Raccontare liberazioni. Teologia e femminismo brasiliani


Le storie di alcune donne cristiane impegnate per la liberazione propria e delle loro comunità narrano di un modo di essere Chiesa. Incontriamo l’autrice di un libro che, descrivendo alcune esperienze del passato, vuole aprire a buone pratiche per oggi e domani.

Neide Furlan, nata il 14 marzo 1957, è una donna brasiliana. Quando Viviana Premazzi, autrice del libro Per una società e una Chiesa senza esclusioni, la incontra nel 2005, vive nella diocesi di Lages, nello stato di Santa Catarina, zona Sud del Paese: uno dei territori più poveri dove la terra è nelle mani di pochi latifondisti.

L’ingiustizia è la radice dell’impoverimento della popolazione, e la condizione subalterna delle donne fa parte della situazione generale di oppressione.

Neide, moglie di un sindacalista camponeso (contadino), ha capito che la lotta per la terra e la dignità è diversa se si è donne o uomini. E, osservando la situazione attorno a sé, ha deciso di impegnarsi anche lei per i diritti dei contadini, in particolare per quelli delle donne camponesas.

Per anni è coordinatrice regionale del Movimento de mulheres camponesas (Movimento delle donne contadine).

Il suo impegno l’ha portata a prendere una laurea in storia. Pensa, infatti, che per lavorare nei movimenti sociali sia necessario conoscere il passato e i meccanismi che hanno generato l’ingiustizia. Non una storia generale, però, ma una storia specifica, di un luogo e di persone precisi. In particolare, pensa che la riscoperta delle storie di alcune donne che in passato hanno avuto ruoli di liberazione per i loro popoli possa aiutare la lotta delle donne del presente.

Data la sua formazione cattolica e il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base (Cebs) approfondisce anche le figure femminili presenti nella Bibbia, perché crede che la Parola liberi.

I lavoratori rurali protestano davanti al Ministero dell’Agricoltura (José Cruz/Agência Brasil)

Neide, Romilda e le altre

La storia di Neide è contenuta nel libro di Premazzi, pubblicato nel 2023 da Effatà editrice con il sottotitolo Teologia e femminismo in Brasile.

Assieme alla sua, l’autrice racconta anche la storia di Romilda che, a sua volta ispirata dall’esperienza delle Cebs, dalla teologia della liberazione e dalle donne della Bibbia, si impegna nella società e nella Chiesa per la liberazione della donna nelle vesti di leader di comunità, catechista, ministra della Parola e dell’eucaristia, animatrice di un gruppo famiglia.

Marione, invece, è una suora della Divina Provvidenza che lavora con le donne del barrio São José proponendo corsi di cucito, di teologia e di Bibbia, perché esse acquistino maggiore dignità e rispetto da parte degli uomini della comunità.

Proprio come Neide, anche Viviana Premazzi, lombarda, 43 anni, ha raccolto e raccontato le storie di alcune donne brasiliane per fare – ci dice – la sua parte nella costruzione di una società e una Chiesa senza esclusioni.

Pur pubblicandolo nel 2023, l’autrice ha lavorato sul materiale del libro nel 2005. Ha conosciuto Neide, Romilda, Marione e molte altre persone impegnate per la liberazione degli oppressi, durante un viaggio in Brasile per la sua tesi di laurea in Scienze politiche. Una volta laureata, ha lasciato decantare il testo finché non ha incrociato una ragazza induista e il suo scoraggiamento nei confronti della condizione delle donne nelle religioni. «In occasione di un evento interreligioso a Roma – scrive Premazzi nell’introduzione -, una ragazza di religione induista […] ha detto che non ci sarebbe mai stato nulla da fare per le donne nelle religioni, perché sono intrinsecamente misogine ed escludenti, perché perpetuano una cultura di sottomissione, violenza ed oppressione […]. Le sue parole mi hanno catapultato a vent’anni fa […]. Ho chiesto la parola […] e le ho detto che […] capivo benissimo quello che stava vivendo e che l’avevo vissuto anche io e che questa ricerca mi aveva portato in Brasile a cercare, scoprire e trovare un altro modo di vivere la religione e di essere Chiesa per le donne […]». A quel punto ha deciso che valeva la pena riproporre quelle esperienze ai lettori di oggi.

Viviana Premazzi durante la presentazione del suo libro presso il Cam di Torino. © Marco Bello

Tanti «Brasili»

Ci colleghiamo online con Viviana Premazzi poco prima dell’inizio dell’estate. Si trova a Malta, dove vive dal 2018, ma è in procinto di «scappare»: quando l’isola si riempie di turisti, preferisce andare altrove.

Nata a Venegono Inferiore (Va), Viviana è da sempre impegnata in ambito sociale ed ecclesiale.

Nella quarta di copertina si legge su di lei che «ha un dottorato in sociologia delle migrazioni e un master in gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi. Ha lavorato come ricercatrice, consulente e formatrice per organizzazioni, università e centri di ricerca in Europa, Nord America, Africa e Medio Oriente». Nel 2018 ha fondato a Malta il Global mindset development, una società di consulenza sul dialogo interculturale e interreligioso al servizio di aziende, Ong, enti pubblici, scuole, università, per «aiutare a formare – dice – una mentalità inclusiva e globale».

Le domandiamo come è nata la sua relazione con il mondo missionario e con il Brasile.

«Conosco i missionari Comboniani fin da piccola – risponde -. Quando sono partita per il Brasile per la tesi, sono andata tramite loro. In quegli anni ho incontrato anche i Missionari della Consolata grazie a suor Angela Puricelli che mi ha fatto conoscere i progetti che padre Giordano Rigamonti faceva nelle scuole della mia zona tramite l’Associazione Impegnarsi serve. Poi mi sono trasferita a Torino dove ho lavorato per il Fieri, il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione, per l’Università di Torino, la Banca Mondiale e l’Oim, sempre sul tema delle migrazioni, seconde generazioni, identità, culture. Nel 2009 sono tornata in Brasile con i Missionari della Consolata per raccogliere materiale da usare poi nelle scuole. Sono stata a Catrimani con gli Yanomami e a Raposa con i Macuxì. Nei miei viaggi ho scoperto che esistono tanti “Brasili”. La prima volta sono andata a Rio Grande do Sul, al forum sociale di Porto Alegre, la seconda volta sono andata per la tesi nella diocesi di Lages, a Santa Catarina, la terza volta in Amazzonia, a Salvador de Bahia, a Fortaleza, a Vittoria, poi in Paranà e infine di nuovo in Santa Catarina».

Chiesa e liberazione

Viviana racconta che la sua ricerca sulla teologia femminista è nata in risposta a un suo sentimento di disagio: «Ero una giovane donna impegnata nel mondo ecclesiale, associativo, ecc. Stavo bene, ma, allo stesso tempo c’era qualcosa che mi mancava, che non mi tornava. Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre ho sentito parlare di teologia della liberazione, e ho capito che quella poteva essere una risposta alle mie domande. Ho deciso quindi di fare la tesi su una delle sue declinazioni: la teologia femminista, e mi ci sono buttata. Ho scoperto, così, e approfondito la realizzazione di una Chiesa strumento di liberazione per gli oppressi».

Assemblea diocesana a Lages, 2005. ©Viviana Premazzi

Donne nella diocesi di Lages

La conoscenza di una realtà specifica come quella della diocesi di Lages è stata fondamentale per lei, per vedere come la teologia femminista della liberazione si fosse incarnata nella vita di persone e comunità.

«Un comboniano mi ha messa in contatto con Maria Soave Buscemi, una missionaria laica italiana, una teologa, che ha vissuto tutta la vita in Brasile. A Lages ha lavorato molti anni per la diocesi e poi fondato, insieme ad altri, e anche con il sostegno di realtà italiane, il Centro ecumenico di studi biblici che molto ha fatto e continua a fare.

L’incontro con Soave è stato fondamentale: lei viveva come le persone, tra le quali stava, e io sono potuta entrare nelle comunità da eguale, non come una che andava per aiutare.

È stata Soave a permettermi di conoscere molte donne impegnate a livello ecclesiale che avevano trovato il loro empowerment in una certa modalità di lettura della Bibbia e di vivere la comunità. Donne impegnate a livello sociale. Donne impegnate in politica».

L’accaparramento da parte di pochi ricchi delle risorse fondamentali del territorio, l’acqua e la terra, provoca ancora oggi nella diocesi di Lages un forte impoverimento della popolazione. Ai tempi delle ricerche di Viviana, la Chiesa locale affrontava la povertà tramite l’esperienza delle comunità ecclesiali di base che incarnavano la teologia della liberazione diventando scuole di partecipazione ecclesiale, sociale e politica.

Oggi, ci dice Viviana, la vita delle diocesi è cambiata: quella di Lages era una delle ultime fedeli alla teologia della liberazione, ma nel tempo, per vari motivi, tutti i movimenti si sono raffreddati. Non sono spariti, ma sono diventati più sotterranei, e l’unica esperienza sopravvissuta ufficialmente è il Centro ecumenico di studi biblici, nonostante Soave oggi sia nel Mato Grosso.

Raccontare le donne

Chiediamo a Viviana in che modo le storie di Neide e delle altre donne parlano del patriarcato e della teologia femminista della liberazione.

«Per quanto riguarda la riflessione sul patriarcato, ad esempio, l’attenzione di Neide alla storia locale è un elemento fondamentale. Io, ad esempio, sono di Venegono Inferiore, un paesino nel quale da qualche anno si stanno riscoprendo alcune storie di streghe locali. Queste rappresentano un’occasione per riflettere non solo su come le donne sono escluse, ma anche su come vengono raccontate. Le ricerche storiche hanno mostrato che esse, dopo essere state sfruttate da alcuni signori locali, a un certo punto sono state accusate di stregoneria per interessi politici.

La riscoperta della storia locale sotto questo profilo è un insegnamento che Neide e le altre mi hanno lasciato».

Oltre al modo in cui le donne sono raccontate, per Viviana è importante riflettere anche sul modo in cui le donne sono escluse dal racconto della storia. «Anche nella Bibbia succede qualcosa di simile. Se io non vedo raccontate altre donne come me nella Bibbia e nella storia, penso di essere sbagliata a volere stare in questa storia. Ed è facile farmi sentire sbagliata se oggi decido di avere un ruolo, perché in qualche modo mi viene detto che io, in quanto donna, un ruolo non ce l’ho.

La cosa rilevante, secondo me, del lavoro fatto da persone come Neide, è la volontà di portare alla luce il ruolo delle donne, e di dirlo ad altre, oltre all’impegno diretto nella Chiesa, nei movimenti, nella politica».

La teologia femminista è stata il contesto ecclesiale nel quale le esperienze di Neide e delle altre hanno trovato casa. La lettura della Bibbia sperimentata nelle comunità ecclesiali di base, a volte condotte da coppie, altre volte da donne, è stata uno degli strumenti di emancipazione. In questo senso, ci dice Viviana, le storie di queste donne parlano della teologia femminista.

Presentazione del libro al Cam, il centro Cultures & Mission dei Missionari della Consolata a Torino. Da sinistra: Monica Pairone (Effatà editrice), Viviana Premazzi e Maria Chiara Giorda, professoressa associata di Storia delle religioni l’Università Roma Tre. ©Marco Bello

Stare con gli oppressi

Nel suo libro, Viviana Premazzi dedica uno spazio molto ampio, i primi tre capitoli, ad approfondire cosa è la teologia della liberazione e la sua declinazione femminista. Domandiamo all’autrice di darci qualche indicazione sintetica. «L’idea di fondo – risponde – è che una persona non è povera per colpa sua, ma perché vive una situazione di oppressione. Allora l’obiettivo della Chiesa è quello di aiutare questa persona a liberarsi. Riprende l’immagine della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto sotto la guida di Mosè.

Il passaggio fatto dalla teologia femminista è questo: la condizione di sfruttamento socio economico non è la stessa per gli uomini e per le donne, così come la teologia indigenista afferma che l’oppressione subita dai popoli nativi ha i suoi caratteri specifici, la teologia nera parla della condizione degli afrodiscendenti, e così via.

La domanda che queste teologie suscitano è: “Da dove deriva la mia situazione di oppressione socio economica, o di genere? Come attuare la liberazione?”».

Gli strumenti sono, oltre alla riflessione teologica, quello della lettura della Parola e quello della comunità. «Dalla teologia della liberazione nascono le comunità ecclesiali di base: la teologia non è una cosa che si fa da soli, ma assieme, e partendo dal basso, come accadeva alle prime comunità cristiane. Partendo dal suo popolo, la Chiesa si deve domandare: “Stiamo con i potenti o con i poveri?”».

Comunità ecclesiali di base

immagine raffigurante la Chiesa di Lages. Il pinhão, frutto dell’albero simbolo della regione, il pinheiro araucaria. © Viviana Premazzi

Viviana ci racconta che il titolo del suo libro ricalca quello delle linee guida per la diocesi di Lages consegnate alla curia nel 2005 dalla rete delle Cebs dopo un processo partecipativo. «Quando hanno presentato queste linee guida intitolate “Per una società e una Chiesa senza esclusioni”, la curia voleva togliere il termine “Chiesa”. Ma le comunità hanno insistito perché il cammino dell’inclusione anche nella Chiesa è ancora lungo.

Il primo nucleo delle comunità sono le famiglie, cioè il luogo delle relazioni affettive. In quelle zone in Brasile la maggior parte delle famiglie sono composte da donne sole con i figli, quindi i gruppi di famiglie sono spesso gruppi di donne.

La leadership è a rotazione, e ciascuno porta il suo talento. Le decisioni vengono prese in modo partecipativo. Nelle Cebs esiste anche la decima, un’autotassazione per sostenere, oltre alle attività ecclesiali, anche le persone bisognose all’interno della comunità».

Retroutopia

Il libro di Viviana Premazzi è composto da cinque capitoli: i primi tre sulla teologia della liberazione, il quarto, sulla diocesi di Lages al tempo del viaggio dell’autrice, il quinto su alcune figure di donne.

La teologa Maria Soave Buscemi, nella prefazione, parla del testo di Premazzi prima paventando il rischio che esso proponga una «retrotopia» – il racconto di qualcosa di bello, ma morto -, poi parlando di «retroutopia» – il racconto di un passato che può far scorgere nel presente simili segni di liberazione -.

«Anche io inizialmente avevo paura che il libro fosse retrotopia – conclude l’autrice -: cioè il racconto di una cosa bella, ma appartenente al passato, finita nella forma in cui l’avevo conosciuta. Un bel ricordo.

Però è fondamentale continuare a riflettere. Guardare indietro serve per sognare e pianificare qualcosa per l’oggi e il futuro. Anche per riconoscere le stesse cose che adesso magari hanno altre forme e non sono ancora state riconosciute.

Quello che racconto nel libro, che ha una collocazione spazio temporale precisa, non è un unicum. Esiste da altre parti. E dobbiamo parlarne».

Luca Lorusso

 




Brasile. I «tifosi» di Santa Barbara


Al Nordest del Brasile si trova Salvador de Bahia de Todos los Santos. È in questa città che si tocca con mano l’eredità africana del Paese. Abbiamo assistito alla cerimonia religiosa afrobrasiliana in onore di Santa Barbara – Iansã.

Salvador Bahia. Il quartiere di Pelourinho – nome che, in portoghese, indica la «gogna» che veniva usata per legare e frustare le persone schiavizzate – è un quartiere dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Raccoglie tracce importanti dell’architettura coloniale locale del XVII e XVIII secolo. In esso, dicono le guide, si trovano più di trecento chiese.

Una di esse è quella di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri), la cui costruzione durò quasi cento anni e che è uno dei simboli del sincretismo religioso e culturale della città brasiliana.

La resistenza degli schiavi

È proprio qui che il 4 dicembre scorso ha avuto luogo la celebrazione in onore di Santa Barbara, martire dei primi secoli dopo Cristo (terzo e quarto) che la tradizione colloca tra la Turchia e l’Italia. La festa cattolica si unisce a quella dei fedeli dell’umbanda in onore di Iansã, un’orixá (divinità afro) dei culti afrobrasiliani.

Abbiamo partecipato all’intera giornata di celebrazioni per vedere in prima persona una ritualità nata in epoca coloniale dalla popolazione nera schiavizzata come esercizio di resistenza e di conservazione delle sue radici religiose e culturali.

La festa per Santa Barbara – Iansã ha inizio alle prime luci dell’alba quando, di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos, tutto comincia a colorarsi di rosso e bianco: petali di rose rosse ricoprono le strade del quartiere, rossi e bianchi sono i vestiti dei pellegrini e dei commercianti, rosse e bianche le collane, i palloncini, i chioschi, le ghirlande di fiori, i tappeti e ogni ornamento portato in dono per celebrare questa santa a due facce.

Per questo, fin dalle cinque del mattino, di fronte alla chiesa, sono appostati i venditori di rose, così come i commercianti che vendono una miniatura della santa che cerca di riprodurne lo splendore.

Una devota di Santa Barbara – Iansa in adorazione davanti alla chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, Largo do Pelourinho (4 dicembre 2023). Foto Diego Battistessa.

Dal mondo degli Yoruba

La figura di Iansã, sotto nomi e forme diverse, si può far risalire a una divinità del popolo Yoruba, originario del sud della Nigeria, Benin e Togo. È una delle principali divinità femminili venerate in varie tradizioni religiose africane sia in Brasile che nei Caraibi.

È conosciuta e venerata per essere la divinità del vento, dell’acqua e delle tempeste, però i primi pellegrini che arrivano di fronte alla chiesa ci spiegano che le funzioni di questa orixá sono anche riconducibili all’ambito della sfera privata. Infatti, Iansã si occupa anche di allontanare gli spiriti maligni da luoghi o persone e di risolvere le questioni di coppia, come l’infedeltà.

Allontanare gli spiriti maligni, ricevere una profonda purificazione o ringraziare per una grazia ricevuta sono gli obiettivi di questa marea biancorossa di persone che, ogni anno, giungono da tutto il Brasile e anche dall’estero per prendere parte alle celebrazioni.

Le porte dell’edificio di culto si aprono di primo mattino e subito la statua della santa riceve i fedeli che fanno la fila per avere pochi istanti di intimità al suo cospetto. Fuori inizia la musica, e, non più tardi delle sette, quando il caldo si fa già sentire, scoppiano i primi fuochi d’artificio.

Nel centro della piazza, nota come Largo do Pelourinho, di fronte alla Casa museo di Jorge Amado, indimenticato scrittore della Bahia, è stato preparato un palco sul quale verrà celebrata una messa campale per la folla dei fedeli festanti, folla che non può essere accolta tutta dentro Nossa Senhora do Rosario dos Pretos. Mentre le processioni e le richieste a Santa Barbara – Iansã si susseguono all’interno, fuori, negli spazi adiacenti il palco, si moltiplicano i riti di purificazione, nei quali si invocano i poteri dell’orixá per avere protezione, salute e serenità.

In questi brevi ma intensi rituali sono i sigari, le erbe, l’acqua e l’olio santo a diventare protagonisti, tra grida e sussurri, momenti di trance ed estasi, in una sublimazione simbolica della religione afrobrasiliana.

Mentre quel mare rosso e bianco di fedeli che inneggiano a Santa Barbara – Iansã balla e canta la sua devozione, poco dopo le otto, la statua della Santa viene portata in processione dalla chiesa fino al palco. Un percorso che suscita commozione, in un clima allegro e solenne allo stesso tempo, tra tamburi, incenso e petali di rosa.

La messa inizia pochi minuti dopo e anche in essa sono evidenti le tracce della cultura e della religiosità afrobrasiliana. Finita la celebrazione, esplode la festa in tutto Pelourinho, con manifestazioni artistiche e concerti che durano per tutto il giorno.

I ristoranti servono caruru (piatto tradizionale della cucina afrobrasiliana a base di gamberetti, cipolla, anacardi e arachidi, tipico di Bahia e di questa festività), si ascolta l’atabaque (strumento rituale simile a un tamburo) che batte al ritmo del cuore e si cantano canzoni come la famosa «Sorriso negro» di Dona Ivone Lara: «Negro é a raiz da liberdade» (Il nero è alla radice della libertà).

Verso le undici il grande corteo parte per attraversare tutto il centro storico passando per Largo do Pelourinho e per Terreiro de Jesus, Praça da Sé, Praça Municipal, Ladeira da Praça, fermandosi alla sede dei vigili del fuoco (la santa è la loro patrona), continuando poi per Praça dos Veteranos, per Baixa dos Sapateiros e fino al Mercado da Santa Barbara per ritornare poi al punto di partenza.

Qui i devoti si riuniscono di nuovo per ascoltare i gruppi musicali che si susseguono sul palco di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos nel centro del Peló (così viene popolarmente chiamato il Pelourinho dagli abitanti della città). L’energia e la magia della celebrazione continuano dopo il tramonto quando le luci natalizie fanno la loro comparsa, illuminando il selciato delle strette strade irregolari, tortuose e in pendenza del quartiere (sono chiamate «ladeiras»), vie ancora spumeggianti di vita e allegria.

La chiesa Nosso Senhor do Bonfim, a Salvador Bahia, uno dei luoghi più importanti per le manifestazione del sincretismo religioso tra cattolicesimo e religioni afrobrasiliane. Foto Diego Battistessa.

Un pieno di feste

Quelle in onore di Santa Barbara – Iansã (ricorrenti fin dal 1641) fanno parte di un ricco calendario di celebrazioni che interessano la capitale dello stato di Bahia durante tutto l’anno. Dopo il 4 dicembre, la prima data da segnare è l’8 dello stes-so mese, quando si celebra la festa religiosa più antica del Brasile, nella basilica de Nossa Senhora da Conceição da Praia, in onore all’Immacolata Concezione.

Successivamente, il 13 dicembre si celebra la festa di Santa Luzia (Santa Lucia), mentre nella notte tra l’anno vecchio e quello nuovo, si rende omaggio al Bom Jésus dos Navegantes (Buon Gesù dei Naviganti). A gennaio, il 5 e il 6, si celebrano i Re Magi, mentre nella seconda metà del mese ha luogo uno dei riti sincretici più importanti della capitale della Bahia: il «Lavagem do Bonfim» (riquadro a lato).

Il primo mese dell’anno si chiude con la festa di San Lazzaro, ma è febbraio che ospita il clou. Infatti, nei giorni 1 e 2 del mese si celebra quella che è considerata la più grande manifestazione religiosa pubblica del candomblé nello stato di Bahia: il festival Iemanjá (Yemanjá), celebrato in onore della divinità dell’oceano sulle spiagge e nelle acque di Salvador.

Tra questa e l’inizio del Carnevale, si celebra in città anche il Lavagem de Itapuã, festa popolare che ha già compiuto più di 100 anni.

Tocca poi al Carnevale che, qui e nel resto del Brasile, è la più grande festa dell’anno nel quale, ancora una volta, si mischiano e si fondono le simbologie cattoliche e quelle delle religioni afrobrasiliane. Giugno è il mese di Santo Antônio, São João, São Pedro, rispettivamente il 13, il 24 e il 29, mentre il 2 di luglio si celebra a Bahia l’indipendenza del Brasile.

L’ultima festa che citiamo, ma non per importanza, è quella del 13 di agosto, giorno nel quale si rende omaggio a Santa Dulce dos Pobres, conosciuta come «il Buon angelo di Bahia», donna laboriosa ed esempio di dedizione a poveri e ammalati, canonizzata da papa Francesco il 13 di ottobre del 2019.

Diego Battistessa

 

La chiesa del Santissimo Sacramento in Rua do Passo 52°, quartiere di Santo Antônio Além do Carmo, Salvador. Foto Diego Battistessa.

Il sincretismo

QUANDO IL CATTOLICESIMO SI MESCOLÒ ALL’AFRO

Il sincretismo tra la religione cattolica e quelle africane è un elemento caratteristico di Salvador de Bahia e del Brasile. Esso si esprime in un ampio ventaglio di concezioni e pratiche religiose continuamente create, ricreate e adattate a un contesto spazio-temporale diverso da quello di origine.

La parola sincretismo deriva dal greco «synkrasis», ovvero mescolare insieme. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos (meticci, ndr)e afrodiscendenti.

Poiché durante il periodo coloniale la Chiesa di Roma dominava il campo spirituale di tutti i Paesi latinoamericani, le credenze afro vi si sono inserite e ne hanno – a loro volta – tratto diversi elementi, assimilandoli.

Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo identificare il Brasile come un centro focale. Nel Paese, in fatti, si riscontra la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di mescolanza (krasis) con le molteplici spiritualità presenti nel territorio, dall’altro. Siamo di fronte a una grande complessità di rituali e simbologie che, in Brasile, trovano nel candomblé e nell’umbanda* le espressioni più note e diffuse.

D.B.


La chiesa di Nostro Signore del Buon fine

LE BAHIANE DEL CANDOMBLÉ

Quella di Nostro Signore del Buon fine è una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia. Costruita sulla cima della Collina sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso «Lavagem do Bonfim», evento nel quale le donne bahiane del candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che da quelli afro.

Proprio da questa chiesa proviene il famoso braccialetto colorato (fita, in portoghese) che si può vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro del Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

D.B.

Vista mattutina della Rua Alfredo Brito, Pelourinho, con sullo sfondo la Chiesa di Igreja de Nossa Senhora do Rosário dos Pretos. Foto Diego Battistessa.

 


Sul sito MC si può leggere:

– Paolo Moiola, «I tamburi di oxalá» (giugno 2015);

– Paolo Moiola, «Balli di libertà» (luglio 2015).




Brasile. Loro sono foresta


La terra è cromosoma essenziale del Dna indigeno. Senza terra i popoli indigeni non sopravvivono in quanto tali. Nelle loro mani, l’ambiente – lo dicono gli studi scientifici – è più rispettato. Per questo non è esagerazione definirli «guardiani della foresta». Né affermare che essi «sono foresta».

La scena è ripresa nella terra indigena Yanomami (regione di Sururucu), in un accampamento di garimpeiros, i minatori illegali tristemente noti. Si vedono le loro tende piantate in uno spiazzo deforestato. Si sente una voce concitata: «Andiamo, andiamo, portateli qui». Non si tratta di animali della foresta, ma di alcuni giovanissimi yanomami, scalzi e in pantaloncini, entrati nell’accampamento degli invasori. I bambini vengono legati (sì, legati) al palo di una baracca venendo accusati dai garimpeiros di essere dei ladri. Il video si chiude così.

L’episodio è raccontato da Hutukara, la principale organizzazione degli Yanomami, che lo ha scoperto tramite Wãnori, un sistema di allarme via cellulare attivato per la prima volta lo scorso luglio. «Dico sempre che il futuro è già oggi –  ha commentato Davi Kopenawa, noto leader yanomami – . Penso che sia importante per noi poter sognare e pensare con altri amici che ci appoggiano, lavorano e combattono insieme. Quelli in città ascoltano, ma non capiscono di cosa hanno bisogno gli Yanomami. Quindi, è fantastico avere questo sistema di allarme per il nostro monitoraggio».

Insomma, anche in piena foresta amazzonica i cellulari sono divenuti strumenti imprescindibili, nel bene e nel male, per vittime e oppressori. A questi ultimi si devono le foto autocelebrative e spaccone postate sulle reti sociali. Alcune di esse sono state pubblicate anche da globo.com.  Si vedono i garimpeiros orgogliosamente in posa con armi da fuoco salde nelle loro mani, davanti a una tavola imbandita con pizze e fusti di birra.

Poco importa se si tratta di voglia di apparire o di una più banale umana stupidità: dimostrano che, nonostante le azioni di sgombero messe in atto dal governo Lula nei primi mesi del 2023 (con la distruzione – stando ai dati ufficiali – di 327 accampamenti, 18 aerei, 2 elicotteri, motori, barche e la riduzione dell’80 per cento dell’area dei garimpo), un numero imprecisato di garimpeiros continua a operare in terra Yanomami.

Secondo «Yamakɨ nɨ ohotaɨ xoa!» (Noi stiamo ancora soffrendo), il rapporto di Hutukara con Seduume e Urihi, uscito a luglio, dopo gli sgomberi delle autorità, si sta assistendo al ritorno di gruppi di garimpeiros sui fiumi Apiaú e Couto Magalhaes e nelle regioni di Papiu, Parafuri, Xitei e Homoxi.

L’insistenza degli Yanomami sull’invasione dei garimpeiros potrebbe apparire esagerata se non si spiegassero gli effetti sconvolgenti che essa produce sulla loro esistenza. Effetti che sono a un tempo ambientali, sanitari, sociali. «La foresta non è contro di noi… chi è contro di noi è l’uomo capitalista», ha spiegato a gennaio a New York Davi Kopenawa.

Secondo il Sistema di monitoraggio delle miniere illegali, da ottobre 2018 a dicembre 2022, l’area interessata dall’attività mineraria è cresciuta di un altro 300%, raggiungendo un totale di 5.053,82 ettari di area devastata, colpendo direttamente quasi il 60% della popolazione Yanomami.

Due giovani Yanomami con un cellulare: da luglio 2023 è stato ativato un sistema di allarme chiamato Wãnori. Foto Evilene Paixao Yanomami – Hutukara.

Conseguenze sulla salute e sulla vita quotidiana

Scrive il citato rapporto di Hutukara: «Oltre alla distruzione delle foreste, del suolo e dei fiumi, che ha un impatto diretto sull’economia delle famiglie indigene, che dipendono dalla pesca, dalla caccia e dalla terra per coltivare, l’attività mineraria influisce direttamente anche sulla salute e sul benessere delle persone e delle comunità».

La situazione sanitaria degli Yanomami vede la grande diffusione di infezioni respiratorie (polmoniti, in primo luogo), parassitosi intestinali, tungiasi (parassitosi epidermica) e – a causa della diffusione della contaminazione da mercurio (utilizzato dai garimpeiros) – ripercussioni pesanti sulla salute riproduttiva delle donne e sullo sviluppo psicofisico dei bambini.

E poi c’è l’esplosione dei casi di malaria, soprattutto nelle zone più vicine ai garimpos.

«Questa malattia, a sua volta, come le infezioni respiratorie, compromette non solo la salute individuale del paziente, ma anche l’economia delle comunità che dipendono dal lavoro familiare per produrre la propria sussistenza. Un uomo che non riesce a curare un campo durante la stagione secca perché indebolito dalla malaria, in futuro avrà maggiori difficoltà a sostenere se stesso e i suoi coresidenti, creando così un circolo vizioso di malaria, crisi economica e fragile socializzazione». Non è – pertanto – un caso se nelle zone a maggior incidenza malarica risultano più alti anche i livelli di denutrizione infantile.

Membri di una comunità indigena osservano gli aiuti alimentari governativi recapitati dall’aviazione militare brasiliana. Foto FUNAI.

Le foto di piccoli yanomami pelle e ossa hanno fatto il giro del mondo. L’esercito brasiliano è intervenuto lanciando da aerei ed elicotteri tonnellate di cibo. Com’è stato possibile arrivare a una simile emergenza?

Secondo varie indagini, il problema della denutrizione è direttamente collegato all’avanzata dei garimpos. Gli Yanomami si sono sempre mantenuti con la raccolta di cibo dalla foresta, con la pesca e la caccia e – in maniera assai minore – coltivando piccoli appezzamenti di terra. Oggi le loro modalità di sussistenza sono state sconvolte dall’invasione dei minatori illegali. L’attività mineraria provoca la deforestazione e distrugge i corsi d’acqua inquinandoli con il mercurio. La selvaggina diventa più scarsa perché gli animali fuggono. Gli indigeni hanno bisogno di trascorrere molto più tempo nella foresta a cacciare e la quantità di cibo portata a casa non arriva più ai livelli di prima.

«La situazione di insicurezza alimentare – spiegano nel loro rapporto le organizzazioni degli Yanomami – non è diffusa nel territorio yanomami, ma è aumentata enormemente negli ultimi anni a causa di una combinazione di fattori, che vanno dalla distruzione delle risorse naturali attraverso lo sfruttamento illegale dei minerali alla disorganizzazione della produzione derivante dalla crisi sanitaria e agli impatti sociali dell’attività mineraria. Nel 2021 e nel 2022, a ciò si sono aggiunti gli effetti del prolungamento della stagione delle piogge, dovuto al fenomeno climatico La Niña, che ha impedito a molte comunità di curare i propri appezzamenti agricoli».

Se questo non bastasse, è possibile trovare notizie che complicano ancora di più il quadro complessivo. Come racconta Repórter Brasil parlando della diffusione dei narcogarimpos. Secondo i dati raccolti dal sito investigativo brasiliano, in sei anni (dal 2017 al 2022) c’è stato un raddoppio delle esportazioni di oro (da 11 a 32 tonnellate) e – dato ancora più inquietante – una triplicazione dei sequestri di cocaina (da 10 a 32 tonnellate).

Indigeni sfilano a Brasilia nella manifestazione che attende la decisione del Stf sul marco temporal (30 agosto). Foto Tiago Miotto – CIMI.

Semplificazioni veritiere

Secondo i dati Inpe (Instituto nacional de pesquisas espaciais), a luglio 2023 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è scesa del 66% rispetto allo stesso mese del 2022. Merito, ha sottolineato la ministra dell’Ambiente Marina Silva, delle nuove politiche del governo Lula. Tuttavia, il dato non può indurre a uno sciocco ottimismo.  Riduzione non significa salvaguardia.

Secondo una ricerca della Agenzia spaziale europea (Esa, marzo 2023), tra il 2017 e il 2021 la perdita forestale è stata di 5,2 milioni di ettari, una superficie più o meno equivalente alle dimensioni del Costa Rica.

Identicamente a «polmone del mondo» per l’Amazzonia, anche «guardiani della foresta» per i popoli indigeni può apparire come una di quelle affermazioni semplificatorie utilizzate per descrivere situazioni complesse. Tuttavia, almeno in questo caso, non si è lontani dalla verità.

Esiste una relazione tra presenza indigena e preservazione ambientale? L’osservazione ma anche la scienza rispondono che la relazione esiste ed è positiva. Uno degli ultimi studi in proposito – pubblicato da Nature sustainability (3 gennaio 2023) – certifica che, nelle aree indigene, la perdita di foreste è molto più contenuta, a patto che esse vengano rispettate. «Le popolazioni indigene – conclude lo studio – potrebbero impedire il superamento del punto di svolta (tipping point) per la trasformazione degli ecosistemi della foresta amazzonica in ecosistemi di savana».

Una maloca, la casa comune degli Yanomami, nell’Alto Catrimani, nella Terra indigena Yanomami (Tiy). Secondo il governo Lula, l’80 per cento dei garimpeiros sono stati cacciati nelle operazioni iniziate a gennaio 2023. Foto Bruno Kelly – ISA.

Intanto, i Guarani

Anche per merito del carisma e della notorietà internazionale di Davi Kopenawa, negli ultimi due anni si è parlato soprattutto dell’emergenza riguardante gli Yanomami.

In realtà, la situazione è molto difficile per tutti i popoli indigeni e la soluzione pare lontana, nonostante la buona volontà del governo Lula, visto che il parlamento brasiliano è dominato da una maggioranza di politici bolsonaristi (per i quali i popoli indigeni sono semplicemente una palla al piede per lo sviluppo del Brasile).

«La sconfitta di Bolsonaro – scrivono Lucia Helena Rangel e Roberto Antonio Liebgott nell’ultimo rapporto del Cimi – alle elezioni presidenziali è stata fondamentale per rompere con il progetto di morte e distruzione in corso. Tuttavia, non basta affrontare le sfide della causa indigena. La negazione dei diritti, il pregiudizio e il razzismo costituiscono lo scenario di un brutale aggravamento della violenza, che viene alimentata o incoraggiata negli uffici e nei corridoi degli organi statali».

Si consideri che il più consistente gruppo indigeno del paese, quello dei Kaiowá Guarani (che occupa gli stati del Sud, ai confini con Paraguay e Argentina), vive in condizioni estreme. Da anni essi sono costretti ai margini delle loro terre tradizionali dalle quali sono stati espulsi con la forza dai fazendeiros e dalle multinazionali agroalimentari che le hanno occupate per farne piantagioni di soia o di canna da zucchero e pascoli per il bestiame.

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, Terra indigena Yanomami (in alto, a sinistra, una pista aerea clandestina). Foto Bruno Kelly – ISA.

L’arma dell’intolleranza religiosa

Proprio negli stessi giorni del giudizio del Supremo tribunale federale (Stf), il Consiglio indigenista missionario (Cimi) pubblicava, sul proprio sito, un durissimo atto d’accusa per l’en-

nesima violenza contro esponenti Kaiowá Guarani del Mato Grosso do Sul, stato in cui l’intolleranza e la violenza verso gli indigeni sono consolidate.

Il fatto risale al 18 settembre scorso quando Sebastiana Galton (di 92 anni) e il suo compagno Rufino Velasquez sono morti in un incendio doloso che ha bruciato la loro casa e i loro corpi. Sebastiana era una nota leader religiosa tradizionale che lottava a fianco della propria popolazione. Questa – spiega il Cimi – vive una tragica situazione di disgregazione sociale «la cui causa continua a essere il risultato dello sfollamento forzato, del processo di confinamento e della mancanza di accesso effettivo di questa popolazione ai propri territori tradizionali». Alla lotta per la terra in questo caso si aggiunge – continua la nota – «una complessa situazione di intolleranza religiosa che ha deriso, diffamato e ucciso – spiritualmente e fisicamente – i Ñanderu e i Ñandesy (rappresentanti religiosi tradizionali, ndr) in tutto il territorio Kaiowá Guarani».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra IndÌgena Yanomami

«In tutte le società umane il fenomeno religioso consiste nella mobilitazione delle forze spirituali, siano esse considerate buone o meno (benedizione e maledizione), secondo i bisogni, i desideri e le speranze di un popolo, come strategia per vincere sfide, pericoli e crisi. […] Così, nel caso delle pratiche religiose tradizionali dei Kaiowá Guarani, si può osservare un atto di resistenza di fronte ai molteplici processi di sterminio perpetrati contro le loro comunità».

Senza usare mezzi termini, il Consiglio indigenista missionario accusa le Chiese neopentecostali e i loro metodi.

«Da decenni il Cimi denuncia la presenza e gli effetti distruttivi che queste sette fondamentaliste rappresentano e promuovono tra i Kaiowá Guarani, soppiantando un intero sistema di credenze, screditando leader religiosamente costituiti e, favorendo, penalmente, la distruzione di ambienti e oggetti considerati sacri da questi popoli».

È cosa nota che, da sempre, le potenti Chiese neoevangeliche brasiliane hanno un approccio alla questione indigena completamente diverso da quello della Chiesa cattolica. Per loro i popoli indigeni debbono adeguarsi alla «visione bianca» dell’esistenza.

Riparare il male

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e, fino a poche settimane fa, presidente del Cimi, conclude la sua introduzione all’ultimo rapporto Violência contra os povos indígenas do Brasil con parole che sanno di preghiera e speranza: «Possano i nuovi governanti cercare di riparare il male, garantendo ai popoli indigeni il loro diritto fondamentale alla terra e ai loro modi di essere e vivere nelle differenze».

Paolo Moiola

Nel fotogramma pubblicato sui social un gruppo di garimpeiros mostra orgogliosamente armi pesanti e una tavola imbandita con pizze e birra.


Il Congresso contro il Supremo tribunale federale

«Marco temporal»: bocciato ma promosso

La vittoria giuridica presso il massimo organo giudiziario del Brasile non pare dare certezze ai popoli indigeni. In parlamento e nel paese, l’offensiva anti-indigena della «bancada ruralista» non si ferma. Che farà il presidente Lula?

Il 21 di settembre il Supremo tribunale federale (Stf) vota contro il marco temporal (in sostanza, è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione). L’entusiasmo per la decisione – sicuramente prematuro, spesso esagerato – dura però lo spazio di qualche giorno. Forse meno. Non è un «indietro tutta», ma quasi. Dopo l’approvazione alla Camera (30 maggio), la proposta sul marco temporal passa – infatti – anche al Senato (27 settembre). A questo punto, la domanda diventa: chi vince in caso di contrasto tra Stf e Congresso?

Carlo Zacquini, missionario della Consolata e grande esperto di Yanomami e popoli indigeni, è caustico: «Le leggi sono una cosa, i legislatori un’altra. Può anche darsi che sia impossibile approvare una legge, ma i politici non smetteranno mai di tentare nuovi o vecchi metodi per fare quello che “è conveniente per loro”. Sono ormai più di cinque secoli che si ammazzano indigeni, non sarà per una decisione del Stf che smetteranno di farlo o di tentare nuove forme per farlo. In fin dei conti la maggioranza dei brasiliani non è Indigena. Nella minestra ci puoi mettere molti prodotti, ma c’è ne sta sempre ancora uno. Se una legge stenta a trovare consenso o trova qualche ostacolo per essere approvata, si fa un’altra proposta, assieme ad altri richiami per le allodole. Tante volte quante necessario perché, alla fine passi, magari per la disattenzione di qualcuno. Se si vuole che i popoli indigeni abbiano una chance di sopravvivere, in Brasile non ci si può permettere alcuna distrazione. La spinta dell’industria agricola e mineraria è fortissima».

Il clima di contrapposizione tra poteri dello stato è palese. Per esempio, un deputato bolsonarista ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec 50/2023) che conferirebbe al Congresso il potere di sospendere le decisioni del Supremo tribunale federale che «superano i limiti costituzionali».

In base alle proprie prerogative, il presidente Lula potrebbe (e dovrebbe) mettere il veto sulla legge del marco temporal emanata dal Congresso. Tuttavia, come appare evidente, il clima per i diritti dei popoli indigeni rimane pessimo*.

Paolo Moiola

* Per gli aggiornamenti sul tema, seguiteci sul sito: www.rivistamissioniconsolata.it.

Brasilia, una seduta del Supremo tribunale federale (Stf) per decidere sul «marco temporal». Foto: Antônio Cruz – Agência Brasil.

 

 




Brasile. La storia non iniziò nel 1988

La notizia – una grande notizia – è arrivata nel tardo pomeriggio di giovedì 21 settembre. Ed è la seguente: il Supremo tribunale federale (Stf) del Brasile, il più alto organo del potere giudiziario, il «guardiano della Costituzione federale» del paese latinoamericano, ha respinto la tesi (discussa dal dicembre del 2016) conosciuta come «marco temporal» e sostenuta dal potente fronte dai rappresentanti dell’agrobusiness e dei latifondisti (e dai parlamentari riuniti attorno alla «bancada ruralista»).

Questa tesi si fonda su un’interpretazione forzata e interessata dell’articolo 231 della Costituzione federale promulgata il 5 ottobre del 1988, articolo che recita: «Agli indigeni sono riconosciuti organizzazione sociale, costumi, lingue, credenze e tradizioni, nonché i diritti originari sulle terre che tradizionalmente occupano, essendo l’Unione responsabile per delimitarle, proteggere e garantire il rispetto di tutti i loro beni». Secondo i sostenitori del marco temporal, sarebbero terre indigene soltanto quelle da loro effettivamente occupate all’atto della promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre 1988. Le terre restanti sarebbero disponibili, cioè libere da pretese indigene. Detto in altre parole, il marco temporal mirava a cancellare in toto la storia indigena precedente a quella data, una storia fatta di allontanamenti dalle terre e usurpazione delle stesse.

Si festeggia il voto di uno dei ministri del STF riuniti in sessione plenaria per decidere sul «marco temporal». (Foto CIMI)

Finalmente, dopo anni di dibattito, l’Stf, formato da 11 membri (qualificati con il termine di ministri), ha respinto con 9 voti contro 2 il progetto del marco temporal. Hanno votato a favore di questo i due rappresentanti (Nunes Marques e André Mendonça) legati a Jair Bolsonaro, a dimostrazione di quanto fosse reale l’accusa di essere anti indigeno formulata verso l’ex presidente.

La vittoria del 21 settembre è frutto in primis della grande mobilitazione dei popoli indigeni brasiliani (riuniti soprattutto attorno ad Apib, Articulação dos povos indígenas do Brasil) ma anche del loro sostegno da parte di organizzazioni come il Cimi (Conselho indigenista missionário) guidato da dom Roque Paloschi e l’Isa (Instituto socioambiental). La cancellazione del marco temporal è un passo fondamentale, ma la lotta per l’affermazione e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni sarà – questa è una certezza – ancora lunga e difficile. In Brasile, come nel resto del mondo.

Paolo Moiola




India. A Delhi, promesse e gaffe

Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.

Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.

«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.

Modi saluta Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. (Foto da www.g20.org)

Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.

Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.

Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.

Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».

Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.

Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.

Modi con il presidente Lula. Il Brasile ospiterà il G20 del 2024. (Foto da www.G20.org)

A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».

Paolo Moiola




Brasile. La riscossa delle donne


Sonia, Anielle, Margareth, Marina. Il governo del neo presidente Lula pensa ai popoli indigeni e scommette sulle donne.

Marina Da Silva, ministra dell’ambiente del nuovo Governo Lula. Foto José Cruz – Agência Brasil.

Indigene e afrodiscendenti, ex faveladas e seringueiras: le donne dei ministeri chiave del nuovo governo del presidente Lula provengono dalle periferie geografiche e simboliche, militano nel movimento indigeno, femminista e ambientalista e avranno il compito di rivoluzionare la politica per costruire un paese veramente plurale. I nomi erano stati annunciati già lo scorso dicembre. Tuttavia, assistere alle cerimonie di insediamento di Marina Silva al ministero per l’Ambiente e il contrasto al Cambiamento climatico, di Margareth Menezes al rinato ministero della Cultura e, soprattutto, di Anielle Franco e Sonia Guajajara ai nuovi ministeri dell’Uguaglianza etnica e dei Popoli indigeni, è stato motivo di euforia e rinnovata speranza.

Sonia Guajajara

Sonia Guajajara. Foto Valter Campanato/Agência Brasil/EBC

Sonia è nata nella terra indigena Arariboia, nel Maranhão, uno stato che, pur conservando solo il 20% di foresta primaria, è abitato da una decina di popoli indigeni, compresi alcuni gruppi isolati del popolo Awa Guajà. Dal 2013 è stata coordinatrice dell’Apib, che riunisce le principali organizzazioni indigene del paese, e nel 2018 è stata candidata per il Psol (socialismo e libertà) a vicepresidente della repubblica. Presentatasi alle recenti elezioni, è stata eletta deputata federale per lo stato di San Paolo, incarico a cui ha rinunciato per diventare ministra. Ha aperto la cerimonia del suo insediamento scuotendo un maracà, quasi a voler adunare non solo i presenti ma anche gli spiriti degli antenati. In quello che ha descritto come un momento emblematico della storia del Brasile, davanti a un pubblico composto anche da diversi leader indigeni, ha dichiarato: «Il mio insediamento e quello della ministra per l’Uguaglianza etnica, sono il simbolo della resistenza secolare nera e indigena».

Ricordando i doni ricevuti ancora adolescente dalla zia, una collana e il maracà, e soprattutto il «potere della parola», ha aggiunto: «Oggi non sono qui da sola ma accompagnata dalla forza della nostra ancestralità. La società fa una lettura totalmente distorta della realtà dei popoli indigeni: o ci idealizzano o ci demonizzano. Al contrario di come ci ritraggono i libri di storia, noi esistiamo in forme molto diverse: siamo nelle città, nei villaggi, esercitando i mestieri più vari; viviamo nel vostro stesso tempo e spazio, siamo contemporanei di questo presente e costruiremo il Brasile del futuro, perché il futuro del pianeta è ancestrale».

Joenia Wapishana

L’attivista indigena Celia Xacriabà, eletta al Congresso brasiliano. Foto Raquel Aviani – Secom UnB.

Joenia Wapishana. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Oltre a un ministero e due seggi in parlamento (anche Celia Xacriabà è stata eletta per lo stato di Minas Gerais), il movimento delle donne indigene ha ottenuto anche un’altra vittoria. Joenia Wapishana è stata eletta presidente della Funai: per la prima volta una rappresentante dei popoli indigeni a guidare l’organo responsabile della loro protezione (*). Ancora un primato per l’avvocatessa di Roraima, visto che già era stata la prima donna indigena a entrare in Parlamento nel 2018. Il suo insediamento è stato visto come simbolica «retomada» di un’istituzione che è stata completamente smantellata dal governo precedente.

Queste donne hanno aperto, dunque, la strada per «aldear a politica» (vedi glossario), slogan della loro campagna elettorale, rafforzando il protagonismo indigeno nelle istituzioni e nello scenario politico brasiliano.

D’altronde si tratta di un processo già in atto in altri paesi latinoamericani come il Cile, dove la mapuche Elisa Logon è stata eletta a capo dell’Assemblea costituente, e la Bolivia, che ha affidato a una donna quechua, Sabina Orellana, il ministero per la Cultura, la decolonizzazione e la depatriarcalizzazione, a dimostrazione del fatto che le rivendicazioni per una maggiore presenza indigena nella politica vanno di pari passo con quelle per l’emancipazione delle donne dal dominio maschile.

Anielle Franco

Anielle Franco, ministra per l’Uguaglianza etnica. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Contemporaneamente all’affermazione delle donne indigene, dai villaggi alla scena nazionale, giovani donne nere faveladas assumono la leadership di associazioni e collettivi per contrastare la violenza (domestica, di genere, della polizia) che affligge le proprie comunità. Nel 2016, una rappresentanza di queste lanciava il movimento «Occupare la politica», eleggendo diverse deputate a livello municipale, statale e federale.

La nuova ministra per l’Uguaglianza etnica, Anielle Franco, sorella di Marielle (la consigliera comunale carioca impegnata nella difesa dei diritti delle donne nere, del movimento omosessuale – in sigla, Lgbtqiap+ – e delle persone che vivono nelle periferie, barbaramente uccisa il 14 marzo 2018), condivide con le donne di questo movimento la stessa origine, essendo nata e cresciuta nella Marè (una
favela di Rio de

Janeiro) e gli stessi obiettivi: abbattere i privilegi dell’élite bianca e garantire l’accesso universale ai servizi di base ai segmenti della popolazione più svantaggiati ed emarginati.

Anielle ha promesso di portare avanti la sua battaglia per porre fine allo stato di guerra nelle favelas e nelle periferie, alle incarcerazioni di massa e agli abusi della polizia, parte del progetto genocida nei confronti della popolazione nera. Nel suo discorso le parole ricorrenti sono state: «unità e ricostruzione», ma anche «riparazione e memoria», perché «solo ripagando i debiti del passato e restituendo dignità a coloro che hanno resistito a secoli di violenza di stato, si potrà costruire il Brasile del futuro».

La ricostruzione del paese è possibile soltanto se si riconoscono e riscattano le radici ancestrali. Per questo, in un passaggio toccante, anche Anielle ha rivolto una richiesta a tutto il popolo brasiliano: «Camminate con noi finché il nostro popolo non sarà veramente libero, protagonista della propria traiettoria accedendo a diritti, dignità e ad una vita piena. Camminate con noi finché i sogni dei nostri antenati non diventino realtà».

Silvia Zaccaria

(*) Mentre scriviamo, il mondo pare essersi accorto del genocidio degli Yanomami, di cui MC si è sempre occupata. Ci torneremo prossimamente.


 Incontro con Sydney Possuelo

Il sertanista Sydney Possuelo con un indigeno Akuntsu di Rondonia. Foto archivio Sydney Possuelo.

Anche gli indigeni sono uomini

Sydney Possuelo, esperto di indios isolati («sertanista», nel gergo tecnico), è stato presidente della Fondazione nazionale per l’indio (Funai) e direttore del Dipartimento per gli indios isolati, da lui creato nel 1987. Durante il periodo di permanenza alla guida dell’organo indigenista, è stata riconosciuta l’area indigena degli Yanomami (1992).

Per le operazioni di delimitazione fisica del territorio e il coordinamento delle operazioni di espulsione dei cercatori d’oro (i garimpeiros), il sertanista aveva scelto la Missione Catrimani dei missionari della Consolata come uno dei suoi centri operativi. In quell’occasione, padre Silviano Sabatini ebbe modo di conoscerlo e apprezzare il suo operato, benché – fino ad allora – i rapporti dei missionari della Consolata con la Funai fossero sempre stati difficili.

Per il suo impegno a favore dei popoli indigeni, Possuelo ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra questi, la medaglia al Merito indigenista che ha deciso di restituire nell’aprile scorso, perché la stessa onorificenza era stata conferita a Bolsonaro e ai suoi ministri.

Sydney, qual è oggi lo stato di salute dei popoli indigeni in Brasile?

«La situazione dei popoli indigeni del Brasile non è mai stata esaltante, ma con l’amministrazione Bolsonaro è drammaticamente peggiorata sul piano sanitario, della sostenibilità economica e ambientale e del diritto alla terra.

L’ex presidente ha presentato in parlamento proposte di legge [dalla 191/2020 che prevede la legalizzazione dello sfruttamento minerario nelle terre indigene, al vecchio progetto 490/2007 conosciuto anche come “Marco temporal” che altererebbe i criteri per il loro riconoscimento, ostacolando l’espansione delle terre già delimitate] che, se fosse stato rieletto, avrebbero determinato un ulteriore arretramento dei loro diritti».

Bolsonaro è stato sconfiitto. Pensi che ci saranno dei cambiamenti con Lula al governo?

«Viste le premesse – creazione di un ministero dei popoli indigeni; leadership indigena della Funai; ripristino del Fondo per l’Amazzonia – ritengo che Lula possa determinare un cambiamento di rotta non solo per la questione indigena, ma anche per quella ambientale, perché non possiamo parlare dei popoli indigeni senza parlare di ambiente, da cui questi popoli dipendono.

Sotto il governo Bolsonaro abbiamo assistito a una devastazione senza precedenti e a una nuova invasione delle terre indigene, da parte di madeireiros, garimpeiros, cacciatori e pescatori di frodo, fazendeiros e grileiros.

Per citare il caso più eclatante, quello della Terra indigena Yanomami, a dicembre 2022 si stimavano più di 20mila cercatori d’oro nell’area, quando all’epoca della demarcazione [nei primi anni Novanta] eravamo riusciti a espellere tutti i 40mila garimpeiros presenti al suo interno. Tra le priorità del suo governo, Lula dovrà, dunque, contrastare questo fenomeno».

La società brasiliana come percepisce l’indigeno?

«Storicamente, l’indio è stato sempre visto in modo negativo dai governi e dalla società nazionale, a eccezione di una piccola fetta di intellettuali, scrittori, giornalisti e antropologi.

La maggior parte della popolazione brasiliana continua, però, a essergli ostile, considerando gli indigeni come subumani [gli “animali da giardino zoologico” dell’ex capo dello stato] o comunque reietti della società, alla stregua dei gruppi emarginati delle città, oppure, nella migliore delle ipotesi, come attrazione da manifestazione folcloristica o da festival tribale. Addirittura, i caboclosribeirinhos che condividono lo stesso ambiente e la stessa origine – sono nemici dei popoli indigeni».

Qualche mese fa ha fatto il giro del mondo la notizia della morte (agosto 2022) del cosiddetto «indio del buco» (indio do buraco, ndr) definito dai media «l’uomo più solo al mondo», per aver vissuto per almeno 26 anni isolato in un’area di foresta dello stato di Rondônia. Cosa hai provato alla notizia della sua morte?

«Nella regione del Tanarù (nome dell’area interdetta, ndr) è operativa una delle sei “frentes de Proteção etnoambiental” che io stesso ho creato in Amazzonia, quando ho fondato il Dipartimento per la protezione degli indios isolati. Da allora questo “fronte” si occupa di monitorare due gruppi indigeni, oltre all’“indio del buco”.

Negli anni abbiamo provato a comunicare con lui, ma non parlava. E non abbiamo mai saputo se non parlava perché non voleva o perché non sapeva parlare. Abbiamo anche provato ad avvicinarci a lui e abbiamo trovato diverse capanne di paglia di forma triangolare con una buca di circa due metri al centro. Non sappiamo perché scavasse quelle buche, se per proteggersi o per catturare animali.

Quando è morto sono usciti vari articoli ma si tratta di speculazioni, perché non sappiamo se fosse effettivamente l’ultimo membro di un gruppo indigeno o se sia stato abbandonato nella foresta ancora bambino. Storie come questa sono peculiari di luoghi distanti e inaccessibili come l’Amazzonia, ed è naturale che restino avvolte in un alone di mistero, vista la sua impenetrabilità e la difficoltà a ricostruire i contorni reali degli eventi che in essa si verificano».

Cosa ha rappresentato la Funai sotto Bolsonaro?

«La Funai è stata militarizzata e svuotata di risorse economiche e umane. Portando avanti la politica apertamente anti-indigena del governo, tanto da essere definita, con un rimaneggiamento sarcastico dell’acronimo, un’“anti Funai” (Fundação anti indìgena, ndr), ha tradito il proprio mandato, cioè quello di identificare e delimitare le terre e proteggere i popoli indigeni.

La maggior parte dei sertanistas e degli antropologi della vecchia guardia, con l’ascesa di Bolsonaro sono stati rimossi e sostituiti da missionari evangelici e militari, di certo non fedeli al motto del generale Rondon, padre dell’indigenismo: “Morire se necessario, uccidere mai”.

Qualcuno è stato vittima di atti disciplinari e altri, come Bruno Pereira (indigenista assassinato nel giugno 2022, ndr), ha pagato con la vita il proprio impegno per la causa indigena».

Quale messaggio vorresti mandare al presidente Lula?

«Vorrei chiedergli innanzitutto di riprendere il processo di riconoscimento delle terre indigene che è stato vergognosamente paralizzato durante il governo Bolsonaro – che aveva tra i propri slogan “neanche un centimetro in più di terra per gli indigeni” – e di tutelare la volontà dei popoli indigeni in isolamento di non essere contattati.

Ciò può essere realizzato soltanto restituendo dignità alla Funai, dotandola cioè delle risorse umane e finanziare necessarie per onorare il proprio mandato.

La creazione di un ministero dei popoli indigeni, diretto da un rappresentante, per giunta una donna, di quei popoli, è un atto senza precedenti ma, come qualsiasi ministero, può essere abolito dai successori. La Funai, invece, è un organo creato per legge, quindi più solida e duratura in quanto, per abolirla, sarebbe necessario passare per il parlamento».

Si.Za.


Glossario

  • Aldear: «indigenizzare» la politica, rendendola meno dominata dai «bianchi».
  • Caboclos ribeirinhos: popolazione tradizionale che abita lungo i fiumi amazzonici derivante dall’incrocio tra discendenti di popoli indigeni, «bianchi» (soprattutto nordestini) e afrodiscendenti.
  • Grileiros: speculatori fondiari.
  • Madeireiros: commercianti di legname.
  • Faveladas: donne residenti in comunità spesso prive dei servizi di base.
  • Frentes de proteção etnoambiental: équipe specializzate nella protezione etnoambientale, composte da conoscitori della zona (mateiros) e esperti in tecniche di contatto (sertanistas) che hanno il compito di localizzare i popoli indigeni isolati e di recente contatto, di monitorarne gli spostamenti e le condizioni di salute e vigilare sulle aree da questi abitate.
  • Remotada: riconquista non violenta, da parte degli indigeni, di un territorio tradizionale.
  • Seringueiras: lavoratrici rurali dedite all’agroestrattivismo, in particolare all’estrazione del lattice dall’Hevea brasiliensis, l’albero della gomma.

Si.Za.




Brasile. Il tè del padre


Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.

San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.

Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.

Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».

Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.

Celebrazione della messa all’interno della chiesa dei francescani. Foto Mauricio Zina.

Centinaia in fila per un pasto

A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.

«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.

«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.

Conciliare studio e vocazione

Primo piano di frei Gabriel del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio ZIna.

Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.

«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».

«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.

Momento di raccoglimento e preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.

Meglio evitare le «letture binarie»

«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».

«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».

Cosa significa essere francescano

Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».

«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».

«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.

Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».

L’entrata del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio Zina.

«Ma questo Non è peccato»

«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».

«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.

Federico Nastasi

Gli autori

  • Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
    (Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
  • Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com

Un francescano benedice una fedele. Foto Mauricio Zina.


Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche

La sfida

In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.

«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».

E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.

«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.

Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.

In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.

Fe.Na.

Momento di preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.




Brasile. Un mondo senza carceri


Dentro la pastorale carceraria, con padre Gianfranco Graziola

La prigione non ha mai risolto i problemi sociali. Diventa una forma di controllo della società stessa e della povertà. La Chiesa cerca di dare risposte con la pastorale carceraria. In Brasile c’è un esempio unico al mondo di lavoro di squadra.

Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, trentino, da trent’anni in Brasile, fa parte del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria (Cnpc). Si tratta di un organo della Chiesa brasiliana che ha appena compiuto cinquant’anni, come pure il Consiglio indigenista missionario (Cimi). Entrambe le strutture sono nate sulla scia delle conferenze dell’episcopato latino-americano di Medellin (1968) e di Puebla (1979).
«È un ente unico al mondo. Da noi non esiste la figura del cappellano delle carceri. Si tratta di una pastorale vera e propria, portata avanti da una équipe». Così ci racconta padre Gianfranco, che incontriamo di passaggio a Torino.

Lui «alle carceri» è arrivato un po’ per caso. Ci racconta: «Lavoravo a Roraima, nel Nord del Brasile, ed ero in missione a Catrimani, in foresta amazzonica, con gli Yanomami. Monsignor Roche Paloschi, all’epoca vescovo di Roraima, chiese ai missionari della Consolata qualcuno che andasse a occuparsi di diritti umani, di migranti e di pastorale sociale in seno alla diocesi. Tra le tante pastorali sociali, c’era quella carceraria, ma non stava passando un buon momento. Così chiesero a me, e dalla selva andai a Boa Vista, la capitale. Subito si stabilì un’ottima sintonia con il vescovo. Un giorno, ricordo, un gruppo di donne carcerate durante un evento fece dei cori, e poi mi disse: “Una volta c’era la pastorale carceraria”. «C’è ancora!», risposi con risolutezza, e da allora siamo ripartiti».

Un approccio unico

La pastorale carceraria in Brasile lavora su tre livelli: il coordinamento nazionale, i coordinamenti statali (è un paese federale di 26 stati più la capitale Brasilia) e quelli a livello delle diocesi. È portata avanti dagli agenti di pastorale: preti, suore, vescovi e anche laici, uomini e donne, di tutte le età. Visitano le carceri in tutto il paese settimanalmente, due volte al mese, oppure ogni mese.

Il coordinamento nazionale si trova a São Paulo, perché è lo stato con la maggiore popolazione carceraria del Brasile, 22mila detenuti solo nell’arcidiocesi della metropoli.

Esso si occupa anche dell’approccio politico, dell’intervento in caso di denunce, e di pressione su chi governa (lobbying), oltre che delle visite pastorali.

Padre Gianfranco allarga la visuale a livello continentale: «A livello di  America Latina, di Celam (Consiglio episcopale latinoamericano e caraibico), il nostro slogan è “Un mondo senza carceri”.

Ci sono state varie riunioni tra tutte le conferenze episcopali, e c’è questo sogno. Noi non crediamo che il carcere sia la soluzione ai problemi del nostro mondo, al contrario. Infatti, il carcere è fonte di tortura, è una sua espressione moderna, perché un carcerato o una carcerata, secondo la Costituzione brasiliana, dovrebbe perdere il diritto di muoversi liberamente e i diritti politici solo una volta avvenuta la condanna definitiva, ma questo non accade.

Si verifica una serie di violazioni di diritti: tortura (nel senso classico), sovraffollamento, cattiva alimentazione, scarsa cura della salute, pessime condizioni di vita.

Lo stato ci risponde dicendo: allora costruiamo nuovei carceri. Noi sosteniamo, però, che quantie più prigioni si costruiscono, tanto più aumenta il numero della popolazione detenuta.

Per fare un esempio, nei due anni di pandemia, siamo passati da 800mila carcerati a 930mila (in Italia siamo a circa 52mila, nda), di cui circa 50mila sono donne. Queste normalmente hanno a che fare con il traffico di stupefacenti, sono chiamate mule (corrieri, nda)».

Il peso delLa droga

Padre Gianfranco specifica che il riempimento delle carceri è direttamente legato alla legislazione sulla droga: «La grande questione che proponiamo è di non considerare la droga una questione di polizia, ma di salute. In Brasile, se ti trovano con un grammo di droga, anche la più leggera, vai in carcere. Perché stanno seguendo l’approccio di guerra totale agli stupefacenti. È uno degli elementi importanti che oggi alimenta la popolazione carceraria».

Poi la cocaina circola nelle feste di privati a un certo livello, e non c’è il problema morale di consumarla. Inoltre, negli incontri delle élite la polizia non entra.

Il missionario ci ricorda che l’incarceramento in Brasile ha un colore e uno status sociale: finiscono in prigione i neri, i poveri delle periferie, e i giovani. C’è un’alta percentuale di questi ultimi, quasi il 50% ha tra i 18 e i 29 anni. Sotto i 18 è previsto un sistema diverso, chiamato socioeducativo, che non dipende dal sistema penitenziario, ma è simile al carcere minorile.

(Photo by ANDRESSA ANHOLETE / AFP)

L’organizzazione

Chiediamo a padre Gianfranco come è organizzata la pastorale carceraria.

«Abbiamo una coordinatrice, la suora tedesca Petra Silvia Pfaller, un vicecoordinatore, padre Almir Ramos, di Santa Catarina, e una coordinatrice della questione delle donne in carcere, Rosilda Ribiero Rodrigues Salamão, perché a livello femminile il carcere ha prerogative particolari. Ad esempio, dal 2014 a oggi, abbiamo avuto un aumento del 700% di incarceramento femminile».

Padre Graziola racconta poi che c’è un nucleo di dipendenti che lavorano nella gestione economica, nell’amministrazione dei progetti e nel settore giuridico, ad esempio per le denunce di tortura, e, infine, sulla comunicazione. «Per la tortura, si lavora non tanto su casi singoli, ma sulla politica. In tempo di pandemia le denunce di tortura sono raddoppiate. Sul nostro sito si può fare denuncia anonima e non anonima. Il settore giuridico, in coordinamento con ogni stato, interpella i giudici, il difensore civico, chiedendo loro di intervenire. Ma non sempre si muovono, a volte danno risposte evasive».

La struttura prevede poi una serie di coordinamenti, con il coinvolgimento di periti. Padre Gianfranco è nella sezione teologica, dopo essere stato il vicecoordinatore nazionale. Lui fa anche parte della presidenza dell’associazione che gestisce i progetti per finanziare la struttura.

L’associazione ha alcuni finanziatori internazionali, come la tedesca Misereor, e altri nazionali. Anche se il missionario non nasconde che trovare finanziamenti è diventato sempre più difficile.

«Le altre conferenze episcopali in America Latina non hanno questa organizzazione. Qualcuna ha il cappellano, stipendiato dallo stato. Noi abbiamo scelto di non dipendere dallo stato».

La pastorale carceraria prevede poi gli agenti di pastorale, tutti volontari. Secondo una ricerca recente, sono circa 5mila.

Giustizia e altri temi

«Uno dei grandi temi su cui lavoriamo, con forte connotazione politica, è quello della giustizia riparativa, o restaurativa, come diciamo in Brasile (cfr. MC dicembre 2013).

Lavoriamo in rete con Espere (la scuola di pace di padre Lionel Narváez Goméz in Colombia, cfr. MC agosto 2018), sulle pratiche di giustizia riparativa. Ma utilizziamo anche la filosofia clinica, che tratta la questione dell’identità e dell’unicità. Un filosofo brasiliano, Lucio Packter, fa un lavoro sulla storia della persona e la sua unicità. Per esempio, in merito alla convinzione: “sono nato delinquente e resto tale”, noi diciamo di no. E ancora lavoriamo sul linguaggio nonviolento.

Sono tutti temi sui quali abbiamo lavorato molto in questo ultimo periodo e, data la pandemia, abbiamo anche dato un’attenzione particolare alle persone stesse che operano nella pastorale. Si tratta di avere cura di chi opera, di chi si prende cura».

AFP PHOTO / NELSON ALMEIDA (Photo by NELSON ALMEIDA / AFP)

L’agenda

Padre Gianfranco si entusiasma quando spiega l’approccio della pastorale con le famiglie dei carcerati. «È molto cresciuto il lavoro che facciamo con i parenti dei detenuti. Appoggiamo le famiglie, cercando di dare loro più margine di manovra per difendere i congiunti (impoderamento, in brasiliano, ndr). Le accompagniamo in un processo che porti a “un mondo senza carceri”. Per questo abbiamo creato un’agenda per il “desencaceramento” in dieci punti, che è stata sottoscritta da cinquanta entità impegnate nel settore (vedi box).  È nata nel 2013 dal fatto che visitavamo il carcere, vedevamo, denunciavamo, ma non succedeva nulla. Da lì si è originata una riflessione e poi questo decalogo.

Oggi è una rete molto grande che va avanti in un lavoro di squadra. E sono i parenti che portano avanti questa agenda. Noi stiamo nella retroguardia. All’inizio ci davano dei pazzi, ma da questa agenda è nato un meccanismo, riconosciuto dallo stato, di lotta alla tortura. Si tratta del Comitato nazionale e statale: ci sono periti indipendenti a livello nazionale che sistematicamente visitano le carceri e verificano se ci sono casi di tortura. È pagato dallo stato federale, è un ente governativo, ma è stato proposto da noi. Nel comitato c’è un rappresentante delle famiglie. Questo strumento si è affermato dopo l’eccidio del 2019 a Manaus (morirono 55 detenuti, nda)».

Uno dei punti concerne la droga, e propone non solo la depenalizzazione, ma la decriminalizzazione. Questo non vede tutti d’accordo neppure all’interno della chiesa brasiliana, perché c’è una questione morale.

Quando fare lobbying

Chiediamo a padre Gianfranco come funziona quando c’è una denuncia. «Ad esempio, c’è un problema e ci arriva una denuncia. Gli avvocati entrano in contatto con il coordinatore della pastorale carceraria in quello stato e si cerca di indagare. A livello centrale abbiamo relazioni con molte altre entità nazionali e internazionali che lavorano per i diritti umani. Facciamo lobbying di tipo politico. C’è stata la visita dell’alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, per denunce. La stessa Suprema corte brasiliana dice che il carcere in Brasile è anticostituzionale.

Si lavora sui diversi livelli, diocesano, statale e federale. Si fanno pressioni.

Noi, rispetto ad altre istituzioni, ci siamo costruiti una credibilità molto grande. Se c’è qualche problema, ci chiamano.

Ma oltre alla parte che riguarda i diritti umani, c’è l’impegno pastorale. La promozione umana e l’evangelizzazione sono parte della cura della persona. Quindi facciamo celebrazioni, diamo sacramenti, abbiamo agenti di pastorale presenti».

Prigioni private

In Brasile si sta diffondendo la privatizzazione delle carceri. Ne esistono due forme: la cogestione e la privatizzazione totale.

Nel primo caso, il penitenziario esiste già, viene mantenuto il direttore che, di norma, è un militare, e tutto il resto viene appaltato a privati (cibo, sanità, agenti penitenziari, ecc.). La guardia esterna, invece, non può mai essere data a privati.

Nel secondo caso, lo stato assegna un terreno a un’impresa. Su questo, il privato costruisce l’infrastruttura. Il direttore è appannaggio dello stato, ma tutto il resto è del privato.

Nella cogestione c’è super affollamento, mentre nel secondo caso no. Si tratta però di penitenziari disumani, molto tecnologici, nei quali non ci sono contatti tra detenuti. Ci racconta padre Gianfranco: «Ad esempio, ho incontrato in una di queste strutture una persona paraplegica abbandonata in una situazione tale da non potersi muovere. Ha insultato il direttore in mia presenza, chiedendo di tornare al sistema superaffollato, dicendo che “almeno ho qualcuno con cui stare”. Sono quasi dei lager».

Carandiru

Il 2 ottobre scorso ricorreva il trentennale del maggiore eccidio accaduto in un carcere brasiliano. Avvenne a Carandiru, a São Paulo. I morti ufficiali furono 111, ma si sa che furono molti di più. Furono portati via con i camion dell’immondizia. A tutt’oggi gli autori sono impuniti. «Carandiru è un po’ il simbolo della lotta contro il carcere. Nel 2017, negli stati di Roraima, Amazonas e Rio Grande do Norte ci furono quasi 200 morti per scontri nelle prigioni. Nel 2019 a Manaus morirono 55 detenuti. I funzionari dicono che sono le fazioni interne in lotta tra di loro. Ma noi rispondiamo: guardate che i responsabili siete voi, il sistema giudiziario. Durante la presidenza Bolsonaro, inoltre, gli agenti penitenziari sono stati autorizzati a portare le armi, per cui abbiamo assistito a una militarizzazione delle carceri», il che può ulteriormente peggiorare la situazione. Chiediamo a padre Gianfranco quali siano le maggiori difficoltà incontrate oggi dalla pastorale carceraria.

«Stiamo vivendo un momento difficile, perché molti agenti di pastorale si sono dovuti ritirare perché anziani e non se la sentono più.

Inoltre, ci sono difficoltà di relazione con i movimenti pentecostali e neo pentecostali. Stanno entrando nella pastorale, vogliono convertire tutti e hanno un aspetto moralistico che noi non abbiamo. Vanno a predicare, in modo molto emotivo, creando un po’ di conflitto, non ascoltano la gente. Noi siamo una pastorale di ascolto della persona, sulla quale c’è la nostra attenzione. È un approccio che parte dalla giustizia riparativa».

Marco Bello

Le richieste dei movimenti della società civile e della Chiesa

Agenda nazionale per il «descarceramento

Il decalogo, scritto inizialmente nel novembre 2013 da movimenti e organizzazioni sociali, allo scopo di promuovere la modifica del sistema carcerario, era centrato sull’esigenza di un programma per la riduzione concreta e rapida della popolazione detenuta. Nel 2016, tale agenda è stata attualizzata e ha ricevuto ulteriore appoggio da collettivi, organizzazioni e pastorali sociali. Nel primo incontro nazionale per il «desencarceramento» (traducibile come riduzione del peso delle carceri nella società), realizzato a São Paulo l’8 ottobre 2016, gli enti che assumevano l’agenda erano 30, mentre al secondo incontro, l’anno successivo, è stata sottoscritta da oltre 40.

Di seguito la sintesi del decalogo. Per approfondire si veda sul sito carceraria.org.br le versioni in portoghese, inglese e tedesco.

  1. Sospensione di qualsiasi costruzione di nuove carceri o struttura detentiva.
  2. Esigenza di riduzione massiccia della popolazione carceraria e della violenza prodotta nelle prigioni.
  3. Modifiche legislative per limitare al massimo la prigione preventiva.
  4. Contro la criminalizzazione dell’uso e del commercio di droga.
  5. Riduzione massima del sistema penale e recupero della autonomia comunitaria per la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
  6. 6. Aumentare le garanzie della Legge di esecuzione penale (Lep).
  7. Apertura del carcere e creazione di meccanismi di controllo popolare (sempre in ambito della Lep).
  8. Proibizione della privatizzazione del sistema carcerario.
  9. Prevenzione e lotta alla tortura.
  10. Smilitarizzazione della polizia e della società.

Ma.Bel.

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La versione integrale è disponibile sul sito: carceraria.org.br/agenda-nacional-pelo-desencarceramento.




Brasile. Voci di donne dalle favelas


Povertà, criminalità e promiscuità: di solito, sono queste le parole che descrivono le «favelas», luogo simbolico del Brasile. Proviamo a capirle attraverso donne di favela come Carolina Maria de Jesus (morta nel 1977) e Marielle Franco (assassinata nel 2018). Oggi altre donne seguono il loro esempio di lotta e speranza.

Delle favelas si parla molto, e forse ancora di più è stato scritto: libri, articoli e indagini accademiche. Ma quante voci hanno parlato della favela dalla favela? Quante volte abbiamo avuto la possibilità di ascoltare, direttamente e senza filtri, un racconto autentico proveniente da quel luogo «non luogo», incastonato nell’immaginario collettivo e diventato sinonimo, per molti, di povertà, criminalità e promiscuità? Si potrebbe rispondere poche, o quantomeno poche sono quelle arrivate dal Brasile fino alle nostre latitudini, permettendoci di aprire una finestra su quel mondo. Un mondo troppo spesso raccontato proprio da coloro che hanno contribuito a creare e alimentare l’emarginazione sociale materializzata nelle favelas.

Un nome che ha brillato negli ultimi anni per averle raccontate dal di dentro è sicuramente quello della compianta Marielle Franco: donna appartenente al collettivo Lgbtiq+, afrobrasiliana, madre single, politica, attivista per i diritti delle donne e baluardo contro tutte le discriminazioni del sistema capitalista, colonialista e patriarcale ben personificate dal presidente Jair Bolsonaro.

Ricordando Marielle Franco (1979-2018), durante una delle ricorrenti manifestazioni popolari celebrate a Rio in suo onore e per chiedere giustizia. Foto Mauro Pimentel – AFP.

Marielle, favelada di Rio de Janeiro

Marielle Franco, cria da favela da Maré (figlia della favela Maré) con una laurea in sociologia in tasca, ha rappresentato per molti anni una voce forte e determinata contro i soprusi vissuti dai favelados (abitanti della favela) di Rio de Janeiro.

Le parole di Marielle, prima come attivista, poi come consigliera comunale (vereadora) di Rio de Janeiro, avevano colpito l’apparato di repressione della polizia che, fino a quel momento, aveva operato quasi completamente nel silenzio delle autorità amministrative (e spesso con il loro beneplacito). Parole tanto forti da essere silenziate con 13 colpi di pistola. Era il 14 marzo del 2018. Quella notte, in un vile attentato le cui responsabilità sono ancora da chiarire, Marielle è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes.

Si spegneva dunque un baluardo delle rivendicazioni di una popolazione emarginata, non solo a Rio de Janeiro e non solo nelle favelas. Allo stesso tempo, però, fiorivano migliaia di altre Marielle che dal sangue del suo martirio hanno trovato forza, ispirazione e coraggio.

Carolina, favelada di São Paulo

Lo stesso giorno in cui Marielle Franco veniva uccisa, si celebravano i 114 anni della nascita (14 marzo 1914) di Carolina Maria de Jesus, la prima voce afrobrasiliana delle favelas a ottenere rilevanza mondiale. Un filo conduttore, dunque, ci porta da Rio de Janeiro a São Paulo e lega due donne afrobrasiliane che hanno vissuto la favela ma soprattutto hanno usato la loro voce come strumento di lotta politica, denuncia sociale e rivendicazione di diritti umani fondamentali. Negli anni Sessanta,
Carolina ha preso «a pugni» il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella metropoli di São Paulo, la voce di Carolina è emersa in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame.

Nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais, successivamente emigrata nella metropoli paulense per lavorare come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada (lavoro ancora molto comune), Carolina ha vissuto di stenti e patimenti, lottando ogni giorno contro un mondo ostile, fatto di difficoltà, discriminazione, violenza e precarietà. Il suo unico rifugio era la scrittura, passione alla quale dedicava il poco tempo nel quale non lavorava, non doveva preoccuparsi dei suoi figli e non era così stanca da crollare sul giaciglio della sua baracca.

Carolina ha coltivato sempre la speranza di vedere un giorno pubblicati i suoi scritti e di poter abbandonare la favela, luogo del suo quotidiano supplizio, un vero e proprio inferno in terra. Sapeva di non essere una raffinata ed erudita intellettuale, non aveva avuto accesso alle migliori scuole dell’élite bianca che governava (e che governa) quel Brasile in piena rivoluzione modernista, ma lei sapeva leggere e scrivere quanto bastava per consegnare a un diario le sue riflessioni, paure, speranze e sogni. Dopo alcuni tentativi falliti di pubblicizzare il suo lavoro di scrittrice, è stata scoperta dal giornalista Audálio Dantas che stava lavorando a un articolo sulle favelas. Quell’articolo, dove si parlava di Carolina e si faceva cenno ai suoi scritti, è stato poi pubblicato sul giornale O cruzeiro il 10 giugno 1959: Carolina Maria de Jesus aveva 45 anni e finalmente aveva realizzato il suo sogno. Ciò però che lei ancora non sapeva era che quello sarebbe stato solo l’inizio del suo viaggio. Infatti, tutto il suo diario, pubblicato inizialmente suddiviso in articoli sullo stesso giornale, sarebbe poi stato redatto in forma di libro nel 1960, causando un vero terremoto letterario.

Il sorriso di Carolina Maria de Jesús (1914-1977), favelada di San Paolo e scrittrice.

La fame è questa

Preso il titolo di Quarto de despejo: Diário de uma favelada («Stanza della discarica: diario di un’abitante della favela»), l’opera di Carolina è stata tradotta in più di dieci lingue, arrivando a vendere oltre 100mila copie.

Il libro è di una crudezza che ferisce, le parole vengono usate con una ingenuità che lacera e stordisce. I messaggi sono diretti, essenziali, ma di una forza che obbliga molte volte a distogliere gli occhi dal libro, prendere fiato e lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento. Carolina scrive e parla all’altro Brasile, quello che non vive nella favela e che non la conosce, il Brasile bianco, «educato», che non deve preoccuparsi ogni giorno di procurarsi un pezzo di pane.

Racconta la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Questa parola, «fame», ritorna in modo costante, scandendo le giornate che si susseguono nel diario, quasi fosse la routine di una condannata: una litania che ci accompagna tra le pagine che raccontano la favela di Canindé, a São Paulo, tra gli anni 1955 e 1959.

Sono riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come le seguenti:

«21 luglio 1955 – Quando sono tornata a casa erano le 22:30. Ho acceso la radio. Ho fatto una doccia. Ho scaldato il cibo. Ho letto un po’. Non so dormire senza leggere. Mi piace avere tra le mani un libro. Il libro è la migliore invenzione dell’uomo».

«8 maggio 1958 – È necessario conoscere la fame per saperla descrivere».

«10 maggio 1958 – Il Brasile ha bisogno di essere gestito da una persona che ha già provato la fame. La fame è una grande maestra. Chi soffre la fame impara a pensare agli altri e ai bambini».

«13 maggio 1958 – Sono andata a chiedere del lardo alla signora Alice. Mi ha dato il lardo e il riso. Erano le 21 quando finalmente ho potuto mangiare. E così il 13 maggio 1958 (settantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile, ndr) io ho combattuto contro l’attuale schiavitù, la fame!».

Uno dei tanti murales in ricordo di Marielle Franco. Foto Diego Battistessa.

«Esiste una favela in paradiso?»

Carolina era molto credente, anche Dio è spesso presente nelle sue riflessioni che provano a giustificare una situazione difficile, di estrema povertà e abbandono da parte delle istituzioni. I suoi sentimenti, tracciati esplicitamente nelle pagine del diario o comprensibili attraverso ciò che non è scritto ma che traspare dalle parole da lei usate, sono altalenanti. Passa da una fiducia cieca nella Divina Provvidenza a uno sconforto profondo che le fa pensare al suicidio. Uno dei passaggi più duri ed eloquenti su questo tema si trova alla data del 3 giugno 1958: «Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?».

Il diario di Carolina è stato ripubblicato più volte. In Italia, è famosa l’edizione del 1962 di Bompiani, con la prefazione di uno dei più importanti intellettuali italiani del XX secolo, Alberto Moravia.

Dopo Stanza della discarica, Carolina ha pubblicato altri testi che, seppur ben accolti dalla critica e dal pubblico, non hanno replicato il successo del primo.

Carolina, scrittrice afrobrasiliana, donna coraggiosa e insorgente, è scomparsa all’età di 62 anni (era il 13 febbraio del 1977) senza aver mai potuto abbandonare del tutto la povertà e la precarietà.

La notorietà acquisita con Quarto de despejo non le ha procurato la ricchezza sperata, anche se le ha permesso di migliorare la sua condizione e di lasciare la favela di Canindé nel 1963, dove era arrivata 16 anni prima, nel 1947, all’età di 33 anni e incinta.

«Cenerentola negra»

Dopo la sua morte, sono stati pubblicati postumi una serie di lavori editoriali che raccoglievano il materiale prodotto da Carolina e che non aveva ancora visto la luce in forma di libro. Carolina Maria de Jesus ha inaugurato un nuovo filone nella tradizione nella letteratura brasiliana, partendo dall’appropriazione della lettura da parte delle classi popolari. Il suo lavoro è stato una grande fonte d’ispirazione per altre donne non appartenenti alle classi agiate, che hanno cominciato a scrivere sotto l’influenza di Carolina.

Un elemento che colloca la sua voce tra le grandi personalità della letteratura brasiliana, come riconosciuto nel 2021 anche dall’Università federale di Rio de Janeiro che ha concesso alla scrittrice afrobrasiliana il titolo di dottore honoris causa postumo.

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica. Parole che mostravano una «razzializzazione» della povertà (una povertà cioè che aumenta di pari passo con la tonalità più scura della pelle) e che, per la prima volta, provenivano da dentro la favela, aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti.

Diversi sono stati gli omaggi riservati a Carolina Maria de Jesus in questo 2022. Uno dei più importanti è stato sicuramente la mostra ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista, luogo simbolo del potere economico brasiliano: «Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani».

L’istituto Moreira Salles aveva già contribuito in passato a riconoscere l’importanza della figura di Carolina Maria de Jesus, quando ad esempio, il 14 marzo 2014 (per il centenario della sua nascita) proiettò per la prima volta in Brasile un documentario, realizzato nel 1975 dalla televisione tedesca West Germans intitolato «Favela: la vita in povertà», con la stessa Carolina protagonista.

Altro omaggio è stato fatto il 23 aprile, durante il primo carnevale post pandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: «Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé». La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per la città di Franca (dove Carolina aveva iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo di bellezza e colori.

Diego Battistessa

Veduta di una favela a San Paolo. Foto Danilo Alvesd – Unsplash.


Nascita del termine «favela»

All’inizio era (soltanto) una pianta

Forse pochi sanno che favela è il nome dato in Brasile a una pianta endemica (cnidoscolus quercifolius) e che la diffusione di questo termine in ambito urbano si relaziona con la «Guerra de Canudos» (1896-1897) che ebbe luogo nel sertão di Bahia. La città di Canudos, scenario di uno scontro politico religioso si ergeva in mezzo ad alcune colline, tra le quali vi era il Morro da Favela (Collina della Favela), così battezzato perché ricoperto dall’omonima pianta.

Dopo la guerra, una parte dei soldati reduci dal conflitto, fecero ritorno a Rio de Janeiro ma, trovatisi senza stipendio, decisero di stabilirsi dentro alloggi precari da loro costruiti nel Morro da Providência (Collina della Provvidenza). Data una certa similitudine tra lo scenario di questa nuova sistemazione e la Collina della Favela vista a Canudos, i soldati battezzarono il nuovo insediamento Morro da Favela.

È da quel momento che gli insediamenti di alloggi e case di fortuna, dove risiedono persone con un basso (o quasi nullo) potere d’acquisto, passarono a essere chiamati favelas. Le favelas sono presenti in tutto il Brasile (circa 800 solo a Rio de Janeiro) e si stima che siano abitate da 15-20 milioni di persone.

WIKIFAVELA

Considerati questi numeri non c’è da stupirsi che si parli tanto di favelas brasiliane. Vale la pena di segnalare un progetto dedicato a Marielle Franco, ovvero il portale «Wikifavela», un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che: «Il Dizionario della favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario della favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».

Importante ricordare anche l’Instituto Marielle Franco, uno spazio creato dalla famiglia della defunta attivista che vuole continuare a lottare per la giustizia, difendendo la sua memoria, moltiplicando la sua eredità e annaffiando i suoi semi.

D.B.

L’attivista e politica Renata Souza per le strade della favela Maré, a Rio de Janeiro (2 settembre 2022). Foto Andre Borges – AFP.

Chi è la possibile erede

«Mi chiamo Renata Souza»

Renata Souza è già un simbolo. Lei è una «favelada» della Maré, figlia cioè dello stesso complesso di favelas al Nord di Rio de Janeiro dove è nata e cresciuta Marielle Franco, sua grande amica e fonte di ispirazione. Souza, 40 anni, deputata dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro dal 2018, è già una figura politica di spicco, un grimaldello che apre i palazzi del potere e che permette l’accesso della periferia marginalizzata ed esclusa nelle sale dove si prendono le decisioni importanti.

Niente è stato facile (e non lo è tutt’ora) per Souza, nel Brasile governato da Jair Bolsonaro dove razzismo, classismo e machismo sono all’ordine del giorno. Renata ricorda che una delle decisioni più importanti della sua vita la prese quando aveva solo 15 anni: decise che sarebbe diventata giornalista perché voleva raccontare la favela in modo diverso da come i media la dipingevano, senza pregiudizi, senza spettacolarizzazione della povertà e della violenza.

Nel percorso universitario conobbe Marielle, e tra le due nacque un’amicizia forte, mischiata a militanza, attivismo e lotta politica. Nel 2006 Souza, che già svolgeva il suo lavoro/missione di reporter dalla favela, accettò di unirsi alla campagna elettorale di Marcelo Freixo (il 3 ottobre candidato di sinistra a governatore di Rio de Janeiro). Da quel momento non lasciò più la politica accompagnando la sua amica Marielle durante le elezioni e diventando il suo capo di gabinetto. Fino al 14 marzo del 2018, quando per lei il mondo cambiò completamente. L’omicidio di Marielle le provocò una ferita che ancora non si è rimarginata. Il dolore fu enorme, il più grande della sua vita, ripete Souza nelle interviste, ma la spinse a fare un ulteriore passo in avanti. Nelle elezioni del 2018 fu la candidata di sinistra più votata e da quel momento è stata una delle voci più determinate nell’emiciclo dell’assemblea di Rio de Janeiro.

Per il suo impegno ha ricevuto minacce di morte da gruppi affini al «bolsonarismo» e ha dovuto abbandonare la favela. Da deputata ha promosso una legge per dare priorità alle indagini sugli omicidi di bambini e adolescenti oltre a varie misure per combattere «la violenza ostetrica» contro le donne afrodiscendenti. Alle elezioni dello scorso 3 ottobre è stata eletta deputata statale di Rio de Janeiro con 174.132 preferenze. In questo ruolo cercherà di portare ancora più in alto la voce della favela, le rivendicazioni del femminismo afrodiscendente e la lotta per i diritti umani.

D.B.

Una vista panoramica della favela di Rocinha, sempre a Rio de Janeiro. Foto Helena Masson – Unsplash.




Brasile. «Ma il futuro è indigeno»


Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.

È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».

Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).

Un arcobaleno illumina il cielo sopra la aldeia Xihopi (Tiy, Amazonas, maggio 2022). Foto Christian Braga – ISA.

«Dio, patria e famiglia»

Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).

Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.

Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o  candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».

La copertina del rapporto 2022 del CIMI.

Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.

A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.

Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».

L’aldeia Xihopi in una spettacolare vista dall’alto. Foto Christian Braga – ISA.

«Sì, anch’io posso agire»

Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.

Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.

Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.

Paolo Moiola


Il libro

Laboratorio Amazzonia

La copertina di «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» (giugno 2022).

Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).

Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).

Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.

Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).

«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.

Paolo Moiola

 (*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.