A proposito di Brexit: a che punto siamo?

Testo di Francesco Gesualdi


Nel Regno Unito ci sono oltre 9 milioni di stranieri (600mila italiani) su un totale di 66. La guerra degli indipendentisti dell’Ukip contro l’Unione europea è iniziata da questo dato. Una guerra vinta con il referendum che, nel giugno 2016, ha sancito l’uscita del paese dall’Europa: la Brexit. Da allora tutto si è però bloccato. Nel frattempo, ci sono state le nuove elezioni europee del 26 maggio.

Nel Regno Unito il movimento indipendentista fa la sua comparsa nel 1993 con la nascita dell’Ukip, United Kingdom Independent Party. A fondarlo sono alcuni fuoriusciti del partito conservatore che, oltre a non sopportare l’idea di dover sottostare alle decisioni prese da una realtà sovrannazionale, sono anche convinti che le regole europee siano dannose per gli interessi inglesi. Ci vogliono però venti anni per arrivare al successo elettorale: alle europee del 2014 l’Ukip raggiunge il 27,5% dei voti aggiudicandosi il titolo di primo partito inglese (sotto la guida di Nigel Farage, poi uscito per fondare, a poche settimane dal voto del 26 maggio scorso, il «Brexit Party», ndr). E se ottiene un così alto consenso non è per merito delle argomentazioni usate in ambito giuridico ed economico ma per la capacità di far presa sulle ansie del popolo inglese. Gli strateghi del marketing elettorale sanno che non è parlando alla testa delle persone che si ottengono voti, ma rivolgendosi al loro stomaco, e nel 2014 hanno buon gioco a battere questa strada considerato il clima di insicurezza che si respira da un capo all’altro d’Europa.

La colpa è degli stranieri

Benché siano già passati sei anni dal collasso dei grandi gruppi bancari, l’onda della crisi non si è ancora esaurita e ovunque si contano i danni, anche in Inghilterra. La disoccupazione, che nel 2007 era al 5,3%, ha raggiunto l’8,1% nel 2011 e nel 2013 era ancora al 7,6%. Intanto gli studi sulla povertà raccontano di una situazione sociale ancor più preoccupante. Un rapporto, pubblicato nel 2014 dal Poverty and Social Exclusion in collaborazione con The Open University, certifica che in trenta anni la percentuale di famiglie al di sotto dello standard di vita minimo è passata dal 14 al 33%. Più in specifico: 18 milioni di persone non  possono permettersi un’abitazione adeguata, 12 milioni sono troppo povere per avviare qualsiasi attività economica, una su tre non riesce a scaldare a sufficienza la propria casa, 4 milioni, fra adulti e bambini, non mangiano in maniera appropriata. Ma Ukip sa a chi attribuire la responsabilità delle sofferenze inglesi: la colpa è degli stranieri che possono insediarsi con troppa facilità in Inghilterra. Una colpa che dimostra con l’aiuto dei numeri: fra il 2004 e il 2017 la presenza di stranieri (sia quelli nati all’estero che quelli nati in Inghilterra da genitori stranieri) è quasi raddoppiata passando da 5,3 a 9,4 milioni. A livello nazionale rappresentano il 14% della popolazione con punte che in certe aree arrivano al 50%. E se in passato ai porti inglesi si presentavano prevalentemente africani ed asiatici, ora arrivano soprattutto cittadini dell’Unione europea che non hanno bisogno di visti per oltrepassare la frontiera inglese. L’Office of National Statistics conferma: in Inghilterra la comunità straniera più numerosa è quella polacca con quasi un milione di persone. Seconda è quella rumena con mezzo milione. Quella indiana, che caratterizzava l’immigrazione del secolo scorso, ormai arriva terza con poco più di 300mila persone. Per Ukip ce n’è abbastanza per concludere che i mali degli inglesi vengono dall’appartenenza all’Unione europea e che solo abbandonando l’Unione potranno essere risolti.

Euroscettici (da sempre)

L’Ukip non è la sola a pensarla così. In Inghilterra l’adesione all’Unione europea è sempre stata una questione controversa che ha generato divisioni in ogni partito. E ogni volta è stato un referendum a decidere quale scelta compiere. La prima volta è successo nel 1975 per decidere se confermare o meno l’adesione dell’Inghilterra al Mercato comune avvenuta due anni prima. Poi è successo di nuovo nel 1998 per chiedere al popolo inglese se voleva adottare la moneta unica. E se nel primo caso gli europeisti avevano vinto due a uno, nel secondo sono stati gli euroscettici a vincere con l’84% dei voti. Una linea sostenuta principalmente dai conservatori a dimostrazione di quanto questo partito sia sempre stato tentennante rispetto all’Europa. Con la nascita dell’Ukip gran parte del dissenso è migrato, ma una parte è rimasto nel partito conservatore ed è montato fino al punto che, nel gennaio 2013, David Cameron, segretario del partito, ha promesso che, se la sua formazione politica avesse ottenuto la maggioranza parlamentare alle elezioni politiche del 2015, avrebbe indetto un referendum per chiedere al popolo inglese se voleva o meno rimanere in Europa. Promessa temeraria perché Cameron era pro Europa, ma sperava che, con alcune  rinegoziazioni, il popolo si sarebbe espresso per il sì e ciò gli avrebbe permesso di mettere finalmente a tacere il dissenso interno. Il referendum del 23 giugno 2016 è stato però vinto da chi voleva lasciare – ecco la famosa «Brexit» – con un vantaggio dell’1,9% dei voti. Cameron ha abbandonato ogni carica e al suo posto è diventata primo ministro Theresa May, il cui compito principale è stato di gestire il divorzio con l’Unione europea. Compito però non semplice, perché, al di là della retorica legata al problema migratorio, i problemi veri sono quelli economici, sapendo che ogni settore presenta le sue peculiarità e quindi le sue esigenze talvolta più propense a mantenere legami con l’Unione europea, talvolta a reciderli del tutto.

Le imprese e la Ue

In linea di massima le imprese britanniche hanno un rapporto di amore-odio con l’Unione europea. Di amore perché è un mercato protetto, quindi sicuro. Di odio perché costringe a sottostare a regole non sempre gradite e perché fa correre il rischio di perdere mercati di altri paesi dal momento che l’adesione all’Unione europea non permette di stipulare accordi basati su regole diverse da quelle fissate dall’Unione. Come dire: non permette di cogliere le occasioni di nuovi mercati che si possono aprire in un mondo in continua trasformazione. Non a caso, appena si è saputo che aveva vinto la Brexit, gli Stati Uniti si sono precipitati a proporre al paese di stipulare un accordo di libero scambio (confermato da Trump nella visita londinese dello scorso giugno).

Per dimostrare come l’Ue sia una palla al piede dell’industria britannica, piuttosto che un’opportunità, l’Institute of Economic Affairs (Iea), un centro studi di dichiarata fede antieuropeista, cita come esempio il «Reach», il regolamento adottato nel 2006 che impone all’industria chimica di applicare misure molto severe per garantire che le sostanze prodotte, importate, vendute e utilizzate nell’Unione, siano sicure. «I test e le procedure imposte dal regolamento sono un aggravio di spese per le imprese, riducono i margini di guadagno e mettono le piccole imprese fuori mercato» lamenta l’Iea in un opuscolo intitolato «Plan A+». E conclude: «Il risultato è che alcune imprese hanno trasferito la produzione all’estero e hanno depennato l’Unione europea dal proprio mercato, danneggiando non solo se stesse, ma la stessa Ue che corre il rischio di aumenti di prezzi a causa di una minor concorrenza dovuta alla riduzione di aziende chimiche presenti nel suo mercato». Di regole considerate soffocanti per le imprese, l’Iea ne cita anche altre, come quelle sul rispetto dei dati personali, sul funzionamento dei porti o sugli obblighi di trasparenza imposte alle imprese finanziarie. Di qui il monito al governo inglese di stare molto attento alle nuove relazioni che imbastirà con l’Unione europea.

Nigel Farage / foto Gage Skidmore-2018

L’articolo 50 e il nodo del confine irlandese

Allo stato attuale la Gran Bretagna deve affrontare due nodi. Il primo, più urgente, è come impedire che l’uscita dall’Unione blocchi l’economia inglese considerato che è totalmente costruita su un rapporto di interscambio con essa. Il secondo, di più largo respiro, come costruire le future relazioni con l’Unione europea. Due snodi chiave visti con molta apprensione soprattutto dal settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi speculativi) che in Inghilterra contribuisce al 10% del Pil, impiega 2,3 milioni di persone ed è il principale settore di esportazione che genera un attivo nella bilancia dei pagamenti uguale a quello di tutti gli altri settori messi assieme.

L’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, che definisce le procedure da seguire in caso di separazione, concede due anni di tempo per la messa a punto di un accordo provvisorio che permetta di continuare la convivenza senza scossoni, in attesa che le due parti stabiliscano i criteri su cui vogliono costruire i loro rapporti futuri. Il governo inglese ha comunicato in maniera ufficiale la sua volontà di abbandonare l’Ue il 29 marzo 2017, per cui l’uscita sarebbe dovuta avvenire il 29 marzo 2019. In realtà è stata posticipata al 31 ottobre 2019 perché il Parlamento inglese non ha approvato l’accordo provvisorio stipulato fra Theresa May e la Commissione europea. Il nodo del contendere è la frontiera fra l’Irlanda di Belfast (sotto giurisdizione inglese) e l’Irlanda di Dublino. Attualmente è come se non esistesse frontiera perché ambedue i territori fanno parte dell’Unione europea. Ma un domani, con regole diverse esistenti nei due territori, si imporrebbero controlli e dazi per impedire passaggi di persone e merci  non conformi a una delle due legislazioni. L’unico modo per tenere la frontiera aperta è che tutta l’Irlanda sia assoggettata alla stessa legislazione. Ma quale: quella dell’Unione europea in vigore nell’Irlanda di Dublino o quella nuova che adotterà Londra? Alla fine May ha accettato la così detta «clausola backstop»: indipendentemente dalla legislazione che adotterà la Gran Bretagna, nell’Irlanda del Nord si continueranno ad applicare le regole dell’Ue. La maggioranza dei parlamentari britannici ha però ripetutamente bocciato l’accordo, considerando questa soluzione una violazione della sovranità nazionale. Se dovesse continuare l’opposizione del Parlamento inglese al Trattato di separazione provvisorio e neanche l’Unione europea dovesse accettare di modificarlo, la prospettiva sarebbe quella di un’uscita del Regno Unito senza accordi. Una prospettiva che molti considerano catastrofica perché la posizione di milioni di persone non  britanniche diventerebbe irregolare, mentre la circolazione di persone, merci e servizi cadrebbe nel caos.

Nel frattempo, Theresa May ha annunciato (24 maggio 2019) le dimissioni e il Brexit Party di Nigel Farage ha vinto le elezioni europee. Per sapere come finirà non rimane che attendere i prossimi eventi.

Francesco Gesualdi




Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.

«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.

E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.

Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.

C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.

A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».

Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump  – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.

Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD

Le richieste di Trump e la reazione del Congresso

Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.

Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.

I primi cinque paesi toccati dall’aiuto estero statunitense (foreign aid, una categoria che non coincide esattamente con l’aiuto pubblico allo sviluppo monitorato dall’Ocse) sono Israele (3,1 miliardi), Egitto (1,39 miliardi), Giordania (1 miliardo), Afghanistan (783 milioni) e Kenya (639 milioni)@.

Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.

«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.

La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Tagli effettivi

Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.

A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».

«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».

Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit

Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).

Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.

  • La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
  • La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
  • La terza tendenza, infine, potrebbe essere uno spostamento verso il basso dei temi dello sviluppo nell’agenda politica@.

Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».

Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

Chiara Giovetti