Mozambico. Nuova ondata jihadista

 

Il fuoco sembrava spento. Invece si è riacceso improvvisamente e Cabo Delgado, in Mozambico, è tornato a incendiarsi. Dopo diversi mesi di relativa tranquillità, la provincia è stata teatro di una nuovi attacchi terroristici che il mese scorso, stando a stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), hanno costretto più di 99.000 persone, tra cui 61.492 bambini, ad abbandonare le proprie case. Molte aree sono tornate sotto il controllo dei miliziani islamici senza che l’esercito mozambicano e i suoi alleati, le truppe del Rwanda e quelle della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), riuscissero a contenerne l’avanzata.

Nei mesi precedenti la nuova offensiva, secondo quanto riportano gli analisti, i gruppi jihadisti hanno lavorato sul campo con le comunità locali con un’azione di indottrinamento instillando odio nei confronti del governo di Maputo che ha sempre trascurato il Nord del Paese. I jihadisti si sono poi presentati come alleati delle comunità locali acquistando anche le merci dei contadini a prezzi maggiorati.
Dopo l’uccisione in battaglia, nell’agosto 2023, di Bonomado Omar, o Ibn Omar, considerato il carismatico leader locale dei jihadisti mozambicani, in molti si erano illusi che fosse iniziata la parabola discendente del terrorismo a Cabo Delgado. I fatti stanno dimostrando che così non è stato.

Con un sostrato popolare in certe aree non ostile, i terroristi si sono riorganizzati. Fonti locali credibili indicano che si sia addirittura formato un nuovo gruppo, con base nella zona di Macomia, più giovane, dinamico e aggressivo rispetto al precedente, e per adesso non necessariamente in competizione. Sarebbe proprio questa compagine ad avere scatenato l’inferno nel corso del 2024. I suoi biglietti da visita sono distinguibili rispetto a quelli degli attacchi tradizionali: anzitutto, una chiara retorica anti cristiana.
Nel posto di blocco che hanno stabilito per entrare a Mucojo (che, secondo quanto si sa da fonti non ufficiali, starebbe ancora sotto il controllo dei jihadisti), negato veementemente dalle autorità locali, passano soltanto autisti musulmani o chi può pagare più di 50mila meticais (equivalente a circa 650 euro). I terroristi hanno addirittura condiviso nelle reti sociali una loro dichiarazione, scritta in portoghese e inglese, spiegando le regole di questo «casello» da loro controllato.
Ancora in senso anti cristiano, l’attacco del 12 febbraio a Mazeze (distretto di Chiúre, estremo sud di Cabo Delgado, al confine con la provincia di Nampula) ha visto la distruzione, oltre che del mercato e del piccolo ospedale locale, anche della chiesa e della casa del parroco. In secondo luogo, i jihadisti che hanno portato gli ultimi attacchi rivelano un’eccellente capacità di sorprendere l’avversario, fatto che dimostrerebbe un lavoro di contro intelligence di alto livello, assai preoccupante.

Il grande interrogativo che tutti, in Mozambico, si pongono, è quale sarà il futuro di Cabo Delgado e dei suoi abitanti, al netto di ciò che Total vorrà fare rispetto al suo investimento sul gas. La Missione Samim (Sadc mission in Mozambique) ha già annunciato che lascerà il paese a giugno, anche se non è da escludere un ripensamento, viste le condizioni attuali sul terreno. Il Rwanda è presente con più di duemila effettivi; certo, potrebbe ancora aumentare il numero dei suoi militari, ma il prezzo che il Mozambico dovrà pagare a Paul Kagame sarà poi altissimo. Sullo sfondo, una disponibilità russa nell’aiutare l’alleato mozambicano a debellare il nemico jihadista. La prima volta, con la Wagner, andò male, ma adesso, forse, l’esperienza potrebbe essere più positiva, per gli interessi di Mosca.

Gli Stati Uniti hanno promesso ulteriori aiuti. L’annuncio è stato fatto dall’ambasciata Usa a Maputo in una nota diffusa al termine di una visita di cinque giorni nel Paese di Anne Witkowsky, assistente segretario di Stato americano per le operazioni di stabilizzazione.
«Gli Stati Uniti intendono fornire 22 milioni di dollari in nuovi finanziamenti nel 2024, una volta avuta l’approvazione del Congresso, per aiutare il Mozambico negli sforzi di stabilizzazione nelle regioni settentrionali – si legge nella nota – con questo investimento, gli Stati Uniti avranno destinato quasi 100 milioni di dollari all’assistenza incentrata sulla stabilità nel nord del Mozambico a partire dal 2022».

Le autorità del Mozambico temono che il contrabbando di legname nella provincia di Cabo Delgado, che si stima frutti circa 1,8 milioni di euro al mese, possa finanziare le attività dei gruppi ribelli che agiscono nell’area nord orientale del Paese.
«Sebbene non vi sia traccia di legami diretti con il terrorismo, il fatto che il contrabbando di legname e di altri prodotti forestali avvenga in aree con una attiva minaccia terroristica suggerisce che questa attività sia stata una fonte di reddito per i terroristi, dal momento che si stima che il contrabbando di legname a Cabo Delgado frutti ai contrabbandieri circa 125 milioni di metical al mese», si legge nel Rapporto nazionale di valutazione del rischio di finanziamento del terrorismo, riportato dall’agenzia Lusa.

Il Regno Unito sosterrà il Mozambico con circa 10 milioni di euro per far fronte alla crisi umanitaria nella provincia settentrionale di Cabo Delgado dovuta agli attacchi terroristici, ma anche alle conseguenze negative degli eventi meteorologici estremi. È quanto riferito negli scorsi giorni da Radio France internationale (Rfi), citando l’Alto commissario britannico a Maputo, Helena Lewis, al termine di una visita di tre giorni nel nord del Paese, colpito da attacchi terroristici.
«Data la situazione con nuovi sfollati, forniremo oltre 8,3 milioni di sterline nei prossimi tre anni nel settore dell’accoglienza, della salute mentale e anche per il coordinamento della comunità internazionale, e in un settore molto importante dell’identità per rifare e offrire nuovamente i documenti di identificazione per gli sfollati», ha sottolineato Helena Lewis, ricordando che questo sostegno si aggiunge a quello dell’anno scorso: «Abbiamo già fornito più di 28 milioni di euro alla provincia di Cabo Delgado in termini di aiuti umanitari non solo in risposta agli attacchi e per gli sfollati, ma anche a causa degli eventi climatici», ha concluso.

Enrico Casale




Cabo Delgado. Curare ferite invisibili


Gli scontri nel nord del Mozambico, iniziati nel 2017, hanno causato una fuga di massa della popolazione. Oggi la situazione si è un po’ stabilizzata e la gente ha ripreso a tornare a casa. Ma i traumi rimangono a lungo e i servizi di recupero psicologico sono pochi. Alcuni testimoni raccontano la loro esperienza.

«Possiamo ballare, possiamo cantare, ma non possiamo dormire, perché restiamo sempre con un occhio aperto», intonano le donne a Incularino, distretto di Palma, teatro dell’attacco di marzo 2021, uno dei più sanguinosi del conflitto scoppiato nel 2017 a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Una guerra che vede coinvolti gruppi armati nazionali e internazionali, tra cui quello islamista, noto come Al-Shabaab, e le forze di sicurezza mozambicane, e che si è intensificata nel tempo causando gravi sofferenze umane e movimenti di popolazione di massa. Si stimano un milione di sfollati su circa due milioni di abitanti della provincia.

Gli scontri sono alimentati da un intreccio di motivazioni politiche, sia interne che esterne, religiose ed economiche. I gruppi armati jihadisti cercano di stabilire il loro controllo in una regione ricca di risorse naturali, tra cui gas, carbone e rubini. La situazione ha attirato l’attenzione internazionale, con l’invio di una forza multinazionale della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale, ndr) a partire dal luglio del 2021. La Sadc mission in Mozambico (Samim) ha il compito di sostenere il governo nel ripristino dell’ordine e della stabilità.

Dopo la veloce riconquista di alcune città e territori che erano sotto il controllo dei ribelli (gruppi composti da mozambicani radicalizzati e da islamisti di altri paesi africani, vedi MC aprile 2022), il conflitto continua tra imboscate lungo le strade, incendi nei villaggi e attacchi mirati.

Crisi umanitaria

Le continue violenze hanno innescato una crisi umanitaria che si protrae oramai da sei anni.

Oltre ai danni fisici e materiali, il conflitto ha avuto un profondo impatto sulla stabilità delle comunità, sugli equilibri naturali che prima favorivano una condivisione delle risorse.

A tutto ciò si sommano gli effetti del cambiamento climatico sulla regione: alcune aree soffrono tempi di siccità prolungata, altre sono soggette a cicloni tropicali, le coste a erosione.

La popolazione, dunque, affronta una doppia sfida: il conflitto armato che minaccia la sicurezza, e il cambiamento climatico che colpisce le risorse vitali come l’agricoltura e la pesca.

Questi fattori, insieme all’impatto del movimento di popolazione (secondo dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a fine 2022 erano stati registrati 1.028.743 sfollati, di cui il 90% nella provincia di Cabo Delgado), hanno indebolito l’accesso al cibo, ridotto le risorse economiche e aumentato la tensione tra le comunità.

L’incertezza costante, la sensazione di perdita e la sfiducia nelle istituzioni rendono difficile per le persone cercare aiuto e affrontare il proprio dolore.

«Non so dove sia mio fratello, so solo che non abbiamo ancora potuto fargli il funerale», racconta una ragazzina sfollata a Mueda.

Durante gli attacchi sulla costa sono scappati insieme con la madre verso l’interno e, durante il viaggio, a causa della confusione e dello shock, hanno perso di vista il fratello maggiore. Pensano sia stato rapito da uno dei gruppi armati.

La vita ricomincia

Dopo l’intervento della forza internazionale, la vita è lentamente ricominciata: le scuole hanno riaperto, gli ospedali provinciali hanno il personale minimo sufficiente, le banche sono di nuovo attive.

L’attenzione si sposta su questioni di sicurezza, sulla ripresa economica, sulle elezioni politiche, ma ogni individuo deve fare i conti con i propri traumi interiori.

«Ci chiamano “retornados” perché siamo tornati nel luogo da cui venivamo, ma le cose sono cambiate», racconta Maria (nome di fantasia) di Palma, mamma di tre bambini, rientrata nella sua città dopo un anno di sfollamento vissuto nelle tende dei campi di risposta umanitaria. «Da un lato avevo parte della mia famiglia con me, inoltre quelle erano le nostre zone di origine, quindi tornare è stato facile, ma dall’altro viviamo in case vuote, senza cibo».

Molte persone hanno problemi a fare riconoscere la propria identità legale, soprattutto nelle località di rientro degli sfollati. Infatti, durante la fuga, molti hanno smarrito i loro documenti e non riescono a rinnovarli, perché spesso i servizi di anagrafe nelle località di ritorno non sono ancora pienamente operativi. Questo può comportare diversi rischi: tratta di persone, difficoltà di accesso a servizi legali, essere soggetti a multe e detenzioni da parte della polizia.

Nonostante alcune zone siano nuovamente sotto controllo governativo, gli spostamenti sono ancora difficili e pericolosi. «Non c’erano mezzi di trasporto e vivevamo in una zona isolata a ore di cammino da acqua e campi coltivabili», prosegue Maria.

I pochi collegamenti, condizioni accidentate delle strade e pericolo degli assalti rendono ancora più precaria la fruizione di alcuni servizi pubblici. «L’ospedale funziona, ma sappiamo di persone che sono morte per poterci arrivare perché non ci sono trasporti… quindi preferiamo non andarci», raccontano alcune donne di Mueda.

«La cosa più difficile è stata la mancanza di cibo durante lo sfollamento, ma anche, talvolta, non potersi muovere», racconta Aisha (nome di fantasia), 35 anni, di Palma. E non solo fisicamente: la vita è rimasta «immobile» per mesi, per alcuni anche per anni.

In un ambiente di conflitto, dove il pericolo sembra essere onnipresente, le ferite che non si vedono sono difficili da curare e il ciclo del trauma si autoalimenta. Il risultato è una condizione soggettiva di iper vigilanza, nella quale ogni momento di tensione, ogni rumore improvviso, un locale buio, può risvegliare il trauma rendendo difficile la vita quotidiana e tendendo a bloccare la persona.

Servizi sanitari

A Cabo Delgado, la mancanza di accesso ai servizi sanitari, compresi quelli psicologici, ha ostacolato il processo di recupero psicosociale della popolazione.

La perdita di reti di supporto a causa della distruzione delle comunità e degli spostamenti ha lasciato molte persone isolate e prive di un sostegno emotivo adeguato.

Il recupero dal trauma in un contesto di conflitto è un processo complesso e sfidante: ci sono molteplici approcci che possono aiutare gli individui a superare la situazione e riprendersi. I servizi di salute mentale, inclusi la terapia individuale e di gruppo, possono fornire uno spazio sicuro per esplorare ed elaborare le emozioni legate al trauma. La resilienza delle comunità locali può essere rafforzata attraverso programmi di sostegno psicosociale, consentendo alle persone di condividere esperienze comuni e costruire legami di solidarietà, per ridurre lo stigma della richiesta di aiuto e aumentare l’accesso alle cure.

Quando si lavora con i bambini, si usano spesso metafore per spiegare concetti più complessi. Immaginiamo la nostra mente come un fiore che cresce in un giardino esposto alle intemperie. Queste sono eventi stressanti, traumi, perdite o altre difficoltà che mettono alla prova la nostra resilienza mentale. Mentre il fiore può piegarsi sotto la forza delle tempeste, ha radici profonde che gli consentono di restare ancorato al terreno. In modo analogo la resilienza umana ci aiuta ad affrontare le avversità, mantenendo una certa stabilità anche quando siamo esposti alle intemperie della vita. Tuttavia, anche le piante più forti possono subire danni durante le tempeste più violente, così come noi possiamo lottare con le difficoltà emotive quando le pressioni diventano troppo intense. In questi casi dobbiamo renderci consapevoli che qualcosa si è rotto, per cominciare a ricostruirlo.

Riconoscere i traumi

Il conflitto ha generato ferite invisibili ma profonde nella popolazione locale. Tuttavia, è possibile avviare processi di recupero e mitigarne gli impatti negativi. Tutto questo a condizione che i traumi vengano riconosciuti e si rendano prioritari. Nonostante tutte le difficoltà del contesto, le persone ci dicono: «Siamo tornate a casa e questo era l’importante. Ora, piano piano, si può ricominciare a ricostruire». Per resistere e per «ricostruire», però, bisogna imparare a farlo. Qualcuno avrà bisogno di essere accompagnato o sostenuto all’inizio, qualcun altro avrà bisogno di sentirsi ripetere che non esiste un modo «giusto» di sentire, che «va bene», che «possiamo ricominciare da lì», e ci si può aiutare a creare un luogo dove poter, insieme, prendersi cura delle radici e del futuro.

Josefina, 40 anni e tre figlie, non usciva più di casa dopo aver vissuto quasi un anno prigioniera dalle milizie ribelli ed essere stata trattata come oggetto tra stupri e lavori forzati. Il mercato era uno dei luoghi ai quali aveva più difficoltà ad avvicinarsi. La presenza dei militari, la visione delle armi, i rumori forti e la folla, le creavano disorientamento, paura, disagio.

Sua figlia, adolescente, che l’aveva accompagnata nel periodo di reclusione, aveva vissuto la stessa sorte, ma era riuscita a tornare a scuola ogni giorno quasi con normalità, dopo aver ricevuto le necessarie cure. «Non attraverso la strada e non apro la porta», diceva Josefina. Sentiva crescere dentro di lei un sentimento di inutilità, non riusciva ad affrontare le cose, come invece le altre persone della sua città stavano facendo, e non voleva comportarsi come se avesse dimenticato.

«Uno dei momenti più significativi di questi mesi è stato quando ho deciso di affrontare la mia paura gradualmente – ci racconta Josefina -. Ho iniziato uscendo di casa per brevi periodi di tempo, accompagnata dalla persona che mi stava aiutando. Man mano sentivo più fiducia e facevo qualche passo in più. Ogni piccolo successo è stata una vittoria personale. Anche quando ho avuto delle ricadute e ho sperimentato momenti di panico, ho continuato a lavorarci. Con il tempo, la paura ha iniziato a perdere il suo potere su di me».

Quando riconosciamo le paure e i traumi, quando siamo accompagnati in un processo di guarigione, ogni passo diventa sempre più facile. La parola chiave è «consapevolezza globale», necessaria per superare queste sfide straordinarie e per costruire un futuro più sostenibile per le generazioni future.

Giulia Moro e Paolo Ghisu




Mozambico. La jihad dei poveri


La frustrazione per i proventi del petrolio mai arrivati, l’infiltrazione di imam radicali stranieri, l’afflusso di armi. Tutti ingredienti che hanno sviluppato una presenza islamista. Mentre il governo centrale, che aveva sottovalutato il problema, chiede aiuto.

La guerra continua. Sottotraccia, ma continua. Cabo Delgado, in Mozambico, molto probabilmente, non avrà pace neppure nei prossimi mesi. Quel senso di frustrazione e di marginalizzazione che hanno portato i giovani locali a sollevarsi contro il governo centrale di Maputo, spinti anche dalla predicazione di imam radicali, ha creato una miscela esplosiva che non è stata ancora neutralizzata. Neanche per effetto dell’intervento delle forze armate straniere, in particolare quelle ruandesi.

Cabo Delgado, uno sfollato si costruisce un riparo di fortuna usando tecniche tradizionali. Foto Luca. S. Pistone.

La genesi della crisi

La crisi a Cabo Delgado scoppia nell’ottobre del 2017. È in quel periodo che la provincia più povera e periferica del Mozambico inizia a conoscere i primi attacchi da parte di gruppi di islamisti radicali. Si tratta di azioni limitate, messe in atto da miliziani armati con machete e coltelli da caccia, che si spostano con mezzi di fortuna (motorini, vecchie auto, pulmini scassati). Prendono di mira villaggi isolati e sterminano la popolazione senza mostrare alcuna pietà. Professano un islam radicale e l’adesione allo Stato islamico, anche se non è mai stato confermato un rapporto organico che andasse al di là di una formale adesione da parte dell’Isis alle rivendicazioni dei miliziani mozambicani. In questi ultimi, però, c’è anche una volontà di rivalsa di carattere etnico. La maggior parte sono Kimwani e Amakhuwa e la loro lotta è indirizzata contro la minoranza Makonde (economicamente) dominante e filogovernativa.

Nampula. Giovane donna sfollata alla registrazione nel campo profughi. Luca S. Pistone

I motivi

Ma perché si ribellano? Che cosa li spinge a rivoltarsi contro le autorità centrali? L’esplosione delle violenze, secondo alcuni analisti internazionali, è legata soprattutto alla scoperta di grandi giacimenti offshore di gas fatta da società di idrocarburi occidentali, ad Afungi, all’estremo Nord della costa mozambicana, vicino alla città e al porto di Palma. «Gli investimenti nei giacimenti offshore del Nord del Mozambico – spiega Emilia Columbo, ricercatrice del Center for strategic & international studies (Csis), think tank di Washington (Usa), esperta delle dinamiche politiche dell’Africa australe – hanno creato enormi aspettative nelle popolazioni locali. Esse speravano che, finalmente, la loro vita misera potesse cambiare, ma non è stato così». Gran parte dei proventi dell’industria petrolifera e mineraria sono volati verso Sud e hanno arricchito le élite di Maputo invece di trasformarsi in stanziamenti per costruire infrastrutture e creare occupazione e ricchezza nel Nord. «La miseria è stata la vera spinta di questo movimento – continua Emilia Columbo -. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato l’integralismo islamico predicato da imam venuti da fuori o da mozambicani che sono rientrati in patria dopo essersi radicalizzati all’estero. Nello Shabab, così si chiama il movimento (da non confondere con al Sahabab della Somalia, ndr), ai locali si sono aggiunti altri giovani provenienti dall’estero: tanzaniani, burundesi, ugandesi, ecc.».

Due giovani sfollate a Nampula. Foto Luca S. Pistone.

Salto di qualità

Gli attacchi, nel corso degli anni, sono diventati sempre più frequenti e sempre più efferati. Vere e proprie stragi nei villaggi che hanno portato a migliaia di morti (nessuno sa quante siano le vittime). Per mettersi al sicuro, la gente a iniziato a fuggire. Dei circa 1,5 milioni di abitanti di Cabo Delgado, 800mila hanno cercato rifugio nelle province vicine: Nampula, Niassa e Zambezia, o addirittura in Tanzania. In molte città delle province confinanti è scattata una gara di solidarietà nei confronti degli sfollati. Molte famiglie hanno ospitato nelle proprie case i rifugiati, offrendo loro aiuto materiale e sostegno umano. Chi è fuggito, secondo le testimonianze dei militari, non solo ha perso tutto, ma è spaventato.

La Chiesa cattolica si è mobilitata in molte zone per portare aiuti: vestiti, cibo, acqua, medicinali. Padre Fonseca Kwiriwi, religioso passionista, responsabile della comunicazione della diocesi di Pemba, capoluogo della regione, spiega, allagenzia Fides, l’azione solidale dei cristiani: «La Chiesa è sempre stata presente, fin dall’inizio della guerra, fornendo aiuti di ogni genere per contenere la crisi umanitaria. Abbiamo provveduto a cibo, sostenuto costruzioni di case e abbiamo istituito un centro di ascolto psicosociale permanente. In ogni caso, noi siamo in mezzo alla gente e collaboriamo con varie organizzazioni internazionali umanitarie per il sostentamento della popolazione e il raggiungimento della pace».

La tragica situazione è messa in risalto da una nota dei leader religiosi della provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, resa nota il 5 gennaio scorso. «La nostra provincia attraversa una profonda crisi umanitaria causata dalla violenza terroristica, mentre si assiste alla regressione degli indicatori di sviluppo integrale, e aggravata anche dalle conseguenze delle misure restrittive di prevenzione contro la pandemia», hanno dichiarato.

Nampula, campo di sfollati. Pesa dei bambini per determinare lo stato di nutrizione. Foto Luca S. Pistone.

La reazione militare

I miliziani islamisti, in origine male organizzati e male armati, sono riusciti progressivamente ad acquisire mezzi e armi moderne. Le azioni sono diventate sempre più ardite. Come quando sono riusciti a occupare Pemba e Mocimboa da Praia cacciando le forze armate e la polizia.

Il loro integralismo inizia anche a fare presa su una società che ha sempre professato un islam sufi, dialogante, aperto al confronto con altre fedi e altre culture. «Shabab ha iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori – continua Emilia Columbo – che hanno creato una rete di informatori diventata una sorta di struttura di intelligence per i ribelli. Lo Stato islamico ha approvato l’affiliazione della formazione. Non ci sono però evidenze che, oltre agli appelli propagandistici, abbia fornito un aiuto materiale ai miliziani».

Maputo ha inizialmente sottovalutato questo fenomeno, derubricandolo come criminalità comune. Ha inviato, quindi, giovani di leva delle province meridionali. Ragazzi poco addestrati che si sono trovati in un ambiente a loro estraneo culturalmente e linguisticamente e, soprattutto, a loro ostile. I miliziani di Shabab hanno avuto gioco facile con loro e i reparti dell’esercito di Maputo sono stati sopraffatti.

«Il governo – continua l’analista -, considerava questo movimento trascurabile. Operava in un luogo remoto, lontano dalla capitale e riguardava piccole città e popolazioni poverissime. Ma si sbagliava». La forza sempre maggiore dei miliziani lo ha convinto a inviare rinforzi militari al Nord. L’intervento dei mercenari russi (Gruppo Wagner) e sudafricani a fianco delle truppe mozambicane non è però servito a molto. Hanno fornito supporto aereo con gli elicotteri senza però offrire un contributo effettivo sul territorio.

Donne in un campo di sfollati a Cabo delgado. Foto Luca S. Pistone.

Arrivano i Ruandesi

La svolta si è registrata con l’arrivo di un contingente ruandese. Bene addestrati, abituati da anni a far fronte a varie guerriglie (soprattutto ai confini con la Rd Congo), i soldati di Kigali sono riusciti a contenere le azioni dei miliziani jihadisti. «Le cose sono cambiate con l’arrivo di militari ruandesi – conferma Emilia Columbo -. Hanno fornito un supporto nella formazione dei mozambicani e hanno combattuto sul terreno. Insieme alle truppe della Sadc, l’organizzazione degli Stati dell’Africa australe, sono riusciti a cacciare i ribelli dalla costa e dalle principali città. I miliziani jihadisti si sono dispersi, ma non sono stati sconfitti».

Le multinazionali petrolifere sono tornate nella provincia settentrionale dopo la sospensione delle attività. Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, TotalEnergies ha anche aperto un ufficio informazioni che ha lo scopo di facilitare la comunicazione tra le diverse compagnie interessate al progetto di esplorazione del gas naturale liquefatto (Gnl) nel bacino di Rovuma.

Cabo Delgado. Distribuzione di cibio a bimbi sfollati. Foto Luca S. Pistone.

La guerra continua

La guerra però prosegue. È un conflitto a bassa intensità, meno diffuso sul territorio, ma comunque cruento. Il comando militare ruandese ha confermato che i ribelli caduti non sono stati più di un centinaio, e pochi sono stati anche quelli catturati. Ciò significa che gli insorti sono ancora in gran parte operativi, nascosti in alcune aree protette dalla boscaglia all’interno di Cabo Delgado. «In generale la situazione a Cabo Delgado e nelle aree liberate si mostra tranquilla – conclude padre Fonseca Kwiriwi -. Purtroppo, però, gli attacchi non sono finiti, continuano in particolare nei villaggi più piccoli, nelle aree con poca popolazione.
I villaggi più piccoli sono vittime di ripetuti agguati e la gente vive ancora nel terrore. Ho visitato di recente alcune delle aree occupate dai terroristi, come Mocimboa da Praia e alcune aree nella zona di Mbaú. Si tratta di zone che erano sotto il totale controllo dei terroristi. Questi due territori in particolare sono ancora considerati di difficile accesso e solo i militari possono entrarci. Lì è ancora impossibile tornare a vivere».

Enrico Casale

Archivio MC
Mozambico. Jihad in Africa: nuovo fronte, Enrico Casale, agosto-settembre 2020.

Cabo Delgado. Profughi accampati in un palazzetto dello sport. Foto Luca S. Pistone.




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Il popolo di Cabo Delgado vuole la Pace

Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |


La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.

 Contestualizzare la guerra

Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.

La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.

Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.

Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).

Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.

Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.

Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.

Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.

Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.

Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e  provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.

C’è una chiara identificazione dei responsabili di questi conflitti?

Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.

Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.

A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.

Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.

Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.

C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?

Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.

Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.

Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.

Diritti umani più minacciati

La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Conseguenze immediate di questi eventi

Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.

Gli agenti pastorali

Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!

La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per  queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.

Necessità di misure nazionali e internazionali

A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.

Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.

Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte

Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.

Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.

Solidarietà internazionale

Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.

Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale

In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.

Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco.  Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.

Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…

Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.

Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!

Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.


Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.

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Su MC Leggi: Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico




Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico

testo di Enrico Casale |


È il 2010 quando alcuni importanti giacimenti di gas sono individuati nel Nord Mozambico. Poco dopo escono allo scoperto gruppi di miliziani radicalizzati che compiono attentati. Poi il livello degli assalti si alza. E i misteri restano tanti.

Jihadisti? Banditi comuni? Mercenari prezzolati da società straniere? Chi siano, nessuno lo sa con precisione. Come nessuno sa chi li finanzi, li armi, li sostenga. Sul perché degli attacchi violentissimi, anche recenti, nella provincia di Cabo Delgado nel Nord del Mozambico, il mistero è fitto. Non si sa con precisione neppure quante persone siano morte. C’è chi parla di 500, chi di mille, chi molte di più. L’unica cosa certa è il terrore che si è sparso nella provincia e nelle stanze del governo di Maputo.

Lo scenario

Cabo Delgado è una provincia che ha sofferto molto durante la guerra d’indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992), ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana. Ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi. «I musulmani locali – spiega una fonte missionaria che vuole rimanere anonima – non hanno mai dimostrato atteggiamenti violenti o di intolleranza. L’islam si è fuso con la cultura locale e ha dato vita a una fede aperta e tollerante. I rapporti tra cristiani e musulmani sono sempre stati amichevoli. Si lavora e si vive insieme in serenità».

Questa pace sociale ha iniziato a essere messa in discussione dopo la scoperta nel 2010, da parte dell’americana Anadarko e dell’italiana Eni, di enormi giacimenti di gas proprio davanti alle coste di Cabo Delgado. Attualmente, tre dei maggiori progetti di gas naturale liquefatto al mondo sono in fase di realizzazione, con un investimento complessivo che arriverebbe a superare i 50 miliardi di dollari. Due di questi, Coral South e Rovuma Lng, vedono Eni tra le dirette interessate. «Il Mozambico – scrive il quotidiano “Il Sole 24 Ore” – promette di diventare nel giro di cinque anni il secondo fornitore di gas naturale liquefatto al mondo, superato soltanto dal Qatar.

Uno sviluppo col turbo, almeno nelle aspirazioni, persino più veloce di quello pianificato dagli Stati Uniti per lo shale gas (il petrolio da scisto)».

Lo sfruttamento di questi vasti giacimenti ha comportato l’esproprio di numerose terre e la forte riduzione delle aree di pesca. Ciò ha creato ulteriore difficoltà e disoccupazione in una terra povera. E, ovviamente, ha alimentato il malcontento tra la popolazione che viveva già sulla soglia della povertà.

Pattuglia di soldati mozambicani. – Photo by ADRIEN BARBIER / AFP

Gli estremisti

In questo contesto, dominato dalla miseria e dallo sfruttamento straniero delle risorse, hanno iniziato a manifestarsi le prime forme di malcontento e di rabbia. Una decina di anni fa è nato il gruppo Ahlu sunnah wa jamo / Ansar al-Sunna. Si sa con certezza che a crearla sono stati Nur Adremane e Jafar Alawi, entrambi di Mocimboa da Praia. Due musulmani fondamentalisti che si sono ispirati ad Aboud Rogo, un predicatore islamico che si ritiene sia stato tra gli organizzatori dell’attentato all’ambasciata Usa a Nairobi nel 1998, e tra i finanziatori di al-Shabaab in Somalia (prima di essere assassinato a Mombasa nel 2012). I due predicatori mozambicani hanno iniziato a frequentare le moschee di Cabo Delgado incoraggiando i giovani a lasciare le scuole governative e ad accettare «borse di studio» per frequentare le scuole coraniche in Sudan e in Arabia Saudita. È proprio nella Penisola arabica che questi mozambicani si sono radicalizzati. Sono giovani tra i 25 e i 30 anni, principalmente Kimwani, il gruppo etnico più emarginato socialmente ed economicamente.

Da qui in avanti la storia si è fatta più nebulosa. Al gruppo originario si sarebbero aggiunti miliziani provenienti da Tanzania, Somalia e Grandi Laghi (Rd Congo, Ruanda, Burundi). Da questo gruppo radicalizzato, che promuove un’applicazione dura e letterale della legge islamica, nel 2013 avrebbe poi preso forma al-Shabab (senza però avere alcun rapporto con l’omonimo, ma più famoso, gruppo jihadista somalo).
Sono supposizioni basate su elementi sommari. Non si sa, per esempio, dove trovino i fondi per finanziarsi e chi abbia promosso le loro azioni. Ciò che è certo è che, nel 2015, sono iniziate le prime violentissime operazioni sul campo.

Terrorismo

I primi attacchi vengono organizzati nelle campagne della provincia di Cabo Delgado nel 2017. I miliziani prendono di mira piccoli villaggi. Li assaltano e uccidono in modo efferato uomini, donne e bambini. Incendiano le capanne e i raccolti. E, una volta compiuta l’azione, spariscono e tornano nei loro rifugi. La gente è spaventata. Molte famiglie fuggono dalle proprie abitazioni per cercare riparo in zone più protette.

La reazione dello stato non è pronta. Di fronte ai primi attacchi, Maputo invia rinforzi alla polizia, ma sono insufficienti. Poi invia i militari. I reparti che salgono al Nord sono composti da ragazzi di leva, male armati, male equipaggiati e, soprattutto, demotivati. Infatti gli attacchi continuano. Sempre più cruenti. Inizialmente, però, i miliziani assaltano all’arma bianca, con vecchi machete. A volte organizzano imboscate ai convogli dei militari o delle forze di polizia. Uccidono i soldati e gli agenti e si impossessano delle loro divise. Travestiti da militari attaccano altri villaggi. La popolazione, confusa, non sa se è stata presa d’assalto dalle forze dell’ordine o dai miliziani. E fugge. In un video girato dai terroristi nella provincia di Cabo Delgado e fatto circolare sul web, si vedono uomini armati che camminano nell’erba alta e costeggiano un grande edificio bianco. La maggior parte di essi porta con sé fucili automatici e indossa uniformi dell’esercito mozambicano. In lontananza si ode qualche sparo e voci che gridano «Allahu Akbar» (Dio è grande). In un altro video, sempre pubblicato sul web, si vede un poliziotto morto e poi, quando lo zoom apre l’inquadratura, se ne vede un secondo, poi un terzo, un quarto. Infine una pila di armi automatiche in quello che può essere un deposito della polizia o delle forze armate.

Sopravvissuta all’attacco islamista ad Aldeia da Paz fuori della cittadina di Macomia il 1* agosto 2019  / Photo by MARCO LONGARI / AFP

 

il Salto di qualità

All’inizio del 2020 si registra «un salto di qualità» negli attacchi. In mano ai miliziani non ci sono più i machete, ma le armi automatiche rubate nei depositi delle forze dell’ordine. L’obiettivo non sono più il villaggio o la colonna di militari, ma centri importanti: Mocimboa da Praia, Kisongo e Mudimbe. A Quissanga attaccano e occupano la caserma della polizia e issano sul tetto la bandiera nera dello Stato islamico. Lo stesso Daesh, attraverso i suoi media, rivendica l’azione e, di fatto, riconosce i miliziani come suoi «soldati».

«All’inizio – spiega dom Luis Fernando Lisboa, vescovo di Pemba in un’intervista alla Fondazione Missio – si parlava di un nemico senza volto. Negli ultimi attacchi si sono presentati come miliziani dell’Isis. Abbiamo però dubbi sulla reale affiliazione allo Stato islamico. Usano questo nome, ma non abbiamo la certezza che siano realmente legati alla rete fondata da Abu Bakr al-Baghdadi». La stessa tesi è sostenuta dai missionari sul posto da noi sentiti: «Gli ultimi attacchi sono stati ben pianificati. Si è notato un salto di qualità nell’azione. Le strutture del governo sono state bruciate in modo sistematico. La matrice religiosa, però, è emersa solo poco tempo fa. In Mozambico si pensa che ci siano interessi particolari che si nascondono dietro la copertura religiosa».

A chi giova?

In realtà non si sa chi ci possa essere dietro questi terroristi. Secondo alcuni esperti internazionali, al-Shabab mozambicano sarebbe uno strumento in mano a gruppi di potere che cercano di accaparrarsi i ricchi giacimenti della provincia, oppure sarebbero la pedina che alcuni politici muovono da Maputo per contrastare il governo legittimo. «Le ricchezze del sottosuolo possono essere la causa di questa ribellione? – si chiede dom Luis Fernando Lisboa -. Difficile dirlo. In merito non abbiamo certezze. Sappiamo che altrove, in Nigeria, ma anche in Iraq e in Siria, gruppi jihadisti hanno sempre cerato di impossessarsi dei campi petroliferi. Qui nel Nord del Mozambico abbiamo grandi giacimenti di gas. Può essere che ci sia qualcuno che sfrutta queste milizie per impadronirsi di queste aree. A mio parere, però, ci sono altre ragioni. Il Mozambico è uno dei paesi più poveri al mondo e la provincia di Cabo Delgado è sempre stata emarginata. Questa povertà spinge i giovani nelle braccia di fondamentalisti, tanto più che al-Shabab paga i miliziani e offre loro cibo».

Di fronte a queste minacce le aziende energetiche coinvolte nello sviluppo del bacino del Rovuma hanno cercato di isolarsi. Le imprese di sicurezza ricevono più di un milione di dollari al mese per tenere al sicuro i lavoratori. Queste guardie arruolano scorte armate provenienti dai reparti migliori delle forze governative. Una pista d’atterraggio è stata costruita a Pelma, la cittadina che serve gli impianti offshore.

Oltre a propagandare un islam feroce e fanatico, questi miliziani controllano anche una serie di traffici illeciti e il contrabbando di merci con la Tanzania. «Tutti hanno puntato gli occhi verso i giacimenti di gas – osserva un missionario del posto -, ma questa zona è ricchissima di risorse naturali: rubini, legno pregiato, ecc. La gestione di queste risorse fa gola a molti. Voci dal territorio parlano anche di traffici di sostanze illecite e, addirittura, di organi umani. Sono voci, e non mi sento di sottoscriverle, ma tutto è verosimile in questo contesto».

Abitanti di Aldeia da Paz alla periferia di Macomia durante un incontro di sopravvissuti il 24 Agosto 2019. – Photo by MARCO LONGARI / AFP

Cristiani e musulmani

A subire gli attacchi è tutta la popolazione locale, sia essa di fede islamica o cristiana. Recentemente sono state attaccate anche alcune missioni. Ad Awasse è stata attaccata la comunità dei monaci benedettini. Gli assalitori hanno distrutto tutto e si sono impossessati di molti beni, inclusa un’automobile. I religiosi sono stati costretti a rifugiarsi nella boscaglia dove sono stati due giorni. Il vescovo di Pemba ha chiesto a loro e alle loro consorelle benedettine di trasferirsi in Tanzania per mettersi in sicurezza. Se i cristiani piangono le loro vittime, altrettanto fanno i musulmani. «Le prime vittime di questi attacchi – continua il missionario – sono proprio i musulmani. La comunità islamica locale è terrorizzata». «Fin dall’inizio – osserva dom Luis Fernando Lisboa -, i musulmani del Mozambico hanno preso le distanze da questi attacchi. I leader hanno condannato le uccisioni e le violenze affermando che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’islam. Lo stesso hanno fatto il Consiglio islamico e il Congresso musulmano che, in un appello, hanno dichiarato che non considerano islamici questi miliziani e che essi non possono in alcun modo utilizzare il nome dell’islam». «Come fantasmi – conclude il vescovo -, i ribelli compaiono e scompaiono senza farsi vedere, lasciando dietro di se i resti dei disastri compiuti. Ma sappiamo che i fantasmi non esistono. È un pezzo di lenzuolo che nasconde qualcosa o qualcuno. Dobbiamo togliere questo lenzuolo per smascherare chi si nasconde dietro».

Enrico Casale