Amazzonia, resistenza e proposta
Dall’Amazzonia colombiana a quella boliviana. Due missionari Imc hanno partecipato al Fospa per capire come la resistenza contro la distruzione dell’Amazzonia possa passare dalle parole ai fatti. Perché le idee e i progetti sono tanti, ma il tempo stringe.
Era il 1951 quando, nel Caquetà e Putumayo, in Colombia, arrivarono i Missionari della Consolata, con monsignor Antonio Torasso. All’epoca, l’Amazzonia era un luogo di conquista e colonizzazione. La foresta veniva distrutta per costruire strade, case, paesi, per la creazione di grandi pascoli e coltivazioni estensive per portare il «progresso» secondo la prospettiva occidentale e, infine, convertire le comunità autoctone alla religione cattolica, e vestire le persone con abiti «decenti».
Oggi, settantatré anni dopo, la realtà è molto diversa perché – per fortuna – parliamo di dialogo con le culture, rispetto del territorio, conservazione della foresta amazzonica.
Tutto questo lo sentiamo importante come ci hanno insegnato le comunità indigene del nostro territorio che, da sempre, vivono in equilibrio con la natura e da essa ricevono tutto quello di cui hanno bisogno per vivere.
La parrocchia e il parco
Io vivo nella parrocchia di Solano, Caquetà, Amazzonia colombiana. La parrocchia appartiene al Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano, creato nel 2013 da papa Benedetto XVI che nominò come primo vescovo monsignor Joaquin Humberto Pinzón Güiza, Imc, che – da allora – lo guida con molto entusiasmo.
Da sette anni sono parroco di questa parrocchia così estesa che abbiamo dovuto suddividerla in quattro parrocchie più piccole. Si trova nel municipio di Solano a cui appartiene uno dei parchi naturali più estesi e belli dell’Amazzonia colombiana: il parco del Chiribiquete. Nei suoi pressi troviamo comunità indigene autoctone (Coreguaje, Huitoto e Murui) che vivono in riserve riconosciute dal governo colombiano e con una certa autonomia e legislazione propria.
Nel parco vero e proprio è proibito l’accesso a chiunque (anche se, con molta probabilità, al suo interno si sono rifugiati gruppi della guerriglia), ma ci vivono almeno tre comunità indigene in isolamento volontario, ovvero che non sono venute a contatto con la «civiltà» occidentale.
L’Amazzonia e Francesco
In questi ultimi anni, da territorio dimenticato e marginale, l’Amazzonia è diventata luogo di somma importanza per la vita dell’umanità. Anche papa Francesco l’ha posta al centro dell’attenzione a livello ecclesiale sia per la salvaguardia del Creato, sia per le popolazioni che in questo territorio vivono.
Oltre ad aver scritto nel 2015 l’enciclica «Laudato Si’» sulla cura della Casa comune, nel 2019 Francesco ha indetto il Sinodo per l’Amazzonia. Il documento post sinodale è stato accompagnato dalla lettera «Querida Amazonia». Inoltre, il pontefice ha fatto nascere la Ceama, la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia. Prima del Sinodo, era sorta la Repam, la «Rete ecclesiale panamazzonica» per raccogliere tutte le forze presenti nell’Amazzonia, dove sono presenti più di cento giurisdizioni ecclesiastiche.
La nascita del Fospa
Sapendo che l’unione fa la forza, nel 2002 persone, associazioni e gruppi hanno dato vita a uno spazio d’articolazione per proteggere quello che viene chiamato il «polmone» del pianeta e così è nato il Fospa, il «Foro sociale panamazzonico».
Nel 2017, a Tarapoto, in Perù, avevo partecipato all’ottava edizione del Fospa. Quest’anno l’undicesima edizione dell’incontro si è tenuta dal 12 al 15 giugno scorso, a Rurrenabaque, San Buenaventura y Reyes nell’Amazzonia boliviana dove ho avuto la fortuna di partecipare assieme a padre Fernando Flóres e Tania Ruiz del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano.
Da un’Amazzonia all’altra
Siamo arrivati in Bolivia in anticipo per trascorrere due giorni a La Paz, la capitale amministrativa più alta del mondo, a 3.600 metri sopra il livello del mare. E qui abbiamo avuto modo di vedere – con i nostri occhi – cosa produce il cambiamento climatico.
Con una guida turistica siamo, infatti, stati sul massiccio di Chacaltaya, a 5.421 metri d’altezza, unico centro di sport invernali della Bolivia e anche il più alto del mondo e più vicino alla linea equatoriale.
A causa del riscaldamento globale, dal 2009 il ghiacciaio (risalente a 18mila anni fa) è praticamente scomparso, lasciando il posto a un deserto di rocce. Nel gruppo delle dodici persone in visita al luogo c’era un signore olandese che ha raccontato la sua esperienza negli anni Settanta come sciatore in questo stesso luogo.
Sulla crisi climatica
A quest’ultimo Forum hanno partecipato 1.200 persone provenienti dai nove Paesi dell’Amazzonia, ma anche dall’Africa. I partecipanti sono stati divisi in quattro grandi gruppi, attorno ad altrettanti temi: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre Terra, estrattivismo e alternative, resistenza delle donne.
Io ho fatto parte del gruppo Madre Terra. Il tema è stato diviso, a sua volta, in cinque aree di studio. Personalmente, ho partecipato al gruppo di lavoro sul «Cambio climatico» («Crisi climatica») che noi abbiamo ribattezzato «Collasso climatico».
Inizia così il nostro documento finale: «L’Amazzonia ha raggiunto il punto di non ritorno: il collasso climatico derivante dalla deforestazione e dall’estrattivismo minaccia la sua sopravvivenza, quella delle comunità che la abitano, e mette a rischio la vita dell’intero pianeta».
Si è insistito molto sul fallimento del cosiddetto «accordo di Parigi» (per limitare il riscaldamento globale, entrato in vigore nel novembre 2016) e sulla solidarietà tra i popoli per frenare ogni tipo di meccanismo perverso.
Oggi la situazione è preoccupante: «Senza l’Amazzonia non esiste soluzione alla crisi climatica. Senza una soluzione alla crisi climatica globale non sarà possibile salvare l’Amazzonia».
Abbiamo riflettuto per un accordo a favore della vita, e proposto un cambio dalla base, con una «minga» (termine quechua per indicare un lavoro comunitario) e cioè un tavolo di lavoro collaborativo tra i vari continenti, partendo dal nostro sentire e pensare. Per rendere realtà l’urgente richiesta di «cambiare il sistema capitalista e non il clima» occorrerà: costruire territori liberi da estrazione petrolifera e mineraria, deforestazione, agrocommercio, inquinamento, libero commercio, razzismo, colonialismo, prodotti transgenici, prodotti agrotossici, megaprogetti infrastrutturali, violenza, militarizzazione, genocidio e terricidio.
«Oggi – hanno spiegato i partecipanti – è chiaro che soluzioni reali ed efficaci arriveranno dalle nostre lotte, dai nostri territori, dalla nostra esperienza, dalla nostra capacità di autogestione e dalle nostre alternative».
A casa dei Chimanes
Oltre a partecipare ai lavori di gruppo, abbiamo avuto l’opportunità di visitare una delle tante comunità indigene del territorio. Siamo così stati a San José di Canaan, una comunità di Chimanes (detti anche Tsimané) che vive in una riserva riconosciuta dal governo. Attorno a loro ci sono altri ventitré villaggi indigeni che lo scorso anno hanno vissuto un terribile incendio durato quasi tre mesi. Con tutte le loro forze hanno cercato di domarlo ma l’incendio ha distrutto intere comunità. Anche San José ha perso molti raccolti, ma si è riusciti a circoscrivere la perdita all’esterno del villaggio. È stato un disastro umano e ambientale molto grande. Oggi ci sono famiglie con bambini delle comunità distrutte, che vanno nei ristoranti e negozi dei due paesini di Rurrenabaque e San Buenaventura a chiedere elemosina.
La comunità San José ci ha accolto con una danza e un discorso di benvenuto nella propria lingua.
In seguito, alcuni di loro han- no raccontato il dramma vissuto. Molto interessante è stato vedere come le comunità si siano assunte le loro responsabilità proponendo criteri e metodologie affinché, in futuro, gli incendi non vengano favoriti dagli stessi abitanti.
Sono state stabilite norme precise come non diserbare con il fuoco ma triturare la vegetazione perché rimanga come concime per la terra. E quando, eventualmente, si dovesse pulire un terreno con il fuoco, non farlo nei quattro mesi di tempo secco e cercare sempre la presenza di tutta la comunità perché possa intervenire in caso d’emergenza.
La lezione che abbiamo appreso dall’esperienza di San José è la seguente: non bisogna aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, occorre iniziare da noi stessi a realizzare azioni utili per un futuro migliore.
I nostri comportamenti
Come sanno benissimo i lettori di Missioni Consolata, bisogna rivedere il nostro stile di vita. Quindi, è indispensabile ridurre il consumo di acqua, non sprecare energia elettrica, utilizzare meno carta, muoversi di più a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici, ottimizzare i sistemi di riscaldamento e raffreddamento in casa, ridurre gli sprechi alimentari, piantare alberi, riciclare, recuperare.
Qui, nella nostra parrocchia, stiamo spingendo a non utilizzare recipienti monouso. La stessa gente del paese sta guardando alle istituzioni che rispettano l’ambiente. Questo diventa un incentivo per aumentare la sensibilità verso la custodia della natura e dell’Amazzonia tutta.
Angelo Casadei
Puerto Leguízamo, esperienze concrete a livello di territorio
Dalle parole ai fatti
«L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di apportare cambiamenti negli stili di vita, nella produzione e nei consumi, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano» (Laudato Si’, 23).
Nel 2015, il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano ha iniziato l’attuazione di un progetto sul Cambiamento climatico sotto la direzione del padre José Maria Córdoba Rojas, all’epoca direttore della Pastorale sociale. L’intervento è stato realizzato nella zona di Nuestra Señora de la Mercedes del Comune di Solano Caquetá.
Obiettivo del progetto: aumentare la resilienza delle comunità contro i rischi di siccità e inondazioni, attraverso metodi di produzione adattati e sostenibili, con la partecipazione di cento famiglie (di cui novanta contadine e dieci indigene) situate nelle veredas (comunità rurali con coloni provenienti da altre regioni, ndr) di Mononguete, Las Mercedes, Hericha, Peñas Blancas e nel resguardo (comunità indigena autoctona, ndr) la Teófila.
L’intervento è stato realizzato tenendo conto delle popolazioni più vulnerabili, cercando nelle comunità un cambiamento nei modi di vita in armonia con il territorio amazzonico. Attraverso i processi formativi è stato possibile per le famiglie trasformare un atteggiamento passivo in uno sguardo critico e riflessivo sulla realtà sociopolitica, economica ed ecologica, a partire dalla gestione delle proprie aziende agricole e da come vengono visti il territorio e la comunità.
A livello comunitario è stata rafforzata la leadership, sono state formulate, gestite e realizzate piccole iniziative per progetti infrastrutturali e per la lavorazione del latte e del miele di canna. Attraverso spazi di lavoro comunitario e scambi di esperienze e visite tra produttori, è stato possibile conoscere nuove visioni del territorio, pratiche agroforestali sostenibili, scambio di sementi, riconoscimento e valorizzazione delle tradizioni culturali di alcuni popoli dell’Amazzonia.
Francisco Rodriguez Tovar
La riflessione
Plurietnici, Pluriculturali, Biodiversi
ARurrenabaque-San Buenaventura ci siamo riconosciuti plurietnici, pluriculturali e biodiversi, ma immersi in una visione d’insieme chiamata Amazzonia, superando così i confini imposti dai nove Stati nazionali in cui il territorio amazzonico è stato suddiviso.
L’Amazzonia vive perché respira attraverso la complessità delle sue foreste, acque, flora, fauna e delle culture che si mostrano nei volti di indigeni e afro, di contadini e residenti fluviali, ma anche abitanti delle città. Questa Amazzonia è però malata e sofferente a causa dei progetti di morte che si sviluppano al suo interno, trasformando la Madre Terra in una semplice risorsa monetaria venduta al miglior offerente.
Se sul pianeta tutto è connesso, una «foresta» non funziona senza l’altra. La foresta eurocentrica di cemento ha bisogno della foresta amazzonica per preservare la vita nelle sue molteplici forme. Al medesimo tempo, la foresta amazzonica ha bisogno che la foresta eurocentrica prenda coscienza che è impossibile sostenere un consumo infinito con risorse finite. Per tutto questo, accanto ai volti amazzonici, il Fospa ha accolto altri volti provenienti da diverse parti del pianeta che si sono alleati nel grido in favore della vita.
È stato interessante sentire che non si deve aspettare che la cura arrivi solo dall’esterno. È da questa constatazione che scaturisce la necessità di passare dalla condizione di vittime a quella di attori, avendo sempre ben chiaro che non c’è cultura senza territorio, non c’è territorio senza conoscenza, saperi e memoria, non c’è territorio senza acqua.
L’autonomia non si ottiene solo da un documento, ma da un territorio con le caratteristiche preesistenti che comprendono spiritualità, cibo e salute. Siamo autonomi quindi se viviamo, se produciamo e se abbiamo la capacità di curarci.
Il Fospa porta avanti il grande sogno di vedere il territorio come la Madre da cui tutti dipendiamo e l’essere umano come fratelli e sorelle diversi, sì, ma uniti da un unico scopo: coltivare, proteggere, guarire e tessere la vita che ci è stata data in eredità dalle nostre antenate e antenati. Il Fospa – infine – è servito per condividere una Parola che è arrivata al cuore e che ognuno di noi partecipanti si è portato con sé per essere risvegliata nei propri territori.
Fernando Flórez Arias (Imc)