Atomica. L’umanità al bivio


In soli 45 minuti di guerra nucleare morirebbero 85 milioni di persone. L’atomica non è un elemento tra gli altri della politica mondiale. È quello centrale. E rende la guerra obsoleta. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la «soluzione finale» dell’umanità.

Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato.

Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici. Aveva come ipotesi di avvio un primo colpo «tattico» nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant, autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare Usa-Nato.

La previsione fu che in soli 45 minuti si sarebbero causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni.

Un’immane e repentina ecatombe. La morte dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, evocata da Robert Oppenheimer («sono diventato morte, distruttore di mondi»), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo dopo il quale il presidente degli Usa Harry Truman diede il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel film di Cristopher Nolan (vedi MC 6/2024).

Hiroshima e Nagasaki

Ricordiamo brevemente i fatti. Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti Usa desecretati, affermano sempre più convintamente che il governo giapponese era pronto ad arrendersi già da un mese quando piovve le prima bomba atomica il 6 agosto 1945 e, sicuramente, prima che arrivasse la seconda.

Il presidente Truman, però, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, e diede ugualmente il via libera allo sganciamento dei due ordigni atomici.

«La vera posta in gioco – ha scritto Zygmunt Baumann su quella decisione ne Le sorgenti del male, 2021 – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!”».

Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki.

Furono 220mila le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa 150mila quelle successive: persone morte per le conseguenze delle radiazioni. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

La guerra è obsoleta

Mentre si chiudeva la Seconda guerra mondiale, si inaugurava la cosiddetta Guerra fredda con la sua corsa agli armamenti. Iniziava un’era inedita nella quale l’umanità aveva la possibilità dell’autodistruzione.

Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo «come strumento di offesa della libertà degli altri popoli», ma neanche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Dopo gli oltre sessanta milioni di morti causati dalla guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, una realtà da archiviare tra i ferri vecchi della storia.

L’articolo 11, posto tra i Principi fondamentali della Costituzione, dice proprio questo, e obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica («pace con mezzi pacifici», recita la Carta delle Nazioni Unite). Alternative compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. È l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.

Sul filo del rasoio

Un esempio luminoso di questo pensiero è il Manifesto per il disarmo nucleare, composto nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell. Sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, è di una disarmante attualità: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». Un quesito che, per noi, qui e ora, è più attuale che mai.

Vale la pena aggiungere che nel 1955, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock – l’orologio dell’Apocalisse, il simbolico indicatore del pericolo nucleare per l’umanità messo a punto dal «Bollettino degli scienziati atomici» fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, l’ora della fine dell’umanità.

Oggi la situazione è peggiorata: nel gennaio 2023, a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la nuova posizione delle lancette era a 90 secondi dalla mezzanotte, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità. Stessa situazione confermata nel gennaio di quest’anno.

«L’umanità è sul filo del rasoio – ha ribadito Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno -: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda».

Responsabilità e realismo. Bandire le armi atomiche

Eppure, salvo alcuni «grandi vecchi» come papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa, dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di un conflitto internazionale, non può non tenere conto della «situazione atomica».

La tesi secondo la quale le armi atomiche sarebbero solo uno degli elementi in gioco nello scenario politico è un inganno. È vero piuttosto che lo scenario atomico è il contesto nel quale avvengono le cosiddette azioni politiche (Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki).

L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve tenere conto dell’esistenza delle armi nucleari. Deve ritrovare «il coraggio di aver paura». La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha un valore euristico, cioè di strumento per conoscere la realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.

Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato, ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima – scrive Anders – è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima».

Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano delle competenze tecnologiche – e appare sempre più vicina -, è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.

Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo «scarto prometeico», ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.

In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora: dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo, a partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari.

Parliamo del Trattato Onu voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna Ican, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (Usa, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord), né dai governi dei paesi che «ospitano» testate altrui. Come l’Italia che «custodisce» tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura Padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone «il non essere più», come nella realistica simulazione di Princeton.

Bomba e soluzione finale

Mentre scrivo queste righe, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, probabilmente dell’87, per il testo di un intervento mai svolto di Alberto Moravia al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984 (oggi inserito in appendice al suo L’inverno nucleare): «Nei primi anni del dopoguerra, la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba […]. Al processo di Norimberga – continua lucidamente Moravia -, la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della Seconda guerra mondiale».

Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.

Pasquale Pugliese

Nel mondo, in Europa, in Italia

Secondo l’ultimo rapporto Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), nel 2023, i nove Stati dotati di armi atomiche hanno speso complessivamente 10,7 miliardi di dollari in più rispetto al 2022 per i loro arsenali nucleari, raggiungendo la cifra di 91,4 miliardi.

Lo scorso 17 giugno il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sul numero di testate nucleari presenti nel mondo. Scrive: «All’inizio del 2024, nove Stati – Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele – possedevano circa 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 potenzialmente disponibili a livello operativo. Si stima che circa 3.904 di queste testate siano state schierate con le forze operative, di cui circa 2.100 mantenute in uno stato di alta allerta operativa, circa 100 in più rispetto all’anno precedente».

Riguardo alla presenza di testate nucleari Usa sul territorio italiano, più avanti, nel rapporto si stima che a inizio 2024 ci fossero circa 100 bombe non strategiche schierate in Europa per un potenziale utilizzo da parte di aerei da combattimento statunitensi e alleati. Le bombe, controllate dall’aeronautica americana, sono presenti in sei basi aeree in cinque stati membri della Nato: Kleine Brogel in Belgio; Büchel in Germania; Aviano e Ghedi in Italia; Volkel nei Paesi Bassi; e İncirlik in Turchia.

Luca Lorusso

 




Julius Robert Oppenheimer. Anche i fisici hanno conosciuto il peccato


Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica.  Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo della scienziata da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.

G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.

Operatrici al calutrone – l’apparecchio per separare gli isotopi – nell’ambito del Progetto Manhattan. Foto Ed Westcott.

La «Bhagavad Gita»

Dopo il 6 e il 9 agosto 1945, quando le due bombe nucleari furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki, Julius Robert Oppenheimer (1904-1967), mente tanto geniale quanto incostante e per molti versi ambigua, fu sempre travagliato da rimorsi e domande etiche sulla sua responsabilità nel «Progetto Manhattan» (riquadro a pag. 17).

Uno degli aspetti forse meno dibattuti nel tentativo di capire questo tormento morale è il rapporto che ebbe con un libro a lui particolarmente caro: la Bhagavad Gita («Canto del Divino»), il poema epico sanscrito che, sin dagli anni Trenta, lo aveva aiutato a trovare risposte alle sue domande esistenziali.

Intendiamoci, Oppenheimer non era una persona religiosa. Infatti, fu sempre attento a non farsi coinvolgere dalla comunità ebraica, non professò mai alcun tipo di fede, ma il testo indiano -assieme ad altri, come l’Amleto, la Divina Commedia, o i libri della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield – segnò profondamente parte della sua vita.

Dopo un primo superficiale approccio con la Gita nel 1931, Robert Oppenheimer iniziò a studiarla in modo analitico a partire dal 1933 con Arthur W. Ryder (1877-1938), professore di sanscrito all’Università della California di Berkeley, dove Robert insegnava fisica teorica.

«Ryder – ha scritto William Leonard Lawrence (l’unico giornalista a cui fu consentito di seguire il «Progetto Manhattan», ndr) – sentiva, pensava e parlava come uno stoico… una sottoclasse speciale delle persone che hanno un senso tragico della vita, in quanto attribuiscono alle azioni umane un ruolo decisivo nella differenza tra salvezza e dannazione. Ryder riteneva che un uomo poteva commettere un errore irreparabile e che, di fronte a questo fatto, tutti gli altri erano secondari. Aspramente intollerante verso la pigrizia, la stupidità e l’inganno, Ryder pensava che “Ogni uomo che fa bene una cosa difficile è automaticamente rispettabile e degno di rispetto”».

Forse queste parole furono di parziale conforto per il fisico quando, dopo il 1945, iniziò ad avere dei rimorsi di coscienza per aver dato il suo decisivo contributo allo sviluppo della bomba nucleare.

Con Ryder, Oppenheimer iniziò a leggere la Bhagavad Gita in versione originale trovandola, oltre che «molto facile e meravigliosa», anche «la più bella canzone filosofica esistente in ogni lingua conosciuta». Da allora ne tenne sempre una copia a portata di mano vicino alla sua scrivania e spesso ne regalava una ai suoi amici.

I dilemmi del principe Arjuna

Il racconto indiano inizia con il principe Arjuna impegnato in una battaglia sul suo carro. Vedendo che, nelle file avversarie, militavano parenti, familiari e amici, decise di rifiutarsi di combattere, chiedendo nel contempo consiglio al suo amico e confidente, il cocchiere Krishna, avatar1 di Vishnu.

I successivi capitoli vedono dipanarsi le argomentazioni di Krishna che cerca di convincere Arjuna a non sottrarsi al combattimento perché, essendo un soldato, è suo dovere entrare in battaglia. Inoltre, non sarà Arjuna con il suo arco a determinare chi deve vivere o morire, ma Krishna stesso, in quanto manifestazione di un dio. La morte è solo apparente, perché l’anima continua a sopravvivere e, anche se le frecce del guerriero porranno fine alla vita terrena del corpo dei nemici, la loro anima vivrà in eterno. È la devozione di Arjuna verso Krishna che lo salva dalle sue azioni peccaminose.

Alla fine, il principe Arjuna chiede a Krishna di manifestarsi nella sua forma divina. Questi lo avverte che «con i tuoi occhi non sei in grado di vedermi in questa Forma universale. Ti darò allora degli occhi divini: ora contempla pure la mia Divina Potenza» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 8)2.

È in questo contesto che è contenuta la frase che Oppenheimer citò il 16 luglio 1945 durante il primo test nucleare ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Usò la traduzione fatta da Ryder che, per alcuni versi, non coincide con le traduzioni tradizionali.

La prima si riferisce allo sbigottimento di Arjuna di fronte alla manifestazione divina di Krishna: «Se la luce di mille soli si levasse simultaneamente nel cielo, essa sarebbe simile all’effulgenza di questo Supremo Signore» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 12).

Lo stesso avatar spiega, alla fine, il motivo per cui lui si è incarnato nel mondo degli uomini proferendo la seconda frase poi passata alla storia come quella espressa dal capo del Progetto Manhattan subito dopo l’esplosione nucleare: «Io sono il tempo che quando giunge a maturazione distrugge l’universo. Qui mi vedi impegnato ad annientare queste stirpi umane. Anche senza di te, tutti questi guerrieri schierati su fronti opposti non sopravvivranno» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 32).

I versi ricordati da Oppenheimer furono poi riproposti per la prima volta da William Leonard Laurence che affermò di aver sentito la frase dallo stesso fisico a Los Alamos, dove era rientrato poche ore dopo il Trinity Test.

L’intera storia venne in seguito descritta nel libro dell’austriaco Robert Jungk3.

Secondo questo autore, la prima frase che Oppenheimer pronunciò appena vide il Trinity Test fu un’altra: «Se la luce di mille soli erompesse d’un tratto nel cielo nello stesso momento, essa sarebbe pari allo splendore del Magnifico». Solo in seguito, quando in distanza la nube si levò, pronunciò la frase più celebre: «Sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi».

La maggior parte delle traduzioni del libro induista interpretano la parola kālaḥ (कालं) come «tempo», mentre Arthur W. Ryder, nella sua edizione del 1929, probabilmente quella da cui Oppenheimer aveva studiato e, successivamente, ne aveva tratto la citazione, la rende come «Morte».

Oppenheimer potrebbe essersi identificato con Arjuna, con tutti i suoi dubbi e le incertezze sulla moralità di partecipare o meno ad una battaglia che lo avrebbe costretto a uccidere non solo i suoi stessi amici, ma anche i familiari. In quanto soldato, Arjuna aveva un compito ben preciso da compiere, esattamente come il fisico Oppenheimer.

Avrebbe potuto trovare le stesse giustificazioni in altri pensatori occidentali (pensiamo, ad esempio, a Dietrich Bonhoeffer secondo il quale, a volte, per combattere il male maggiore era necessario compiere un male minore), ma per il fisico statunitense era più facile trovare una redenzione in un testo orientale (pur sapendo che l’Oriente indiano non era certo simile a quello giapponese) piuttosto che in un testo della sua cultura di provenienza.

Julius Robert Oppenheimer con Enrico Fermi (al centro) e William L. Lawrence (a destra).

Scienziati e politici

Secondo Oppenhemeir, gli scienziati avevano il dovere di scoprire i segreti dell’universo e – nel suo caso – del nucleo atomico e su come realizzare la bomba, mentre era dovere della classe politica e diplomatica decidere che uso farne.

Questa distinzione di ruoli fu sempre posta in evidenza da Oppenheimer in ogni suo intervento pubblico. Nel 1946, mentre era direttore della Comitato di consulenza (General advisory committee) della Commissione per l’energia atomica affermò che il comitato da lui presieduto non aveva consigliato la Commissione su quante bombe avrebbero dovuto realizzare, «dato che non era un nostro lavoro, ma una decisione che doveva essere presa dall’apparato militare. Noi abbiamo solo evidenziato quali erano i limiti su quante bombe potevano realizzare in base al materiale reso disponibile».

A differenza di Einstein, Oppenheimer non credeva in un dio panteista: l’umanità era fatta da popoli di diverse culture, credi, indirizzi politici e filosofici. I giapponesi non erano suoi fratelli, questo lo aveva bene in mente, eppure, nonostante questi distinguo, dopo gli anni della guerra si sentì responsabile per quello che aveva fatto.

Le notizie dei kamikaze giapponesi che si immolavano per il proprio Paese lanciandosi verso le navi della flotta statunitense nel Pacifico dovevano avergli fatto venire in mente altri versetti del testo indiano: «Colui che pensa che il sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce, poiché esso non può uccidere né essere ucciso.

Esso non è nato né morirà, non è mai iniziato e non cesserà di esistere; non nato, eterno, immutabile e primordiale, non viene ucciso quando un corpo viene ucciso. Colui che conosce il Sé come indistruttibile, eterno e inalterabile, come e che cosa potrebbe mai uccidere? […] Le armi non lo feriscono, il fuoco non può bruciarlo, l’acqua non può bagnarlo e il vento non può seccarlo. Egli è eterno, immutabile, onnipervadente e sempre identico a sé stesso» (Bhagavad- Gita, Capitolo 2, 19-24).

Quindi, se gli stessi giapponesi credevano nella vita immortale, se gli stessi giapponesi uccidevano e si uccidevano con la convinzione che non si viene uccisi quando un corpo viene ucciso, doveva esistere una sorta di filo rosso che giustificava azioni-doveri. In questo senso, Oppenheimer doveva aver trovato nella Gita più spunti di consolazione non solo per i risultati dei suoi studi sulla bomba atomica, ma anche per i dubbi, le delusioni e i dolori che conobbe nel corso della vita.

Nel 1954 arrivò anche ad affermare che far esplodere una bomba dimostrativa in un luogo disabitato, come avevano proposto alcuni suoi colleghi, non avrebbe sortito nessun effetto sui giapponesi. E, ancora, nel 1957, spiegò che non vi era altra possibilità che lanciare la bomba su Hiroshima e Nagasaki perché, dopo il Trinity Test, il meccanismo si era messo in moto ed era impossibile fermarlo .

Come si legge nella Gita (Capitolo 11, verso 34): «Colpisci dunque Drona e Bhisma, Jayadatha e Karna, e similmente tutti gli altri potenti guerrieri. Essi sono già stati uccisi da Me. Combatti senza paura, e sarai vittorioso nella battaglia».

Nella visione di Oppenheimer uno scienziato deve essere il più neutrale possibile: «Egli siede nella neutralità senza essere turbato dall’agire delle tre qualità. Costui rimane sempre saldo e non vacilla, sapendo che

sono soltanto gli elementi fondanti della natura a modificarsi. Per quell’uomo gioia e dolore sono la stessa cosa, egli non è condizionabile e considera di pari valore la zolla di terra, il sasso e l’oro. Egli rimane uguale nell’onore come nel disonore, uguale con l’amico come con il nemico, e ha abbandonato ogni desiderio personalistico. Questo è l’uomo che ha trasceso i tre guna» (Bhagavad Gita, Capitolo 14, versi 23-25).

Rappresentazione della «Bhagavad-Gita»: il principe Arjuna e il cocchiere Krishna., avatar di Vishnu.

La lettera mai firmata

Anche la lettera di Leo Szilard, firmata da sessantasette altri scienziati, in cui chiedeva a Truman (successore di Roosevelt dall’aprile 1945, cioè pochi mesi prima del lancio dell’atomica) di non lanciare la bomba su un centro abitato, non venne firmata da Oppenheimer .

Non sappiamo se questi suoi atteggiamenti furono determinati dall’ignavia o dal fatto che l’amore per la fisica e per la ricerca prevaleva sulla morale umana. Più volte, il direttore di Los Alamos spronò i suoi colleghi a non distrarsi dal lavoro utilizzando un passaggio che nella Bhagavad Gita leggeva spesso: «il frutto del lavoro» o il «frutto dell’azione» . Il messaggio che il fisico voleva inviare a chi lo accusava di collaborazione morale con il genocidio nucleare era chiaro: gli scienziati non potevano orientare il mondo della politica su come utilizzare i risultati delle loro ricerche.

«Non è con l’astenersi dal compiere ogni agire che l’uomo può liberarsi dai legami dell’azione e dalle loro conseguenze. E nemmeno la semplice rinuncia ai suoi frutti può innalzare l’uomo alla perfezione» (Bhagavad Gita, Capitolo 3, verso 4).

Pur essendo un assiduo lettore della Gita, Robert non fu mai portato a diventare un devoto induista e non diede mai a vedere in pubblico che quel libro lo avesse particolarmente influenzato nelle decisioni della sua vita.

Per una persona erudita come Oppenheimer gli interessi spaziavano anche oltre l’universo indiano. Eppure, utilizzò spesso i versi della Gita per interventi pubblici. Durante il ricordo funebre per la morte di Franklin Delano Roosevelt, tenuto a Los Alamos nell’aprile 1945, citò un verso  (Bhagavad Gita, Capitolo 17, verso 3) che amava ripetere spesso e che avrebbe ripetuto anche in seguito, quando sentirà che la sua vita stava ormai giungendo al termine a causa di un tumore alla gola: «L’uomo è una creatura la cui sostanza è la fede. Come è la fede dell’uomo, così egli è».

Piergiorgio Pescali

Note

  • (1) L’avatar è la manifestazione di una divinità sulla Terra.
  • (2) I versi riprodotti in questo articolo sono trascritti dalla traduzione in italiano de La Bhagavad-Gita, il canto del beato, dal sito www.labhagavadgita.it.
  • (3) «Brighter than a Thousand Suns: A Personal History of Atomic Scientists», pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1956 e poi tradotta in inglese nel 1958.

Albert Einstein e Leo Szilard discutono della lettera da inviare al presidente Roosevelt (2 agosto 1939). Foto Atomic Heritage Foundation.

La risposta Usa alla Germania nazista

1942-1947, il Progetto Manhattan

Il Progetto Manhattan fu conseguenza della scoperta nel 1938 della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hanh e Fritz Strassmann. Timorosi che gli sviluppi potessero portare alla preparazione di una bomba nucleare da parte della Germania nazista, Leo Szilard e Eugene Wigner scrissero una lettera, firmata anche da Albert Einstein, in cui si chiedeva al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di avviare un programma che anticipasse la ricerca tedesca. Mentre il coinvolgimento di Einstein nel progetto si fermò qui, nel giro di qualche anno migliaia di altri scienziati nel campo della fisica, chimica, tecnici, ingegneri e impiegati amministrativi vennero coinvolti nel più ambizioso programma di ricerca mai avviato sino ad allora.

Il 19 gennaio 1942, Roosevelt avviò lo Sviluppo dei materiali surrogati (Development of substitute materials), e nel giugno dello stesso anno, presso il diciottesimo piano di un edificio al 270 di Broadway, a Manhattan, New York, venne fondato il Manhattan engineering district, l’ufficio militare in cui si imbastirono i primi piani di quello che, in seguito sarebbe stato conosciuto con il nome di «Progetto Manhattan».

Per mantenere l’assoluta segretezza dell’operazione, che in una città come New York avrebbe potuto essere compromessa, si spostarono laboratori e uffici in vari piccoli e isolati centri degli Stati Uniti: Oak Ridge, Hanford e il sito di Los Alamos, nel New Mexico, alla cui guida venne posto Robert Oppenheimer, furono i principali, ma nel corso degli anni la ragnatela si arricchì di un’altra quindicina di siti, alcuni dei quali in Canada.

Il 2 dicembre a Chicago, Enrico Fermi riuscì a compiere la prima reazione di fissione nucleare al mondo e nel 1944, dopo aver studiato vari tipi di materiali da utilizzare, venne scelto di sviluppare i disegni delle due bombe «Little Boy» e «Fat Man».

Il 16 luglio 1945 venne svolto il Trinity Test, che vide esplodere «Gadget», la prima bomba nucleare. Tutto ormai era pronto per l’operazione sul campo: il 6 agosto 1945 Hiroshima venne bombardata e tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki.

Il 1° gennaio 1947 il Progetto Manhattan venne ufficialmente chiuso. L’intera operazione era costata 1,9 miliardi di dollari (equivalenti a 23 miliardi attuali) e aveva impiegato 120mila persone.

P.P.

La devastazione di Nagasaki, bombardata il 9 agosto 1945.


Bombe a fissione e bombe all’idrogeno

Da «Little Boy» a «Ivy Mike»

La bomba nucleare a fissione ha portato a uno sviluppo della stessa verso la bomba termonucleare, o bomba a idrogeno, inventata da Edward Teller e Stanislaw Ulan. Il primo test del genere venne svolto il 1° novembre 1952 sull’atollo di Eniwetok, nelle Isole Marshall, con la «Ivy Mike». La potenza sprigionatasi dallo scoppio, pari a 10,4 milioni di tonnellate di tritolo, fu circa 700 volte superiore a quella della bomba di Hiroshima.

Mentre la bomba nucleare a fissione basa la potenza distruttiva solo sull’energia sprigionatasi dalla parziale fissione dell’uranio o del plutonio (solo una piccola parte del combustibile nucleare si fissiona), la bomba termonucleare addiziona alla scissione nucleare la fusione di due isotopi dell’idrogeno, il trizio e il deuterio incapsulato in un involucro di uranio. Nelle bombe moderne, il deuterio, facile ed economico da ottenere, ma problematico da utilizzare perché deve essere raffreddato in forma liquida a circa 250°C sotto lo zero, è sostituito dal deuterio di litio che, essendo un solido, è più facile da maneggiare.

Una bomba termonucleare è formata da due parti: la parte primaria, che è il detonatore (uranio o plutonio che viene fatto fissionare) e la parte secondaria, che è la sezione che contiene il materiale di fusione.

La fissione del nucleo di uranio o plutonio sprigiona raggi X che comprimono il deuterio o il deuterio di litio, che produce trizio. La compressione riscalda il combustibile nucleare sino a una temperatura (circa 100-150 milioni di gradi) tale da provocarne la fusione del deuterio e del trizio che libera energia fissionando anche l’intero involucro in cui è contenuta, formato da uranio, responsabile dello sviluppo dell’energia distruttiva liberata durante la detonazione.

In questo modo l’energia rilasciata dal processo di fissione-fusione-fissione è maggiore di quella della sola fissione. A parità di massa, la bomba termonucleare sprigiona circa dieci volte l’energia prodotta da un ordigno a fusione, ma negli ordigni moderni la potenza può essere anche migliaia di volte superiore.

P.P.


Il ruolo della religione nell’India di Modi

l’intolleranza dell’induismo nazionalista

Nel più popoloso paese del mondo, con la presidenza di Modi, è tornata prevalente l’ideologia «hinduvta» che predica la superiorità degli hindù sulle altre comunità. A farne le spese sono soprattutto musulmani e cristiani.

Un ritratto di Vianayak Damodar Savarkar (1883-1966), fondatore del movimento nazionalista dell’«hindutva».

Con il termine «induismo» si è soliti indicare l’insieme di credenze e pratiche religiose nate e sviluppatesi nella vasta regione del fiume Indo (Sindhu, in sanscrito). Storicamente, soltanto nel 1893, a Chicago (nel primo «Parlamento mondiale delle religioni»), il termine iniziò a essere utilizzato come identificativo confessionale specifico della maggior parte delle popolazioni (che oggi contano oltre un miliardo di persone) che abitano l’India. Tuttavia, già tra il VI e il V secolo a.C. gli abitanti del territorio bagnato dalle acque dell’Indo, ad est dell’Impero achemenide, venivano identificati con il termine di hindù (o indù), passato poi nella terminologia greca e latina.

Oltre che una religione, possiamo definire l’induismo come una serie di stili di vita e di pratiche etiche che costituiscono contemporaneamente un sistema sociale.

Per parte loro, gli hindù definiscono la propria religione come sanatana dharma, «legge eterna» o «morale eterna», anche questa espressione recente, visto che ha iniziato a essere utilizzata solo nel secolo scorso.

Premesso che miti, credenze, fedi dell’induismo si sono sedimentate in oltre tremila anni di storia, è possibile descrivere questa confessione seguendo quattro grandi ere storiche:

  1. il periodo vedico (1500-500 a.C.);
  2. il periodo del brahmanesimo, o induismo antico (500 a.C.-500 d.C.);
  3. il periodo induista recente (500 – fine XIX secolo);
  4. il periodo induista attuale (dal XIX secolo a oggi).

È essenzialmente questa la linea comune che lega le varie forme di induismo presenti nel subcontinente indiano dato che la mancanza di dogmi e di una figura religiosa che sovrasta le altre rende difficile una definizione univoca della religione.

Alcune delle idee inserite in epoca tarda (IX-IV secolo a.C.) nei Veda (testi sacri) tramite le Upanishad (commentari dei Veda), portarono all’idea della reincarnazione e che questa sia governata dalla legge del karma, che il samsara, il ciclo delle rinascite, dovesse essere interrotto tramite una serie di azioni che portavano a dissipare l’ignoranza verso la nostra vera essenza raggiungendo il moksha, la salvezza.

Il modo per rompere il ciclo di rinascite è l’osservazione del dharma, una serie di comportamenti morali e rituali che porta l’atman, l’anima individuale, a unirsi alla divinità.

Dal punto di vista cosmologico, l’induismo accetta dunque l’universo proposto dai Veda, dove diversi regni sovrapposti uno sull’altro rappresentavano svariati gradi di esistenza e di sviluppo in cui gli esseri si reincarnavano.

Le divinità induiste, pur essendo molteplici, si possono raggruppare nelle Trimurti che vedono in Brahma, il creatore, Vishnu, il conservatore e Shiva, il distruttore, i principali dèi. Altri esseri soprannaturali abitano il pantheon induista, ma per la maggior parte questi sono emanazioni delle Trimurti, o i loro avatar (ad esempio Krishna, avatar di Vishnu).

Oggi il movimento induista si è incarnato in un movimento nazionalista, l’hindutva («induità»), nato negli anni Venti del XX secolo, che predica la superiorità etnica, morale, religiosa e culturale degli hindù sulle altre comunità presenti in India. Sviluppatosi per opera del bramino Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), l’hindutva ha come suo fondamento la distinzione tra le religioni nate all’interno dell’India (come il giainismo, l’induismo, il buddhismo e il sikhismo) e quelle nate fuori dall’India (islam e cristianesimo, in particolare), definendo queste ultime come estranee al corpus indiano. Fu però solo con il colonialismo britannico che si tracciò un netto spartiacque tra le fedi: nei censimenti voluti dalla Corona inglese nella colonia asiatica, gli indiani dovevano scrivere a quale religione appartenessero. Fino ad allora, la mentalità indiana non trattava giainismo, induismo, buddhismo e sikhismo (le quattro religioni dell’hindutva) come separate tra loro: l’appartenenza a una tradizione non escludeva l’altra.

Oggi l’ideologia hindutva è rappresentata da un ombrello di partiti raggruppati nel Sangh Parivar (famiglia del Rss, Rashtriya swayamsevak sangh, l’Organizzazione nazionale di volontariato) di cui fa parte il Bharatiya janata party (Bjp) di Narendra Modi, dal 2014 primo ministro della nazione.

Durante il suo mandato sono state emanate diverse leggi atte a opprimere le comunità musulmane e cristiane. Quattro Stati dell’Unione indiana (Karnataka, Haryana, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh) hanno vietato le conversioni all’islam attraverso il matrimonio (secondo il diritto islamico una donna musulmana non può sposare un uomo di altra religione se prima questi non si converte), mentre la stampa di destra indiana continua a dare resoconti (molte volte non verificati) di islamici che uccidono vacche (sacre per l’induismo), stuprano donne, violano le leggi induiste.

Con il nuovo governo, denominato Modi 2.0, l’hindutva sembra aver preso una piega ancora più radicale, soprattutto con la nomina di Amit Shah a ministro dell’Interno. La proposta di legge sulla cittadinanza avanzata da Shah intende dare la cittadinanza solo a quei profughi provenienti da Nepal, Bangladesh, Pakistan e Afghanistan che non siano musulmani.

L’hindutva rivolge le sue attenzioni anche al cristianesimo, che ha una doppia colpa: quella di essere una religione straniera e di avere come fedeli i «fuoricasta». L’80% dei cristiani appartiene, infatti, alla casta dei dalit (un tempo si diceva «intoccabili»), in particolare nell’Orissa. Anche se non raggiungono ancora i livelli di odio e violenza a cui sono sottoposti i musulmani, gli episodi di intolleranza verso i cristiani si stanno moltiplicando: cappelle date alle fiamme, autorità che impongono alle comunità di non mostrare in pubblico i simboli della fede. I dalit che si convertono al cristianesimo o all’islam perdono ogni forma di protezione sia nazionale che locale, trasformandosi in potenziali bersagli dell’intransigenza hindutva.

Tutti i rapporti concordano sulla pericolosa deriva di intolleranza intrapresa sia da organizzazioni che si rifanno al Sangh Parivar, sia dalle stesse istituzioni statali che dovrebbero garantire la salvaguardia dei diritti umani di tutti i cittadini indiani senza distinzione di appartenenza etnica, culturale, linguistica e religiosa. Per esempio, è significativo che lo scorso 28 maggio il premier Modi abbia inaugurato la nuova sede del parlamento indiano con una cerimonia religiosa induista.

Piergiorgio Pescali

Membri della comunità cristiana protestano pacificamente per le violenze contro i cristiani occorse in vari stati dell’India (Nuova Delhi, 19 febbraio 2023). Foto Arun Sankar – AFP.


La scienza su MC

Piergiorgio Pescali, Albert Einstein, tra Nobel e famiglia, novembre 2022.