La successione del capo spirituale del buddhismo tibetano prevede la ricerca della sua reincarnazione. L’attuale Dalai Lama fu indicato nel 1937. Sul prossimo leader Pechino vuole dire la sua, ma le autorità religiose (in esilio) non ci stanno. I possibili i risvolti geopolitici.
Regione di Amdo, parte Nord orientale del Tibet. È il 1937, il piccolo Lhamo Dondrub ha all’incirca due anni. Un gruppo di monaci guidato dal lama Kewatsang Rinpoce chiede ospitalità nella casa della sua famiglia. Poco dopo, l’annuncio: Lhamo è la reincarnazione del Dalai Lama. I monaci pagano un ricco riscatto a Ma Lin, governatore della regione per conto del Kuomintang di Chiang Kai-shek, e portano il bambino nella capitale tibetana di Lhasa. Due anni dopo, Lhamo viene ufficialmente «incoronato» XIV Dalai Lama. Da lì in poi, sarà conosciuto col nome di Tenzin Gyatso, letteralmente «oceano di saggezza».
Verso il XV Dalai Lama
Sono passati quasi 90 anni dal viaggio di quei monaci. Ne sono passati 74 da quando, nel 1950, le truppe della Repubblica popolare cinese di Mao Zedong sono arrivate in Tibet dopo aver sconfitto il Kuomintang nella guerra civile. Ancora: sono trascorsi 65 anni da quel marzo del 1959 in cui Tenzin Gyatso ha lasciato per sempre il Tibet fuggendo in India dopo la repressione della rivolta di Lhasa.
Presto, potrebbe arrivare il momento in cui verrà individuato un nuovo bambino o una nuova bambina come XV Dalai Lama. Anzi, con ogni probabilità tutto questo potrebbe avvenire due volte. Da una parte un gruppo di monaci, o Tenzin Gyatso stesso, dall’altra il Partito comunista cinese: i bambini o bambine la cui vita cambierà per sempre sembrano destinati a essere due. Uno nominato dalle autorità spirituali o politiche tibetane in esilio, uno da quelle di Pechino. Risultato: due Dalai Lama.
La successione
Lo scenario è prossimo, a meno di accordi che al momento appaiono improbabili. Storicamente, quando un Dalai Lama muore, si forma un consiglio di alti lama per cercare la sua reincarnazione. Nel processo di selezione, noto col nome di «urna d’oro», il consiglio consulta vari segni e oracoli, nonché gli scritti e gli insegnamenti del Dalai Lama stesso, per farsi guidare nella ricerca che si conclude solitamente con l’individuazione di un bambino nato intorno al periodo della morte del predecessore.
Una volta identificata una potenziale reincarnazione, al bambino viene presentata una serie di oggetti appartenuti al precedente Dalai Lama e gli viene chiesto di identificare quali gli appartengono. In caso superi il test, serve poi la conferma definitiva di un’autorità politica.
E qui nasce il problema. Pechino sostiene di dover certificare la scelta del prossimo Dalai Lama, come fatto in passato. Un retaggio ereditato dai tempi dell’epoca imperiale e fino all’inizio del secolo scorso, quando il Tibet era governato dalla dinastia Qing. Un retaggio che Tenzin Gyatso non pare intenzionato a riconoscere.
Anche in quest’ottica sarebbe stata effettuata la separazione dell’autorità spirituale da quella politica, quando nel 2011 il Dalai Lama si è dimesso da capo del governo tibetano in favore di un successore eletto dal Parlamento in esilio. Potrebbe, dunque, essere questa entità, non riconosciuta da Pechino che la ritiene «illegale», a certificare la scelta del prossimo Dalai Lama. Quantomeno quello indicato dalle autorità tibetane esuli. Il Partito comunista potrebbe rispondere con un altro nome.
Il «vice Dalai Lama»
Le avvisaglie di quanto potrebbe accadere ci sono già dal 1995, quando un bambino di 6 anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato, Gyaincain Norbu. Sino da allora, la sorte del piccolo Gedhun è rimasta incerta. Nel 2022, in occasione del 33° anniversario della nascita, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha reiterato la richiesta a Pechino di «rendere conto del luogo e del benessere» di Gedhun.
Ennesimo chiarimento, qualora ce ne fosse stato bisogno, che gli Usa si schiereranno al fianco delle autorità tibetane in esilio nel momento cruciale della scelta del prossimo Dalai Lama.
Nello stesso comunicato del 2022, il dipartimento di Stato ha messo nero su bianco che Washington sostiene «la libertà religiosa dei tibetani e la loro unica identità religiosa, culturale e linguistica, compreso il diritto dei tibetani di scegliere, educare e venerare i propri leader, come il Dalai Lama e il Panchen Lama, secondo le proprie convinzioni e senza interferenze governative». Senza contare che, nel 2020, l’allora capo del governo tibetano in esilio era stato invitato per la prima volta a Washington dall’amministrazione Trump. Un riconoscimento politico, oltre che spirituale, che aveva fatto infuriare Pechino e fatto intravedere all’orizzonte nuove turbolenze sul dossier tibetano.
Dalla Mongolia la terza carica
Un’altra anticipazione di quanto potrà accadere nel prossimo futuro è arrivata nel marzo 2023, quando è emersa la nomina del decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, originario della Mongolia. La notizia è stata accolta con sentimenti contrastanti in Mongolia: gioia per la scelta di un proprio connazionale, timore per la reazione della Cina. Nel 2016, il governo mongolo aveva ricevuto forti lamentele da Pechino per la visita del Dalai Lama, rimasta, non a caso, l’ultima nel Paese. Il nuovo Khalkha Jetsun Dhampa, erede della famiglia Altannar (una delle più influenti della Mongolia) è peraltro nato negli Stati Uniti. C’è chi potrebbe leggervi un sottile messaggio (geo)politico. Nel frattempo, Tenzin Gyatso ha già lasciato intuire più volte che la sua reincarnazione potrebbe emergere al di fuori del Tibet per evitare le interferenze di Pechino sul processo di selezione. Il successore potrebbe essere originario di uno dei territori in cui si pratica il buddhismo tibetano, in particolare Nepal, Bhutan o, appunto, Mongolia. Il Partito comunista cinese ha finora nicchiato, ma non ha nessuna intenzione di rinunciare a quello che considera il proprio diritto di nomina. Qualche mese fa, l’attuale leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, ha dichiarato durante un viaggio in Australia che, se Pechino manterrà l’intenzione di nominare un suo Dalai Lama, ce ne saranno presto due.
Tibet: doppio binario
La vicenda ha diverse sfaccettature, sia spirituali che politiche, sia regionali che internazionali.
La prima questione che dovrebbe affrontare Pechino è la gestione del post doppia nomina sul proprio territorio. In particolare nella regione autonoma del Tibet, dove qualcuno potrebbe essere tentato di seguire le indicazioni in arrivo dalle autorità in esilio piuttosto di quelle del Partito comunista. Tutto ciò rischierebbe di riaprire un dossier che i funzionari cinesi sono convinti di aver archiviato dopo la repressione delle proteste del 2008, nei mesi precedenti ai Giochi Olimpici di Pechino.
Forse anche per questo negli ultimi anni è stata intensificata la politica a doppio binario con cui si è rafforzata l’integrazione del Tibet. Il primo binario è quello economico. Nel giro di poco più di 70 anni sono stati investiti nella regione circa 255 miliardi di dollari tra infrastrutture e altri progetti. Nel XIV piano quinquennale (2021-2025) sono stati allocati altri 30 miliardi, soprattutto per progetti legati al settore dei trasporti. Si lavora al cosiddetto «progetto del secolo», una nuova ferrovia che, quando completata (si prevede nel 2030), connetterà Lhasa (in Tibet) al capoluogo del Sichuan, Chengdu, in solo 12 ore: un terzo del tempo attualmente necessario viaggiando per strada. Il secondo binario è quello culturale. A fianco degli investimenti, Pechino ha promosso l’insediamento di cinesi di etnia han nella regione e il turismo interno verso il Tibet, che tra il 2016 e il 2020 ha portato nella regione oltre 160 milioni di turisti da altre province cinesi. Numeri clamorosi se si pensa che nel 2005 il Tibet riceveva meno di due milioni di visite all’anno.
Portare benessere e sinizzare, una duplice manovra che mira a «stabilizzare» in modo definitivo i pezzi di territorio cinesi potenzialmente più critici.
Oltre al Tibet, anche lo Xinjiang (provincia a maggioranza musulmana) e, in misura minore, la Mongolia interna. In questa strategia è importante anche la comunicazione. Non è un caso che dal 2022 in avanti le autorità e i media cinesi usino sempre più spesso il nome in mandarino del Tibet, Xizang (spesso tradotto in «tesoro dell’Ovest» dal suo posizionamento sulla mappa della Repubblica popolare). Soprattutto, non è un caso che lo facciano nei comunicati o contenuti in lingua inglese. Il messaggio all’esterno è chiaro: «La questione tibetana è puramente cinese», per la quale dunque Pechino si aspetta il rispetto del suo celeberrimo principio diplomatico della «non interferenza negli affari interni degli altri Paesi».
L’India non sta a guardare
In realtà, nella questione è coinvolta, già da tempo, anche l’India, che ospita le autorità tibetane in esilio sul suo territorio. A Nuova Delhi si dà ampio spazio alle manovre del Dalai Lama, soprattutto quando si reca nei pressi dello sterminato confine conteso tra India e Cina. Nell’estate del 2022, si è «schierato», con l’assistenza del governo indiano, sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi, dove ha tenuto un discorso critico sul governo cinese. Proprio la disputa territoriale si innesta su quella della successione di Tenzin Gyatso. Il leader buddhista vive infatti in esilio a non molta distanza da una frontiera che resta calda. Nel giugno del 2020 ci sono state diverse vittime causate da scontri tra i militari delle due parti. Diversi altri episodi sono stati registrati anche negli anni successivi. Una situazione che resta volatile dopo che diversi round di colloqui non hanno prodotto accordi significativi. Pechino e Nuova Delhi continuano a reiterare le rispettive pretese di sovranità su un’area altamente strategica anche per le sue risorse idriche, altro elemento che in futuro diventerà sempre più cruciale. Lo scorso settembre, alla vigilia del summit del G20 di Nuova Delhi al quale il presidente cinese Xi Jinping non si è recato, il governo di Pechino ha presentato una nuova mappa dei confini della Repubblica popolare in cui erano stati inclusi i vari territori contesi con l’India. Diverse località di quello che la Cina chiama «Tibet meridionale» e oggi parte dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, erano ribattezzate con nomi in mandarino. Il premier indiano Narendra Modi l’ha vissuto come uno sgarbo, giunto proprio mentre ospitava l’evento che aveva presentato come fiore all’occhiello del proprio secondo mandato. Durante la campagna elettorale per il voto iniziato ad aprile, Modi si è recato non lontano da alcune aree di confine dove continuano a essere inaugurate strade e vengono dislocate nuove truppe.
Sullo sfondo, ma neanche troppo, gli Stati Uniti che, dopo la guerra in Ucraina, stanno provando a rafforzare i legami militari con l’India, fornendo anche tecnologia satellitare e difensiva potenzialmente utile in uno scenario di confronto alla frontiera con la Cina. Washington sarà con ogni probabilità in prima fila ad appoggiare il Dalai Lama che Pechino riterrà «illegale», facendo tornare prepotentemente il Tibet (o Xizang) in cima all’agenda dei dossier più delicati delle relazioni tra le due potenze.
La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.
Dopo le elezioni amministrative, svoltesi nel giugno di quest’anno, la Cambogia si prepara ad affrontare la sfida, ben più impegnativa e importante, del rinnovo del parlamento in un clima di tensione e di incertezza.
Hun Sen, da decenni indiscusso padre padrone dell’intero paese assieme alla sua famiglia (approfondimento pp. 40-41), è al potere, pressoché ininterrottamente, dal 1985, e in questi ultimi due anni, con la scusa del Covid-19, ha rafforzato il suo dispotismo limitando ulteriormente i diritti civili e politici. Nel marzo 2020, sulla base delle restrizioni pandemiche, è stata approvata una legge che prevedeva il carcere fino a 20 anni e 5mila dollari di multa per chiunque violasse le regole restrittive. Approfittando di queste disposizioni, il governo ha abusato del suo già enorme potere colpendo la debole struttura sindacale e i diritti dei lavoratori. Tra il marzo e l’ottobre 2021, con l’accusa di violazione delle leggi sul Covid, sono state arrestate circa settecento persone, la maggior parte delle quali scese in sciopero per chiedere maggiori tutele sui luoghi di lavoro1.
È questa una delle tante (e neppure l’ultima) denunce, fatte dagli organismi internazionali, di abusi e violazioni dei diritti umani che hanno colpito tutti i settori della società del paese del Sud Est asiatico. L’ultima ondata di «repulisti» che ha interessato la parte politica più critica verso il dispotismo di Hun Sen e del suo partito, il Partito del popolo cambogiano (Cambodian people’s party, Cpp), è iniziata nel 2012 concentrandosi verso le due principali figure dell’opposizione, Kem Sokha e l’inaffidabile (ma, a quanto pare, inaffondabile) Sam Rainsy.
Ascesa e caduta di Kem Sokha
Sokha è forse il politico più rispettato a livello nazionale: dopo aver fondato il Centro cambogiano per i diritti umani, nel 2012 è entrato prepotentemente in politica fondando il Cnrp (Cambodian national rescue party), un partito nato dalla fusione del Human rights party con il Sam Rainsy party. L’alleanza, criticata da molti per la figura poco limpida, ambigua e ondivaga di Sam Rainsy, ha però trovato il consenso degli elettori, tanto che nel 2013, il Cnrp ha sfiorato il sorpasso sul Cpp2. Sokha ha ravvivato la scena politica nazionale portando una ventata di democrazia diretta, invitando la popolazione ad esprimere liberamente il suo pensiero in incontri settimanali a cui lui stesso partecipava nei villaggi della nazione. È stato anche il primo oppositore di Hun Sen a ricoprire una carica istituzio- nale, divenendo nel 2014 vicepresidente del parlamento. La sua popolarità è cresciuta verticalmente, tanto che in Cambogia, dopo il successo ottenuto nelle elezioni amministrative del 2017, si prospettava addirittura un cambio di governo nelle elezioni generali dell’anno seguente3.
Anche il Cpp, dopo anni di indiscusso potere, si sentiva braccato e così ha allestito la più spettacolare e contorta messinscena dopo quella del 1997 per estromettere il diretto rivale. Kem Sokha è stato prima condannato a 5 mesi di galera per sfruttamento della prostituzione (Khem Chandaraty, la principale testimone ha poi ritrattato le accuse affermando di aver avuto forti pressioni da parte degli investigatori del governo per montare il caso contro Kem Sokha)4, poi, il 3 settembre 2017, in una scenografica operazione di sapore hollywoodiano che ha coinvolto più di cento agenti di polizia, è stato arrestato con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per scalzare Hun Sen dal governo e instaurare un regime asservito a Washington. Dopo aver trascorso più di un anno nella prigione di Trapeang Phlong, nell’isolata provincia di Tbong Khmun, al confine con il Vietnam, è stato posto agli arresti domiciliari il 10 settembre 2018 in attesa di processo.
Nel frattempo, nel novembre 2017, la Corte suprema cambogiana, controllata dal partito di governo5, ha sciolto il Cnrp obbligando molti attivisti a fuggire all’estero e ha vietato a 118 dei suoi membri di fare politica per i successivi cinque anni6. Senza alcuna opposizione, le elezioni del 2018 hanno visto la totalità dei seggi parlamentari andare a favore del Cpp7.
Giornali chiusi e repressione
La dissoluzione del Cnrp è stato l’inizio di una repressione più generale e feroce verso Ong, giornali indipendenti, associazioni per i diritti umani e ambientaliste, tanto che Phil Robertson, vicedirettore della sezione asiatica di Human rights watch, ha detto che «i governi stranieri, le Nazioni Unite e i paesi donatori dovrebbero chiedere la fine di questi attacchi verso oppositori politici e a ciò che rimane della democrazia in Cambogia»8.
Nel settembre 2017 lo storico quotidiano Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, mentre nel maggio 2018 l’editore dell’altro quotidiano di punta, il Phnom Penh Post, fondato da Michael Hayes e la moglie Kathleen O’Keefe, è stato acquisito da una compagnia malese di proprietà di Sivakumar Ganapthy, un editore strettamente collegato con Hun Sen e che ha diretto l’ufficio stampa e le relazioni pubbliche del governo cambogiano9.
Non contenta, la Corte municipale di Phnom Penh ha condannato il 17 marzo 2022, venti appartenenti al Cnrp a 5-10 anni di prigione. Tra gli accusati figurano personaggi di spicco dell’opposizione cambogiana, come Sam Rainsy che, assieme a Eng Chai Eang e Mu Sochua, dopo essersi autoesiliati all’estero, nel novembre 2019 avevano affermato di avere intenzione di tornare in Cambogia per preparare la loro partecipazione alle elezioni del 2023. Le accuse verso i venti oppositori coprono un ampio ventaglio di imputazioni: dall’aver creato una rete segreta che avrebbe avuto l’obiettivo di destabilizzare il paese, al rovesciamento violento del potere con l’aiuto di militari, per terminare con l’aver utilizzato la pandemia per minare la credibilità del governo e organizzare sommosse popolari.
Ad oggi più di settanta avversari politici di Hun Sen sono detenuti nelle carceri cambogiane10.
Opposizione frastagliata e divisa
A rivendicare il posto occupato dall’ormai defunto (o, per meglio dire, soffocato) Cambodia national rescue party è il Candlelight party (Partito della luce della candela, Cp), voluto da Sam Rainsy dopo che con Kem Sokha, nel 2021, si è consumato l’ennesimo brutto divorzio politico dell’opposizione cambogiana, scandito da insulti e recriminazioni che i due leader si sono lanciati a vicenda11,12. Presidente del Cp è Thach Setha, che si è chiaramente definito leader del movimento successore del Cnrp, ma il cui partito ha adottato un logo ereditato dal Sam Rainsy party.
La partita si deciderà nei prossimi mesi quando la Corte di giustizia sarà chiamata a decidere sulla sorte dei due leader, uno agli arresti domiciliari in attesa di processo, l’altro in esilio. Probabilmente, come già accaduto in passato per altri rivali del Cpp, a Kem Sokha sarà concessa un’amnistia da parte del re Norodom Sihamoni. Questo gli permetterebbe di partecipare alle elezioni del 2023, sebbene monco del suo partito e della sua dirigenza.
Anche il vecchio contendente del Cpp, il Funcinpec, il cui nome – «Fronte unito nazionale per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cooperativa» – è più lungo della lista dei suoi elettori, intende ripresentarsi alle elezioni in veste rinnovata dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel febbraio 2022, il principe Norodom Chakravuth, è stato eletto presidente del partito, espressione della monarchia cambogiana e fondato dal suo inconcludente padre Norodom Ranariddh che, negli anni Novanta, aveva conteso al Cpp la direzione del governo13.
Durante il suo primo discorso da presidente, Chakravuth ha detto di avere intenzione di riunire «sihanoukisti e ranariddisti» in un’unica compagine politica così da poter competere alle prossime elezioni nazionali con Hun Sen14. Ma il Funcinpec oggi raccoglie pochissimi voti ed è spesso visto più come compagine d’appoggio al Cpp di Hun Sen che come suo avversario.
Un altro partito dell’opposizione, spin off del Funcinpec, è il Partito di unità nazionale Khmer, guidato dall’ex generale Nhek Bun Chhay, ex fedelissimo di Ranariddh, ma oggi in rotta con suo figlio Chakravuth.
Il Cpp probabilmente permetterà a un’opposizione frastagliata e divisa di partecipare alle elezioni: oltre a non rappresentare una minaccia per il monopolio politico di Hun Sen, la presenza di piccoli movimenti indipendenti permetterebbe al primo ministro di presentarsi come politico democratico e ottenere la fiducia economica delle potenze occidentali.
Sempre per «il bene del popolo»
Per prepararsi al meglio, Hun Sen sfrutta ogni apparizione pubblica e, approfittando delle numerose inaugurazioni di strutture statali e private, monopolizza il dibattito per convincere l’elettorato cambogiano sul motivo per cui dovrebbe votare per il Cpp.
«Il Cpp è il partito al governo. Noi non vogliamo sfruttare elettoralmente le manifestazioni pubbliche, ma abbiamo un ritorno di immagine per i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra amministrazione», ha detto Sok Ey San, portavoce del Cpp, aggiungendo che «il presidente del Cpp è anche primo ministro, così il presiedere e partecipare a cerimonie è anche un modo per mostrare ciò che abbiamo fatto per il bene del popolo».
Il 30 marzo 2022 il premier giapponese Fumio
Kishida ha visitato la Cambogia chiedendo a Hun Sen che le prossime elezioni politiche siano libere e regolari ponendo termine a cinque anni di monopolio del partito unico e di repressione da parte del Cpp e dei suoi dirigenti.
Due settimane dopo però, un centinaio di membri dell’opposizione del Candlelight party che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni comunali tenutesi il 5 giugno 2022, sono stati banditi dalla consultazione elettorale, mentre altri sono stati arrestati e picchiati.
Con l’opposizione alle corde, divisa al suo interno e il clima di intimidazione, l’interesse delle elezioni del 2023 non sarà tanto su chi le vincerà, ma sulla percentuale con quale il Cpp surclasserà gli altri concorrenti.
Da Hun Sen a Hun Manet?
Hun Sen, ormai settantenne, si prepara a espletare quello che, con tutta probabilità, sarà il suo ultimo mandato, e sfrutterà i prossimi cinque anni per assicurare la successione al figlio primogenito, il quarantacinquenne generale Hun Manet, già da lui presentato come futuro primo ministro15.
Diplomato alla West Point e plurilaureato, Hun Manet sembra essere assai differente dal padre, anche se, sino a oggi, si è tenuto ai margini della politica preferendo la carriera militare.
La serie di battaglie combattute nel 2011 con la Thailandia per il controllo del tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.47-48), è stata il suo battesimo del fuoco ed è servita per proiettarlo ai vertici delle forze armate cambogiane.
Per molti, Hun Manet potrebbe essere il giro di boa per un cambio nella politica nazionale: mentre il padre è cresciuto tra le file dei Khmer Rossi in un clima di guerra e di oppressione portando con sé tutto il fardello di violenza e insicurezza in cui si è sviluppata la sua formazione, il figlio ha speso gli anni della maturità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 2020 è stato nominato membro permanente del Comitato centrale del Cpp e capo della Commissione giovanile del partito16.
Molti si aspettano che con Hun Manet cambi in meglio l’immagine che il governo cambogiano ha dato di sé sino ad ora.
Segnali contrastanti
Negli ultimi anni si sono registrati sviluppi che possono far ben sperare: l’economia nel 2021 è cresciuta del 3% rispetto a una contrazione del 3,1% del 202017. Nel 2022 e nel 2023 ci si aspetta un aumento rispettivamente del 5,3% e del 6,5% nonostante l’invasione russa dell’Ucraina18.
Il Pil pro capite, che nel 2000 era di 288 Usd, nel 2020 era salito a 1.543 Usd. Secondo la Banca mondiale, nel 2030 raggiungerà i 3.896 Usd per balzare a 12.056 Usd nel 2050. Un aumento che proietterà la Cambogia tra i paesi a più alto sviluppo nel Sud Est asiatico19.
I progressi economici non vanno di pari passo con quelli dei diritti umani, di cui la Cambogia non rappresenta certo un modello da seguire, ma l’errore è pensare che il Cpp, Hun Sen e il governo siano i soli responsabili di questi problemi. L’opposizione, in particolare quella che fa a capo a Sam Rainsy, al Funcipec e al Cnrp, ha sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo Khmer in versione antivietnamita e antiislamica per raccogliere consensi tra l’elettorato.
Nel 2010 Sam Rainsy incitò i contadini cambogiani di alcuni villaggi del distretto di Chantrea, nella provincia di Svay Rieng, a spostare i paletti che marcavano il confine con il Vietnam affermando che funzionari del Cpp cambogiano e del Partito comunista vietnamita si erano accordati per rimuovere i picchetti originari all’interno del territorio della Cambogia20.
Nel 2013 i gruppi di opposizione organizzarono proteste fuori l’ambasciata vietnamita a Phnom Penh che sfociarono in violenti attacchi della folla contro cittadini cambogiani di origine vietnamita e attività da loro gestite.
La messa al bando del Cnrp nel 2017, se da una parte ha portato il regime di Hun Sen a spazzare ogni pericolo di competizione e di controllo sul suo operato nel parlamento e nel paese, dall’altro ha avuto come effetto quello di calmare le proteste e i sentimenti xenofobi all’interno della popolazione khmer.
È indubbio che, negli ultimi 20 anni, sotto l’attuale regime la Cambogia abbia fatto grandi progressi nella riduzione della povertà e nello sviluppo umano21.
Tra il 1990 e il 2019, l’Hdi (Human development index, Indice di sviluppo umano) cambogiano è aumentato da 0,368 a 0,594 con un’aspettativa di vita aumentata da 53,6 anni a 69,8 anni e un indice Gini salito da 1,008 a 4,24622,23. Ci si aspetta che, entro il 2023, la Cambogia diventi un paese con uno stipendio medio di livello medio alto24.
Il governo, da parte sua, ha approfittato delle proteste nazionaliste per arrestare e sopprimere movimenti scomodi, sia in ambito politico, che economico. Nel luglio 2020 il presidente della Confederazione dei sindacati cambogiani, Rong Chhun, che si batte da anni per i diritti dei lavoratori tessili, è stato arrestato dopo aver visitato una comunità lungo il confine cambogiano vietnamita e aver criticato, come aveva fatto Sam Rainsy, il governo per aver rivisto il tracciato di confine facendo perdere terra ai contadini cambogiani. È stato rilasciato il 5 novembre 202125.
Giornalisti e Ong in pericolo
Oltre alla gente comune, chi fa le spese di questa situazione sono le Ong e le associazioni che si occupano di diritti umani.
Il 10 luglio 2016 Kem Ley, uno dei più acuti giornalisti politici fortemente critico non solo nei confronti di Hun Sen, ma anche dell’opposizione, venne ucciso in una stazione di servizio a Phnom Penh.
Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di persone che accompagnarono il feretro al tempio buddhista dove venne esposto con una bandiera cambogiana e letteralmente coperto da fiori.
Ancora oggi, mentre l’assassino (Oeuth Ang) è stato arrestato, non si è scoperto il mandante. Come altri attivisti anche loro uccisi (Chea Vichea nel 2004 e Chut Wutty nel 2012), Kem aveva pesantemente criticato Hun Sen e la sua famiglia per la deforestazione del paese e per essere coinvolti in casi di corruzione. Pochi giorni prima, il giornalista aveva firmato quella che per molti fu la sua condanna a morte commentando Hostile Takeover, il dettagliato rapporto di una Ong, la Global Witness, pubblicato tre giorni prima, il quale rivelava tutti gli intrallazzi politici e finanziari della famiglia di Hun Sen, nonché i collegamenti con alcune delle «principali compagnie internazionali inclusa la Apple, Nokia, Visa, Procter & Gamble, Nestlé e Honda»26.
Phay Siphan, portavoce del governo, disse allora che, mentre la gente è libera di onorare la memoria di Kem Ley, non è accettabile accusare il governo o Hun Sen di essere il mandante della sua uccisione: «Se qualcuno ha delle prove concrete, venga e le mostri al governo e al tribunale. Non vogliamo sentire accuse gratuite verso Hun Sen. Se ci sono delle prove, che vengano mostrate».
Proprio qui sta il problema: dal 2015 una legge permette al governo di chiudere e bandire dal paese le Ong che criticano apertamente la politica cambogiana27.
Inoltre, dopo la pubblicazione di Hostile Takeover, chiunque voglia approfondire notizie e valutare dati riguardanti attività pubbliche e ministeri, deve registrarsi sui relativi siti lasciando così tracce che possano ricondurre all’identità della persona e, quindi, all’identità della persona.
Raccogliere prove significa spesso condannarsi e questo rende più difficile la democratizzazione del paese e la lotta alla corruzione.
Il problema ambientale
Questo vale anche nel campo ambientale, un tema particolarmente attuale e scottante, tanto da divenire uno dei principali campi su cui si affrontano i diversi schieramenti del paese.
Nel 2021, dieci Ong che operano in Cambogia, impegnate in questioni e progetti idrici, hanno lodato il governo cambogiano per aver affermato, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici Cop 26 di Glasgow, di non volersi impegnare in progetti di costruzione di centrali idroelettriche sul Mekong28.
Il coordinatore del Forum delle Ong, Mak Bunthoeurn ha però aggiunto che l’esempio della Cambogia sarà inutile se non verrà seguito dagli altri stati che hanno progetti simili lungo i tratti del Mekong che scorrono sul loro territorio29,30.
Più ambigua è la posizione del governo nella questione della deforestazione. Sebbene sia difficile quantificare la velocità di disboscamento in Cambogia (i dati variano anche di molto a seconda degli studi), una media approssimativa giunge alla conclusione che nel 2010 il 60% del territorio cambogiano era ricoperto da foreste; nel 2020, la percentuale era scesa al 45,7%31.
Tra il 2000 e il 2019 la perdita di foreste cambogiane è stata di 27mila km2, pari al 14,8% della superficie del paese e al 26,4% delle foreste.
La deforestazione è aumentata a partire dalla fine degli anni Novanta quando i Khmer Rossi furono sconfitti definitivamente e il loro movimento sciolto. Da allora le dispute sui terreni sono cresciute anche in modo violento e i litigi, principalmente tra villaggi, sono stati utilizzati da governo e opposizione per loro fini sia elettorali che economici (la deforestazione arricchisce anche gruppi dell’opposizione cambogiana). Il prepotente ingresso di gruppi economici con ramificazioni internazionali e con appoggi politici sia dell’una che dell’altra parte ha aumentato esponenzialmente questo problema.
Secondo Hun Sen, la perdita di foreste in Cambogia è principalmente dovuta all’aumento demografico: «Il 7 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi vennero sconfitti, in Cambogia vivevano circa cinque milioni di persone; oggi la popolazione è aumentata a 16 milioni. […] Negli anni Ottanta la Cambogia aveva un milione di ettari coltivati a uso agricolo; oggi, a causa dell’aumento della popolazione la richiesta di terra per coltivazioni è aumentata a quattro milioni di ettari. Da dove credete che venga questa terra? Alcuni si lamentano che le foreste stanno scomparendo. Ma voi potete ben vedere che le foreste scompaiono perché enormi superfici una volta coperte da foreste, oggi sono diventate terre coltivate dai contadini»32.
Le Ong ambientaliste hanno però accusato il governo di non far nulla per contrastare il commercio illegale di legname verso il Vietnam, che già dal 1986 ha iniziato a sfruttarlo. Secondo l’Eia (la Environmental investigation agency), tra il 2016 e il 2018 più di mezzo milione di metri cubi di legname, per un valore di 290 milioni di dollari, è transitato illegalmente attraverso la Cambogia per raggiungere il Vietnam33,34.
E, a differenza di quanto afferma Hun Sen, tra il 2001 e il 2019, il 92% della deforestazione è stato causato dalle compagnie del legname35.
Il governo cede concessioni a multinazionali, compagnie locali o anche a piccoli proprietari terrieri al fine di generare «sviluppo nazionale, creare lavoro nelle aree rurali e sfruttare le aree non utilizzate» per scopi agricoli o, nella maggior parte dei casi, per sviluppare piantagioni a monocoltura.
Tutte le aree soggette a taglio devono essere all’interno delle Concessioni economiche terriere (Economic land concessions, Elc) e le Concessioni sociali terriere (Social land concessions, Slc) che legalmente non dovrebbero superare i 10mila ettari per ciascuna, limite che spesso viene superato.
È compito del ministero dell’Ambiente identificare le Elc, ma sempre più spesso i funzionari del ministero tracciano i confini anche dentro le aree protette. Fino al 2018 il ministero dell’Ambiente aveva concesso 227 Elc per un totale di 1.225.254 ettari, pari al 6,8% dell’intera superficie cambogiana a cui si devono aggiungere 28 piantagioni di caucciù private per un totale di 176.297 ettari.
Una nuova «tigre asiatica»
La Cambogia si sta avviando verso un ambizioso programma di sviluppo economico. Gli indicatori socioeconomici indicano che il paese sarà la prossima «tigre asiatica». Saranno in molti a beneficiarne, ma se non si pone un limite al degrado ambientale e non si pensa anche agli strati più deboli ed emarginati della società, il progresso rischierà di trasformarsi in instabilità.
E negli anni Settanta la Cambogia ha già sperimentato questa strada.
Piergiorgio Pescali
Note:
Phorn Bopha, Cambodia “bleeding” as space for civil society shrinks, Al Jazeera, 3 novembre 2021.
Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 28 luglio 2013. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 48,83% dei voti, mentre il Cnrp raggiunse il 44,46% dei consensi.
Amaël Vier e Karel Jiaan Galang, The 2017 International Election Observation Mission (Ieom) of the Asian Network for Free Elections (Anfrel) to the Kingdom of Cambodia’s Commune and Sangkat Council Elections – Final Report, §Voter Turnout and Election Results, Asian network for free elections (Anfrel), Bangkok, luglio 2017, p. 25. Il Cpp, che ottenne in totale il 50,76% dei voti, si aggiudicò 6.503 seggi consigliari e la guida di 1.156 comuni. Il Cnrp, con il 43,83% dei voti, ottenne 5.007 seggi consigliari e la guida di 489 comuni.
Khmer Times, Adhoc on Defensive after Accusations, 26 aprile 2016 e Human rights watch (Hrw), Cambodia: Drop Fabricated Charges against “Adhoc 5”, 26 agosto 2018.
Alec Thomson, A fork in the road: a civil rights case study of Cambodia and Somaliland – §Modern Law, Cambridge University – Law Society.
Human rights watch (Hrw), Cambodia: Supreme Court Dissolves Democracy, 17 novembre 2017.
Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 29 luglio 2018. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 76,78% dei voti e tutti i 125 seggi parlamentari.
Human rights watch (Hrw), Cambodia, Opposition Politicians Convicted in Mass Trial, 17 marzo 2022.
The Phnom Penh Post, Post senior staff out in dispute over article, 8 maggio 2018.
Human rights watch (Hrw), Political Prisoners Cambodia, 10 marzo 2022
Ben Sokhean, Sokha slams Rainsy for accusing him of being under threat from PM, Khmer Times, 2 dicembre 2021.
Ananth Baliga e Ouch Sony, Cnrp Rift Out in the Open as Kem Sokha Distances Himself from Rainsy, Vod, 29 novembre 2021.
Khmer Times, Prince Norodom Chakravuth elected as Funcinpec party president, 9 febbraio 2022.
(Yin Soeum, Prince Norodom Chakravuth unanimously elected Funcinpec president, Khmer Times, 10 febbraio 2022.
Sorn Sarath, Hun Manet could be PM as soon as next mandate, Hun Sen, CamboJA News, 20 dicembre 2021.
Mao Sopha e Torn Chanritheara, Hun Manet Appointed Head of CPP’s Youth Wing, Cambodianess, 9 giugno 2020.
Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic performance, 2021, p. 1.
Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic prospects, 2021, p. 2.
The World Bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
Meas Sokchea, PM dismisses possible pardon for Sam Rainsy over VN border charges, The Phnom Penh Post, 6 gennaio 2010.
Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, Aprile 2021, p.1.
Undp, Human Development Report 2020 – The Next Frontier: Human Development and the Anthopocene – Briefing note for countries on the 2020 Human Development Report – Cambodia, § 2.1- Cambodia’s Hdi value and rank, p. 2.
L’indice Gini misura la disuguaglianza di reddito della popolazione: maggiore è l’indice Gini meno equamente distribuito è il reddito. Secondo uno studio del World Institute for Development Economics Research, l’indice Gini ottimale è compreso tra 0,25 (paesi del Nord Europa) e 0,40 (Cina, Usa).
Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, aprile 2021, p.1.
Front Line Defenders, Cambodian human rights defenders released after more than one year in prison, 16 novembre 2021
Global witness, Hostile Takeover, luglio 2016, p. 13.
Licadho, New Draft Law Reaffirms Culture of Control , 11 giugno 2015
Le 10 Ong sono Culture and Environment Preservation Association (Cepa); Fisheries Action Coalition Team (Fact); North-eastern Rural Development (Nrd); Nak Akphivath Sahakum (Nas); Ngo Forum on Cambodia (Ngof); Mlup Promviheathor Center Organization (Mpc); My Village Organization (Mvi); Oxfam in Cambodia, Women’s Community Voices (Wvc); 3S Rivers Protection Network (3Spn).
La Cina ha già costruito undici dighe sul corso del Mekong (Wunonglong, Lidi, Huangdeng, Dahuaqiao, Miaowei, Gongguoqiao, Xiaowan, Manwan, Dachaoshan, Nuozhadu e Jinghong), il Laos due (Xayaburi e Don Sahong). La Cina ha in progetto la costruzione di altre tre dighe (Toba, Ganlanba e Mengsong) e il Laos di altre sette (Pak Beng, Luang Prabang, Pak Lay, Sanakham, Pak Chom, Ban Koum, Phou Ngoy). La Cambogia ha cancellato le previste dighe di Stung Treng e Sambor.
Lo sviluppo del bacino del Mekong è deciso dalla cooperazione di 13 organismi appartenenti a sei paesi – Cina, Laos, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Vietnam -, che operano in vari campi.
The world bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
Kouth Sophak Chakrya, Hun Sen blames forest loss on population rise, Phnom Penh Post, 7 giugno 2018.
Environmental investigation agency (Eia), Repeat offender: Vietnam’s persistent trade in illegal timber, maggio 2017.
Environmental investigation agency, Eia responds to Vietnam wood industry over criticism of timber crime exposé, 17 luglio 2018.
Global forest watch, Primary forest loss in Cambodia, 2 maggio 2022.
Scheda Cambogia (Kampuchea)
Piccole minoranze in un paese buddhista
Superficie: 181mila Km2;
Popolazione: 16,7 milioni (2020);
Capitale: Phnom Penh (2,2 milioni di abitanti);
Orografia: pianura alluvionale attraversata dal Mekong da Nord a Sud; bacino idrografico del Tonlé Sap (lago e fiume);
Sistema politico: monarchia parlamentare;
Re e primo ministro: re Norodom Sihamoni (dal 2004); primo ministro Hun Sen (dal 1985, Partito del popolo cambogiano);
Date essenziali: 802-1431, Impero khmer; 1953 (novembre), indipendenza dalla Francia; 1970-’75, Repubblica khmer; 1975-’79, regime dei Khmer rRossi; 1979-’89, occupazione da parte del Vietnam; 1997, Tribunale speciale per i Khmer Rossi;
Principali gruppi demografici: khmer 87% (lingua khmer, religione buddhista theravada), vietnamiti, laotiani, thailandesi;
Religioni principali: buddhisti 95% (corrente theravada); musulmani 2% (in particolare, i Cham); cristiani 2% (0,5% cattolici);
Economia: principalmente rurale e agricola, la produzione più importante è quella del riso; industria tessile e turistica (in particolare, per Siem Reap che ospita il sito archeologico di Angkor);
Regioni contese: la zona del tempio di Preah Vihear contesa con la Thailandia;
Problemi principali: grado di corruzione molto elevato; presenza di lavoro minorile e schiavo; traffico di droga; l’organizzazione Freedom House definisce la Cambogia un paese «non libero».
(a cura di Paolo Moiola)
Il ritratto
Hun Sen e famiglia, i padroni
Il 5 agosto 1952, in un piccolo villaggio della provincia di Kompong Cham, nacque Hun Bunal. Suo padre, Hun Neang, era un monaco di un piccolo tempio locale prima di aderire alla resistenza anticoloniale. La famiglia Hun era una Khmer Kat Chen, cioè di origini cinesi. Ricca, proprietaria terriera, fu costretta a trasferirsi a Phnom Penh a causa di un tracollo economico. Qui Hun Bunal cominciò a frequentare la scuola buddhista cambiando il nome in Ritthi Sen.
Dopo il colpo di stato di Lon Nol, nel 1970, Bunal si unì ai Khmer Rossi facendosi chiamare Hun Samrach e poi, dal 1972, Hun Sen.
Comandante militare della Regione orientale durante il periodo di Kampuchea Democratica, nel 1977 fuggì in Vietnam per scappare dalle purghe che stavano decimando i quadri del partito ostili a Pol Pot.
Assieme ad altri leader militari e politici che disertarono le fila dei Khmer Rossi, partecipò all’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979 divenendo vice primo ministro e ministro degli Esteri sotto il governo di Heng Samrin.
Nel lontano 1985
La svolta politica avvenne nel 1985 quando fu eletto primo ministro. Da allora Hun Sen non ha mai smesso di ordire trame e intrallazzi per mantenere il potere, anche quando i risultati elettorali lo vedevano sconfitto, e disporre le sue pedine nei posti chiave delle istituzioni cambogiane.
Già due anni dopo essere stato nominato primo ministro, Amnesty International espresse «preoccupazione per rapporti di torture di prigionieri politici imprigionati senza accuse o processi»1.
Nel 1997, dopo che le elezioni di quattro anni prima avevano consentito al Funcipec di Ranarridh Sihanouk di raggiungere la maggioranza e di dividere la poltrona di primo ministro con Hun Sen, quest’ultimo inscenò un colpo di stato in cui vennero giustiziate almeno cento persone a lui ostili. Recentemente una corte francese2 ha emanato un mandato di arresto per Hun Sen e altri due generali, Huy Piseth e Hing Bun Heang, con l’accusa di aver pianificato, organizzato ed essere mandanti di un attentato compiuto il 30 marzo 1997 durante un raduno del partito di opposizione Khmer nation party di Sam Rainsy che costò la vita a 16 manifestanti e il ferimento di altri 150, tra cui lo stesso leader del movimento3.
Immense ricchezze familiari
La carica di capo del governo, però, garantisce a Hun Sen l’immunità, rendendo impossibile ogni attuazione del procedimento internazionale, come hanno chiaramente fatto sapere sia il ministero degli Esteri che il ministero per l’Europa francese. Fino al 2016, quando la Ong Global Witness pubblicò un dettagliato rapporto, Hostile Takeover, nessuno era riuscito a stabilire con esattezza l’estensione dei gangli della famiglia Hun nell’economia cambogiana e internazionale. A causa di questa inchiesta, il ministero del Commercio cambogiano, ha ristretto ogni accesso alle informazioni delle aziende, nazionali ed estere, che operano sul territorio.
Secondo il rapporto della Global Witness, la famiglia di Hun Sen deterrebbe una ricchezza stimata tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari4.
I ventuno membri della famiglia hanno interessi in 114 compagnie nazionali con un capitale di 200 milioni di Usd5 e detengono il monopolio della produzione di caucciù, la seconda voce agricola del paese dopo il riso, di sei compagnie minerarie, di sette compagnie di costruzioni edilizie, di cinque compagnie energetiche (settore di enorme sviluppo in Cambogia).
Moglie, figli, nipoti in ruoli chiave
La moglie di Hun Sen, Bun Rany, è presidente della Croce Rossa cambogiana ed è stata accusata da più parti di usare la sua posizione per promuovere la politica del Partito popolare cambogiano (Cpp).
Due dei tre figli maschi di Hun Sen, Hun Manet e Hun Manith, sono ufficiali delle Forze armate cambogiane e hanno frequentato l’Accademia di West Point. Hun Manet ha avuto un ruolo prominente nella vicenda di Preah Vihear che nel 2011 ha visto l’esercito cambogiano fronteggiare quello thailandese per il controllo di un’area di 4,6 km2 in cui sorge il tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.46-47). Il terzo figlio, Hun Many, il più giovane, è parlamentare, mentre le due figlie, Hun Mana e Hun Maly, si sono spartite il controllo dei media nazionali (Hun Mana) e dei servizi, come i settori medico-farmaceutico, energetico e del commercio (Hun Maly).
I fratelli di Hun Sen, Hun Neng (morto il 5 maggio 2022) e Hun San controllano le maggiori compagnie nel settore del commercio e dei trasporti, mentre la sorella Hun Seng Ny è direttamente coinvolta nella direzione di compagnie accusate di causare i disboscamenti nel paese e nella repressione degli scioperi nelle industrie tessili.
Hun Seang Heng, figlio di Hun Neng e nipote di Hun Sen, è padrone della compagnia che importa e rivende nel territorio cambogiano i prodotti della Apple. L’altro figlio di Hun Neng, Hun To, oltre a presiedere la compagnia petrolifera Lhp Asean Import Export e la Lhp Asean Investment, proprietaria di catene di stazioni di servizio in Cambogia, è implicato nel traffico di eroina in Australia per un miliardo di dollari. Una delle due figlie di Hun Neng, Hun Kimleng, ha importanti partecipazioni nella Hard Rock Cafè e nella Gloria Jeans Coffee.
Praticamente ogni membro della famiglia Hun Sen ha interessi finanziari, politici, economici, militari con istituzioni cambogiane e, spesso, anche internazionali.
Piergiorgio Pescali
Note
Amnesty International, 1987 Report – Kampuchea (Cambodia), 1987, p. 241.
Il caso è stato portato alla corte francese da Sam Rainsy, che ha doppia cittadinanza (francese e cambogiana).
Human rights watch, Cambodia: French Court Indicts Hun Sen Cronies, 29 marzo 2022.
Global Witness, Hostile Takeover – Executive Summary, luglio 2016, p. 3.
Global Witness, Hostile Takeover – Annex 1 – Our finding in full, luglio 2016, pp. 33-37.
Storia e religioni
L’islam dei Cham
Dopo il buddhismo, la seconda religione in Cambogia è l’islam. Il 2% della popolazione, secondo il censimento effettuato nel 2019, è musulmano1 e vive principalmente nelle province di Tbong Khmun (11,8% della popolazione), Kratie (6,6%), Kompong Chhnang (5,8%), Stung Treng (4,7%), Koh Kong (4,6%) e Mondulkiri (4,4%)2.
La componente etnica maggioritaria, sebbene non unica, dei fedeli islamici è composta da popolazioni di etnia cham di origine maleo-polinesiana che parlano una propria lingua (il cham). Dopo essere migrati verso le coste vietnamite a partire dal II secolo d.C., i Cham si installarono nel regno induista di Champa, nell’attuale regione centrale del Vietnam per poi convertirsi all’islam nell’XI secolo quando mercanti arabi e indiani del Gujarat, assieme alle loro mercanzie, portarono anche il loro credo e copie del Corano. Nel XII secolo, i Cham riuscirono anche a conquistare Angkor, seppur per soli quattro anni, la capitale dell’Impero khmer (il tempio di Bayon ha pregevoli bassorilievi che illustrano battaglie tra Khmer e Cham). La presenza stabile delle prime popolazioni cham in Cambogia risale proprio a questo periodo e venne rafforzata nel XV secolo dopo la sconfitta del loro regno a favore dei Viet provenienti dal Tonchino. All’interno del gruppo, si distinguono i Chvea che, pur condividendo la provenienza etnica, provengono dalla Malesia e hanno adottato la lingua khmer, e i Jahed, di lingua cham, ma giunti in Cambogia tra il XVIII e il XIX secolo, dopo la completa dissoluzione del regno di Champa da parte di Minh Mang.
Infine, una componente aristocratica si installò nella vecchia capitale khmer, Oudong, dove ancora oggi risiedono i discendenti (circa 20mila) che hanno adottato una forma di sincretismo religioso che ingloba elementi induisti e, a differenza dei loro correligionari, oltre a non usare l’arabo come lingua religiosa, hanno mantenuto la forma scritta della lingua cham.
Sotto i Khmer Rossi
Durante la Seconda guerra del Sud Est asiatico le forze militari in lotta in Cambogia cercarono di accaparrarsi l’appoggio della comunità cham: sia Sihanouk che Lon Nol garantirono la cittadinanza cambogiana ai Cham a differenza dei cambogiani di origine vietnamita e cinese, a cui invece venne negata. I Khmer Rossi, dal canto loro, accettarono i Cham anche perché Sos Man e suo figlio Mat Ly, erano due dei membri più autorevoli del Partito comunista di Kampuchea. Per assimilare i Cham al movimento khmer e nascondere la discendenza Champa, troppo legata al Vietnam, vennero chiamati Khmer islamici.
A partire dal 1972 i Khmer Rossi iniziarono a deportare i Cham in diverse province con l’intento di dividere e indebolire la comunità causando diverse sommosse represse con purghe ed esecuzioni.
Dopo la conquista del potere da parte dei Khmer Rossi e, ancora più, dopo l’ascesa di Pol Pot nel 1976, l’introduzione di cooperative agricole e mense comuni furono oggetto di nuove ribellioni da parte dei musulmani, costretti a mangiare cibo a loro proibito e a seguire tradizioni estranee alla loro cultura e religione.
L’opportunismo di Hun Sen
Oggi i Cham possono praticare la loro fede anche se i movimenti d’opposizione lamentano un aumento dell’influenza economica della comunità musulmana all’interno del paese, in particolare per i cospicui finanziamenti che le organizzazioni islamiche ricevono da istituzioni e paesi arabi,
Malaysia e, ultimamente, anche da parte della Turchia.
Proprio per attirare investimenti da Ankara, Hun Sen ha recentemente chiesto che, in ogni provincia, vi sia almeno un vicegovernatore cham3.
E proprio il Cpp è il principale sostenitore dei musulmani cambogiani, garantendo loro appannaggi economici e licenze negate ad altre comunità. Il mufti del paese è un okhna4, Kamaruddin bin Yusof che è stato posto dallo stesso Hun Sen a guida degli islamici cambogiani nel lontano 1996. Kamaruddin, oltre a controllare le scuole islamiche madhhabi all’estero, ha anche influenti amicizie politiche ed economiche in Malaysia.
La totalità dei musulmani cambogiani è sunnita; il 90% segue la scuola madhhab, la scuola Shafi’i, mentre il restante, concentrato nella comunità di Oudong, appartiene alla Comunità di imam San (Krom Kan Imam San) che si rifà all’imam Sen, un religioso vissuto nel XIX secolo e particolarmente venerato nella regione. La tradizione islamica malese, introdotta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quella più seguita e di conseguenza anche i testi religiosi (sia letterari che di istruzione) sono in lingua malay. I fedeli della Comunità di Imam San, guidati da Ong Gnur Mat Sa, si distinguono dai loro confratelli per seguire regole che inseriscono nelle pratiche religiose e rituali islamiche elementi cham e animisti. Nella preghiera del venerdì hanno inserito elementi di possessione degli spiriti ancestrali che prendono origine da testi cham, indiani e arabi.
P.Pes.
Note
Kingdom of Cambodia, Ministry of Planning, National Institute of Statistics, General Population Census of the Kingdom of Cambodia 2019 – Capitolo 2, Population Size, Growth and Distribution, §2.5 Population and religion, Ottobre 2020, p.23.
Idem, §Tabella 2.5.1 Percentage distribution of population by religion, area, and province, Cambodia, 2008-2019, Ottobre 2020, p.24.
UcaNews, Hun Sen wants to appoint Cambodian Muslims to higher office, 24 febbraio 2022.
Titolo onorifico dato a chi si distingue come benefattore o mecenate. Oggi può essere comprato versando al governo una certa somma in denaro.
Cambogia versus Vietnam
Il destino dei Khmer Krom
Sono circa un milione e 200mila i Khmer che abitano nel delta del Mekong, nella regione meridionale del Vietnam, discendenti di quelle popolazioni che, seguendo l’onda dell’espansione dell’Impero khmer nel IX secolo, occuparono le fertili aree solcate da innumerevoli corsi d’acqua.
Pur conservando la stessa lingua, cultura, religione dei Khmer delle regioni del Tonle Sap e del corso superiore del Mekong, i Khmer Krom (Khmer meridionali) nel XVII secolo iniziarono a distinguersi dal ceppo originario. La dinastia Nguyen, da Hué dilagò verso Sud prima strappando Prey Nokor, la principale città Khmer Krom all’amministrazione cambogiana e rinominandola Sai Gon, poi favorendo la migrazione dei Kinh1 verso Sud lambendo la catena annamita. Nel 1845 il principe cambogiano Ang Duong fu costretto a cedere al Siam (l’attuale Thailandia) le province di Sisophon, Battambang e Siem Reap e al regno dell’Annam (parte dell’attuale Vietnam) la provincia di Kampuchea Krom. Mentre i territori occidentali, in cui tra l’altro si trovava sito di Angkor, il 23 marzo 1907 vennero riconsegnati alla Cambogia, allora protettorato francese, nulla di simile venne fatto per le 21 province orientali del delta del Mekong.
Le scelte dei colonizzatori francesi
Il 4 giugno 1949 la Francia confermò i confini politici vietnamiti cambogiani che aveva ereditato ed accettato nel 1862 e nel 1874, quando il regno di Annam cedette le province del delta del Mekong ai colonizzatori, che le chiamarono Cocincina.
A nulla valsero le proteste del re cambogiano, il giovanissimo Norodom Sihanouk, che ne richiedeva la restituzione: «La Francia ha ricevuto tutti i territori del Sud Vietnam dalla corte di Hue e con essi il diritto di condurre operazioni militari contro i mandarini annamiti e non contro le autorità khmer. […] La storia contraddice la tesi secondo cui la parte occidentale della Cocincina fosse, al tempo dell’arrivo francese, soggetta alla corona khmer», si legge in un documento inviato a Sihanouk in cui le autorità coloniali respingevano la richiesta avanzata dal monarca.
La colonizzazione francese non fece altro che sancire il definitivo affrancamento della cosiddetta Cocincina dalla Cambogia, che venne confermato nel 1954, quando il Vietnam del Sud ottenne l’indipendenza inglobando la regione meridionale a maggioranza khmer.
La Seconda guerra del Sud Est asiatico divise politicamente anche i Khmer Krom: gli Stati Uniti e il governo di Saigon organizzarono i Khmer del delta nel Mike Force, il corpo militare che comprendeva le minoranze etniche addestrate a combattere i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, in cui invece confluirono le «Sciarpe bianche», i Khmer Krom del monaco buddhista Samouk Sen.
Le scelte del Vietnam
Dopo la vittoria del 1975, e ancora più dopo l’unificazione del Sud con il Nord nel 1976, il Vietnam, timoroso che l’omogeneità etnica delle popolazioni del Delta del Mekong potesse portare una rivendicazione delle regioni storicamente reclamate dalla Cambogia, adottò una politica di diluizione demografica, trasferendo milioni di Kinh (vietnamiti) verso Sud e concedendo loro larghe estensioni terriere e di sfruttamento da allevamento ittico che distrussero gran parte delle attività in precedenza appannaggio dei Khmer Krom.
I Khmer residenti in Vietnam iniziarono quindi a vedere i Khmer Rossi come possibile appoggio per le loro rivendicazioni e cominciarono a chiedere aiuto o asilo in Cambogia. Invece di trovare solidarietà, i Khmer Krom, sospettati di essere ormai troppo vietnamizzati, vennero sistematicamente massacrati. Solo dalla metà del 1978, quando Phnom Penh iniziò a guardare sempre con più attenzione quella che era definita dal governo come Kampuchea Krom e gli scontri di frontiera divennero più seri, i Khmer Rossi cercarono appoggi tra le comunità khmer oltrefrontiera.
La guerra che ne scaturì vide il Vietnam scalzare il gabinetto di Pol Pot dalla capitale dando inizio ad una guerra civile che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta.
Oggi, dopo le difficoltà e le discriminazioni verso le minoranze compiute dal governo di Hanoi, l’attenzione verso i diritti delle popolazioni minoritarie è cresciuta, grazie anche all’attenzione internazionale portata dalla presenza di diverse associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani.
Mancano comunque ancora le garanzie necessarie per la sopravvivenza della nazione Khmer Krom: la sola lingua riconosciuta ufficialmente dal governo è quella vietnamita e i Khmer in Vietnam sono spesso esclusi da posti pubblici. La vietnamizzazione include anche il cambio dei nomi, che devono essere traslitterati in vietnamita con una distorsione fonetica che spesso rende questi nomi difficilmente comprensibili agli stessi Khmer.
Nelle scuole si parla e si insegna vietnamita e con la crescente privatizzazione, le attività produttive appartengono o sono dirette da Kinh, che preferiscono escludere i Khmer dai posti dirigenziali. La percezione dell’inadeguatezza del carattere khmer nel condurre attività di amministrazione o di comando, già presente nella cultura kinh e rafforzata durante il periodo coloniale francese, è ancora comune e allontana sempre più la comunità dei Khmer Krom dalla vita economica, sociale e politica del paese.
La Chiesa buddhista
La Chiesa buddhista khmer, nel tentativo di mantenere vive le tradizioni della comunità khmer in Vietnam, organizza corsi di lingua khmer nei templi. La Costituzione vietnamita, pur garantendo la libertà di credo, aggiunge che «nessuno può utilizzare le fedi per contravvenire la politica e le leggi dello stato»2.
Questo porta a far intervenire le autorità governative che chiudono questi centri e a volte giungono anche a imprigionare gli stessi monaci, alcuni dei quali si sono rifugiati in Cambogia per evitare l’arresto. Inoltre, data la laicità dello stato, le Chiese non sono viste come tali, ma come organizzazioni religiose che devono confluire in associazioni controllate dal governo come la Viet Nam buddhist sangha (Vbs) in cui confluiscono i 454 templi khmer theravada della nazione3. La Vbs ha, tra le altre cose, la prerogativa di scegliere gli abati dei templi.
Il Cambodian people party di Hun Sen, che nel 1978 disertò dai Khmer Rossi rifugiandosi in Vietnam, ha sempre avuto buoni rapporti con Hanoi. Meno idilliaci, invece, sono le relazioni tra il Vietnam e le opposizioni cambogiane, in particolare con Sam Rainsy, il Funcinpec e il Cnrp, i quali hanno sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo khmer in versione antivietnamita per raccogliere consensi tra l’elettorato.
Piergiorgio Pescali
Note
I Kinh sono l’etnia maggioritaria del Vietnam, quelli chiamati impropriamente Viet.
Costituzione del Vietnam, Capitolo 5: Diritti fondamentali e doveri di cittadini, Articolo 70.
National Vietnam Buddhist Sangha, The 16th United Nations Day of Vesak Celebrations 2019.
Cambogia versus Thailandia
Le rovine contese di Preah Vihear
Le rovine di Preah Vihear, al confine settentrionale della Cambogia con la Thailandia, non sono note quanto quelle del sito di Angkor. I resti tra cui possiamo camminare oggi, risalgono principalmente al complesso templare costruito tra il 1000 e il 1150 da Suryavarman I e Suryavarman II. Dedicato inizialmente a Shiva, come lo furono anche la maggior parte dei templi di Angkor, divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Impero khmer.
Arrivarci oggi è abbastanza semplice, ma fino a pochi decenni fa l’accesso dalla Cambogia, entro i cui confini si trova il tempio, era molto più difficoltoso di quanto fosse da quello thailandese. Preah Vihear, infatti, si trova sull’altipiano dei monti Dângrêk e domina la pianura cambogiana da una scarpata alta 500 metri. Questa sua particolare posizione ha fatto sì che il tempio sia stato l’ultimo lembo di terra cambogiana difeso dalle truppe governative di Lon Nol conquistato dai Khmer Rossi nel 1975, ma in più occasioni ha creato anche un contenzioso con la Thailandia che ne reclama il possesso, specie dopo il 2008, quando il sito è stato inserito dall’Unesco nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità.
Bangkok rivendica la continuità geografica dello spartiacque naturale su cui poggia il tempio, mentre Phnom Penh si rivale della linea di confine tracciata dalla commissione francese nel 1907, la cui validità è stata riconosciuta nel 1962 dalla Corte internazionale di giustizia, a cui la Cambogia si era rivolta sperando di porre termine alle pretese del vicino. In totale, l’area contesa è di 4,6 chilometri quadrati, ma il problema ha assunto un carattere di propaganda nazionalista sia dall’una che dall’altra parte.
Nazionalismi e scontri
Nel 2011 le truppe dei due paesi confinanti si sono confrontate per diversi mesi in battaglie che hanno visto l’uso di artiglieria pesante e carri armati causando diversi morti e l’evacuazione di migliaia di civili.
Il conflitto da una parte ha destabilizzato l’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico fondata l’8 agosto 1967 proprio a Bangkok), a cui appartengono sia Cambogia che Thailandia, tra i cui compiti vi è quello di «promuovere la pace e la stabilità della regione»1, e dall’altra è servito a un terzo paese, l’Indonesia, per promuovere i propri interessi e uscire dal limbo di paese ai margini della politica internazionale, nonostante la sua preminenza geografica e demografica nell’associazione.
Secondo il trattato del 1904 stipulato tra la Francia (a cui la Cambogia era assoggettata come colonia) e il Siam, il confine avrebbe dovuto seguire lo spartiacque naturale, ma la commissione francese, incaricata nel 1907 di tracciare la frontiera, assegnò il tempio di Preah Vihear alla Cambogia.
La zona era allora disabitata, difficilmente raggiungibile e ritenuta poco importante dal Siam che non prestò attenzione al tracciato. Inoltre, mentre il confine dal mare fu marcato da 73 paletti per 600 chilometri, la frontiera lungo la zona di Preah Vihear venne disegnata solo sulle carte, visto che la commissione congiunta franco siamese non si addentrò sino al tempio.
Le prime discordie iniziarono nel 1954, quando le truppe thailandesi occuparono il sito fino al 1962, allorché la Corte internazionale di giustizia assegnò Preah Vihear a Phnom Penh, accettando la linea di confine tracciata dal trattato franco siamese del 19072.
Nei decenni che seguirono ci furono scaramucce e diverbi politici, ma fu principalmente dal 2006 che Preah Vihear divenne un motivo di scontro politico in Thailandia e, di riflesso, con la Cambogia. Il 3 ottobre 2008 iniziarono i primi scontri che si protrassero, tra momenti di pace e distensione, per i successivi tre anni. Hun Sen ne uscì decisamente rafforzato, sia perché sotto il suo governo la Cambogia aveva ottenuto un altro patrimonio Unesco, sia perché veniva visto come garante dell’integrità territoriale del paese3.
In Thailandia, invece, il caos politico in cui era precipitato il paese venne esasperato anche con la propaganda ultranazionalista delle camicie gialle del Pad (People’s alliance for democracy) contro il principale partito avversario guidato dalla famiglia Shinawara, che aveva legami politici ed economici con Hun Sen4.
Situazione in sospeso
Nel gennaio 2011 la Thailandia iniziò la costruzione di una strada carrozzabile sul territorio conteso e gli scontri furono inevitabili. Nonostante la contrarietà dell’Asean, la Cambogia portò la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che diede all’Indonesia il compito di mediare tra i due contendenti. A causa dell’opposizione della Thailandia, la missione indonesiana non venne mai alla luce e, anzi, gli scontri aumentarono d’intensità. Solo dopo le elezioni thailandesi del 3 luglio 2011, che videro la vittoria di Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, le relazioni tra i due paesi si fecero meno rigide. La questione di Preah Vihear è oggi di nuovo messa a tacere, ma rimane comunque pronta ad esplodere appena se ne presenterà l’occasione.
P.Pes.
Note
The Asean Declaration (Bangkok Declaration), Bangkok, 8 Agustus (sic) 1967, Articolo 2, paragrafo 2.
Case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), ICJ Reports , 15 giugno 1962.
Survey of Cambodian Public Opinion, International Republican Institute, 22 ottobre-25 novembre 2008, 31 luglio-26 agosto 2009.
Thaksin Shinawara, il principale esponente della famiglia, fu per un certo periodo consigliere speciale del governo di Hun Sen e la Cambogia rifiutò la sua estradizione in Thailandia.
Hanno firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sud Est asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È autore dei libri: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, Nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015), La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019), Capire Fukushima (Lekton, 2021), Cappuccino bollente senza schiuma (Porto Seguro, 2021), Il pericolo nucleare in Ucraina (Mimesis, giugno 2022). Da anni è un assiduo collaboratore di MC.
Dopo il golpe del primo febbraio 2021, il Myanmar è tornato al passato. Un generale è al potere, la leader Aung San Suu Kyi è agli arresti e i numerosi conflitti interni al paese sono di nuovo esplosi.
In Myanmar, stragi, massacri e processi non si arrestano. Nel silenzio del mondo, la giunta militare al potere continua la repressione iniziata con il golpe del primo febbraio 2021. Ma la resistenza non si arrende, soprattutto quella delle milizie etniche, da sempre parte attiva contro i soprusi dei militari.
L’esercito, comandato dal generale Min Aung Hlaing, non risparmia nessuno, spara ad altezza uomo durante le manifestazioni, uccide operatori sanitari e giovanissimi. Dal colpo di stato di un anno fa è in corso una repressione che include esecuzioni e torture, caratteristiche di un ritorno del vecchio regime. L’ultimo brutale episodio è avvenuto nello Stato Kayah, al confine con la Thailandia. Nella «strage di Natale» hanno perso la vita almeno trentacinque civili nel tentativo di fuggire dagli scontri in corso nel villaggio di Mo So tra i gruppi di resistenza armata e l’esercito birmano. I corpi sono stati ritrovati nelle auto bruciate. Tra le vittime ci sono anche due membri dello staff della Ong Save the children.
Tre settimane dopo, il 10 gennaio, un tribunale di Naypyitaw (o Nay Pyi Taw) ha condannato Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e dominatrice delle elezioni parlamentari del novembre 2020, ad altri quattro anni di prigione per possesso illegale e importazione di walkie talkies e per aver trasgredito alle norme anti Covid. Complessivamente, alla leader birmana sono imputati una dozzina di capi d’accusa. È opinione generale che le modalità dei processi contro di lei siano del tutto illegali, delle vere e proprie farse, come ha commentato Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Proteste popolari e nuove tecnologie
La spirale di violenza in cui si ritrova il paese asiatico non pare destinata a ridursi: il dissenso arriva dalle campagne, dai piccoli villaggi di montagna fino alle proteste in città. I gruppi armati etnici formano un fronte comune col resto dell’opposizione. La prima differenza sostanziale tra le rivolte attuali e quelle avvenute nel 1988 (terminate con la vittoria dei militari) è la tecnologia, che ha aiutato la comunicazione alimentando la protesta collettiva e sviluppando, soprattutto nei giovani, una consapevolezza maggiore sulle violazioni dei diritti umani comprese quelle nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Il popolo birmano sta cercando di superare le storiche divisioni etniche per non soccombere a coloro che non hanno rispettato l’ultimo voto democratico, e spinge a continuare il decennio di libertà di cui ha goduto dalla transizione democratica iniziata nel 2011.
Le tre dita alzate in cielo (utilizzate anche per le proteste in Thailandia e Hong Kong) sono divenute il simbolo del movimento civile di disobbedienza. Subito dopo il colpo di stato, migliaia di persone si sono riversate in strada pacificamente e in prima linea si sono ritrovati anche medici e operatori sanitari che, pur consapevoli di dover dare priorità ai pazienti in ospedale, non hanno rinunciato a mobilitarsi organizzando delle cliniche mobili e dei servizi di ambulanza per i feriti nelle proteste. Il personale sanitario da subito ha deciso di boicottare gli ospedali gestiti dalla giunta dando vita al movimento dei «colletti bianchi». La Bbc ha riportato la testimonianza di un medico che riassume il sentimento collettivo della categoria: «Cinquant’anni di precedente governo militare non sono riusciti a sviluppare il nostro sistema sanitario e invece hanno inasprito povertà, disuguaglianza e cure mediche inadeguate. Non possiamo tornare a quella situazione».
Oggi, il Tatmadaw, com’è denominato l’esercito, teme di perdere autorità, non è più solido come in passato e sta subendo perdite e defezioni, oltre ad avere difficoltà a gestire i conflitti e la guerriglia etnica.
L’indipendenza dal dominio inglese e la formazione degli stati etnici
Storicamente etnicità e nazionalismo hanno una relazione molto stretta. Anthony Smith, uno dei maggiori studiosi del tema, ci ricorda che l’etnia è in costante ricerca di autonomia, unità e identità. Il conflitto con lo stato nazione può insorgere non quando le etnie richiedano statuti regionali piuttosto che autonomie locali, ma quando ritengono di possedere un’altra identità rispetto alla nazione. A livello mondiale, con il diffondersi della globalizzazione, la questione etnica non si è indebolita, ma anzi si è accentuata, favorita dalla perdita di presa da parte dello stato nazione.
Il Myanmar è un esempio di nazionalismo etnico de facto basatosi sull’idea che la nazione troverebbe la propria legittimazione nell’omogeneità etnica di coloro che la guidano (i Bamar, Burman nella narrativa inglese). L’opposizione delle altre etnie ha portato alla costituzione di un apparato nazionalista rappresentato dal Tatmadaw. La complessità del paese nasce dal numero delle minoranze etniche che popolano tutto il territorio birmano e che, dal giorno dell’indipendenza dal Regno Unito, aspirano o alla costituzione di una federazione o alla costituzione di diversi stati autonomi.
L’indipendenza è arrivata nel 1948, al termine di lunghe negoziazioni condotte dal generale Aung San (il padre di Aung San Suu Kyi, assassinato nel 1947), il quale aveva convinto i gruppi di minoranza ad aderire alla nuova Unione. Gli Accordi di Panglong (Panglong agreement) del 1947 schematizzavano i diritti delle minoranze e, in modo particolare, conferivano alle popolazioni Shan e Karenni la facoltà di staccarsi dall’Unione birmana dieci anni dopo l’indipendenza. Ma queste garanzie costituzionali non sono mai state completamente rispettate. L’indipendenza non ha portato ad avere un paese unito, al contrario ne ha esasperato la frammentazione, dando inizio a una serie di logoranti guerre etniche. Alcuni passi positivi sono avvenuti con il Nationwide ceasefire agreement (Accordo nazionale di cessate il fuoco) dell’ottobre 2015 e nell’agosto del 2020 quando l’allora leader Aung San Suu Kyi ha dato il via a incontri con le minoranze etniche – i nuovi colloqui di Panglong -, interrotti poi dal golpe militare del 2021.
Una storia di corsi e ricorsi
Ripercorrere la storia del paese aiuta a capire meglio gli attuali eventi che hanno reso endemica l’instabilità nel paese. Lo storico e scrittore birmano americano Thant Myint-U, ci ricorda che, per decenni, la storia dell’ex Birmania è stata descritta secondo una visione duale manichea che raccontava di una nazione divisa tra il dominio delle giunte militari e i movimenti per la democrazia e diritti umani, mentre la realtà è ben più complessa. Nel suo libro L’altra storia della Birmania, Thant Myint-U s’interroga se è possibile che il mondo abbia frainteso il Myanmar.
La tragicità dei corsi e ricorsi storici del paese ha fatto aprire tardi gli occhi al mondo, non in ultimo all’Occidente, che ha sempre avuto aspettative troppo alte e scontate: il Myanmar doveva essere il progetto democratico per eccellenza degli anni Duemila, un paese destinato ad avviarsi a una transizione democratica con un sicuro lieto fine.
I processi di transizione sono però delicati e richiedono decenni per consolidare un sistema democratico così come lo concepisce la maggior parte dei paesi occidentali, vale a dire con partiti politici in competizione, media liberi e libere elezioni. In Occidente occorre rimproverarsi di non aver avuto la visione d’insieme e di aver considerato la democrazia come un naturale decorso dopo la tirannia militare che ha sempre dominato la storia della Birmania. Questa miopia non ha permesso di interpretare i segnali di fragilità del paese: dai problemi strutturali della società birmana all’eredità scomoda del colonialismo, dalle persecuzioni dell’esercito allo scontro etnico e alla resistenza dei gruppi armati.
Timidi tentativi di cambiamento
Nel 2008, il Tatmadaw capisce la necessità di superare l’isolamento del Myanmar sulla scena internazionale e far rimuovere le sanzioni (all’epoca le più severe mai adottate contro qualsiasi paese del mondo, Corea del Nord inclusa), imposte per le violazioni dei diritti umani. In quell’anno viene concessa una nuova Costituzione (la terza nella storia birmana) che prevede elezioni multipartitiche. L’operazione per ingraziarsi l’Occidente – inclusa l’Unione europea – si conclude con la liberazione dagli arresti domiciliari, nel 2010, di Aung San Suu Kyi, The Lady, «La Signora», com’è sempre stata soprannominata. Premio Nobel per la pace, adulata in patria ma soprattutto dalla comunità internazionale (almeno fino allo scoppio della questione dei Rohingya), sulla Lady vengono riposte le speranze di un futuro democratico senza però considerare che lei non si è mai potuta liberare veramente dei suoi carnefici.
Nel 2012 Aung San Suu Kyi entra in parlamento, dopodiché nel 2015 il suo partito – la Lega nazionale per la democrazia – vince le elezioni, le prime libere e regolari per un’intera generazione di birmani.
A causa della restrizione costituzionale imposta dalla giunta militare che esclude dalla carica i candidati con coniugi o figli stranieri (il marito della Lady era un cittadino inglese), alla Lady non è possibile ricoprire la carica di presidente. Nel 2016, diventa così la leader de facto del governo, con il ruolo di «consigliere di stato». Ma, nonostante milioni di birmani abbiano votato contro l’Union solidarity and development party (Usdp), il partito dell’esercito, il vero potere rimane nelle mani di quest’ultimo: il 25% dei seggi parlamentari e il controllo dei ministeri chiave del paese, tra cui la difesa, gli affari interni e gli affari di frontiera.
Il golpe del febbraio 2021 riporta il paese nel passato e Aung San Suu Kyi è nuovamente privata della libertà. Le persecuzioni non riguardano più soltanto le minoranze, ma tutto il popolo birmano, unito nella rabbia per il ritorno alla violenza da parte del Tatmadaw.
Secondo i dati dell’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Assistance association for political prisoners, Aapp) almeno 1.503 persone sono già state uccise e più di 8.835 manifestanti e oppositori sono stati arrestati e incarcerati (dati al 31 gennaio 2022). Le inchieste della Bbc raccontano un modus operandi fatto di torture e sevizie da parte dei militari, alcuni dei quali anche minorenni. Come confermano le testimonianze raccolte, si sono verificate delle vere e proprie spedizioni punitive nei villaggi per coloro che si ribellavano al ritorno al potere dei generali. Corpi torturati e mutilati sono stati ritrovati nelle fosse comuni, tra cui il corpo di un bambino nei pressi del villaggio Zee Bin Dwin. Il colpo finale alla democrazia è stato quello di silenziare tutti i media locali e vietare l’ingresso ai giornalisti stranieri. Inoltre, lo scorso 14 dicembre, Radio free Asia ha riportato la prima morte ufficiale di un giornalista, il fotoreporter birmano Soe Naing, arrestato a Yangon, mentre documentava una protesta e morto in prigione a dicembre.
Detto questo, è evidente che la situazione del Myanmar non spiace a tutti gli attori, a cominciare dalla vicina superpotenza cinese.
Le nuove vie di Pechino
Situato nel cuore del Sud Est asiatico, il Myanmar occupa una posizione geopoliticamente strategica soprattutto per le nazioni con cui confina: India e Bangladesh a Ovest, Cina a Nord Est.
Fin dall’antichità, la Cina ha giocato un ruolo dominante in molti settori dell’economia birmana. Tra le montagne a Nord del paese si estendeva la storica rotta commerciale conosciuta come via della seta, che collegava il mondo cinese a quello indiano fino al Mediterraneo. Oggi, il progetto della nuova via della seta viene portato avanti sotto il nome di One belt one road. Ufficialmente, esso riguarda una settantina di paesi, che si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello di Pechino.
Le mire commerciali cinesi puntano al Golfo del Bengala (Oceano Indiano) e ai giacimenti di petrolio e gas del Myanmar, formando un corridoio economico che si estende da Ruili, nella provincia cinese dello Yunnan, attraversa Muse e Mandalay fino a Khyaukphyu nel Rakhine State e segue i gasdotti e gli oleodotti costruiti nel 2013 e nel 2017. All’estremità del percorso del Myanmar è previsto un porto e una zona economica speciale a Khaukphyu. Il collegamento con la città del Rakhine è importante per Pechino, in quanto consente alla Cina di trasportare rapidamente via terra petrolio e gas, oltre a beni e risorse prodotti a livello regionale e quindi meno costosi, aggirando la rotta marittima attraverso lo stretto di Malacca (tra Indonesia e Malesia). Gli oleodotti, già operativi, sono di proprietà della China national petroleum corporation (Cnpc) e della Myanmar oil and gas enterprise (Moge), entrambe grandi società statali. Inoltre, il progetto prevede la costruzione di una rete ferrovia Muse-Mandalay di 431 km, con costi stimati in nove miliardi di dollari, che collegherebbe il Myanmar alla rete ferroviaria cinese. Un’altra parte importante del corridoio commerciale sarà costituita da tre zone di confine. Le zone prevedono aree produttive e commerciali senza tassazione, hotel e servizi finanziari. Secondo un piano politico pubblicato nel 2019 dal ministero del Commercio del Myanmar (Silk road briefing), le località sarebbero Muse e Chinshewehaw nella parte settentrionale dello Stato Shan e Kan Pite Tee nello Stato Kachin.
L’Onu e la strategia cinese
Oltre al principale partner commerciale, la Cina si è rivelata per il Myanmar un indispensabile alleato politico in sede Onu. Utilizzando il suo seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Pechino ha protetto il paese da alcune sanzioni internazionali difendendo così i propri interessi economici. Come confermato anche dall’analista politico U Maung Maung Soe al giornale the Irrawaddy: «L’Occidente ha spinto il Myanmar tra le braccia della Cina, che non si arrenderà facilmente per portare avanti i propri piani strategici. Di conseguenza, è meglio trovare soluzioni pratiche per collaborarci».
Riguardo all’attuale crisi politica nel paese, la Cina – strategicamente – cerca di evitare ogni forma di coinvolgimento esplicito sia nell’appoggiare la giunta militare sia nel favorire una possibile resistenza armata, in quanto il suo scopo rimane quello di tenere il più lontano possibile un ritorno nel paese delle potenze occidentali.
Federica Mirto
Colonialismo e diatriba storico-lessicale
Due nomi, 135 etnie, tanti conflitti
Il termine «Myanma» appare per la prima volta in una incisione circa mille anni fa. Si attribuisce il suo significato originario alle genti che vivono nella valle dell’Irrawaddy, il principale fiume del paese. Nel corso dei secoli esse si proclamano Myama pyi (il paese Myanma) o Myanma naig-nga (Mynama, la terra conquistata). L’aggettivo «Bama» viene introdotto nel XVII secolo e deriva da Bamar (Burman) che indica il gruppo etnico maggioritario. Con l’arrivo dei primi europei il sostantivo «Birmania» si diffonde, mentre la colonizzazione inglese ufficializza il nome «Burma». In lingua birmana, il nome rimane Myama pyi1.
Da Burma a Myanmar
La denominazione del paese non causa polemiche fino al 1989, quando la giunta militare, dopo esser arrivata al potere con un colpo di stato, cambia ufficialmente il nome da Burma (Birmania) a Myanmar. La giustificazione ufficiale offerta è che il nome «Myanmar» include tutti i popoli indigeni. Altra ragione plausibile per questa scelta è la volontà di superare il passato coloniale. Ulteriori correzioni vengono fatte con i nomi delle città: per esempio, la città di Rangoon (Rangun), la più grande e nota del paese (già capitale), dopo il 1989 viene denominata Yangon. La polemica intorno all’utilizzo del termine Birmania o Myanmar assume un significato politico, sia all’interno del paese, sia nella comunità internazionale.
Come già accennato, «Burma» è stato imposto dai colonizzatori britannici e non rappresentava tutte le minoranze etniche. Tuttavia, secondo Aung San Suu Kyi e i suoi sostenitori, utilizzare «Myanmar» significherebbe approvare la scelta di una giunta militare e, di fatto, la sua legittimazione storica. A livello internazionale, il cambiamento non è stato riconosciuto all’unanimità: le Nazioni Unite e alcuni paesi, come la Francia, utilizzano il termine Myanmar; invece, Regno Unito e Stati Uniti (ma non i loro media) continuano ad usare il termine «Burma»2.
Nel corso del delicato processo di democratizzazione (oggi interrotto dal nuovo golpe militare) ci sono state, peraltro, alcune eccezioni. Per esempio, nel 2012 quando, durante una visita al paese asiatico, il presidente degli Stati Uniti in carica, Barack Obama ha usato sia «Burma» che «Myanmar». La stessa Aung San Suu Kyi ha utilizzato principalmente il termine «Myanmar» durante il suo primo discorso alle Nazioni Unite come rappresentante del paese, nel settembre 2016.
Non soltanto Bamar
Semplificando la questione, possiamo dire che Burma è termine legato alla prepotenza coloniale e Myanmar alla presenza di molte minoranze etniche stanziate lungo le regioni di confine, minoranze che da sempre lottano con i Bamar raccolti soprattutto al centro del paese e detentori del potere. È con esse che qualsiasi governo dovrà dialogare. Come, prima del golpe di febbraio 2021,
si era iniziato a fare attraverso il Nationwide ceasefire agreement (2015) e i nuovi colloqui di Panglong (2020).
Fe.M.
1 Than MyintU, The Hidden history of Burma, Atlantic Books London, 2020
2 In un articolo del 2018, l’Istituto per la pace degli Stati Uniti aveva spiegato che gli Stati Uniti non riconoscevano il cambio di nome perché era stato fatto senza il consenso dei cittadini e, pertanto, lo ritenevano illegittimo: https://www.usip.org/blog/2018/06/whatsnameburmaormyanmar
Le minoranze
Il calderone etnico e l’abbraccio cinese
I Bamar hanno le redini del paese, ma le altre 135 etnie non si arrendono. Sugli uni e sulle altre pesa l’interventismo della superpotenza cinese intenzionata a rafforzare il proprio dominio neocoloniale.
In Asia, si giocheranno molti degli equilibri geopolitici mondiali. Consapevole di questo, la Cina ha tutto l’interesse a mantenere il controllo sui 2.400 chilometri di frontiera che la separano dal Myanmar, dove risiedono alcuni dei principali gruppi armati delle diverse etnie. Come accennato, il gigante asiatico non prende posizioni dirette nella politica birmana, ma diplomaticamente pone le basi per instaurare una forma di neocolonialismo.
Per esempio, l’inefficiente gestione dell’emergenza pandemica dovuta al Covid-19 da parte della giunta militare ha portato Pechino a intervenire: fino ad oggi sono state consegnate più di tredici milioni di dosi di vaccino ai generali del Tatmadaw e più di diecimila vaccinazioni sono state fatte, a luglio, all’inizio della terza ondata, presso il quartiere generale del Kachin independence army (Kia) a Laiza, come riporta il colonello kachin Naw Bu (straitstimes.com).
Il colonialismo del «dividi et impera»
L’atteggiamento da parte della Cina ricorda le tipiche dinamiche instaurate dal colonialismo inglese: dividi et impera, ovvero andare a sfruttare le debolezze interne al paese per rafforzare il potere nelle proprie mani. Le conseguenze del sistema coloniale nel tessuto sociale e culturale di un paese rimangono nel tempo anche una volta cessato il rapporto tra gli stati coinvolti.
In Myanmar, la fase coloniale inglese iniziò nel 1824 come estensione del dominio coloniale dell’India. Fino al 1937, il paese fu infatti governato come provincia indiana. Gli inglesi instaurarono un sistema basato su due amministrazioni: Ministerial Burma e il Frontier area. Questa divisione diede inizio a un susseguirsi di episodi discriminatori portati avanti dai padroni inglesi: alcuni popoli vennero scelti come referenti principali e così s’iniziò a costruire un ordine sociale basato sull’appartenenza etnica e sull’esclusione, spianando la strada alle rivalità interne tra popoli che fino a quel momento non avevano sviluppato attriti o dissapori.
I gruppi etnici dei Karen, Kachin e Chin, in maggioranza cristiani, assunsero posizioni di rilievo, «a discapito di altri gruppi, ritenuti meno adatti a comunicare con l’Inghilterra e ad agire secondo le sue volontà» (Valeria Dell’Orzo, in istitutoeuroarabo.it) portandoli persino a combattere tra le file dell’esercito inglese contro quello giapponese nella Seconda guerra mondiale.
I Chin e il cristianesimo
Con il colonialismo arrivarono anche i primi missionari battisti che introdussero il cristianesimo nei villaggi abitati dal gruppo etnico chin, nella vasta catena montuosa che risale dal Myanmar occidentale fino al Mizoram nel Nord-Est dell’India. Oggi i Chin abitano l’unico stato del Myanmar a maggioranza cristiana (86% di cristiani, secondo il censimento governativo del 2014).
Riconoscibili per i loro tradizionali tatuaggi, come quasi tutte le etnie, anche i Chin hanno un proprio esercito (Chin defence force, Cdf), ma le loro proteste sono sempre state causate soprattutto dalle condizioni di vita molto precarie: mancanza di strutture sanitarie ed educative e di lavoro. Come riportato dal report della Banca mondiale e Undp condotto nel 2017, lo Stato Chin è il più povero del paese: sei persone su dieci vivono in condizioni precarie. Tanto che molti giovani uomini chin, nel disperato tentativo di sfuggire all’estrema povertà, si sono arruolati nell’esercito birmano. Un altro fattore che determina la mancanza di opportunità economiche è la totale assenza di infrastrutture, molti villaggi nello Stato Chin sono accessibili solo a piedi, tramite una rete di piccoli sentieri.
Inoltre, come altri gruppi etnici anche i Chin sono stati vittime del processo di «birmanizzazione» che, tra le diverse forme di discriminazione, prevede il divieto d’inserire la storia della loro etnia nei libri di scuola.
Alla fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta, le tensioni con il governo militare sono esplose: torture, stupri, arresti e lavori forzati ne sono state le conseguenze.
A gennaio 2022, la Chin human rights organization (chinhumanrights.org) ha riferito che i cristiani chin continuano a subire persecuzioni da parte del governo, inclusi sgomberi forzati, incendi dolosi, divieti di raduni religiosi e aggressioni. Oltre sessantamila Chin si sono rifugiati in India, dove continuano il loro destino di povertà con la popolazione locale.
Censimenti inaffidabili
La frammentazione etnica, il multiculturalismo e la diversità di credi religiosi rendono il Myanmar antropologicamente unico: centotrentacinque sono le etnie ufficialmente riconosciute. Tuttavia, non essendoci statistiche affidabili sulla popolazione, nessuno sa esattamente quanti gruppi etnici ci siano e quale sia la loro consistenza numerica.
I censimenti di riferimento sono due, entrambi controversi. Il primo è stato effettuato dagli inglesi nel 1931, il secondo dal governo birmano nel 2014 (29 marzo-10 aprile), in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa). I risultati di sintesi provvisori sono stati pubblicati nell’agosto 2014 dal ministero dell’Immigrazione e della popolazione. Questi risultati preliminari hanno censito 51.419.420 persone, tra cui circa 1.206.353 che non erano mai state contate, residenti in alcune parti degli stati Arakan, Kachin e Karen.
Numerose organizzazioni della società civile hanno criticato la codifica etnica nel censimento, sostenendo che fosse stata progettata senza un’adeguata consultazione, chiedendo pertanto la sospensione del censimento fino a quando non ci fosse stata la pace nel paese. Inoltre, nonostante le iniziali promesse, oltre un milione di Rohingya sono stati conteggiati come «altri» in quanto la definizione di «Rohingya» non era consentita. Infine, il censimento non ha contato i milioni di birmani che vivono fuori dal paese. Pertanto, la fiducia nelle cifre del governo rimane problematica, in particolare per quanto riguarda le dimensioni delle popolazioni etniche.
Dall’indipendenza ad oggi, i governi hanno cercato di esasperare un nazionalismo propagandistico e discriminatorio, basato sul privilegiare l’etnia dei Bamar, predominante nel paese (il 68% della popolazione, secondo il citato censimento del 2014).
I Bamar parlano il birmano (lingua ufficiale) e professano il buddhismo theravada. I vantaggi politici e sociali dei Bamar sono stati palesi anche nelle elezioni del 2015, che hanno inaugurato il breve periodo della transizione democratica con il volto di Aung San Suu Kyi, essa stessa di etnia bamar.
I Rohingya e gli errori della Lady
Negli ultimi anni, la maggior parte dei rifugiati – sia all’interno che all’estero (soprattutto in Bangladesh) – sono stati i citati Rohingya dello Stato Rakhine, minoranza etnica musulmana da sempre – ne abbiamo accennato – oggetto di repressione.
Nel 2016 e nel 2017, il Tatmadaw e le forze di sicurezza locali hanno organizzato una brutale campagna contro di essi, uccidendo migliaia di persone e radendo al suolo centinaia di villaggi. Gruppi per i diritti umani e funzionari delle Nazioni Unite sospettano che i militari abbiano commesso un genocidio.
Tanto che, a novembre 2019, il Gambia, paese africano distante 11.500 chilometri dal Myanmar ma a grande maggioranza islamica, ha intentato una causa internazionale contro il Myanmar presso la Corte internazionale di giustizia con sede a l’Aia (International court of justice, Icj), accusando il paese di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio.
Da parte sua, quando era al governo, Aung San Suu Kyi ha sempre negato che fosse in atto una pulizia etnica, pregiudicando in maniera importante la sua immagine virtuosa di premio Nobel per la pace e confermando che la giunta militare non aveva mai smesso di dirigere, da dietro le quinte, le azioni del neoeletto governo democratico. Peraltro, le prospettive di una democrazia giusta e rispettosa nei confronti delle minoranze etniche si erano esaurite anche con la Lady al potere non soltanto per la questione dei musulmani rohingya, ma anche per le altre minoranze etniche che non hanno ottenuto più vantaggi o più partecipazione politica. Nelle camere del parlamento, i Bamar detenevano il 60,2% dei seggi, i Kachin 1,2% e poco di più le altre minoranze, a eccezione dei Rohingya che, non avendo diritto al voto, non potevano avere rappresentanti all’interno delle camere. Dunque, anche con Aung San Suu Kyi al governo, il Myanmar aveva confermato di essere un’«etnocrazia».
Gli eserciti etnici
Le tensioni con i gruppi etnici hanno radici nel passato e sono state esacerbate dalla giunta militare al potere nel 1962, che ha ridotto i diritti delle minoranze alimentando interminabili conflitti armati con il Tatmadaw. Questo ha portato alla formazione di più di venti organizzazioni armate etniche e oltre a dozzine di piccoli gruppi di milizie, producendo quella che alcuni analisti hanno descritto come la guerra civile più lunga del mondo.
Le zone calde dove risiedono i movimenti indipendentisti sono principalmente quelle lungo i confini: nello Stato Rakhine, l’esercito buddhista pro-Rakhine (non Rohingya); nello Stato Kayin, i Karen; nello Stato Shan, lo Shan state army (scisso in due gruppi, Nord e Sud) e l’United wa state army (nato dal partito comunista e con base nell’etnia wa); nello Stato Kachin e parzialmente in quello Shan, l’esercito per l’indipendenza dei Kachin (Kia).
Dopo il golpe del febbraio 2021, secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la maggiore resistenza contro la nuova giunta militare si registra negli stati birmani a forte presenza cristiana: lo Stato Chin, abitato da una maggioranza di cristiani, e lo Stato Kachin.
I Kachin e il Tatmadaw
Dopo i Chin, la seconda minoranza cristiana presente in Myanmar sono i Kachin. Il numero esatto di questa etnia è sconosciuto a causa dell’assenza di dati affidabili. Tuttavia, la maggior parte delle stime suggerisce che potrebbero essere circa un milione. Di essi circa il 34% è cristiana, mentre la parte restante segue il buddhismo o l’animismo.
Con i Kachin le ostilità nascono ufficialmente nel 1961 con la formazione del Kachin independence army (Kia), creato dalla diserzione di militari kachin, precedentemente arruolati dall’esercito nazionale.
I Kachin sono una delle minoranze etniche che avevano firmato l’accordo di Panglong del 1947, e come tali avevano ricevuto l’approvazione per la creazione di un proprio stato separato, che si rifletteva nella prima costituzione della Birmania di recente indipendenza. Per un po’ questo era stato sufficiente per evitare insurrezioni immediate contro il governo. La situazione cambia drasticamente nel 1961, quando il buddhismo viene dichiarato religione di stato. Percepito come un affronto dai Kachin cristiani, si arriva alla creazione della Kachin independence organisation (Kio) e la sua ala militare, il citato Kia. L’ultima provocazione è il colpo di stato militare del generale Ne Win nel 1962, poiché il presidente eletto all’epoca è un Kachin, Sama Duwa Sinwa Nawng.
Anche i Kachin subiscono il fenomeno della «birmanizzazione» dell’esercito e delle istituzioni pubbliche. Con essa cresce un forte senso di discriminazione ed esclusione che alimenta la ribellione nelle aree kachin.
Nei primi anni dell’insurrezione, il Kio è in grado di controllare gran parte dello Stato Kachin. La situazione comincia a cambiare dopo il 1988 quando il «Consiglio statale per il ripristino della legge e dell’ordine» (Slorc) inizia a concludere accordi di cessate il fuoco con altri gruppi ribelli e, quindi, a concentrare le forze militari contro i ribelli kachin. La conseguenza è che, nel 1994 (Myitkyina, 24 febbraio), il Kio decide di stipulare un cessate il fuoco con la giunta, che gli consente un certo grado di controllo amministrativo nello Stato Kachin, sebbene tutte le terre e le risorse naturali rimangano sotto l’autorità del «Consiglio per la pace e lo sviluppo» (Spdc).
Secondo Human rights watch, l’accordo di Myitkyina, però, non pone fine alle violazioni dei diritti umani da parte di nessuna delle due parti. Il Kia – secondo gruppo armato etnico non statale del Myanmar – continua a reclutare bambini-soldato, mentre l’esercito birmano continua a utilizzare il lavoro forzato e a confiscare terreni.
Nel 1999 viene fondata l’Organizzazione nazionale kachin (Kno) con l’obiettivo di ripristinare un’autentica unione federale nel paese. Negli anni, il movimento nazionalista kachin è riuscito a creare una forte identità politica tra i diversi sottogruppi di Kachin che abitano la regione. Il Kio mantiene un’amministrazione civile che governa ancora una parte del territorio, operando come uno stato parallelo con propri dipartimenti di salute, istruzione, giustizia.
Accordi fittizi e lotta per le risorse
Tra il 2009 e il 2010, il governo centrale annuncia (mmpeacemonitor.org) che tutti i gruppi armati soggetti ad accordi di cessate il fuoco avrebbero dovuto trasformarsi in una forza di guardia di frontiera (Border guard forces, Bgf) sotto il controllo diretto dell’esercito birmano e rinunciando alla propria autonomia.
I Kachin respingono la proposta, affermando che la propria milizia non si sarebbe trasformata in un Bgf senza una soluzione politica alle cause del conflitto etnico. Ogni accordo di cessate il fuoco tra il Kia e l’esercito birmano va comunque in frantumi il 9 giugno 2011, quando l’esercito birmano attaccò un posto strategico del Kia dando inizio a una grande offensiva militare nello stato dei Kachin. Nei mesi successivi, il Kio perde il controllo di una parte significativa di territorio che aveva precedentemente controllato e amministrato. La presenza di risorse naturali, in particolare di giada, ha complicato la situazione. Le lotte per mantenere il controllo delle ricchezze locali hanno portato a continui combattimenti in alcune aree: i proventi delle miniere (insieme a quelli della droga) costituiscono un finanziamento a cui nessuno dei contendenti vuole rinunciare. Nel contempo, l’estrazione di risorse, la diffusa deforestazione e le dighe idroelettriche costruite nello stato dei Kachin hanno portato anche al degrado ambientale, alla distruzione dei terreni agricoli e all’ulteriore emarginazione della popolazione locale.
Raffreddare il calderone etnico
L’unica opportunità per risanare le sorti di un calderone etnico come il Myanmar sarebbe un vero dialogo tra le varie minoranze e l’élite dei Bamar. Di sicuro, le mosse della giunta militare al potere non sembrano presagire una simile svolta. A meno che gli alleati – con la superpotenza cinese e la piccola Cambogia, in primis – non convincano i militari di Naypyidaw.
Federica Mirto
Il buddhismo birmano
I due volti dello Sangha
La religione è uno dei fattori principali per identificare l’identità etnica, in alcune culture diventa anche il fattore essenziale. I politologi ci ricordano che la religione è una delle principali cause di conflitto dalla fine della guerra fredda (Bernard Lewis) e diventa un elemento esclusivo di discriminazione, anche in modo più significativo rispetto all’identità etnica per quanto riguarda il senso di appartenenza alla nazione (S.P. Huntighton). In base a questi principi, i leader politici invocano la loro lealtà verso una determinata etnia e religione rafforzando una coscienza nazionale a discapito delle minoranze.
L’arrivo del buddhismo
Il Myanmar è entrato in contatto con il buddhismo tramite gli scambi commerciali con l’India: il sovrano indiano Ashoka (304 a.C.-232 a.C.) inviava a Thaton (città dell’odierno Stato Mon) i monaci per diffondere il buddhismo. Nei secoli successivi, il clero buddhista ha assunto un’influenza cruciale per il popolo: i monasteri erano esentati dalle tasse e i giovani ricevevano un’educazione presso le strutture gestite dai monaci. La forte spiritualità si consacrava con la costruzione degli stupa (termine sanscrito che indica edifici votivi dove si conservano reliquie buddhiste), luoghi di devozione e preghiera, simbolo di identità religiosa. Troppo spesso però questa è stata strumentalizzata dai governanti, che si sono serviti della costruzione degli stupa e delle offerte per conquistare l’appoggio dei monaci. Politica e religione si sono incontrati ufficialmente quando il buddhismo è diventato religione di stato con il regno di Pakan nel 1044 e, in seguito, nel 1961 con il primo ministro U Nu fino al colpo di stato del 1962.
Strumentalizzazione e contaminazione
La politica ha strumentalizzato sempre più l’immagine del buddhismo birmano, il quale ne ha assorbito le contraddizioni andando a contaminare la sua natura pacifica.
Spinto dal processo di «birmanizzazione», il nazionalismo ha inevitabilmente innescato una cultura dell’odio verso specifiche minoranze religiose, legittimando movimenti e azioni violente. L’ideologia nazionalista è stata un’arma importante nelle mani della dittatura che ha ispirato intolleranza e marginalizzazione, cercando il costante consenso nella maggioranza del paese (circa 87,9%) che aderisce al buddhismo theravada (una delle due principali scuole di pensiero buddhista, diffusa anche in Sri Lanka, Cambogia, Laos e Thailandia).
Con il nazionalismo strettamente affiliato all’identità birmana sono nati slogan come «Essere birmano significa essere buddhista», ignorando le altre religioni presenti sul territorio come i cristiani (6,2%) e l’islam (4,3%). Una chiara volontà di mantenere esclusa la religione musulmana è stata assunta anche nelle elezioni democratiche del 2015, con colpevole complicità del partito di Aung San Suu Kyi: nessun musulmano ha avuto la possibilità di essere rappresentato nel parlamento lasciando l’87,3% dei seggi nelle mani della maggioranza buddhista e il 10,9% ai cristiani.
L’Occidente e l’iconografia buddhista
Quando, nei primi anni Novanta, il paese ha iniziato ad aprire (pur con varie limitazioni) le frontiere al turismo, l’immagine tipica con cui si sponsorizzava il Myanmar era spesso quella dei monaci vestiti con la loro tradizionale tonaca color zafferano. Oltre a essere diventati un simbolo per il turismo occidentale e cinese, i monaci hanno contribuito nell’attivismo politico del paese. Durante il periodo coloniale erano stati testimoni del movimento per la libertà della nazione e alcuni di loro avevano perso la vita nelle prigioni per mano degli inglesi. Sono stati poi in prima linea contro i militari nel 2007: ottantamila tra monaci e monache hanno manifestato per la democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi, in quella che è stata poi chiamata la «rivoluzione zafferano», riprendendo il nome dal colore delle loro vesti. Le proteste sono state represse nel sangue, ma hanno certamente attivato un processo di cambiamento attirando l’attenzione internazionale e, probabilmente, hanno contribuito a spingere i militari verso le prime riforme.
In Myanmar, il sangha (altro termine di origine sanscrita che indica la comunità dei monaci) ha però due volti: quello dei monaci martiri per la lotta dei diritti democratici rappresentati da U Gambira (ex monaco che fu guida politica e religiosa durante la «rivoluzione zafferano») e quello dei monaci islamofobi che hanno manifestato con violenza nei confronti dei Rohingya, guidati da Ashin Wirathu. Due personalità buddhiste opposte, ma entrambe con le loro esistenze legate al regime militare.
U Gambira è stato torturato, imprigionato per quattro anni e, dopo l’iniziale condanna a sessantotto anni di reclusione, è stato rilasciato durante l’amnistia di prigionieri nel gennaio 2012. L’ex monaco ha sofferto diverse malattie fisiche e disturbi di salute mentale: «Mi hanno negato ogni cura medica e lasciato senza documenti d’identità. Non c’era neanche un monastero disposto ad accogliermi e, per paura di rappresaglie del governo, sono stato costretto a spogliarmi degli abiti religiosi. Diciotto mesi dopo ho sposato mia moglie Marie e ci siamo trasferiti in Thailandia» (La Repubblica, 17 febbraio 2021). Oggi U Gambira vive con la famiglia in Australia dove gli è stato concesso l’asilo politico.
Ashin Wirathu e il movimento «969»
Gambira è convinto che il sentimento antislamico non era sostenuto dalla maggior parte del clero buddhista, ma portato avanti con fervore da Ashin Wirathu e i suoi seguaci perché sponsorizzati (anche economicamente) dai militari. Il monaco di Mandalay è diventato noto in patria e all’estero per i suoi discorsi nazionalisti e persecutori nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya e come leader del movimento «969». Il numero «969» rappresenta i «tre gioielli» della religione buddhista: le 9 virtù del Buddha, le 6 caratteristiche della pratica buddhista (Dharma) e le 9 caratteristiche della comunità dei monaci (Sangha). Nel 2012, il movimento si è trasformato in una vera e propria organizzazione, il Ma Ba Tha (traducibile con «Associazione per la protezione della razza e della religione»). Ashin Wirathu basava la propria campagna antislamica sostenendo che i musulmani avrebbero conquistato il Sud Est asiatico, proclamandosi protettore dell’integrità del buddhismo, dell’identità e razza birmana.
Non a caso, nel luglio 2013, Wirathu è stato soprannominato il «Bin Laden buddhista» dal settimanale Time, che gli ha dedicato una copertina intitolata «il volto del terrore buddhista».
L’esplosione dell’odio
L’istigazione all’odio da parte del monaco ha contribuito a incentivare le violenze nello Stato Rakhine (Arakan) dove risiedono i Rohingya di religione islamica. Nel 2012, la violenza tra le comunità è aumentata, uccidendo centinaia di persone e spingendo più di 140mila Rohingya nei campi per sfollati interni al paese e, nel corso degli anni a seguire, oltre 500mila nel vicino Bangladesh, che oggi ospita il campo di rifugiati più grande del mondo: Kutupalong a Cox’z Bazar. Anche il Dalai Lama, la più alta autorità del buddhismo tibetano, ha condannato il comportamento adottato nei confronti della comunità musulmana, ricordando che usare violenza in nome della religione buddhista è impensabile.
Nel 2017, la massima autorità buddhista del Myanmar ha vietato a Wirathu di predicare per un anno e nel 2018 Facebook ha cancellato la sua pagina per incitamento all’odio.
Il governo democratico dell’epoca lo ha accusato di sedizione e incarcerato nel novembre 2020. Il 6 settembre 2021, a sorpresa, Wirathu – che oggi ha 54 anni – è stato liberato dai militari tornati al potere. Nell’attuale momento storico, ci sono, pertanto, tutti i presupposti per un ritorno in auge dei gruppi nazionalisti buddhisti. Da una parte, la giunta militare cerca con ogni mezzo di costruirsi un’egemonia solida e un gruppo di sostenitori da manovrare, dall’altra molti monaci (tra quelli sopravvissuti) degli anni della «rivoluzione zafferano» non si sono mai veramente ripresi dalla repressione, o perché lasciati ad affrontare da soli i problemi psicologici causati dalla prigionia o perché costretti all’esilio.
Federica Mirto
La Chiesa cattolica
Cristiani nel mirino
Un’immagine fa il giro del mondo suscitando ammirazione e plauso, e facendo conoscere a tutti l’esistenza di una piccola ma vivace comunità cattolica in un paese a prevalenza buddhista. Una comunità che sta pagando un prezzo molto alto per il suo impegno a favore della riconciliazione e della pace.
La suora e la polizia
È un’immagine che arriva da Myitkyina, capitale del Kachin (uno dei sette stati del paese asiatico), il 28 febbraio 2021. Suor Ann Rose Nu Tawng, infermiera di 45 anni, s’inginocchia davanti a uno schieramento di polizia chiedendo di non sparare sulla popolazione e offrendosi come ostaggio al suo posto (MC 4/2021, p. 56).
Il gesto della suora della congregazione birmana di San Francesco Saverio ha un’eco mondiale. Il 17 marzo papa Francesco, alla fine dell’udienza generale, lo ricorda: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar». A fine anno, la Bbc inserisce suor Ann Rose tra le 100 donne simbolo del 2021.
Il cardinale e il generale
Il gesto di suor Ann Rose rispecchia l’atteggiamento di tutta la piccola Chiesa cattolica del Myanmar impegnata a difendere i più deboli, identificata com’è con diverse etnie minoritarie, e a promuovere pace e riconciliazione. Gesti simili a quello della suora vengono fatti da altri religiosi nel paese e vengono in qualche modo raccolti e portati sotto gli occhi dei militari dagli interventi del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, la città più importante, già capitale, e vice presidente della conferenza episcopale del paese (16 diocesi in tutto).
Dopo la profanazione di alcune chiese da parte di militari a caccia di ribelli, e gli arresti di alcuni sacerdoti, il cardinal Bo scrive un messaggio per l’Avvento 2021 nel quale denuncia la situazione di violenza nel paese e mette in guardia i fedeli dalla tentazione di cercare vendetta, ricordando che «c’è sempre una via non violenta, una soluzione pacifica».
Il 23 dicembre, com’è consuetudine, il cardinale accoglie allo scambio di auguri di Natale del personale dell’arcidiocesi di Yangon il senior general Min Aung Hlaing, che partecipa alla festa per la terza volta accompagnato da molti esponenti del Tatmadaw. Durante l’incontro, il generale e il cardinale hanno un momento di dialogo privato di cui non si conosce il contenuto. Le foto del taglio della torta di Natale vengono ampiamente diffuse dall’ufficio informazioni dei militari e raccontate da The Global New Light of Myanmar, il quotidiano ufficiale in lingua inglese dei golpisti, che vi dedica l’intera pagina 4 esaltando l’impegno dell’esercito per la pace nel paese.
Il giorno dopo, però, il 24 dicembre, i militari compiono un massacro nel villaggio di Mo So, che ha una forte presenza cristiana (vedi pag. 36). Almeno 35 persone, per lo più donne e bambini, sono uccisi, tra essi due operatori di Save the children. Il giorno di Natale vengono ritrovati i loro corpi carbonizzati all’interno di tre veicoli dati alle fiamme. Il 26, nella sua dichiarazione di condanna dell’accaduto, il cardinale Bo definisce il massacro un «indicibile e spregevole atto di barbarie disumano». Assicura la sua preghiera per le vittime e i loro cari. «L’intero nostro amato Myanmar è ora una zona di guerra», afferma facendo riferimento anche agli attacchi aerei nello stato di Kayin che hanno costretto migliaia di persone a fuggire oltre il confine con la Thailandia e ai bombardamenti a Thantlang, nello stato di Chin. «Quando finirà tutto questo? Quando cesseranno decenni di guerra civile in Myanmar? Quando potremo godere della vera pace, con giustizia e vera libertà? Quando smetteremo di ucciderci l’un l’altro? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: questa non potrà mai e poi mai essere una soluzione ai nostri problemi. Pistole e armi non sono la risposta».
L’ultimo intervento significativo del cardinale risale al primo febbraio, giorno del primo anniversario del golpe militare: «Basta armi, aiutateci a ricostruire la pace». E, rivolgendosi ai cristiani: «Sentiamo il vostro dolore, la vostra sofferenza, la vostra fame. Capiamo la vostra delusione, comprendiamo la vostra resistenza. […] A quelli che credono solo nella resistenza violenta diciamo: “Ci sono altri mezzi”».
Francesco e Aung San Suu Kyi
In Myanmar, il buddhismo è stato religione di stato in due occasioni (attorno all’anno mille, durante il Regno Pagan, e nel 1961-’62). La Costituzione del 2008 (sezione 361) gli ha invece attribuito una posizione speciale rispetto alle altre fedi religiose.
Con poco più del 6% dei birmani, il cristianesimo (battisti, anglicani e cattolici) è la seconda fede religiosa dopo quella buddhista. I cattolici sarebbero circa 750mila, in gran parte tra le minoranze etniche dei Karen, Kachin, Chin, Shan e Kayan.
Nel novembre del 2017, Francesco è stato il primo papa a visitare il paese, incontrando autorità civili, militari e religiose. Tra queste ultime anche il monaco Sitagu Sayadaw, leader dei buddhisti del paese asiatico, lontano dall’estremismo di Ashin Wirathu, il monaco di Mandalay, noto per le sue posizioni ultranazionaliste e antimusulmane. Durante quel viaggio, papa Francesco ha incontrato anche Aung San Suu Kyi, leader civile del governo, all’epoca molto criticata a livello internazionale per non aver difeso la minoranza dei Rohingya musulmani dello Stato Rakhine, oggetto di persecuzione (ma molti parlano di genocidio) da parte dell’esercito e dei buddhisti.
Per il Myanmar, anche il 2022 inizia sotto i peggiori auspici con pesanti attacchi dell’esercito negli stati etnici. Il 10 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico in Vaticano, Francesco ha detto: «Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar». Le sue «strade, che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera».
A metà gennaio, anche mons. Marco Tin Win, arcivescovo di Mandalay, è intervenuto ricordando che il paese sta affrontando «la crisi del Covid-19, la fame, le guerre civili e la tortura».
La redazione
Ha firmato questo dossier:
Federica Mirto – È laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma. Ha dedicato la sua tesi magistrale (in lingua inglese) al Myanmar: «The ethnic minorities in the democratic processes: the case of Myanmar and Rohingya». Ha svolto vari periodi all’estero: studio presso l’Università di Nantes (Francia), volontariato presso il monastero tibetano Pema ts’al Sakya di Pokhara (Nepal), volontariato presso Oxfam di Manchester (Gran Bretagna), tirocinio a Bruxelles (Belgio), lavoro a Cork (Irlanda) e Edimburgo (Scozia), volontariato a Tijuana (Messico). Oltre che per MC, pubblica articoli e foto per alcune testate online.
Ladakh, un viaggio dell’anima
Testo e foto di Daniele Romeo |
Il Ladakh è indiscutibilmente uno dei luoghi più belli in cui viaggiare e sperimentare sensazioni profonde. È un luogo che ha qualcosa da offrire a tutti, che si tratti di un appassionato di fotografia, un amante della natura o anche di qualcuno alla ricerca del vero significato della vita.
Nel grembo del maestoso Himalaya, il Ladakh è la terra della bellezza paesaggistica incontaminata, della spiritualità autentica e della natura umana più genuina.
Gran parte del paese si trova a un’altitudine superiore a 3.500 metri. Da molti è definito «Piccolo Tibet» per via della sua somiglianza morfologica, religiosa, culturale e architettonica con il Tibet. Costituisce la più grande provincia dell’India settentrionale ed è un centro spirituale del buddhismo tibetano. È anche sede di una larga comunità islamica.
Una bellezza mozzafiato
Spesso chiamato «la terra dei passi di montagna», si trova in India nella regione frastagliata del Jammu Nord occidentale e del Kashmir. La regione è circondata da catene montuose ed è nota per le sue splendide vedute himalayane. Il paesaggio arido, roccioso e aspro, è punteggiato da monasteri (gompas) e da strutture bianche a forma di cupola, chiamate stupa, contenenti reliquie buddhiste. Alberi e campi verdi e rigogliosi, sapientemente irrigati dal popolo Ladakhi con l’acqua dei torrenti glaciali, segnano gli insediamenti umani. Bandiere di preghiera tibetane pendono da ponti, cortili e recinzioni, mosse dal vento.
Il Ladakh è noto per essere autosufficiente, producendo gran parte del proprio carburante, cibo e acqua. Tuttavia, il recente rapido aumento del numero di visitatori ha minacciato questa regione ecologicamente fragile. Gli hotel di nuova costruzione consumano sempre più l’approvvigionamento idrico, già compromesso dal lento scioglimento dei ghiacciai; allo stesso tempo orde di turisti inquinano in maniera irresponsabile un’area incontaminata solo fino a un decennio fa.
Un regno Indipendente
Un tempo regno indipendente lungo la Via della Seta, il Ladakh è stato fortemente influenzato dalle vicine terre del Tibet e dai regni musulmani a Ovest (in particolare Kashmir e Turkestan orientale, ora provincia cinese dello Xinjiang). Come il Tibet, ha abbracciato il buddismo, introdotto da vari missionari indiani e monaci erranti. Mentre il Tibet è rimasto chiuso all’influenza straniera, il Ladakh ha svolto un ruolo importante nel commercio della regione. I suoi mercati erano un crocevia di mercanti che portavano con sé molte religioni e culture diverse. E sebbene lo stesso Ladakh abbia affrontato la sua dose di sconvolgimenti politici, oggi ospita anche oltre 3.500 rifugiati dal Tibet.
Un anno fa, nel 2019, l’India ha approvato un disegno di legge, noto come J&K Reorganization Bill, che ha riscritto la geografia dell’estremo stato settentrionale di Jammu e Kashmir, dividendolo in due territori indipendenti: il Ladakh e il Jammu e Kashmir. Questa decisione ha ricostituito il Ladakh come territorio autonomo, separato dal resto del Jammu e Kashmir. Nonostante questa mossa abbia raccolto critiche diffuse sia dall’interno che dall’esterno dell’India, è servita a garantire al paese una nuova identità che lo distingue geograficamente, amministrativamente e demograficamente dalle regioni vicine come uno dei territori, insieme a Sikkim e Arunachal Pradesh, con la maggior diffusione del buddismo in India.
Mentre le montagne del Ladakh collegano letteralmente terra e cielo, gli antichi monasteri forniscono un ponte spirituale tra il passato e il presente. La cultura e le tradizioni promuovono il concetto di interdipendenza e sostenibilità: due ragioni per cui le persone hanno prosperato per migliaia di anni in un ambiente pur ostile e difficile.
Il viaggio
Un viaggio in Ladakh non è per tutti. Ci sono centinaia di chilometri di terra arida e nessun segno di insediamento umano. Bisogna adattarsi costantemente al clima e imparare sul campo dopo ogni tornante.
Non si tratta semplicemente di raggiungere la meta. È come il viaggio della nostra vita, dove impieghiamo la maggior parte del tempo per raggiungere la destinazione finale ma se non ci piace il percorso, difficilmente può avere un qualche senso.
Un viaggio in Ladakh è fatto per godere del percorso, per innamorarsi delle strade, delle curve, dei sentieri sconnessi, delle difficoltà, del caos che provoca un solo camion che si incrocia, delle frane. Sbalordirsi nel vedere le strade ad altezze che si pensavano irraggiungibili, sentire la bellezza di paesaggi lunari.
Un luogo mistico. Infinite montagne rocciose, decine di monasteri, paesaggi spettacolari, temperature sotto lo zero, notti stellate, fiumi imponenti, laghi azzurri come se qualcuno li avesse dipinti, ma soprattutto persone straordinarie. Un paradiso in terra.
Ci sono emozioni che non si possono esprimere a parole. Conoscere culture remote è una di queste. Il Ladakh è un’altra, e per questo esiste la fotografia.
Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.
A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».
All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.
Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.
La storia di Eee
Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».
«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.
Spiritualità e terapie
Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.
Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.
«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».
Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».
Storia e numeri
Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».
Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.
I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».
A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».
Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.
Pazienti dall’estero
I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».
«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».
A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».
Luca Salvatore Pistone
Buddhismo: Tra Oriente e Occidente
È la corrente più antica del Buddhismo. Quella della liberazione dall’eterno ciclo morte-rinascita, praticata dai monaci della foresta. Dalle sue tecniche meditative nasce in Occidente la «Mindfulness», per una maggiore consapevolezza di emozioni e pensieri. Con l’idea di aumentare la qualità della vita.
«Ho rivelato la scienza che distrugge le radici della vita e della morte. Dopo di me questa scienza non morirà con me, ma continuerà perenne nel pensiero e, esteriormente, nella pratica del giusto operare e del retto intendere».
In queste parole del Buddha (in italiano anche Budda) storico troviamo racchiusa una saggezza profonda, che mette in luce come i suoi insegnamenti siano sviluppati in modo da oltrepassare confini geografici e culturali, andando oltre l’epoca in cui vennero diffusi. Non conosciamo l’esatto anno della nascita del Buddha, si ritiene che il periodo da considerare sia quello che va dal 536 al 563 a.C.
Sappiamo con certezza che egli discendeva da una famiglia nobile, della stirpe degli Shakya, e che visse presso Kapilavastu, l’attuale area di Lumbini, in Nepal (un sito protetto dall’Unesco dal 1997 proprio per la sua importanza a livello storico-filosofico). Il padre, il re Suddhodana, e la madre Maha-Maya gli diedero il nome di Siddharta. La sua vita, almeno fino all’età di 29 anni, fu caratterizzata dalla prosperità, lontano dalle sofferenze del mondo. In questa prima fase della sua vita Siddharta si dedicò con grande impegno allo studio di testi religiosi e di poemi classici. Nonostante tutte le attenzioni del padre e la protezione di chi gli era accanto, qualcosa a un certo punto cambiò, come era stato profetizzato. Infatti, Siddharta ancora bambino, oltre a essere stato presentato al tempio del dio Abhaya – come era consuetudine per l’epoca nella regione in cui nacque l’induismo – ricevette la visita del saggio Asita, il quale annunciò al re Suddhodana che suo figlio sarebbe diventato o un grande imperatore o un asceta che avrebbe liberato il mondo dalla sofferenza. Fu per questa profezia che Siddharta venne tenuto all’oscuro dai mali che affliggono il genere umano.
Nel mondo reale
Verso i 30 anni però, il suo impulso in direzione della ricerca spirituale lo spinse a varcare la porta del palazzo reale. Povertà, malattia, morte si mostrarono a lui nel loro più freddo e inquietante aspetto. Fu così che il velo dell’ignoranza venne squarciato e Siddharta comprese la vanità dei piaceri terreni e la vacuità della vita. Abbandonò – come Francesco d’Assisi secoli dopo e ad altra latitudine – agi, vesti nobiliari, lasciò la famiglia e il palazzo reale per abbracciare una vita da asceta errante. Per anni si dedicò alla pratica meditativa e diventò così un bodhisattva, un essere sulla via dell’«Illuminazione». Si nutriva pochissimo, talvolta – narra la leggenda – con un solo chicco di riso al giorno e spesso rimaneva così assorto nella sua meditazione da non curarsi dei bisogni del corpo. Dopo anni scanditi da preghiere, ritiri meditativi, privazioni e annullamento dei sensi, Siddharta divenne un «Illuminato», scoprendo «la Via di Mezzo» e realizzando la vera natura del mondo fenomenico (ovvero così come appare per il tramite delle esperienze sensoriali). Predicando ed errando, il Buddha giunse a Sarnath e qui, nel parco delle Gazzelle, pronunciò il suo primo sermone, col quale mise in moto la ruota del Dharma. Attorno al Buddha accorsero allievi, che poi divennero suoi discepoli e coloro che formarono la prima comunità monastica buddhista (Sangha). Verso il 483 a.C. a Kushinagar, avvenne il suo Parinirvana, la morte fisica, ovvero l’estinzione completa, quindi l’assenza di ulteriori rinascite.
Il Nirvana e le correnti
L’Illuminato non lasciò alcun testo scritto. La sua più importante eredità furono i discorsi che udirono i suoi discepoli e che poi vennero sistematizzati in una serie di raccolte. Dopo la morte del Buddha vennero organizzati diversi Concili che misero in luce differenti interpretazioni dei suoi insegnamenti. Il primo grande Concilio di anziani cercò di formulare alcune norme, ma nel corso del secondo emersero contrasti al riguardo. Fu in questa fase di transizione che sorsero varie correnti all’interno del buddhismo. Le più note sono quella Mah?y?na, quella Vajray?na e quella Therav?da.
Il buddhismo Mah?y?na, chiamato del «grande veicolo», costituisce lo sviluppo del buddhismo in senso filosofico e mistico. Strutturata in forme meno rigide, la scuola Mah?y?na pone al centro la compassione universale e il ruolo del bodhisattva, colui che agisce per liberare tutti gli esseri dal ciclo di morte e rinascita. È presente in Cina, Vietnam, Corea, Giappone, Nepal, in Tibet ed è ormai molto diffusa anche in vari monasteri edificati in Occidente.
Il buddhismo Vajray?na, detto anche «la via del diamante», è la corrente che più si è concentrata sulle pratiche rituali e sulla mistica. Si è affermata verso il VI sec., diffondendosi prevalentemente in Tibet, ma anche in Nepal, Cina e Giappone. Questa corrente esoterica attribuisce importanza centrale alla ripetizione di formule sacre (dette mantra) per raggiungere l’Illuminazione.
Abbiamo poi la tradizione Therav?da, che è la corrente buddhista più antica; i suoi seguaci ritengono infatti che racchiuda gli insegnamenti che ricalcano in modo originario le parole del Buddha.
Le tre correnti buddhiste hanno in comune diversi elementi, primo fra tutti l’idea della liberazione degli esseri dall’eterno ciclo di morte e rinascita, ovvero il samsara, la ruota della vita (un concetto che troviamo anche nell’induismo). Questo ciclo è causato dal karma, cioè dalle azioni compiute in vita. Solo compiendo azioni virtuose e percorrendo un cammino spirituale si può spezzare, raggiungendo la liberazione finale.
Le varie correnti buddhiste hanno inoltre in comune cinque importanti precetti a cui ogni monaco o anche buddhista laico deve conformarsi. Queste regole sono: astenersi dall’uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente; astenersi dal prendere ciò che non ci è stato dato; astenersi da una condotta sessuale irresponsabile; astenersi da un linguaggio falso o offensivo; astenersi dall’assumere bevande alcoliche e droghe. Queste sono le norme basilari di un cammino lungo, che permette al praticante di andare oltre la sofferenza.
La corrente Therav?da
Il buddhismo Therav?da, conosciuto anche come scuola buddhista meridionale o H?nay?na (del piccolo veicolo), è presente in Sri Lanka, Laos, Cambogia, Birmania e Thailandia. Therav?da è una parola pali che significa «Dottrina dei più anziani dell’Ordine» o «Via degli Anziani», un nome derivante dalla stretta aderenza all’insegnamento originale e alle regole di vita monastica che il Buddha ha trasmesso. Nella dottrina Therav?da è fondamentale il concetto di liberazione del singolo dall’eterno ciclo di morte e rinascita: ciò significa che è l’individuo stesso, una volta comprese le cause della sofferenza come il desiderio, l’ignoranza (intesa come non conoscenza della realtà) e gli attaccamenti, a dover agire compiendo azioni virtuose per raggiungere il nirvana. La corrente Therav?da è caratterizzata al suo interno da una tradizione ancor più rigorosa, che è quella dei monaci della foresta. Si tratta di un sentirnero sviluppatosi soprattutto in Sri Lanka. Infatti, su quest’isola gli insegnamenti Therav?da sono stati conservati e protetti in modo particolare: fu qui che venne trascritto su foglie di palma il Canone Pali, sino ad allora tramandato solo in forma orale da monaco anziano a novizio, per evitare che potesse andare perduto. Il Canone Pali è anche chiamato Tipitaka, che in lingua pali significa «tre canestri» e comprende il Vinaya-pi?aka, relativo alle regole comportamentali e morali dei monaci; il Sutta-pi?aka che contiene varie raccolte di discorsi del Buddha; e l’Abhidhamma-pi?aka, più incentrato sulla filosofia buddhista. La tradizione Therav?da dei monaci della foresta è la più antica, essendo quella che più si attiene agli insegnamenti primigeni del Buddha. Questo sentirnero è detto anche dei «monaci morti in vita», poiché come pratica spirituale prevede l’abbandono dello stile di vita mondano: i monaci eliminano qualsiasi attaccamento e qualsiasi oggetto, incluso in molti casi anche il documento d’identità, a eccezione della ciotola e della veste. I jungle temples (gli eremitaggi della foresta) sono i luoghi dove i monaci vivono, studiano e praticano la meditazione dormendo in grotte naturali.
Mindfulness immaginale
Il buddhismo Therav?da negli ultimi decenni ha conosciuto un’espansione anche in Occidente per effetto dei suoi insegnamenti centrati sulla pratica meditativa. Molti laici si sono avvicinati a queste conoscenze per migliorare la qualità della loro vita, partendo da tecniche meditative buddhiste che calmano la mente e conducono a una maggiore consapevolezza delle emozioni e dei pensieri. Alcune ricerche scientifiche hanno infatti dimostrato come la meditazione buddhista produca numerosi effetti positivi: per esempio, sviluppa una mente dinamica, aumenta la creatività e stimola una sorta di risveglio mentale. Ciò è possibile poiché la meditazione agisce sulle sinapsi cerebrali e sulla produzione di endorfine, acuendo intuizione e gioia, come dimostrato da vari studi. Tra questi ricordiamo quelli compiuti dallo psicologo statunitense Richard Davidson (vedi bibliografia), il quale ha inserito la meditazione nella lista degli esercizi che allenano il cervello a sviluppare connessioni neuronali portatrici di felicità.
Da queste ricerche si è sviluppata in particolare negli ambienti statunitensi la Mindfulness, ovvero la meditazione applicata alle neuroscienze e alla psicologia, con l’intento di sanare stati psicofisici – quali ansia e angoscia – particolarmente dilaganti nella società contemporanea. In ambito europeo è sorta la Mindfulness immaginale, la quale, rispetto alla Mindfulness che viene dagli Stati Uniti, costituisce un passo ulteriore di avvicinamento della meditazione alla psicologia e alla psicoterapia. La Mindfulness immaginale unisce la tradizione orientale Therav?da all’approccio immaginale, ed è stata sviluppata da Selene Calloni Williams, scrittrice e documentarista esperta di filosofie orientali, insieme a Gotatuwe Sumanaloka Thero, monaco eremita buddhista. Era il 1982 quando Selene incontrò per la prima volta l’allora giovane novizio buddhista, il quale abitava in una grotta nell’eremo della foresta di Abharana, in compagnia del venerabile maestro Ghata Thera. Fu con loro che Selene imparò tecniche meditative legate alla tradizione Therav?da. L’impegno di Selene Calloni Williams e di Gotatuwe Sumanaloka Thero è rendere la meditazione fruibile a tutti, senza però snaturarne il carattere profondamente spirituale (temi approfonditi nel libro Mindfulness Immaginale, Edizioni Mediterranee, 2016).
In questo contesto, la parola mindfulness si allinea in modo specifico al termine sati, che in pali significa «consapevolezza», ovvero «attenzione cosciente». La Mindfulness immaginale si ispira da un lato ai principi della tradizione Therav?da, dall’altro, come suggerisce il nome, si rifà al movimento immaginale, che prende l’avvio in Occidente con la psicologia analitica e prosegue nella psicologia archetipica. Nella visione immaginale il corpo e il mondo sono interni alla psiche. «Il movimento simbolo-immaginale attinge alle psicologie immaginali d’Occidente e d’Oriente. L’efficacia del paradigma simbolo-immaginale sta nella sua capacità di favorire una percezione attiva degli eventi. A mezzo dell’applicazione della visione immaginale è possibile riappropriarsi della realtà come di un’emanazione della propria psiche e trovare in sé le energie per agire su questa emanazione in termini costruttivi», afferma Selene Calloni Williams. L’approccio immaginale unito alla filosofia Therav?da porta l’individuo ad abbandonare la gabbia dell’Io e a raggiungere il Sé: solo così si va oltre i comuni parametri mentali di vantaggio, svantaggio, piacere e dolore. In pratica il giudizio è sospeso. La visione di sé e del mondo è di assoluta equanimità.
Tra Oriente e Occidente
Il cammino della Mindfulness immaginale prevede un protocollo specifico denominato Imaginal Mindfulness meditation approach knowing and seeing strutturato in ?sana (posture yoga), pr?n?y?ma (tecniche di respirazione), meditazioni quotidiane ed esercizi di risveglio. Se attuato in maniera regolare questo percorso produce una serie di benefici, sia a breve, sia a medio lungo termine: praticando la Mindfulness immaginale le onde dei pensieri si stabilizzano, si tranquillizzano e otteniamo la pacificazione della mente; sviluppiamo e affiniamo l’attenzione cosciente; impariamo a vivere in una condizione priva di pensieri dicotomici, come bello/brutto, buono/cattivo; viviamo nell’assenza di giudizio; riusciamo a trasvalutare, cioè ad attribuire un diverso giudizio di valore agli eventi e a ciò che ci accade. I problemi, i disagi sono amici, poiché permettono di vedere gli attaccamenti inconsci e liberarci da essi. La trasvalutazione ci aiuta ad allentare tutti i condizionamenti sociali, culturali, familiari che ci portiamo dietro.