Most affecteed people and areas), ossia le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. L’interesse, però, era scemato e il movimento non avrebbe ritrovato la stessa forza di prima.

Tuttavia, erano ancora in molti i giovani che sentivano l’urgenza di affrontare la crisi climatica. Un’urgenza definibile come vera e propria «ecoansia» per il proprio futuro.

«Questo ci ha trasformati – continua l’attivista torinese -: da essere sulla cresta dell’onda siamo passati a essere un movimento meno grande, con meno copertura mediatica, però fatto da persone che erano rimaste lì perché ci credevano davvero. È questo che ci ha permesso di portare avanti cose che prima non saremmo riusciti a fare».

foto Fridays for Future – Torino

Nuove radici

A quel punto, a livello italiano, è iniziato un processo di consolidamento, di radicamento nel territorio e di approfondimento delle relazioni con altri attori sociali. Si sono stabilite e rafforzate collaborazioni con Extinction rebellion, movimento fratello, con associazioni storiche come Greenpeace e Legambiente, e oggi si esplorano possibili legami con Ultima generazione, movimento più recente che porta avanti azioni di rottura e disturbo, come gli imbrattamenti di monumenti ed edifici tanto ripresi dalla stampa.

Luca Sardo spiega che la lotta per la giustizia climatica è una battaglia «intersezionale» che riguarda la giustizia sociale a 360 gradi, dal clima, alle migrazioni, dall’innalzamento dei mari alle guerre per l’acqua. Per questo, racconta, a Torino il movimento ha «sviluppato molto i rapporti con i sindacati della città, perché la crisi climatica si interseca con le tematiche di tutela dei diritti dei lavoratori, visto che spesso si usa la transizione ecologica come una scusa per delocalizzare, tagliare posti di lavoro, chiudere fabbriche».

Il radicamento sul territorio ha portato il movimento a molti risultati locali: Luca Sardo ci fa l’esempio del gruppo torinese, il quale nel giugno 2023 ha trovato la sua prima casa; a Torino è stato infatti inaugurato il Kontiki, prima sede fisica di Fridays for future in Italia. Un luogo dove mettere radici, coltivare relazioni e costruire cultura. Oltre a essere la sede dei loro incontri e delle associazioni amiche, il Kontiki in questi primi mesi di vita ha già ospitato decine di eventi culturali, conferenze, presentazioni di libri, diventando un vero e proprio punto di riferimento per i giovani che vogliono attivarsi.

Prospettive europee

La battaglia per la giustizia climatica è ben lontana dal raggiungere i suoi obiettivi, nonostante i rischi siano gravi e accertati dalla comunità scientifica. Il dibattito fatica ad attecchire su alcune fasce della popolazione e a tradursi in iniziative politiche concrete.

Come sottolinea Sardo, il problema dell’attivismo per il clima è che, almeno in Europa, i problemi ambientali non hanno ancora palesato conseguenze particolarmente drammatiche, e le persone faticano a considerare urgenti problemi che si verificheranno tra alcuni anni. Il mondo sta attraversando una molteplicità di crisi e gli europei sono più preoccupati per i costi della spesa, del carburante e delle bollette.

Ci stiamo avvicinando a uno dei banchi di prova più importanti per il nostro pianeta, tra il 6 e il 9 giugno 2024, infatti, i cittadini dell’Unione europea voteranno il loro nuovo Parlamento. L’obiettivo principale per contenere le conseguenze della crisi climatica è mantenere l’aumento della temperatura media entro gli 1,5°C entro il 2030, e i parlamentari che eleggeremo staranno in carica fino al 2029. Potrebbe quindi essere l’ultima opportunità per fare davvero la differenza, in un senso o nell’altro, e le prospettive attuali non sono incoraggianti vista la scarsa sensibilità ecologica tipica della classe politica di molti paesi.

Al centro del problema ci sono sicuramente i combustibili fossili sui quali l’ultima Cop di Dubai ha definito ufficialmente la direzione, che comporta una progressiva ma decisa uscita dal loro utilizzo. I principali settori su cui bisognerà intervenire saranno quello dei trasporti, dell’agricoltura, e soprattutto dell’energia. Abbiamo visto negli ultimi mesi come e quanto sia difficile portare avanti azioni significative in questi settori ma, continua Sardo: «L’elefante nella stanza sono le lobby e le multinazionali del settore energetico. Fortissime e inscalfibili, determinano gran parte dei conflitti che viviamo nel mondo. È quello il principale nemico da aggredire». È stato quindi questo l’obiettivo di Fridays for future durante i mesi precedenti alle elezioni europee: cercare di riportare per le strade cortei e manifestazioni – come ha fatto con lo sciopero globale organizzato lo scorso 19 aprile – e contemporaneamente sviluppare azioni specifiche indirizzate a minare gli interessi delle lobby del fossile.

Il nostro pianeta ha bisogno di azioni rapide e concrete per sopravvivere, la lotta continua e, come sottolinea Luca Sardo, va «declinata in un’ottica di giustizia climatica per permettere alle persone di affrontare questa transizione senza accrescere le disuguaglianze, ma anzi cercando di ridurle contemporaneamente».

Mattia Gisola

foto Mattia Gisola


Il vocabolario dell’attivista

Mapa: è una sigla che sta per «Most affected people and areas». Indica le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. Spesso viene utilizzata come alternativa a «Sud globale» per riferirsi a tutte le popolazioni e i paesi che pagano il maggior prezzo dei cambiamenti climatici pur avendo le minori responsabilità nel provocarli. Sono incluse le popolazioni indigene, che è stimato proteggano l’80% della biodiversità del pianeta.

Intersezionalità: ogni tipo di attivismo può essere intersezionale, significa essere consapevoli che le diverse forme di diseguaglianza che affliggono le nostre società sono interdipendenti tra loro. In quest’ottica battersi per la giustizia climatica significa perseguire una giustizia sociale a 360 gradi, che non lasci indietro nessuno.

Ecoansia: forma di ansia e paura per il futuro legata alla consapevolezza dei disastri che i cambiamenti climatici provocheranno.

Cop: Conferenza delle parti organizzata ogni anno dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) dove i leader di tutto il mondo si riuniscono per decidere insieme come contrastare l’emegenza climatica.

1,5 gradi: durante la Cop21 di Parigi è stata per la prima volta scelta come obiettivo la soglia limite di 1,5 gradi di riscaldamento globale rispetto al periodo pre industriale. è ritenuto il limite per contenere conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici.

foto Mattia Gisola




Clima, Cop28: meglio del previsto o solo parole?


Alla Cop28 di Dubai i Paesi del mondo hanno raggiunto un accordo che va oltre le basse aspettative della vigilia. Ma realizzarlo è tutta un’altra storia e le incognite continuano a essere tante.

A riguardarla ora, a mesi di distanza, la traiettoria della scorsa conferenza sul clima ricorda molto il profilo a saliscendi delle montagne russe. Partita con premesse poco promettenti e con aspettative bassissime, ha avuto un’apertura dei lavori incoraggiante, parecchi momenti tesi e perfino tragici durante lo svolgimento, una conclusione più positiva del previsto e, infine, un immediato ridimensionamento dell’ottimismo generato da questa conclusione.

La Cop28 – cioè la «Conferenza delle parti aderenti alla convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici» – si è svolta a Dubai, negli Emirati arabi uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre 2023. Essa ci mostra un mondo che ha giudicato del tutto insufficienti gli sforzi fatti finora per mettere in pratica l’accordo di Parigi del 2015 sul clima, e ha deciso di intensificarli rinunciando ai combustibili fossili. Non è riuscita, tuttavia, a spingere le parti fino all’adozione di decisioni legalmente vincolanti.

Il dibattito fra chi vede nelle decisioni prese alla Cop28 un buon risultato e chi non lo vede si gioca in definitiva su questo: per la prima volta c’è un accordo ufficiale sul fatto che il mondo debba andare verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma non c’è alcuna garanzia che i Paesi rispetteranno questo accordo e non tenteranno di piegare i suoi passaggi più vaghi ai propri interessi immediati.

Allagamenti a Rio do Oeste (foto Marco Favero / Governo de SC)

Dove eravamo rimasti

La Cop27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, si era conclusa con un unico risultato degno di nota: la decisione di creare un «Fondo perdite e danni», destinato a compensare per i danni subiti finora i Paesi più vulnerabili, dove le conseguenze del cambiamento climatico sono già molto pesanti.

Sulla mitigazione, cioè su quell’insieme di interventi necessari per contrastare il fenomeno stesso del cambiamento climatico, e quindi prevenire danni e perdite, non c’erano stati progressi. L’Egitto, Paese ospitante, aveva anche approfittato della Conferenza sia per portare avanti la propria agenda di esportatore di gas, sia per tentare di ripulire l’immagine del governo di Al-Sisi, danneggiata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani che il regime mette in atto e dal progressivo impoverimento della popolazione egiziana@.

La scrittrice e attivista Naomi Klein a questo proposito aveva commentato che il vertice sul clima stava andando «ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia»@.

L’annuncio, giunto come da tradizione nei giorni di chiusura della Cop, che la sede per il successivo summit sarebbe stata Dubai, uno degli Emirati arabi uniti – cioè un altro Paese la cui economia si basa sui combustibili fossili – aveva poi contribuito a creare il clima di rassegnata sfiducia che si è trascinato fino all’apertura della Cop28. Si era allora a fine novembre 2022, tempo nel quale tutti gli scienziati stavano già anticipando quello che ora sappiamo per certo: che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo mai registrato@.

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village, l’isola di Komote nel 2009 (foto Gigi Anataloni)

Una conferenza tesa

La Conferenza del 2023, ospitata nella Expo city sorta nel 2020, si è aperta con l’accordo che rende operativo il Fondo perdite e danni, quello che la Cop27 aveva solo stabilito di creare. Secondo Jacopo Bencini, dell’organizzazione Italian climate network (Icn), la presidenza emiratina della Cop28, guidata dal sultano Ahmed Al Jaber, ha voluto con quella mossa «fugare il più possibile dubbi e sospetti rispetto a questa prima Cop presieduta da un Ceo (amministratore delegato, ndr) di un’azienda petrolifera»@.

Al Jaber è infatti direttore generale e amministratore delegato di Adnoc, la compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi, un altro dei sette emirati federati. Aveva ricevuto molte critiche quando, una settimana prima della Cop, aveva detto che non esistono prove scientifiche a dimostrare che eliminare i combustibili fossili permetterà di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali come richiede l’accordo di Parigi@.

La conferenza, raccontava Ferdinando Cotugno nei suoi dispacci@ pubblicati sul quotidiano Domani e nella sua newsletter Areale, è poi proseguita con negoziati costretti a farsi largo nella melma di risentimenti e tensioni che si agglutinava intorno a troppi elementi di disturbo: scorie delle fratture e dei conflitti del mondo esterno alla Cop che inquinavano l’atmosfera pacificata della Expo city.

Innanzitutto, il veto del presidente russo Vladimir Putin, ostile all’ipotesi che una capitale dell’Unione europea potesse ospitare la Cop29; ma anche le molte resistenze delle economie basate sul fossile, rivelate dalle agenzie Reuters e Bloomberg con la pubblicazione dei contenuti di alcune lettere inviate dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, agli Stati membri. Le lettere contenevano una consegna inequivocabile: respingere ogni proposta di accordo che attaccasse direttamente i combustibili fossili invece delle emissioni@.

Secondo alcuni osservatori, nel rompere lo stallo potrebbe aver giocato uno strumento tradizionale della cultura araba, il majlis, che – riportava@ nella sua analisi sul New York Times il giornalista economico Peter Coy – è sia un luogo che un evento. È la zona di un’abitazione araba dove i padroni di casa si siedono con gli ospiti. Nella versione della Cop28, il majlis ha preso le sembianze di una riunione più informale, a porte chiuse, con i delegati seduti in cerchi concentrici a dar vita a una condivisione più personale e immediata.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Sullo sfondo l’isola di Komote nel 2024. (Foto Anna Pozzi)

La prima bozza

Ma, nonostante gli accorgimenti per rendere la negoziazione più fluida, la prima bozza di accordo uscita l’11 dicembre si è rivelata molto problematica@. La principale pecca era quella di non contenere il cosiddetto phase-out dei combustibili fossili (cioè la scelta di smettere del tutto di usarli), nemmeno per il carbone, sull’abbandono del quale la comunità internazionale sembrava invece più concorde. Il testo era più attento a promuovere i metodi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, prevedendo una riduzione dei soli combustibili fossili le cui emissioni non possano essere abbattute appunto con quei metodi (unabated, nell’espressione inglese). Ma è noto che la ricerca sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è ancora molto lontana dall’aver trovato soluzioni che permettano di abbattere emissioni su larga scala@.

Il culmine delle tensioni è stato probabilmente raggiunto con la frase – molto ripresa dai media – di John Silk, capo delegazione delle Isole Marshall, che così ha commentato la bozza: «La Repubblica delle Isole Marshall non è venuta qui per firmare la sua condanna a morte. Quello che abbiamo visto oggi è totalmente inaccettabile. Non andremo alle nostre tombe d’acqua in silenzio»@.

L’accordo che nessuno si aspettava

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Dopo un’ulteriore ultima nottata di negoziati, i delegati sono tuttavia arrivati a un documento finale – il primo Global stocktake, o Gst (in italiano: inventario globale)@ – che, a detta di molti osservatori, contiene alcuni passaggi storici. Un’analisi completa del documento è disponibile sul sito di Icn@; i punti che rappresentano una svolta sono i seguenti.
Per la prima volta in 28 anni, la conferenza sul clima fa ufficialmente proprie le posizioni della comunità scientifica, riconoscendo che il riscaldamento del pianeta è «in modo inequivocabile» causato dall’uomo, e invita tutte le parti a contribuire agli sforzi globali per allontanarsi (transitioning away, nel testo originale) dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo – ammettendo così di fatto che questo tipo di combustibili è, per così dire, il grosso del problema – e per triplicare l’energia prodotta con fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.

L’impegno a non superare la soglia del grado e mezzo rimane «la stella polare», ha detto l’inviato per il clima ed ex segretario di stato Usa, John Kerry e, anche se da Dubai non è uscita una tabella di marcia precisa, l’accordo dice in modo chiaro che per onorare questo impegno occorre limitare le emissioni del 43% entro il 2030, del 60% entro il 2035, e arrivare infine a zero emissioni nette entro il 2050.

Il Gst contiene un riferimento all’energia nucleare su cui il dibattito italiano si è molto focalizzato. Eppure, osservava Cotugno nella sua newsletter del 13 dicembre, il testo uscito da Dubai è ben lontano dal dare lo stesso peso a rinnovabili e nucleare: riconosce quest’ultima opzione come legittima, ma l’impegno verso le rinnovabili è molto più marcato.

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Tante incognite

Già durante la plenaria conclusiva della conferenza hanno cominciato a emergere gli elementi su cui occorrerà vegliare perché l’accordo non venga svuotato del suo senso.

A nome dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, la capo negoziatrice samoana Anne Rasmussen ha rilevato la presenza nell’accordo di una «sequela di scappatoie»@. Il delegato del Senegal, a nome dei 46 paesi meno sviluppati, ha espresso preoccupazione per «i bassi contributi complessivi»@ che i vari fondi per il clima@ hanno nei fatti ricevuto, e che sarebbero vitali sia per finanziare interventi di adattamento, sia per limitare i danni subiti da una crisi climatica della quale i Paesi da lui rappresentati sono i meno responsabili.

Solo per fare un esempio: pochi giorni dopo l’effettiva creazione del Fondo perdite e danni con cui si è aperta la Cop, i Paesi ad alto reddito avevano promesso 700 milioni di dollari. La cifra però rappresenta solo lo 0,2 per cento dei 400 miliardi che, secondo la stima più citata negli ultimi mesi, sarebbe necessaria per le compensazioni.

Se la professoressa Valeria Termini, intervistata da Lucia Capuzzi su Avvenire@, vede la svolta di Dubai in un cambio di approccio della Cina – apparsa, dice Termini, più pronta a sostenere i Paesi in via di sviluppo e meno legata a quelli produttori di petrolio -, il giornalista esperto di clima David Wallace-Wells ha scritto che ai ritmi di emissioni attuali la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento è già fuori dalla nostra portata@. Citando il Global Carbon Budget, pubblicazione coordinata dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ogni anno sintetizza i risultati del lavoro di numerosi gruppi e centri di ricerca, Wallace-Wells riporta che le emissioni dovrebbero raggiungere lo zero non molto oltre il 2040: dieci anni prima di quanto indicato nell’inventario globale di Dubai.

A pesare sulle prospettive di gestione della crisi climatica c’è anche l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti che, alla data di chiusura di questo articolo vedono l’ex presidente Donald Trump in largo vantaggio nelle primarie del partito repubblicano. Già durante il suo mandato, Trump aveva ritirato gli Usa – secondo Paese al mondo per emissioni – dall’accordo di Parigi e riempito le agenzie governative di lobbisti dei combustibili fossili, e c’è da aspettarsi un secondo mandato ancora più aggressivo, scriveva Politico lo scorso gennaio@.

Allo scenario del disimpegno degli Usa va poi aggiunta la disinformazione, che ha modificato forma e ha smesso quasi del tutto di negare che il cambiamento climatico esiste per dedicarsi invece ad attaccare le soluzioni, sostenendo ad esempio che le rinnovabili e i biocombustibili non funzionano o che le politiche per il clima ci impoveriranno.

È questo che emerge da uno studio del Center for countering digital hate, che ha analizzato l’evoluzione dei contenuti dei video negazionisti su YouTube. Il compito dell’ambientalismo nel 2024, twittava a proposito Ferdinando Cotugno, «è proteggere le ragioni della transizione dalla nuova ondata di bugie»@.

Chiara Giovetti

Mungitura in una stalla. L’allevamento intensivo degli animali è uno degli imputati principali del cambiamento climatico (foto Gigi Anataloni)




La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Clima. Meno ventisei

Difficile capire quanto valga l’accordo raggiunto a Dubai (Emirati Arabi Uniti) lo scorso 13 dicembre. Di sicuro, l’enfasi del sito ufficiale della Cop28 è fuori luogo: «We united. We acted. We delivered» (Ci siamo uniti. Abbiamo agito. Abbiamo raggiunto).

La conferenza mondiale sul clima, svoltasi in casa dei produttori di petrolio, ha deciso che, entro il 2050 (cioè tra 26 anni), i combustibili fossili dovranno essere usciti di scena. La frase centrale – da molti definita «storica» – recita così: «Uscire dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza» (punto 28, lettera d).

Certamente, davanti a dati sempre più drammatici (il 2023 è stato l’anno più caldo di sempre, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è a livelli mai visti, l’Artico è in grandissima sofferenza, eccetera), quella data pare troppo lontana, i fondi del «Loss and damage» (perdite e danni causate dai cambiamenti climatici) per i paesi più poveri sembrano un’inezia ed esagerati i sorrisi compiaciuti di Sultan Al Jaber (presidente della Cop28 e petroliere) e di gran parte dei delegati.

La Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece) ha commentato: «Accogliamo con favore il difficile accordo raggiunto sull’eliminazione dei combustibili fossili, ma siamo preoccupati per il reale impegno delle parti ad attuarlo in modo efficace». Detto questo, una lettura pessimistica degli accordi non conviene a nessuno perché può indurre all’inazione e fare un favore ai tanti negazionisti climatici, palesi od occulti.

La riunione appena conclusa si è tenuta in un paese petrolifero e così sarà anche per la prossima. Nel 2024 la Cop29 si terrà, infatti, in Azerbaijan, cioè in un altro paese produttore di petrolio e gas. La Cop30 sarà invece in Brasile, paese che a gennaio 2024 entrerà come osservatore nell’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio.

L’attivista indiana di soli 12 anni sul palco della Cop28 con il suo cartello di protesta.

Nel frattempo, da oggi al 2050, tutti sono tenuti a contenere l’aumento della temperatura della Terra in un grado e mezzo rispetto all’epoca preindustriale. In primis, spetta agli stati con le loro politiche, ma anche ai giornalisti con il racconto della verità scientifica e ai singoli cittadini con le loro scelte quotidiane. Tutto difficile, ma – lo speriamo in tanti – non impossibile.

La speranza si può forse intravvedere tra le righe dell’accordo di Dubai, ma è certamente più visibile nell’esempio e nell’intraprendenza di Licypriya Kangujam, attivista indiana di soli 12 anni che, saltata sul palco della Cop28, ha alzato al cielo il suo cartello scritto a mano: «Basta combustibili fossili. Salviamo il nostro pianeta e il nostro futuro».

Paolo Moiola




Un pugno nello stomaco

 

Tempo fa ero rimasto tra lo sconcertato e il divertito quando, facendo il test online «Quanti schiavi hai», avevo scoperto di avere almeno nove schiavi. Ragione: cellulare, macchina fotografica, jeans, computer e cose simili. Per mia fortuna non ho l’automobile, altrimenti di schiavi ne avrei avuti almeno quindici. Ho pensato a quel test nei giorni tra fine febbraio e inizio marzo, quando è esplosa la notizia del massacro del nostro ambasciatore, Luca
Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo nella Repubblica democratica del Congo. Mi sono reso conto che molti dei «miei schiavi» vivono proprio là e, che lo voglia o no, anch’io ho delle responsabilità in quell’uccisione compiuta da soldataglia che, in fondo, è al soldo diretto o indiretto di chi sfrutta quella schiavitù per garantirmi – e garantirci – il livello di vita al quale siamo abituati e che riteniamo essere nostro diritto.

Questa presa di coscienza è stata quasi un pugno nello stomaco. Non è facile da accettare, soprattutto per me che – per scelta e professione – mi ritengo un difensore dei diritti dei poveri, degli oppressi, degli schiavizzati. Su questa rivista da anni scriviamo della situazione del Congo e di realtà simili. L’ultimo pezzo è uscito solo lo scorso dicembre. Mitico è il numero monografico di MC, «Giù le mani dal Congo», del 2004.

Certo non sono io personalmente a sparare, violentare, intimidire, razziare. Non sono io a corrompere i politici con mazzette e privilegi perché chiudano gli occhi su ciò che succede. Non siedo nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali che si spartiscono le risorse del mondo e trovano più conveniente pagare le milizie che le tasse o investire nelle infrastrutture necessarie a garantire la dignità e sicurezza dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente. Non produco, né traffico la montagna di armi che destabilizza quelle regioni. Nonostante questo, non posso dire «non c’entro».

La triste realtà è che alla radice di quella, come di altre situazioni di conflitto, c’è il nostro stile di vita. Un modo di vivere che ci autocentra e che raramente ci offre la possibilità di aprire gli occhi sulla realtà del mondo. Siamo presi da troppe preoccupazioni, alcune futili, come i festival canori o la squadra del cuore, altre più serie come la politica, il Covid, i disastri climatici. Ma sono sempre problemi che vediamo come se toccassero solo noi. Quelli che toccano gli altri è come se non esistessero. E come la soluzione dei nostri piccoli e grandi problemi sia, in realtà, pagata da altri, poco ci interessa. Tutto questo alimenta il consumo e lo spreco come base necessaria per la sopravvivenza del nostro sistema economico. Anche la nostra politica nazionale e internazionale è drogata da eserciti di lobbisti al soldo delle grandi centrali economiche nei luoghi chiave delle istituzioni internazionali.

Ogni tanto, tragedie come quella del massacro dell’ambasciatore e della sua scorta nel Congo, o il coraggioso viaggio di papa Francesco in Iraq, ci obbligano ad aprire gli occhi sul mondo e sul fatto che tutto è interconnesso: la ricchezza di una minoranza si alimenta del sangue e delle lacrime di una maggioranza schiavizzata.

Anche la pandemia del Covid-19 e gli accelerati cambiamenti climatici, sono altri segnali d’allarme importanti. Allarmi che possono diventare un’opportunità: per guardare in faccia la realtà, per farci smettere di cercare capri espiatori o crogiolarci in teorie complottiste, e, infine, perché ciascuno assuma le proprie responsabilità.

È tempo di smettere di essere solo consumatori, fruitori e spettatori, per diventare soggetti responsabili della nostra storia, pronti per una «conversione» del nostro stile di vita, a cominciare dal nostro modo di consumare, di gestire l’ambiente, di partecipare alla vita politica, di mettere in discussione lo strapotere dei super ricchi.

Lo dobbiamo ai milioni di morti del Congo, a quelli di tanti altri paesi del mondo e a noi stessi.




Clima e ambiente, adesso è il tempo per cambiare

Lo sostiene e lo argomenta il rapporto della Coalizione italiana contro la povertà – Gcap, che mostra quanto la pandemia abbia aperto spazi per un cambio radicale nelle politiche pubbliche. A patto che queste siano coerenti fra loro, altrimenti si rischia di fare con una mano e disfare con l’altra.

La pandemia da Covid-19 ha causato cambiamenti radicali e richiede provvedimenti imponenti. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se l’Italia, l’Europa, il mondo, sceglieranno di orientare questi cambiamenti e provvedimenti verso un ritorno alla situazione pre-Covid o, viceversa, in direzione di un mutamento del nostro modo di abitare il pianeta che ci permetta di affrontare – e possibilmente risolvere – i problemi che c’erano già prima dell’epidemia, a cominciare dal cambiamento climatico e dai danni all’ambiente.

Questo è il presupposto da cui muove il rapporto 2020 della Gcap – Coalizione italiana contro la povertà@, capitolo italiano della più ampia rete della Global call to action against poverty, che riunisce undicimila organizzazioni della società civile in 58 paesi.

Il rapporto mira a incidere, con una serie di raccomandazioni, sul processo decisionale che porterà l’anno prossimo alla revisione della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile@, e mette in evidenza i legami fra cambiamento climatico e crisi ambientale da un lato e, i vari settori inclusi negli Obiettivi di sviluppo sostenibile dall’altro (Sdg nell’acronimo inglese, gli obiettivi che le Nazioni unite hanno elaborato nel 2015 per il quindicennio che arriverà al 2030, da cui il nome di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile).

Al di là dei tecnicismi, comunque, la concretezza del rapporto e dei problemi che solleva emerge nella serie di domande avanzate dagli estensori del primo capitolo, cioè Maria Grazia Midulla, Responsabile Clima ed energia del Wwf, Andrea Stocchiero, responsabile delle attività di policy e advocacy della Focsiv, e Massimo Pallottino, co portavoce Gcap Italia.

«È possibile», si chiedono i tre autori, «garantire una vera transizione ecologica se si continuano a fornire sussidi per le energie fossili? È possibile avviare un vero percorso di riduzione delle disuguaglianze se si mantiene un sistema economico che proprio nell’esistenza e nell’aggravamento delle disuguaglianze trova il proprio motore principale? È possibile arrestare la corsa verso il collasso ecologico, fatto di riscaldamento climatico e di riduzione della biodiversità, se continuano ad aumentare i consumi e lo spreco di risorse?».

Il riscaldamento continua

Cominciamo dal clima: «Gli ultimi cinque anni», ricorda il rapporto Gcap, «sono stati i più caldi della storia, così come lo è stato l’ultimo decennio, 2010-2019. Dagli anni Ottanta, ogni decennio successivo è stato più caldo dei precedenti». Quanto a quest’anno, occorrerà aspettare le rilevazioni dell’ultimo trimestre, ma l’estate 2020 è risultata la più calda di sempre nell’emisfero boreale stando alle rilevazioni dell’Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica (Noaa) degli Stati Uniti, agenzia federale che studia il clima, il meteo e le condizioni degli oceani e delle coste.

Il lockdown non ha ridotto significativamente la presenza nell’atmosfera dell’anidride carbonica (CO2) e degli altri gas responsabili dell’effetto serra. Se è vero che lo scorso aprile si è registrata una diminuzione del 17 per cento nelle emissioni di anidride carbonica rispetto all’anno precedente, già a giugno la riduzione era solo del cinque per cento. Ma quel che più conta è che queste riduzioni non sono bastate per far diminuire la concentrazione dei gas serra che, anzi, ha continuato ad aumentare fra il 2019 e il 2020 come se nulla fosse successo@.

Se molte persone hanno avuto durante il lockdown la sensazione di un miglioramento della qualità dell’aria e di una riduzione dell’inquinamento, spiegava@ lo scorso 10 settembre il fisico del clima Antonello Pasini durante la presentazione del rapporto Gcap, è perché con le chiusure della scorsa primavera sono effettivamente diminuiti gli inquinanti che hanno un tempo di vita in atmosfera di quindici giorni: un blocco della attività di due mesi è quindi sufficiente a ridurli in modo molto evidente. La CO2, però, ha poi precisato Pasini, ha un tempo di vita in atmosfera di alcuni decenni. Per ridurne la concentrazione, quindi, servono prolungate e significative riduzioni delle emissioni, che possono essere solo l’effetto di decisioni politiche da parte dei governi di tutto il mondo.

L’inquinamento dell’aria

L’inquinamento dell’aria è responsabile di quasi nove milioni di morti all’anno, sottolinea il rapporto citando i dati@ della Commissione su inquinamento e salute del Lancet, prestigiosa pubblicazione medica britannica. La cifra, che è il doppio rispetto a precedenti stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), rappresenta il 16 per cento dei decessi annuali e nove vittime su dieci vivono in paesi a medio e basso reddito.

Il costo dell’inquinamento – inteso come lavoro perso, spese mediche affrontate, tempo libero non goduto a causa delle malattie legate all’inquinamento – è pari a 4.600 miliardi all’anno, equivalente a circa il sei per cento del Pil mondiale.

Guardando alla sola Europa, lo scorso settembre l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) ha pubblicato un rapporto – basato su dati 2012, i più recenti forniti dall’Oms – secondo il quale nell’Unione le morti dovute all’inquinamento sono 630mila, di cui 400mila riconducibili all’inquinamento dell’aria e dodicimila all’inquinamento acustico.

Inoltre, benché si tratti di ipotesi ancora in corso di verifica, diversi studi hanno evidenziato una correlazione fra l’inquinamento dell’aria – in particolare la presenza di inquinanti come il particolato (le polveri fini dette PM10 e PM2,5 ) – e l’aumento di infezioni e morti per Covid-19@.

Ambiente e sanità

Per affrontare cambiamento climatico e inquinamento, dicevamo sopra, sono necessarie decisioni politiche strutturali e durature. Ma, insiste il rapporto Gcap, queste decisioni possono portare dei risultati solo se non ne vengono contemporaneamente prese altre che le annullano. Questo vale per tutti gli ambiti: dal commercio alla finanza, dalla sanità all’agricoltura, dalle migrazioni alla giustizia intergenerazionale, e il rapporto dedica un capitolo a ciascuno di questi settori. Qui possiamo approfondirne solo alcuni.

Rispetto alla coerenza delle politiche nell’ambito sanitario, ad esempio, il rapporto richiama One Health (Una sola salute), un approccio che riconosce la relazione esistente tra salute umana, animale e ambientale.

Un esempio – in negativo e da correggere – della relazione fra questi tre ambiti, è quello relativo alla resistenza agli antibiotici che, secondo le stime dell’Oms, è responsabile a livello mondiale di 700mila morti all’anno, e potrebbe provocare dieci milioni di vittime entro il 2050.

Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Amr, Antimicrobial resistance) «ha cause molteplici, ma è legato in larghissima misura all’uso massiccio e improprio di antibiotici in medicina e veterinaria, all’abuso di farmaci antibiotici per uso non medico negli allevamenti intensivi, alla diffusione e dispersione nell’ambiente dei fitofarmaci usati nell’agricoltura industriale e intensiva. Gli antibiotici continuano a essere utilizzati in zootecnia per la crescita rapida degli animali e per la prevenzione delle malattie, a fronte delle scarsissime condizioni di benessere vigenti nella maggior parte degli allevamenti intensivi, anziché essere prescritti per uso medico in caso di effettiva necessità. Queste pratiche scorrette, e ampiamente documentate, contribuiscono alla comparsa di batteri resistenti agli antimicrobici negli animali, che possono poi essere trasmessi all’uomo attraverso la vendita della carne».

Clima, ambiente e cibo

Un altro esempio è rappresentato poi dal settore dell’agricoltura, dell’allevamento e della silvicoltura, responsabili di quasi un quarto delle emissioni di gas serra, specialmente il metano, generato dai processi digestivi dei bovini e dal letame immagazzinato, e l’ossido nitroso, derivante dai concimi ricchi di azoto.

In questo caso, per l’Unione europea la coerenza consisterebbe nell’approfittare della imminente riforma della Politica agricola comune (Pac) per inserire nella programmazione per i prossimi sei anni provvedimenti più decisi nella direzione di un’agricoltura più sostenibile.

Coerenza significa, inoltre, evitare di adottare politiche protettive dell’ambiente e del clima «in casa» spostando poi all’estero il problema.

A questo proposito, è stato molto dibattuto negli ultimi mesi l’accordo – ancora da firmare e, almeno alla data in cui scriviamo questo articolo, abbastanza in bilico@ – fra l’Unione europea e i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay).

L’accordo permetterebbe@, l’importazione in Europa dai paesi del Mercosur di una serie di prodotti fra cui le carni bovine. Queste potrebbero entrare a dazi ridotti (7,5 per cento) e fino a raggiungere la quota di 99mila tonnellate. L’Ue ha precisato che questa quantità è «poco più dell’1% del consumo totale di carne bovina dell’Ue, pari alla metà delle importazioni provenienti attualmente dai paesi del Mercosur. Inoltre, tale quota non sarà applicata integralmente fino al 2027 e verrà gradualmente ripartita in sei rate annuali».

Ma, nonostante le rassicurazioni@ che escludono un aumento della produzione di carne bovina nel Mercosur in conseguenza all’eventuale accordo, diversi osservatori hanno comunque obiettato@ che la firma di un accordo come questo è in netta contraddizione con il piano presentato dalla Commissione europea lo scorso settembre, che prevede una riduzione delle emissioni entro il 2030 non più del 40 per cento, come era previsto nel precedente piano, ma del 55 per cento@.

Scelta discutibile

Per semplificare, il dibattito sembra svolgersi in questi termini: l’Ue dice che le quantità importate non si tradurranno in maggiore produzione nel Mercosur, e non genereranno ulteriore deforestazione e aumento delle emissioni di gas serra; le organizzazioni della società civile, puntualizzano invece che se davvero vogliamo ridurre i danni dovuti alle emissioni di gas serra l’obiettivo è ridurre la produzione globale, non mantenerla uguale continuando, fra l’altro, a buttarne una parte.

Nell’agosto del 2019 questa rubrica aveva riportato i dati Fao sullo spreco di cibo: «Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta –, 574 miliardi di uova, tre miliardi di salmoni atlantici e undicimila piscine olimpioniche di olive». E ancora: «La produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’otto per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme»@.

Chiara Giovetti

Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre

«I più anziani si ricorderanno il colonnello Bernacca, che aspettava con ansia l’arrivo dell’anticiclone delle Azzorre, che segnava l’inizio dell’estate: bene, adesso questo anticiclone è un po’ latitante», così il fisico del clima Antonello Pasini, ospite dell’evento di presentazione del Rapporto Gcap, ha iniziato la sua spiegazione.

«Con il riscaldamento globale di origine antropica», ha continuato Pasini, «si è espansa verso Nord quella che noi chiamiamo la cellula di Hadley, cioè la cellula equatoriale della circolazione atmosferica. Espandendosi la cellula verso Nord, gli anticicloni che prima stavano stabilmente sul deserto del Sahara adesso ogni tanto entrano nel Mediterraneo, portando un caldo molto più feroce di quello dell’anticiclone delle Azzorre, con siccità e ondate di calore». (Chi.Gio.)




Cari missionari

Un sabato di ordinaria missione

Dal 6 febbraio mi trovo con mia moglie Roberta a Dianra, in Costa d’Avorio (foto in basso), presso la missione della Consolata dove vive e svolge il suo servizio mio figlio Matteo insieme a padre Raphael Ndirangu dal Kenya e padre Ariel Tosoni dall’Argentina.

In genere il sabato si stabilisce che ogni missionario vada a celebrare la messa in un villaggio delle varie parrocchie: Dianra, Dianra Village e Sononzo. Il sabato 30 marzo si era così stabilito: p. Raphael a Dianra, p. Matteo a Dianra Village e p. Ariel a Sononzo. Considerando che la comunità di Sononzo è la più lontana dalla «base» – circa 45 km – e che per andarci si passa per Dianra Village, siamo partiti con una sola macchina. Con noi c’era una bimba nata il 18 marzo, la cui mamma era deceduta poco dopo il parto, da portare ai nonni in un villaggio lungo il tragitto.

Matteo p Pettinari con mamma e papà a Dianrà

Siamo partiti verso le ore 16.00 e sull’auto eravamo in 8: p. Ariel, p. Matteo, Roberta ed io, la bimba, la nonna ed altre due persone della famiglia. Dopo circa 20 minuti siamo arrivati al villaggio della bimba. Siamo scesi tutti dall’auto. Varie persone ci hanno accolto sulla strada e ci hanno fatto accomodare nel cortile della casa che era poco lontana. Dopo averci offerto dell’acqua ed aver adempiuto ai saluti e riti convenzionali, lasciata la neonata e la famiglia, siamo ripartiti.

Verso le 17.30 siamo arrivati a Dianra Village. Padre Ariel è subito ripartito per passare la serata con i giovani di Sononzo e potervi poi restare per la messa domenicale. Io, con Roberta e Matteo, sono rimasto a Dianra Village. Matteo, che è l’amministratore del dispensario ivi esistente, ha dovuto sbrigare degli impegni prima di partire in moto per il villaggio di Bébédougou. Poiché tutti e tre non potevamo andare, mi ha chiesto se volevo accompagnarlo, mentre Roberta sarebbe restata a Dianra Village. Ho accettato volentieri. Il villaggio dove eravamo diretti era a una ventina di km. Indossato il casco e messo in spalla lo zaino, siamo partiti. Erano le 19.30. Prima di uscire dal villaggio, Matteo ha chiesto a un giovane che conosce la zona quali fossero le condizioni della strada. Joseph lo ha rassicurato dicendo che era percorribile, raccomandandoci però di fare attenzione in alcuni tratti perché avremmo trovato molta sabbia accumulata… e così siamo partiti.

Detto fatto. Poco dopo ci siamo resi conto che la «strada» era in realtà una pista sconnessa con cumuli di sabbia che formavano dei solchi… pista che si snodava attraverso piantagioni di anacardo e di cotone. Nel buio della notte, le luci della moto non facilitavano molto il percorso. Prima di arrivare a destinazione, avremmo dovuto attraversare tre villaggi. Dopo il primo, Pétérikaha, ed il secondo, Chontanakaha, eccoci arrivare al terzo, Nadjokaha, dove ci doveva attendere il catechista Emile. Purtroppo, arrivati al punto di incontro stabilito, non abbiamo trovato nessuno. Matteo ha provato a telefonare, ma non c’era connessione. Nel villaggio, non essendoci l’illuminazione, si vedeva circolare qua e là qualche persona con la pila. Poco distante, davanti a una casa, c’erano due bambini dall’apparente età di otto-dieci anni che con dei bastoni battevano dentro un mortaio circolare in legno per frantumare delle granaglie. Più in là, seduti a terra intorno ad una scodella, ve ne erano altri quattro, dai due ai quattro anni, che stavano mangiando con le mani. Ed ecco che si avvicina un giovane, Basile, amico di Emile e membro della piccola comunità cattolica del villaggio. La notizia non è affatto buona: Emile non era venuto all’appuntamento perché lo avevano chiamato per cercare un bambino in un villaggio vicino, che poi sarebbe stato trovato morto in un pozzo.

Via Crucis quaresimale

A questo punto, Matteo decide di continuare senza accompagnamento per raggiungere il villaggio di Bébédougou. Non sapeva dove era il cortile scelto per la celebrazione, ma una volta arrivati si è fermato nella casa del capo villaggio al quale ha chiesto se sapeva dove si svolgeva la celebrazione religiosa. Questi, che era sdraiato su un lettino nella veranda davanti casa, ha riconosciuto Matteo (infatti, pochi mesi prima, il centro sanitario di cui Matteo è responsabile aveva inaugurato una casetta della salute nel suo villaggio); gentilmente si è alzato e ci ha accompagnati nel luogo richiesto che era a non più di 50 metri dalla sua abitazione. Giunti sul posto alcune donne hanno portato delle sedie, ci hanno fatto accomodare e secondo la tradizione hanno offerto dell’acqua e chiesto le notizie. Dopo una decina di minuti, abbiamo accompagnato il capo villaggio nella sua abitazione e siamo ritornati indietro. Le donne stavano già preparando per la celebrazione e per la cena. Erano già presenti una decina di persone e altre stavano affluendo dai villaggi vicini, chi a piedi e chi su motofurgone. Nel frattempo queste avevano preparato nel cortile un piccolo tavolo come altare e davanti, in modo circolare, sedie e panche. La messa è iniziata verso le 21.45 e le persone erano più di 50, senza contare quelle alle spalle che osservavano incuriosite. La celebrazione è stata bella perché molto partecipata, con canti e preghiere individuali, anche se – come mi ha detto Matteo – la maggior parte dei partecipanti non erano ancora battezzati. La messa è terminata intorno alle 23.20. Subito le donne hanno portato la cena con grandi recipienti ricolmi di riso ed una tipica salsa verde come condimento. A me e Matteo hanno portato del riso con salsa di pesce e dei pezzi di radice di ignam lessati. In pochi minuti i commensali avevano già mangiato tutto! A questo punto, vista l’ora e la tanta strada da percorrere per raggiungere Dianra Village, Matteo ha chiesto il permesso di ripartire, come si usa qui (si chiede la strada), e ce lo hanno concesso. Ho indossato il casco, ripreso lo zaino contenente gli arredi per l’altare e siamo partiti. La strada era molto insidiosa a causa della solita gran quantità di sabbia e, pur proseguendo a bassa velocità, ci è voluta tutta l’abilità di Matteo per mantenere l’equilibrio. Più volte ha dovuto mettere i piedi a terra per non cadere tenendo conto dell’oscurità e delle insidie nascoste dietro ogni curva. La temperatura era gradevole e soffiava un vento leggero. Contrariamente all’andata, nel tragitto di ritorno abbiamo incrociato poche moto e furgonette, anche loro tutte in precario equilibrio. La cosa che mi sorprendeva era che, non essendoci l’illuminazione, ci trovavamo al centro dei villaggi senza neanche accorgercene, anche perché – vista l’ora – non c’erano più persone in giro con la pila. Attraversando il villaggio di Nadjokaha Matteo mi ha indicato il pozzo fatto realizzare dai missionari poiché in quella zona non c’era acqua. Il punto più vicino per attingerne si trovava a 9 km, quindi la gente era obbligata a percorrerne 18 per avere acqua potabile disponibile.

Siamo arrivati a Dianra Village verso mezzanotte e mezzo. Che dire? Per me è stata un’esperienza molto bella dove ho potuto vedere persone semplici e piene di fede che pregano con tanto fervore. Matteo mi dice che in questi villaggi il missionario lo vedono due o tre volte l’anno e la domenica si celebra solo la liturgia della Parola con l’aiuto del catechista.

Siamo andati a letto che era l’una passata. Questo è il sabato del missionario.

La domenica ha poi celebrato a Dianra Village e incontrato i vari gruppi: giovani, corali, catecumeni, Caritas, catechisti, ecc. Il pranzo è stato offerto da una famiglia della comunità. Questo è il mio resoconto di un tipico, «ordinario», fine settimana vissuto dai missionari in questa terra.

Pietro Pettinari
Senigallia, 20/04/2019


Cambiamenti climatici

Anche tu puoi fare parte del tam tam

Ormai anche i governi hanno capito che dobbiamo impedire alla temperatura terrestre di innalzarsi ulteriormente. Dal 1880 ad oggi è aumentata appena di un grado centigrado e già si vedono gli effetti. I cambiamenti climatici non riguardano solo il futuro dei nostri figli e nipoti, sono realtà già oggi. Si verificano tempeste sempre più violente, incendi sempre più frequenti, penuria d’acqua per riduzione dei ghiacciai, innalzamento dei mari per scongelamento delle calotte polari. Nessuno ha più certezza del destino del proprio territorio: l’alterazione delle piogge può trasformare ridenti paesaggi in deserti, città costiere in un intreccio di canali per l’avanzare del mare, ampi territori in distese d’acqua per lo straripamento dei fiumi. Con ricadute sociali inimmaginabili. Dal 2008 al 2018, nel mondo si sono avuti 265 milioni di sfollati per disastri naturali, molti di loro per l’instabilità del clima.

Chi ha provocato il danno lo sappiamo. La colpa è del sistema economico tutt’oggi dominante che avendo fatto dell’espansione della ricchezza il proprio idolo, ha spolpato la terra e prodotto rifiuti in maniera sconfinata. E non per la dignità di tutti, ma per il privilegio di pochi, e tuttavia quanto basta per avere messo il pianeta a soqquadro. Per definizione la produzione esige energia, la sua scarsità è il motivo per cui in passato la produzione era pressoché costante. Limite che il capitalismo ha superato con l’accesso ai combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e l’invenzione di macchine capaci di trasformare il loro enorme potenziale energetico in movimento, calore, elettricità. Peccato che attraverso questa operazione si siano messe in libertà miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in misura ben superiore alla capacità di assorbimento di oceani e sistema vegetale. Di qui l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera con conseguente intrappolamento dei raggi solari, aumento della temperatura terrestre e cambiamento del clima che porta con sé calamità, alterazione della piovosità e quindi riduzione della produzione di cibo e migrazioni.

Gli scienziati ci dicono che per arginare la situazione bisogna dimezzare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2030 e annientarle entro il 2050. Un’operazione titanica che il sistema pensa di poter affrontare solo con cambiamenti tecnologici. Invece non ha capito che la vera sfida è la riduzione, che a sua volta chiama in causa un altro modo di organizzare l’economia. Se vorremo salvare la nostra umanità dovremo riorganizzarci in modo da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti e garantendo a tutti l’inclusione lavorativa. Di sicuro il mito della crescita infinita è al tramonto, ma ancora non si è sviluppato un dibattito adeguato per discutere come va riorganizzata l’economia in una logica di stazionarietà orientata al benvivere. Un nuovo pensiero economico costruito non più attorno all’interesse dei mercanti, ma della buona vita per tutti, è ciò di cui abbiamo urgente bisogno.

Ma nell’attesa che questo dibattito divampi, ognuno di noi deve fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per arginare l’incendio. Tanti lo vogliono fare, ma non agiscono perché non sanno. Per questo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it) ha prodotto una serie di infografiche per spiegare in maniera comprensibile le cause dei cambiamenti climatici e i rimedi possibili a partire da noi. Visita il sito, scarica il documento, e invita i tuoi amici a fare lo stesso.

Francesco Gesualdi
17/06/2019


Il papa in ginocchio

L’11 aprile 2019 papa Francesco, dopo una giornata di riflessione con i due vice presidenti del Sud Sudan, s’inginocchiò con molta fatica per baciare loro i piedi e per supplicare per la pace del popolo del loro paese. La pace è il dono più grande che Gesù offre ai suoi discepoli.

Vorrei provare leggere questo avvenimento con gli occhi e il cuore della cultura dell’Etiopia, il mio paese.

La tradizione culturale etiopica è una tra le tradizioni più antiche, ricche e significative dell’Africa. Da noi le persone anziane, scimaghile – così sono chiamate in amharico -, sono coloro che hanno un grandissimo valore nella società e vengono rispettate in un modo speciale.

Nella nostra cultura una persona diventa scimaghile verso i sessant’anni, quando, con l’esperienza acquisita, sa qual è il bene da fare e il male da evitare. La responsabilità degli scimaghile non è limitata all’ambito privato o famigliare, ma riguarda la società tutta, per cui quando un anziano osserva un atto di ingiustizia, ha la responsabilità di intervenire per risolvere il problema.

Per esempio quando ci sono difficoltà, incomprensioni o atti di violenza nelle famiglie tra marito e moglie, tra i vicini o tra le tribù, gli anziani si radunano per analizzare le cause dei conflitti. Dopodiché si inginocchiano davanti alle persone in conflitto e chiedono loro di perdonarsi e di fare pace. Quando un anziano si mette in ginocchio davanti a una persona per chiedere di fare la pace, nessuno dei contendenti ha la possibilità fisica o morale di resistere o rifiutare. Diventa un imperativo categorico. Quando uno scimaghile si mette in ginocchio, il conflitto deve essere superato e la pace ristabilita.

Da questa prospettiva culturale, il gesto di papa Francesco che s’inginocchia e bacia i piedi ai vice presidenti del Sud Sudan ha un valore enorme.

Papa Francesco, agli occhi della gente del mio paese, l’Etiopia, indipendentemente da ogni interpretazione religiosa, è considerato uno scimaghile che sente sulle sue spalle la responsabilità di risolvere un grave problema di tutto un popolo, e si mette in ginocchio e chiede a due politici importanti la pace per il loro paese.

Papa Francesco, con questo gesto, mostra di conoscere la cultura africana, e indica il modo nel quale entrare in dialogo con gli altri.

Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 68), papa Francesco scrive che «una cultura popolare evangelizzata, contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine».

Inoltre papa Francesco mette in pratica tutto ciò che ha scritto nella stessa esortazione a proposito di una chiesa in uscita per la pace e il dialogo.

In questo caso, papa Francesco esce dalla sua cultura e si mette in ginocchio per la pace di un popolo. La vera evangelizzazione si realizza stando attenti ai segni dei temi. L’Africa si evangelizza nel contesto africano. In altre parole, gli africani non si possono evangelizzare senza tener conto dei loro valori e delle loro tradizioni.

È proprio questo che vediamo nel gesto di papa Francesco che esce dal suo contesto culturale ed entra profondamente nella cultura africana per favorire e far sorgere la pace.

Ephrem Tadesse Ebiyo
Torino, aprile 2019