Gioie e fatiche di camminare insieme

All’inizio del capitolo sesto degli Atti degli Apostoli la chiesa sembra stabilizzata: ha subito alcune persecuzioni, che però non l’hanno sconvolta troppo; ha già una sua struttura interna, molto minimale, con l’abitudine di mettere in comune i beni perché i poveri possano essere sostenuti. E il numero dei discepoli continua ad aumentare. Sorge però un problema, apparentemente secondario, che invece è serio e, soprattutto, è sintomo di una realtà molto più complicata di quanto non ci verrebbe da immaginare: «Gli ellenisti mormorarono contro gli ebrei perché nella distribuzione quotidiana venivano trascurate le loro vedove» (At 6,1).

Luca vuole presentare la comunità ideale senza però nascondere le tensioni interne e i problemi reali che continueranno a riproporsi nella chiesa di tutti i tempi: ecco, dunque, che ci lascia degli indizi per capire che anche la prima chiesa, pur idealizzata, non presenta solo rose e fiori.

Ebrei ellenisti a Gerusalemme

Luca può dare per scontato che i suoi contemporanei conoscano abbastanza bene una realtà che per noi è invece lontana e difficile da immaginare.

L’impero romano, nella sua espansione, porta una riduzione delle autonomie e una tassazione più rigorosa, ma porta anche una legge prevedibile e affidabile che, pur non uguale per tutti, concede addirittura a dei provinciali di denunciare il proprio procuratore romano, se disonesto, con una certa speranza di vincere la causa. Il tutto sostenuto da ordine pubblico e strade che fanno crescere la ricchezza, soprattutto per i commercianti.

Un discreto numero di ebrei, con conoscenze e agganci in tutto il Mediterraneo, approfitta di questa opportunità.

Angolo sud orientale della spianata delle mosche, conosciuto come l’evangelico pinnacolo del tempio

Diventano relativamente numerose le famiglie ebree i cui i figli (principalmente maschi, ma non solo) si dedicano al commercio a tempo pieno. Spesso questi decidono di sposarsi solo avanti nella vita, dopo aver raggiunto una certa solidità economica e, di solito, con mogli molto più giovani di loro. Tra questi non pochi, più avanti ancora nell’età, lasciano la gestione degli affari ai figli più grandi e si ritirano con mogli e figli più piccoli a recuperare ciò che fino ad allora hanno dovuto tralasciare: per alcuni è il lusso, ma per altri, persino più numerosi, è la dimensione spirituale. E deve essere attraente, per un ebreo del I secolo d.C., in una situazione di serenità economica e politica, ritirarsi a Gerusalemme, nella città santa, accanto al tempio, per essere sepolto subito fuori dalla città, così da essere tra i primi a risorgere all’arrivo del messia. Non è un caso che in quel tempo i prezzi dei sepolcri intorno a Gerusalemme spiccano il volo: la regione, di suo, non è ricca, ma chi arriva da fuori è pieno di soldi che lì rendono ancora di più e che vengono facilmente investiti in case e sepolcri. Ai contemporanei degli evangelisti non sfugge che essere posti, come Gesù, in un sepolcro appena scavato, mai usato, subito fuori dalle mura della città, è un evento da privilegiatissimi: Gesù muore da scarto umano e viene sepolto da re.

Possiamo solo immaginare come venga vissuta questa «invasione» di persone che condividono, sì, la religione, ma che sono ricche, forestiere e si sentono superiori, tra l’altro senza conoscere la lingua del posto. Se a Gerusalemme infatti si parla ancora ebraico o forse aramaico, la maggior parte degli ebrei nuovi immigrati parla soprattutto le lingue delle zone da cui proviene, oltre forse al latino e sicuramente al greco, se questa non è già la lingua madre. «Ellenista» (che è la vecchia traduzione della Bibbia della Cei) significa in effetti «di lingua greca» (come ci dice la nuova versione).

I nuovi immigrati ricchi sono già attempati e si portano dietro mogli più giovani e i figli minori. È normale quindi che muoiano per primi, lasciando delle vedove che dipendono dalla benevolenza del tempio e dei figli cresciuti tra terme, palestre e vita mondana, che si ritrovano in una piccola cittadina dominata dal tempio e dalla carità dei sacerdoti… I nuovi immigrati sono ricchi, certo, ma di una ricchezza che non si rinnova e che è destinata a finire, incastrati in una regione che non permette loro di riprendere ad arricchirsi.

I «diaconi» (At 6,2-6)

Sono questi «ellenisti» a lamentarsi. Il verbo usato, mormoravano, ricorda le lamentele degli ebrei nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Sembra di sentire la reazione degli ebrei di Giudea, che li vedono come degli esiliati, scappati dal mondo esterno cattivo e persecutore, che osano anche lamentarsi della terra promessa nella quale sono stati accolti.

Che le vedove elleniste siano trascurate, peraltro, è scontato. Non sono probabilmente ben viste, non avendo un uomo che le protegga (mancanza già pesante nel mondo greco, ma peggiore in Giudea) e non parlando la lingua del posto, per cui probabilmente non hanno neppure quei contatti che possono offrire loro delle garanzie di assistenza o di tutela.

Può stupirci, tuttavia, che il problema esista anche tra i cristiani. Potevamo pensare che la nuova fede trasformasse tutto (come sogna Paolo di Tarso: Col 3,11), ma evidentemente il legame linguistico e culturale è più importante di quello religioso. Prima di essere cristiane, queste vedove sono elleniste. E restano marginalizzate.

La loro lamentela raggiunge però le orecchie dei Dodici, che ovviano al problema. Come? Facendo attenzione anche a loro? No. Limitandosi a nominare alcuni responsabili che si occupino del problema. La bella notizia, ci verrebbe da dire, è che tra i cristiani le lamentele vengono ascoltate e vi si pone rimedio; la cattiva è che non si pensa di integrare meglio queste vedove ellenistiche, ma di nominare alcuni che si occupino di loro, lasciandole nella loro emarginazione, anche se, almeno, un po’ meno povere.

Non stupisce che i nomi dei sette incaricati di servire (diakoneo è il verbo usato; li chiamiamo «diaconi» ma in realtà negli Atti non sono mai chiamati così) abbiano tutti nomi greci. È vero che il mondo greco era affascinante e anche tra i dodici discepoli galilei di Gesù alcuni avevano nomi greci (Andrea, Filippo), ma qui lo sono tutti e sette.

Stefano (At 6,8-15)

Dunque vengono nominate sette persone perché provvedano a dare cibo a povere vedove straniere?

Più o meno. Due sono quelli di cui si racconti qualcosa di più del nome, uno è Filippo, a cui è dedicato poi il capito 8 degli Atti. L’altro è Stefano, del quale non si dice che distribuisca pane, ma che opera prodigi e segni (At 6,8), esattamente come Gesù (Lc 10,13). Predica ricolmo di Spirito e sapienza, come Gesù (Lc 2,52; 21,15 lo promette per i discepoli). Viene accusato da falsi testimoni di aver bestemmiato contro Mosè e la legge, come Gesù. Viene portato davanti al sinedrio, come Gesù. E si presenta sereno e luminoso come Gesù (At 6,15).

Stefano non solo al prezioso servizio della carità, quindi, ma globalmente al servizio del Vangelo. E si comporta in tutto come il suo modello, Gesù di Nazaret.

Il grande discorso (At 7)

Sepolcro giudaico, detto tomba di Giuseppe d’Arimatea nella basilica del Santo Sepolcro, proprietà dei Copti.

Di fatto Stefano è ricordato dagli Atti degli Apostoli soprattutto per due motivi: il suo martirio (è il primo cristiano a morire per la propria fede) e il suo lunghissimo discorso, tra i più lunghi del libro, nel quale parla quasi solo dell’Antico Testamento. Ricorda che Dio era con Abramo in Mesopotamia (7,2), con Giuseppe in Egitto (7,9), con Mosè sul Sinai (7,30-33), sempre lontano dalla Terra promessa, che i primi patriarchi non avevano ottenuto in eredità (7,5): ossia, Dio non è legato a un luogo. Peraltro, quando gli ebrei si sono legati ad un culto, questo è diventato presto idolatrico (7,41-43: dal vitello d’oro in poi). Insomma, Dio era con Israele quando il tempio non c’era (7,45-46), mentre la costruzione del tempio da parte di Salomone è stata sostanzialmente un fraintendimento della volontà divina (7,48-50), perché Dio non risiede in costruzioni umane: addirittura, «fatto da mano d’uomo» (v. 48) era la definizione degli idoli. E ciò che era accaduto ai tempi antichi, il rifiuto dei veri profeti di Dio, si è rinnovato con Gesù (7,51-53).

Il discorso è il più violento attacco contro il tempio condotto a partire dall’Antico Testamento dall’interno del mondo ebraico. Non ci sarà più niente di simile in tutto il libro degli Atti. E non dimentichiamoci che Pietro e gli altri continuavano a frequentare il tempio (At 3,1). Si potrebbe pensare che il risentimento di Stefano dipendesse dalla sua storia familiare? Può darsi, ma intanto le argomentazioni sono scritturistiche, l’inutilità del tempio è dimostrata a partire dall’Antico Testamento, ed è un’inutilità che non era saltata fino ad allora agli occhi dei cristiani.

Il primo martire (At 7,54-60)

Chi ascolta Stefano capisce la portata del suo discorso. E reagisce come forse è inevitabile che accada. Stefano ha appena affermato che il tempio, «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora tra gli uomini» (Dt 12,5; Ez 37,27), è considerato inutile da Dio. Per i Giudei è una blasfemia, punibile con la pena di morte, sostenuta per di più con argomenti biblici, quindi è ancora più incisiva e offensiva. Infatti, Stefano non viene giustiziato in modo regolare, benché venga ascoltato davanti al sinedrio, ma viene linciato.

E muore come il suo Signore, affidando il proprio spirito a Gesù (At 7,59) come Gesù lo aveva affidato al Padre (Lc 23,46) e perdonando chi lo uccide (Lc 23,34; At 7,60), vedendo Gesù già pronto ad accoglierlo in paradiso accanto al Padre (At 7,56).

Assiste alla scena un Saulo (At 7,58) che viene citato per la prima volta ma diventerà importantissimo negli Atti: come fa spesso, Luca si prepara con intelligenza gli sviluppi successivi.

Ieri come oggi

È umano idealizzare gli inizi, pensare alla prima generazione cristiana come a un tempo paradisiaco. Luca stesso, che scrive gli Atti degli Apostoli, ci invita a guardare a questa comunità come un modello.

Ma questo modello non è perfetto. La divisione tra ellenisti ed ebrei, che vigeva a Gerusalemme, si ritrova anche tra i cristiani. Quando gli ellenisti si lamentano, gli ebrei non pensano anche a loro, ma incaricano alcuni al posto loro. E non sembra che nessuno si sia mosso, tra i «giudei» (ossia, tra i cristiani che erano originari della Palestina), per difendere Stefano o gli ellenisti. I quali, da parte loro, fanno sorgere il sospetto di essere mossi all’odio per il tempio più dalla loro vicenda personale che da ragioni teologiche, anche se poi elaborano anche queste. Se fossimo stati contemporanei di Stefano, probabilmente lo avremmo definito attaccabrighe ed esagerato.

Ma lo Spirito si muove anche dentro a queste tensioni umanissime, Dio scrive dritto anche su righe storte, la chiesa cresce anche grazie al sangue di Stefano, il quale potrà anche sembrare eccessivo, ma paga con la propria vita, e il suo martirio si fa a immagine della morte di Gesù, perché sia più chiaro che con il suo Signore risorgerà.

Non tutto nella nostra chiesa è perfetto, ma questo vale anche per la prima generazione cristiana. E lo Spirito si muove anche nelle nostre imperfezioni.

Angelo Fracchia
(7. continua)




Atti 6. Situazione economica dei credenti a Gerusalemme

Testo di Angelo Fracchia


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli abbiamo già parlato (nel numero di maggio) dei «sommari lucani», che presentano in sintesi il quadro della chiesa degli inizi e, probabilmente ancora di più, della chiesa ideale sognata da Luca. In uno di questi sommari, si parlava della comunione dei beni: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35).

Si trattava di una condivisione probabilmente necessaria, soprattutto a Gerusalemme. Nel tempo della prima chiesa, infatti, la città dipendeva economicamente dal tempio. La Giudea è una regione povera, composta da colline scoscese e rocciose dove piove poco e dove quindi è difficile coltivare, né sono presenti particolari tesori minerari nel sottosuolo. Nei tempi più antichi la pastorizia aveva costituito un ripiego interessante per sopravvivere, ma l’economia del primo secolo dopo Cristo era più avanzata e ricca e non si reggeva più sui pastori.

Per una serie di fortunate o intelligenti prese di posizione politiche gli ebrei avevano acquisito in quei decenni, sotto Roma, alcuni privilegi, tra cui il diritto per ogni ebreo maschio adulto di inviare ogni anno al tempio di Gerusalemme una parte delle proprie tasse. Era mezzo siclo d’argento all’anno, ossia circa 25 euro odierni, che possono non sembrare molto, ma moltiplicati per il numero di ebrei maschi adulti che nell’impero pare arrivasse intorno ai due milioni, costituivano un’entrata importante per il tempio, che si aggiungeva alle offerte di coloro che a Gerusalemme arrivavano in pellegrinaggio. È vero che con quei soldi si manteneva una classe dirigente (sacerdoti e leviti) e le strutture di un tempio davvero imponente, ma avanzavano ancora molte ricchezze, che venivano in parte ridistribuite sotto forma di aiuto ai bisognosi. Dovevano essere molti quelli che si facevano mantenere da questa forma di carità: il motore dell’economia di Gerusalemme era il tempio.

Anche i credenti in Cristo inizialmente lo frequentavano (At 2,46; 3,1-10, ecc.), ma forse erano già rimasti un po’ ai margini di quella ridistribuzione. È ciò che sembra emergere anche dal bisogno che sorgerà, qualche anno dopo, di fare una colletta per sostenere i poveri (cristiani) di Gerusalemme (At 24,17; 1 Cor 16,1-2; 2 Cor 8-9; Rom 15,25-28). Ma questo in seguito. Per il momento, ci informa Luca, «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva» (At 4,32) e tutto era condiviso.

L’esempio di Barnaba (At 4,36-37)

Segue subito un esempio: Giuseppe, detto Barnaba, uno dei discepoli, un levita originario di Cipro, vende un campo e ne mette tutto il ricavato ai piedi degli apostoli.

Chi ha già letto il libro sa che Barnaba ritornerà più avanti, e sarà una figura importantissima: non di quelli che fanno parlare molto di sé, ma uno di coloro che, in silenzio, lavorano a recuperare gli esclusi, a garantire che tutto funzioni, a rendere umilmente la vita più semplice per tutti. Abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che Luca sa narrare bene proprio da questo suo introdurre quasi per caso un personaggio che in seguito diventerà rilevante.

Quando però guardiamo all’episodio narrato con un poco di malizia, non possiamo non porci delle domande. Ma se tutti condividevano tutto ciò che avevano, perché citare Barnaba? Uno che, a ben guardare, vende solo un campo, ossia nulla di particolarmente rilevante.

L’esempio negativo di Anania e Saffira (At 5,1-11)

La domanda si fa più forte quando leggiamo l’episodio che segue. C’è anche una coppia, Anania e sua moglie Saffira, che vende un campo e ne pone il ricavato ai piedi degli apostoli. Solo che Anania, a differenza di Barnaba, non deposita tutto ciò che ha incassato. D’accordo con la moglie, consegna solo una parte, attento però a dare l’immagine di uno che dà tutto. Pietro smaschera la sua furbizia e rimprovera Anania, accusandolo di avere il cuore pieno di Satana e di aver voluto mentire allo Spirito Santo. E gli fa anche notare che non c’era nessun bisogno di imbrogliare, perché non c’era nessun obbligo di dare tutto e «l’importo della vendita non era forse a tua disposizione?» (At 5,4). L’osservazione è importante, perché ci fa capire che la condivisione di beni non era una legge vincolante, bensì una buona pratica che molti, se non tutti, si assumevano. Pietro, chiaramente, non rimprovera Anania per essersi tenuto qualcosa, ma per aver sostenuto di aver dato tutto; non è l’avidità o il bisogno che Pietro censura, ma la menzogna. «Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». E subito Anania crolla a terra, morto.

Senza neanche avvisare la moglie, dei giovani raccolgono il suo corpo e lo vanno a seppellire.

Arriva poi la moglie Saffira, che Pietro sottopone a un rapido interrogatorio su ciò che già sa. La moglie conferma la versione fraudolenta di Anania e muore immediatamente anche lei, prontamente sepolta accanto al marito.

Non è la prima volta che Luca ci informa del «timore» diffuso in tutta la Chiesa e all’intorno (At 2,43), ma stavolta ci sembra che il rispetto religioso rischi di essere sostituito dalla paura. Da quando il Dio buono e amante della vita si è trasformato in un giudice così implacabile da essere pronto a dispensare la pena di morte?

Leggere tra le righe

Chi commenta la Bibbia prova spesso a rendere attuale ciò che è stato scritto quasi duemila anni fa, per evitare che testi che possono nutrire la fede e la vita sembrino semplicemente stranezze incomprensibili. Nel fare ciò, si corre spesso il rischio di volerla troppo addomesticare. È nota la battuta sui biblisti che sosterrebbero: «La Bibbia dice bianco, ma voleva dire nero», come se quello che l’autore voleva dire non sia ricavabile da ciò che c’è scritto. Ecco perché invito il lettore a seguirmi in un percorso appena più intricato, per poter valutare in prima persona gli indizi che Luca distribuisce per leggere con correttezza il suo racconto.

L’autore degli Atti degli Apostoli, lo abbiamo già fatto notare e si può facilmente verificare, è bravo, sa scrivere e sa modulare molto bene i suoi personaggi. Eppure qui sembra quasi perdersi, trasformarsi in un autore superficiale e grezzo nel presentare situazioni e persone: troppi particolari sembrano forzati, strani. È tutto normale? Per capire, ricordiamoci che anche noi, quando facciamo uno scherzo, assumiamo spesso un tono di voce e una modalità di comportamento che dovrebbero suggerire a chi ci ascolta che si tratta, appunto, di uno scherzo. Magari chi ci conosce sa che siamo persone corrette e oneste, eppure ci mettiamo a difendere, scherzando, l’evasione delle tasse: i nostri amici capiscono subito che non siamo seri, ma anche chi ci conosce meno potrebbe intuire la burla dal modo con cui parliamo. Chi scrive, a volte si comporta in modo simile. L’autore raffinato si trasforma d’un tratto, cambia stile, come se fosse un narratore di favolette, di leggende. Sarà da intendere alla lettera? O bisogna capire quale senso dare al racconto? Probabilmente non vuole prenderci in giro, ma sta solo usando un paradosso. Allora, che cosa vuole comunicare? Quando un narratore cambia in modo tanto plateale il proprio stile, suggerisce al lettore che deve sforzarsi di ragionarci sopra.

Proviamo ad analizzare insieme alcuni elementi, partendo da quello più evidente: abbiamo qui due esempi, uno positivo e l’altro negativo, di dono dei propri beni. L’uno, Barnaba, vende un campo e dona tutto, e la sua vita sarà fruttuosa e lunga; gli altri, Anania e Saffira, si limitano a fingere la generosità, e muoiono. Forse non forziamo la mano a Luca se intendiamo che voglia dirci che chi inganna la comunità per avidità, rinuncia a vivere e uccide se stesso. D’altronde, sarebbe strano un Dio che dona la vita, che ha fatto risuscitare Gesù, e poi distribuisce pene di morte con tanta facilità. Pietro, dopo la sua domanda, non dichiara che moriranno, non dà una sentenza di morte: è l’inganno stesso a essere mortale.

Una seconda osservazione importante che Pietro stesso ci fa notare, è che a essere ingannati non sono degli uomini ma Dio. Questa annotazione, che potrebbe giustificare la morte della coppia soltanto per dei lettori un po’ superficiali, ci riporta però a un’osservazione che ritorna spesso negli Atti degli Apostoli: la Chiesa non è una comunità soltanto umana, Dio si identifica pienamente in lei (il passo in cui sarà affermato questo principio nel modo più scenografico sarà alla conversione di Paolo: «Io sono Gesù, che tu perseguiti», benché, a voler essere precisi, Paolo perseguitasse non Gesù ma i cristiani. At 9,5 esprime con forza il principio che «toccare i cristiani è toccare Gesù»).

Proprio nel modo tanto schematico e paradossale di presentare questo episodio, Luca vuole probabilmente suggerire al lettore che quello che narra forse non è accaduto davvero, che è più una parabola che un fatto storico, ma serve a far intuire che quanto sta crescendo nella chiesa non è uno scherzo. Non è indifferente fare sul serio o no, è una questione di vita o di morte. Infatti, ad Anania e Saffira non è rimproverata l’avidità, ma l’inganno. Si può non essere totalmente generosi, ma non si può prendere in giro Dio. E a non prendere sul serio Dio, si rinuncia a vivere.

Per la chiesa di oggi

Ancora una volta, quello che sembra un racconto antico scritto in modo antico per gente antica si svela utile e «parlante» anche per noi oggi.

Anche oggi si tratta di scegliere da che parte stare. La strada di Dio è quella della condivisione generosa. Ma se Dio può sopportare i tentennamenti, le incertezze e le paure, non tollera la falsità e l’inganno. Se ci pensiamo, è coerente con un Dio che vuole non essere servito, ma incontrato e amato. Anche noi, nelle nostre relazioni personali, capiamo le titubanze, i timori e i passi falsi, ma l’inganno intenzionale uccide la relazione.

E poi, anche oggi siamo chiamati a scoprire, a credere, che nelle persone che vediamo, nella comunità che incontriamo, è presente Dio. E Dio, però, non parla dalle nubi, in modo misterioso e magico, ma si esprime tramite persone umane. Nella Chiesa è davvero presente Dio, totalmente coinvolto, ma per vederlo devo guardare agli esseri umani. Forse non è un caso che in questo passo, per la prima volta, leggiamo negli Atti degli Apostoli la parola «Chiesa» (At 5,11).

Ma insieme, Luca ci fa intuire che questa splendida comunità non è esente da colpe, dalla presenza del male al proprio interno, da falsità e ipocrisie. L’inquinamento della purezza non è una decadenza dei nostri tempi, è sempre accaduto. La Chiesa è fatta di uomini, ne porta tutta la ricchezza e il limite. Luca comincia a condurci sulla strada che ci farà scoprire come è davvero nella Chiesa che incontro Dio, senza per questo dedurne che la Chiesa sia perfetta. Tutt’altro. Nello stesso tempo, l’imperfezione della Chiesa non toglie che lì dentro davvero si incontri Dio. Allora come oggi.

Angelo Fracchia
(6. continua)




Atti 5. Sulle strade del mondo


Testo di Angelo Fracchia


Negli Atti degli Apostoli, Luca presenta il percorso ideale della chiesa nel mondo. Nei primi due capitoli imposta la scena: dopo aver salutato Gesù (At 1,4-11), ricostituito il numero dei dodici (1,15-26) e accolto lo Spirito (2,1-13), che suscita il primo annuncio di Pietro (2,14-41), troviamo un primo grande sommario (At 2,42-47), scritto per offrire un quadro globale di questa nuova comunità.

Nella nostra lettura sistematica degli Atti degli Apostoli, nello scorso numero abbiamo anticipato anche gli altri sommari (At 4,32-35; 5,12-16): Luca, infatti, come i bravi autori, intreccia le diverse questioni di cui gli interessa narrare, così da risultare più vario e attraente, allo stesso modo con cui in un film la trama principale e i diversi temi secondari si alternano con grazia. Chi però voglia analizzarne il contenuto, può tornare a distinguerli, con meno eleganza artistica, ma forse con più chiarezza.

È ciò che faremo anche in questo numero. In tal modo, quando torneremo a leggere Luca ci risulterà ancora più interessante e piacevole.

La ricchezza della chiesa (At 3,1-10)

Il primo appuntamento storico in cui vediamo impegnata la prima comunità cristiana potrebbe subito stupirci. Troviamo infatti Pietro e Giovanni che si recano… al tempio!

L’imponente tempio di Gerusalemme, rifondato, ampliato e arricchito da Erode il Grande e ancora in parte in costruzione negli anni ‘30 del primo secolo, era già da lustri un punto di riferimento fondamentale per gli ebrei. Riprendeva e superava la gloria del tempio di Salomone e dava agli Israeliti la speranza che forse un giorno sarebbero tornati quegli antichi splendori. Anche Gesù lo aveva frequentato regolarmente fin da bambino, ma se si era anche sempre scontrato con le autorità religiose proprio sulla natura e uso del tempio. Tenendo conto dell’atteggiamento critico di Gesù non era scontato che il tempio divenisse luogo di incontrode i primi cristiani.

Subito dopo la risurrezione di Gesù e la discesa dello Spirito Santo, Pietro e Giovanni si pensano semplicemente come degli ebrei. E, come gli altri ebrei, ritengono che il modo più facile per incontrare Dio sia andare al tempio di Gerusalemme. Non pensano di essere stati mandati a rinnovarne o abolirne il culto.

È pur vero, però, che vanno al tempio per la preghiera della sera, l’unica che non prevedeva l’offerta di sacrifici (è solo un caso, oppure già sono consapevoli che con Gesù i sacrifici animali sono diventati inutili?). E insieme, pur essendo galilei, decidono di non tornare a casa: evidentemente pensano che debba succedere, a breve, qualcosa di importante in città.

Sulla strada, trovano uno storpio che chiede l’elemosina. La città e i dintorni del tempio erano pieni di mendicanti. Pietro ne viene forse colpito, ma non ha soldi. «Quello che ho, te lo dò: nel nome di Gesù, alzati e cammina!» (At 3,6).

Quell’uomo cercava soldi, Pietro guarda la persona e le viene incontro. Offrendo la possibilità di non avere più bisogno di invocare la benevolenza dei passanti. Il primo volto della neonata chiesa è quello di chi si accorge di chi c’è accanto e viene incontro a quel bisogno; non in modo paternalistico e provvisorio, come avrebbe fatto dando delle monete, ma puntando a rendere la persona capace di prendere in mano la propria vita.

E questo Pietro lo fa «nel nome di Gesù». La prima chiesa è ricca di Gesù. Non si limita a predicare, ma agisce, facendo esattamente ciò che avrebbe fatto Gesù. Luca aveva appena detto che «segni e prodigi avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43), ed eccoli subito visibili. La missione non è semplicemente quella di annunciare un messaggio, ma di proseguire il vangelo, iniziando a operare, in prima persona, ciò che aveva fatto Gesù. Pietro non usa il nome del Maestro come una parola magica, ma si mette al suo posto, ripetendo il modo con cui aveva visto tante volte comportarsi il maestro.

La prima chiesa, da subito, si chiede che cosa farebbe Gesù al suo posto, e lo fa.

Raffigurazione del tempio al tempo di Cristo, con scalinata e arco di Robinson / © Benedetto Bellesi – AfMC

Una chiesa arcaica (At 3,11-26)

Come è prevedibile, allo stupore del miracolo segue un discorso di Pietro che lo spiega. Succede molto spesso, negli Atti degli Apostoli, che i personaggi importanti spieghino, in brevi discorsi, ciò che è accaduto. Era tipico di tutte le opere storiche dell’antichità, e Luca è un buono storico, che sa come si scrive. Inoltre, ci ricorda che non c’è niente di magico in ciò che accade, tanto che se ne può sempre spiegare la ragione. Prodigi, di certo, ma non magia: Dio non vuole privarci della nostra intelligenza.

Può semmai stupirci il modo con cui Pietro parla di Gesù. Non so se sia consolante scoprire che stupisce anche i biblisti.

Gesù viene infatti definito il «servo» (At 3,13,26: riprendendo di certo l’immagine del servo del Signore di Isaia), e poi il «santo e giusto» (3,14), «l’autore della vita» (3,15), tutti titoli che di certo si addicono a Gesù, ma non ci sono per niente consueti. Di fatto, non erano consueti neppure più al tempo della chiesa di Luca, e non saranno ripresi nelle preghiere che sono arrivate fino alla nostra liturgia.

Altrettanto curioso è il tipo di ragionamento che troviamo in 3,19-21: se ci si pente (se si «inverte il senso» della propria vita) il Signore, ossia il Padre, ci consolerà e farà tornare a noi Gesù, che sembra essere lì in attesa di venire a finire l’opera che ha iniziato. Dopo duemila anni, non ci aspettiamo certo che Gesù stia per ritornare da un momento all’altro, ma è significativo, di nuovo, che lo stesso Luca, che scrive molti anni dopo il discorso di Pietro, non sembra credere a un’idea del genere, tanto che non la ripeterà più nel resto del suo libro.

Ancora, è strano sentire presentare Gesù come quel profeta che compie la promessa divina di mandare qualcuno simile a Mosè (At 3,22-24). E, infine, ci suona curiosa l’affermazione finale, secondo cui Gesù compie la parola garantita ad Abramo, per il bene di tutti i popoli, ma soprattutto di Israele (3,24-26).

Che cosa dovremmo pensarne? Che di certo questo discorso non è tutta farina del sacco di Luca, il quale invece l’ha ripreso da altri, più vecchi di lui. Che all’inizio della chiesa, nei primi tempi, non tutto era chiarissimo, e alcune idee si sarebebro dovute precisare meglio in seguito. È ciò che nella storia, anche personale, è sempre accaduto e accadrà: troviamo le parole giuste per spiegare certi passaggi della nostra vita solo lentamente, anche se il loro senso era già lì, presente fin dall’inizio.

Ma in fondo Luca ci dice soprattutto che il modo con cui si pensa a Gesù, si capisce il suo ruolo e la sua importanza e si cerca di annunciarlo, cambia nel tempo, si trasforma, perché cambiamo noi e perché capiamo meglio le cose. Anche la chiesa ha cambiato e approfondito il suo modo di pensare a Gesù, perché è nella storia e cresce e si sviluppa non solo in ciò che fa ma anche in ciò che crede. In ogni caso, a restare immutato nei tempi è il desiderio di unirsi a Gesù e di vivere come lui vivrebbe.

Porta di Damasco, la più impressionante, risale forse alla costruzione della terza muraglia nord, di Erode Agrippa nel 40-41 dC. Ideata da Adriano come entrata monumentale della città Aelia Capitolina, rimangono le arte originali riscavate, sulle quali è stata innalzata l’odierna ornamentazione musulmane / © Benedetto Bellesi – AfMC

Perseguitati dai «poteri forti»? (At 4)

E per la prima volta la neonata chiesa si scontra con la persecuzione. «Irritati per il fatto che insegnavano al popolo e annunciavano la risurrezione» (At 4,2), i capi religiosi arrestano Pietro e Giovanni. Peraltro, siccome è già tardi, rimandano al giorno dopo l’interrogatorio, arrogandosi il diritto di trattenerli lungo la notte (At 4,3). Il potere contro il quale i discepoli di Gesù si scontrano non si cura delle persone, né di essere trasparente nelle motivazioni (a sentire loro, a essere discutibile è l’autorità con cui hanno guarito: At 4,7).

È interessante notare come le autorità si accorgano del nuovo movimento non dopo il primo discorso di Pietro, non dopo la Pentecoste, ma dopo il primo miracolo, che evitando di beneficare paternalisticamente un mendicante, lo ha tolto invece dalla condizione di emarginazione.

Sembra quasi che Luca ci voglia suggerire, già duemila anni fa, che finché ci limitiamo a parlare non diamo fastidio a nessuno, ma quando iniziamo ad agire, a cambiare le cose, allora sì che arrivano le critiche e gli ostacoli. Nello stesso tempo, è chiarissimo che l’agire della chiesa di Pietro scaturiva da convinzioni profonde, che nascevano dall’incontro con Gesù. È perché Pietro ha conosciuto Gesù che può arrivare a pensare, e quindi a dire, ciò che dice, e quindi anche a comportarsi come si comporta. Il comportamento è il frutto che stuzzica interessi e fastidi di chi passa per strada, ma le radici, che non si vedono, sono ciò che rende possibile il frutto.

E di fronte alla persecuzione si vedrà quanto davvero le trasformazioni nelle menti e nei cuori di questi galilei siano profonde, quanto il nuovo movimento sia solido. Fin dall’inizio, Luca, mentre parla dell’arresto, dice che cresce il numero dei credenti (At 4,4). Poi, di fronte alla richiesta di credenziali («Con quale potere avete fatto questo?»: At 4,7; anche a Gesù avevano chiesto con quale autorità guariva: Mc 11,28-33), rispondono con il dato di fatto (hanno salvato la vita del mendicante: At 4,9) e poi con il fondamento di quel fatto, ossia l’incontro con Gesù salvatore (At 4,10). I responsabili religiosi che avrebbero dovuto aiutare le persone a incontrare Dio avevano voluto cancellare Gesù, ma Dio stesso ne ha fatto il fondamento su cui costruire quell’incontro (At 4,10-11).

In radice, quei provinciali rozzi e incolti (At 4,13) capiscono di aver incontrato davvero Dio, e di non poter quindi far altro che seguire lui, piuttosto che le parole di uomini (At 4,19-20). Tant’è vero che, di fronte al potere delle autorità religiose e alla loro dissimulazione delle proprie intenzioni autentiche, i due discepoli reagiscono in piena schiettezza e trasparenza, indicando il motivo vero dell’arresto e anche, con decisione e coraggio, di non poter tacere. Il Pietro che poco tempo prima aveva negato di conoscere Gesù per paura delle conseguenze (Lc 22,54-62), ora parla senza paura di fronte a chi può farlo giustiziare.

Non si tratta della rivolta di «sempliciotti» contro i «poteri forti». Più seriamente, è la presa di coscienza di aver incontrato chi può salvarli, può rendere sensata la loro vita; di conseguenza viene la scelta di seguirlo comunque. Non è un caso che un ragionamento simile sarà seguito, poco dopo, da Gamaliele, maestro di san Paolo (At 22,3), importante rabbino che è citato nelle fonti giudaiche come persona di particolare saggezza e intelligenza. Gamaliele ripercorrerà le vicende di personaggi che avevano preteso di interpretare l’intenzione di Dio nel ribellarsi ai romani. Questi personaggi, pur importanti sul momento, erano periti e le loro opere umane erano state cancellate. Se però dovesse mai accadere che sia davvero Dio ad agire nella nuova comunità, sarà inutile perseguitarla: «Non vi accada di combattere contro Dio!» (At 5,35-39).

Non siamo di fronte a un partito. Siamo di fronte a persone che hanno incontrato il Salvatore, e scelgono e si comportano di conseguenza. Persone che, liberate dal Signore, diventano coraggiose e autonome. Luca, con l’esempio di Gamaliele, importante membro del sinedrio, ci dice che si può anche essere «dall’altra parte della barricata», ma se si è persone di buon senso e di attenzione all’opera di Dio, non ci si troverà a contrapporsi a Lui.

Angelo Fracchia
(5. continua)




Atti 4: Uno sguardo «dall’alto»

Testo di Angelo Fracchia


Gli Atti degli Apostoli si presentano, apparentemente, come una cronaca dei primi tempi di vita della comunità cristiana. Non appena li si legga in modo non ingenuo, però, ci accorgiamo che non si tratta di una vera e completa cronaca: Luca trascura moltissimi aspetti e luoghi geografici abitati dal primo cristianesimo. Per non fare che un esempio, dagli Atti non veniamo a sapere nulla sulla comunità cristiana dell’Egitto, paese vicinissimo alla Palestina che contava una forte presenza di ebrei (dalle cui fila provengono i primi cristiani, come è ovvio) e dove già all’inizio del II secolo sappiamo esistere una comunità cristiana molto numerosa e ben organizzata, che quindi evidentemente doveva essere nata decenni prima. Sembra facile spiegare che Luca abbia deciso di trascurarla perché, chiaramente, non sarebbe stato possibile raccontare tutto. L’autore seleziona ciò che ritiene utile per comprendere quello che per la prima generazione era stato importante. Non è, quindi, una cronaca, né un saggio su come dovesse essere la chiesa, ma qualcosa di intermedio, un racconto fondato su elementi storici con un forte taglio teologico.

Anche per questo, di tanto in tanto, Luca sembra fermarsi e contemplare dall’alto ciò che accade, quasi a fare il punto della situazione, come un riassunto che aiuti a capire meglio dove si sta andando. Da molto tempo i biblisti definiscono «sommari» queste soste contemplative. In essi, più ancora che altrove, l’autore ci mostra con trasparenza ciò che, a suo parere, doveva essere la chiesa ideale di Cristo.

Il grande sommario: la comunità (At 2,42-47)

Il primo di questi sommari è anche, probabilmente, il più importante. Qui Luca, che sa narrare bene, si ferma a contemplare dall’alto la Chiesa dilungandosi e strutturando il proprio racconto. Siccome è la prima volta che fa qualcosa del genere, vuole indicare in modo chiaro al lettore che si trova davanti a qualcosa di diverso da un semplice racconto cronologico. Quando in seguito inserirà altri sguardi dall’alto, sarà molto più facile per il lettore intuirne subito la natura e allora l’autore potrà procedere più spedito.

In questo primo sommario notiamo anche una costruzione più accurata rispetto ai due successivi. Molto spesso noi, quando guardiamo un film o ascoltiamo un brano musicale, magari senza essere degli specialisti di quel genere, cogliamo comunque che cosa è importante, capiamo anche su che cosa l’autore vuole suggerirci di fare più attenzione, ma magari non afferriamo bene come abbia fatto a ottenere questo risultato. Chi è esperto, d’altra parte, può anche riconoscere e indicare con chiarezza i «trucchi del mestiere». A volte, poi, ci sono anche delle semplici convenzioni, che con il tempo ci siamo però semplicemente abituati ad afferrare. In un film giallo, ad esempio, quando la telecamera si ferma su particolari apparentemente secondari, magari con una musica di sottofondo priva di una vera melodia, noi spettatori automaticamente facciamo più attenzione, perché siamo abituati a quel segnale che ci avverte che probabilmente quei dati secondari in seguito diventeranno molto importanti. Anche se non siamo «del mestiere», a forza di vedere film abbiamo imparato a conoscere quel tipo di linguaggio.

Anche gli scrittori antichi utilizzavano trucchi del genere. Alcuni di essi possono essere letti e risultare efficaci anche se ne siamo del tutto inconsapevoli. Per altri, più tipici di quel tempo, possiamo avere bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederli e ci indichi come usarli bene, esattamente come in certi indizi dei film gialli. Noi, ad esempio, quando esponiamo un tema (ma anche quando raccontiamo una barzelletta…) siamo molto abituati a utilizzare la struttura della «scala»: ogni dato è più importante di quello precedente e ci aiuta a capire quello successivo. L’ultima è l’informazione più importante. Possiamo anche non esserne consapevoli, ma ormai siamo abituati a usarla. Gli scrittori biblici usano invece spesso la struttura dell’«incrocio»: accumulano delle informazioni in modo apparentemente casuale, ma, a ben guardare, le dispongono come in cerchi concentrici, dove la prima informazione rimanda all’ultima, la seconda alla penultima, e al centro c’è quella più importante. È la cosiddetta struttura a chiasmo usata da Luca in questo brano.

Intanto ripete due volte che quella descritta non è una forma di vita comunitaria occasionale: «perseveravano», «erano costanti».

Il livello più esterno (1) è quello più lasco, che da solo non ci farebbe intuire la struttura: ascoltavano l’insegnamento degli apostoli (è il punto di partenza: v. 42) e godevano della simpatia di tutto il popolo (è il punto di arrivo: v. 47). In mezzo, quasi come parentesi, Luca aggiunge che tutti provavano un timore religioso nei loro confronti (v. 43), come chi si accorge di assistere a qualcosa di speciale, non semplice frutto del lavoro umano.

Il secondo livello (2), più importante, parla dell’«unione fraterna, comunione» (v. 42) e del mangiare insieme in gioia e semplicità (v. 46), proprio ciò che accade in una fraternità autentica.

Poi, Luca parla, ancora più al centro (livello 3), dello «spezzare il pane» (vv. 42.46), che per le prime generazioni cristiane era la formula per indicare l’eucaristia. Possiamo stupirci allo scoprire che l’eucaristia non sia il centro del centro, l’elemento assolutamente più importante della vita cristiana: come accade spesso, Luca non ha paura di spiazzarci.

Avvicinandoci ancora di più al centro (livello 4), in questo sommario che parla della vita cristiana, sta la preghiera (alla fine del v. 42, e poi ancora nella frequentazione del tempio, al v. 46: al tempio si andava per pregare (ma su questo continuare a «fare gli ebrei» avremo occasione di parlare più approfonditamente più avanti).

Al centro di tutto (livello 5), ai vv. 44-45, c’è la condivisione totale, che peraltro riprende quella «comunione» spontanea e gioiosa che stava nel secondo cerchio.

Sembra che Luca ci suggerisca che la chiesa ideale impara dagli apostoli e va al mondo, ma più importante ancora è l’esperienza di una dimensione di comunione fraterna spontanea che ci aiuta a vivere l’ancora più fondamentale comunione con Gesù (nella frazione del pane) e quindi il dialogo con Dio (la preghiera), fino ad arrivare al punto più importante di tutti, la condivisione completa con gli altri, magari vissuta con meno spontaneità rispetto all’unione fraterna, ma intesa come decisione di fondo, anche quando fosse faticosa ed esigente. L’autore degli Atti sostiene che non siamo chiamati innanzi tutto a vivere una vita di liturgia e preghiera (che restano ottime, ma come strumenti per arrivare ad altro), bensì che la chiesa perfetta è quella che mette al centro gli altri, la comunità. Se possiamo confermare questa intuizione con uno sguardo fuori dall’opera lucana, il vangelo secondo Giovanni afferma che i cristiani saranno riconoscibili non perché celebrano messa o perché pregano bene, ma per come si amano (Gv 13,35).

Gli altri due sommari

Non è un caso che su questo tema, in una forma più limitata e concreta, si torni anche nel secondo dei grandi sommari. In Atti 4,32-35 si presenta quello che alcuni hanno etichettato come «comunismo cristiano». L’indicazione è semplice: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Più che di abolizione della proprietà privata, sembra dal contesto che si tratti di abolizione dell’egoismo: chi ha bisogno, otterrà ciò che gli serve, perché gli viene messo a disposizione da coloro che non si limitano a chiamarsi fratelli, ma davvero si dimostrano tali. Luca sarà poi costretto a confessare che questo quadro ideale, nella comunità reale non era sempre vissuto in pienezza, ma resta l’ideale verso cui tendere.

Peraltro, questo ideale porta a compimento ciò che nell’Antico Testamento era stata una promessa di Dio: in Dt 15,4, all’interno delle norme sull’anno sabbatico (un anno in cui non si sarebbe dovuto coltivare la terra), Mosè dà voce a Dio nel promettere che non ci sarà da avere paura di non mangiare, in quell’anno, perché la terra avrebbe prodotto da sé quanto necessario all’uomo per vivere. «Del resto non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi». A questa promessa fa eco l’affermazione di Luca: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).

Nel terzo dei sommari (At 5,12-16) si insiste sul cammino della chiesa verso l’esterno. Tutti guardano con simpatia questo nuovo movimento, anche se magari se ne tengono a distanza (v. 13). Ma ad essere interessante è soprattutto il modo con cui i cristiani si muovono dentro la società da cui provengono. Non provano a distinguersi con la forza, non polemizzano con nemici (è purtroppo il modo più facile per farsi conoscere, e infatti è quello più utilizzato dai movimenti nascenti), ma si comportano in modo coerente con questa generosità che abbatte l’egoismo: non contestano, non provano a convincere, non cercano di difendersi, ma guariscono i malati (vv. 15-16).

Coloro che si affidano a Gesù vivono, insomma, per gli altri (che siano cristiani o no), abbattono le barriere di autodifesa che l’umanità sempre cerca di costruirsi e vivono nella confidenza e nella leggerezza. L’incontro con Gesù porta alla fiducia di fondo verso Dio e verso gli altri, e questo fa vivere meglio. Perché l’obiettivo ultimo di Dio non è di essere venerato, ma che gli uomini, che Lui ama, vivano bene.

Angelo Fracchia
 (4. continua)




Dopo la pentecoste: Una predicazione «arcaica»

Testo di Angelo Fracchia |


La prima chiesa, ritratta dagli Atti degli Apostoli, non si limita ovviamente a ricevere dei doni (la visione di Gesù risorto, l’effusione dello Spirito), ma si impegna da subito a testimoniare e annunciare ciò che le è accaduto. È quanto Luca ci racconta in un lungo discorso attribuito a Pietro, che parte dalla buffa osservazione che questi uomini, che parlano in lingue strane e potrebbero sembrare ubriachi, in realtà non hanno ancora bevuto vino, anche perché è mattina presto, ma si comportano in questo modo per un’altra ragione (At 2,14-15).
Come è ovvio per ogni opera che pretenda di essere storica e come ci capiterà di chiederci più volte lungo la lettura degli Atti, insieme alla domanda su che cosa insegni ancora a noi oggi questo annuncio nasce quella riguardante la verità di ciò che è narrato: davvero Pietro ha detto queste cose?

Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ma la proclamazione di una storia che non abbia alcun fondamento storico sarebbe falsa. È ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole ed è anche altamente improbabile che spunti una cronaca diversa ma altrettanto vicina a quegli avvenimenti. In loro mancanza, dobbiamo provare a ragionare su ciò che leggiamo.

Se da una parte Pietro, già nei vangeli, era in qualche modo il portavoce dei dodici, tanto che poteva essere naturale che fosse lui a parlare a nome di tutti (benché in fondo non ci importi chi avesse parlato allora, l’importante era che rappresentasse i discepoli), dall’altra parte qualcosa possiamo ricavare da ciò che Pietro dice. E prima ancora di entrare nel cuore delle questioni, da buoni detective dell’antichità, possiamo trarre importanti deduzioni da due particolari che potrebbero sfuggire a una lettura superficiale.

Intanto, Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come «Gesù (il) Cristo», come se il fatto fosse qualcosa già ben noto a tutti. Presenta invece uno che gli interlocutori non conoscono.

Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, in realtà, nel suo Vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito solo nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.

Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo Vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto, a costo di essere impreciso. Luca voleva farci sentire «il profumo» dell’inizio.

Fondati nella Scrittura

Da dove parte, allora, Pietro?

Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse avremmo fatto noi. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.

In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il salmo 15 che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33).

In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo (il 109), che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati grazie alle parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma per la cui descrizione mancavano loro le parole adeguate.

Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro nel quale Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti avrebbero potuto parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi (non schiavi), o maschi, o ebrei, ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.

Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?

È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è il capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.

Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con «convertirsi» è «cambiare pensiero».

Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.

A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi. Grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si spalanca davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.

Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di «persone» ma di «anime», che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.

Angelo Fracchia
(3. continua)




Pentecoste: Il compimento della Pasqua


Da Pasqua a Pentecoste

Gli inizi degli Atti degli Apostoli narrano la vita dei discepoli di Gesù, prima dispersi dalla sua morte e poi di nuovo insieme radunati nella visione del Risorto, al punto da ricostituire anche il numero dei dodici. Però il Signore è risorto, certo, ma è poi salito al cielo e non è più fisicamente tra i suoi (At 1,3-11). Da dove e come ripartire? Sarà ancora attento a ciò che succede nella sua comunità? Come? Se il Vangelo secondo Giovanni ripete più volte che la partenza di Gesù avrebbe comportato il dono dello Spirito, negli Atti vediamo questo Spirito all’opera, nella vita quotidiana della Chiesa.

Il cuore del Vangelo, infatti, non è il seguire una morale o il compiere determinate preghiere o gesti religiosi, ma la relazione con Gesù. Non sempre i discepoli l’avevano capito o si erano comportati correttamente, ma erano sempre rimasti con lui. E anche alla fine, il Risorto non aveva lasciato profondi messaggi sull’aldilà: era comparso ai suoi salutandoli semplicemente con un «Pace a voi» (Lc 24,36). Come pensare allora di mantenere il rapporto con lui, ora che sembra non esserci più?

Gli Atti degli Apostoli non ci raccontano questi interrogativi, ma sembrano passare direttamente alla risposta, a ciò che porta a compimento quanto, pure, era iniziato in modo decisivo al sepolcro vuoto.

I discepoli avevano trovato la pietra rotolata via e il sepolcro vuoto la mattina del primo giorno della settimana di Pasqua. Questa era una festa che raccoglieva in sé tre diverse celebrazioni. In passato significava:

  • • la partenza primaverile dei pastori dagli accampamenti invernali, celebrata con il sacrificio di un agnello nato nell’anno, i sandali ai piedi e i fianchi cinti… esprimeva l’azzardo di chi abbandonava la sicurezza per trovare la vita;
  • • il memoriale di un gruppo che era stato fatto fuggire dalla schiavitù, sfidato ad abbandonare le certezze e garanzie che pure una tale vita offriva per fidarsi di una parola che li chiamava a libertà;
  • • la celebrazione agricola della mietitura dell’orzo, con la distruzione del lievito (la pasta madre) utilizzato fino a quel momento per cominciare con lievito nuovo nella speranza e promessa che anche nel nuovo anno si sarebbe vissuti del frutto della terra.

Anche nel terzo aspetto della celebrazione c’era una dimensione di fiducia, perché buttare via la massa di pasta lievitata che durante l’anno era stata utilizzata come madre per fare un nuovo impasto dal nuovo raccolto, significava scommettere e fidarsi di riuscire ad averne abbastanza da vivere, tanto più che il raccolto dell’orzo da solo non era sufficiente per passare l’anno. C’era bisogno che anche il grano, maturo all’inizio dell’estate, non tradisse le attese. In qualche modo, però, il successo della mietitura dell’orzo poteva essere un invito alla fiducia anche per il futuro raccolto, circa cinquanta giorni dopo.

Ecco perché anche nell’anno liturgico ebraico la festa dell’inizio estate, al cinquantesimo giorno (in greco, appunto, «Pentecoste») dopo Pasqua, rappresentava il perfezionamento di ciò che a Pasqua era stato iniziato in modo decisivo ma ancora incompiuto. Questo valeva per il raccolto, ma non solo: se l’uscita dall’Egitto, celebrata a Pasqua, era il segno più chiaro della benevolenza divina e della sua intenzione di proteggere la vita del popolo, quella liberazione si compie nel dono della legge sotto il Sinai, a Pentecoste.

Il compimento del sepolcro vuoto

Anche per i cristiani, oggi, la Pentecoste porta a compimento ciò che si inizia a Pasqua.

A Pasqua Gesù risorge, ma è a Pentecoste che con il dono dello Spirito si garantisce la presenza divina nella storia e la capacità di capire ciò che è accaduto in Gesù.

Abbiamo sicuramente presente il racconto della prima effusione spettacolare dello Spirito Santo sulla Chiesa. Probabilmente lo ricordiamo così: gli apostoli erano chiusi nel cenacolo quando si vedono scendere addosso lingue di fuoco, si mettono a parlare e tutte le persone presenti a Gerusalemme, di tante nazioni diverse, li capiscono.

Sembrerebbe un miracolo spettacolare che serve per convincere i presenti dell’autenticità della testimonianza dei dodici e insieme diventa «scorciatoia» per cominciare ad annunciare a tutti il Vangelo, visto che subito dopo Pietro inizierà a raccontare di Gesù, spiegando che sono contenti sì ma tutt’altro che ubriachi (At 2,13-15).

Ma davvero le cose sono andate come ho appena ricostruito?

Uno dei motivi per cui è tanto prezioso tornare a rileggere i testi biblici è che spesso li ricordiamo in modo approssimativo dipendendo dal come ce li hanno raccontati o dal come noi li abbiamo interpretati nelle situazioni in cui ci trovavamo. Questa imprecisione non è segno della nostra scarsa attenzione, tutt’altro! La nostra memoria non ricorda mai ciò che è accaduto, ma il significato che ha avuto per noi. Quello che ricordiamo del testo spesso lo abbiamo memorizzato così perché allora era per noi significativo così.

Ma tornare al testo ci permette di risintonizzarci con l’originale, così da scoprirlo ancora ricco e profondo per la nostra vita, a volte anche in modi che ci risultano nuovi.

Se vogliamo ad esempio iniziare a restituire la parola al brano, notiamo intanto che non è chiaro quanti siano i protagonisti (Spirito Santo a parte): si tratta davvero dei «dodici», oppure di qualcun altro? «Erano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Sì, ma tutti chi? Subito prima, nel capitolo precedente, si era detto che gli undici erano ridiventati dodici, ma a fare la scelta dei candidati e l’estrazione a sorte del dodicesimo erano state in realtà centoventi persone (At 1,15). Sembrerebbe più logico che questi siano i «tutti». Quindi, ciò che accade non è riservato alla cerchia più importante che guida la comunità, ma tocca tutti i «fratelli».

Poi, al versetto 2, arriva un «fragore», qualcosa che succede da fuori ma non è comprensibile (al v. 6 il greco non parlerà più di «fragore» ma di «voce», anche se nella traduzione Cei la differenza non è così chiara), e appaiono «lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (At 2,3). Luca sa come raccontare bene, sa che abbiamo bisogno di immagini per intuire qualcosa; e, insieme, è un teologo preciso, consapevole che l’opera di Dio si può narrare sì, ma solo per approssimazione. Non è fuoco, quello che scende su di loro, ma semmai «vento» (Spirito, appunto…), e si mostra con «lingue come di fuoco».

Si vede qualcosa, insomma, e quel qualcosa chiaramente scende su «ognuno» dei presenti, ma non si riesce a definire proprio bene di che cosa si tratti. C’è una fonte unica, ma la sua espressione è molteplice. C’è un solo Spirito, ma le lingue parlate sono tante. Se Dio è uno, il modo con cui le persone vivono la loro relazione con lui non è sempre la stessa.

Geografia biblica

Luca sembra volerci lasciare a bocca aperta, offrendoci un elenco di tutti i luoghi da cui provengono i presenti. Se guardiamo con attenzione il suo elenco, però, non possiamo non porci alcune domande.

Non stupisce, innanzi tutto, che i luoghi citati siano i luoghi nei quali, in quei tempi, c’è una forte presenza ebraica. Le persone lì presenti sono probabilmente pellegrini venuti a Gerusalemme per una delle feste di pellegrinaggio. Come tutti i pellegrini, si fidano dell’accoglienza che trovano nonostante siano magari deboli con le lingue. È però vero che nelle regioni attorno al Mediterraneo, ormai da secoli, la lingua che tutti capiscono all’epoca di quei fatti è il greco (sarebbe come dire l’inglese per noi oggi), ben diffuso in Cappadocia, Ponto, Asia, Frigia e Panfilia – quella che per noi oggi è la Turchia – e nell’Africa del Nord Est (Egitto e Cirenaica), nonché a Roma e a Creta. Appena più a oriente, l’aramaico è la lingua madre degli abitanti della Mesopotamia (e forse già della Giudea, quasi di sicuro della Galilea), ampiamente conosciuta e utilizzata come lingua dei commerci e dei viaggi dai Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia e dell’Arabia.

Un osservatore neutrale e un po’ malizioso, insomma, ridimensionerebbe probabilmente di molto la portata del miracolo. Per farsi capire ai discepoli bastava parlare nella loro lingua madre per raggiungere già metà della folla lì presente. Sicuramente poi tra loro c’era qualcuno in grado di tradurre anche in greco – ricordiamo che Gesù stesso sapeva parlare in quella lingua (cfr. Mt 15,21-28) -, ed ecco che così raggiungo l’altra metà. Mettersi a parlare tante lingue strane non sembrava davvero necessario.

Il senso

C’è allora qualcosa che Luca vuole suggerirci, con l’episodio che narra in Atti 2,1-13?

Forse questo. Dio con la Pasqua ha mostrato di volere la vita dell’uomo, e che Gesù era davvero chi pretendeva di essere. Ma la Pasqua rischia di restare soltanto un evento che si chiude su Gesù. Invece l’opera di Gesù deve essere portata a compimento, e questo avviene a partire dalla Pentecoste, quando Dio, nella forma dello Spirito Santo, si prende cura di entrare nei cuori dei suoi fedeli, per renderli testimoni coraggiosi e – soprattutto – affidabili. E non va solo nel gruppo ristretto degli apostoli, ma in ciascuno. Ognuno dei credenti è dotato di Spirito, per comprendere Gesù e per annunciarlo. E non è soltanto un annuncio che risulta comprensibile, ma suona davvero intimo, diretto, personale, come se detto nella lingua o nel dialetto che più ognuno ha nel cuore: diventa una comunicazione sorprendentemente interessante, comprensibile, attraente per gente proveniente da ogni dove, quali che siano i loro retroterra e i loro modi di pensare. Il cuore del racconto, allora, non è il prodigio, ma una promessa davvero consolante e rasserenante per la chiesa di ogni tempo e luogo: Dio si farà capire, perché parla al cuore dell’essere umano. Di ogni singolo essere umano.

Angelo Fracchia
(2 – continua)




Atti degli Apostoli:

il nostro libro

Tempo di novità

Spesso si dice che viviamo in tempi di trasformazione, di cambiamento.
Probabilmente non esiste nessun tempo che non sia di cambiamento, ma è vero che
certi passaggi storici sembrano stravolgere tutto ciò che trovano, e il nostro
è uno di quelli. È comprensibile lo sconcerto dei credenti in Cristo che si
chiedono come continuare a nutrirsi della fede quando tanto sembra contestarla
e spingerla a rinnovarsi. La paura del cambiamento, ovviamente, è quella di
perdere qualcosa di fondamentale. Nello stesso tempo è certo che, restando come
ci si era abituati a essere, si rischia di morire, ossia che il rapporto con
Gesù diventi insignificante innanzitutto per noi, il che sarebbe una grave
perdita per la nostra vita.

Come fare a mantenere equilibrio tra conservazione dell’essenziale e
rinnovamento vitale?

Può confortare che il primo libro nel quale si parla della Chiesa, gli
Atti degli Apostoli, sia situato su uno sfondo simile al nostro. Anche nel I
secolo d.C., infatti, c’era un «grande mondo» che affascinava perché ricco,
luccicante, abbagliante: il potere politico romano, con i suoi commerci e la
facilità dei viaggi, che grazie alla cultura greca metteva a disposizione una
lingua con cui farsi capire ovunque (come oggi l’inglese) e un modello
culturale attento all’essere umano, alla sua intelligenza, alla sua autonomia,
al suo farsi da solo con la forza del cervello e della propria forma fisica. Il
divino sembrava più formale e trascurabile. Accanto, c’era un «mondo antico»
ebraico fatto di regole minuziose che però rimandavano a una saggezza
interiore, di fedeltà al rapporto con un Dio unico, senza statue né quadri, un
mondo che in fondo affascinava gli stessi romani. Gesù non era quasi mai uscito
da questo mondo ebraico, ma i cristiani si troveranno presto sfidati a
entrarvi: come farlo senza perdere la propria anima?

In queste pagine, cercheremo di percorrere il libro degli Atti tenendo
sempre sullo sfondo la nostra situazione e la nostra vita, per provare a
cogliere che cosa quella vicenda di duemila anni fa insegna a noi. Proveremo a
lasciarci guidare dall’ordine del libro biblico, senza essere noi a imporgli
temi o questioni: sia lui a portarci dove ritiene opportuno.

La copertina

Un libro non si dovrebbe giudicare dalla sua copertina, anche se già
questa ci dice qualcosa sul suo contenuto: non solo il titolo o l’immagine sul
frontespizio, ma anche quanto è spesso, quanto è scritto fitto, quante immagini
ha al suo interno, sono elementi che già ci fanno capire se il libro potrà
interessarci o no.

Gli Atti degli Apostoli sono la seconda parte di un’opera che
comprende il Vangelo secondo Luca: questo vuol dire che l’autore pensava al
Vangelo, che pure è autonomo, come un testo in qualche modo da completare con
gli Atti, i quali a loro volta sono autonomi ma non possono essere capiti
appieno senza il Vangelo. Anche se negli Atti non si cita esplicitamente il
Vangelo di Luca, la vicenda di Gesù resta assolutamente il contesto nel quale
comprenderli: pur avendo la vita della Chiesa delle logiche e dei tempi suoi, è
Gesù a renderla sensata.

Nel leggere in greco gli Atti, si resta colpiti dalla trasformazione
della lingua che avviene nel corso dei capitoli: i primi sembrano essere
redatti da qualcuno che, pur scrivendo in greco, continua a pensare con una
testa ebraica (come succede a chi vuole scrivere un bell’inglese pur
continuando a pensare in italiano). Qualcosa del genere succedeva in effetti
anche nel Vangelo, benché nei primi due capitoli di Atti questo avvenga in modo
più marcato. Poi, poco per volta, nel corso della narrazione, la lingua si
purifica, si fa più elegante, più «greca». Dalla metà circa del libro in poi,
siamo davanti a un discorso puro, sciolto, affascinante. È come se anche il
modo di scrivere progressivamente si facesse più internazionale. Non a caso i
primi capitoli si svolgono tutti a Gerusalemme, ma poi un po’ per volta la
geografia si allarga, e nelle ultime righe la storia si sviluppa a Roma, la
grande capitale, il centro del mondo.

L’introduzione (At 1,1-2)

Luca è uno storico che conosce bene il suo mestiere. Gli storici del
nostro tempo dimostrano di fare un buon lavoro quando usano bene le fonti,
fanno vedere di aver consultato gli archivi e danno prova di aver letto le
opere degli altri storici. Al tempo di Luca, un bravo storico mostrava di
essere tale innanzitutto con due strumenti: i discorsi, che non dovevano
necessariamente essere fedeli parola per parola a come erano stati pronunciati,
ma che servivano a spiegare il senso del momento raccontato, a chiarire che
cosa c’era in ballo, e poi l’introduzione, dove lo storico faceva sfoggio della
propria lingua. Il sottinteso era che chi scriveva bene doveva aver studiato
tanto, e quindi essere anche capace di applicare lo studio nella ricerca e
nell’interpretazione dei fatti. E Luca mostra eccome di saper scrivere.

In pochissime parole, nei primi due versetti, dice tantissimo. Intanto
indirizza la sua opera a Teofilo. Chi sia questa persona, non lo sappiamo.
Anzi, potrebbe non essere una persona reale, dal momento che il nome significa
«amico di Dio»: può darsi che Luca intenda dire che qualunque amico di Dio è il
destinatario del suo lavoro. Era indirizzato alla stessa persona anche il
Vangelo (basta guardare Lc 1,3). Per rendere chiaro, fin dall’inizio, che i due
libri vanno letti insieme.

Luca dice poi che nel Vangelo ha
esposto quello che Gesù «iniziò a fare ed insegnare»: con queste parole vuole
dirci che la vicenda storica di Gesù non è finita con la sua ascensione. Il
Signore si identifica con la sua Chiesa, come farà intuire anche a Saulo di
Tarso quando lo incontrerà sulla strada di Damasco: «Io sono Gesù, che tu
perseguiti» (At 9,5), gli dirà, anche se, a essere pignoli, Saulo era convinto
di perseguitare non Gesù ma i cristiani. Nel prologo degli Atti, quindi, Luca
dice che quello che Gesù ha fatto nella sua vita non è finito, ma prosegue
nell’opera dei cristiani. E come Gesù non ha soltanto insegnato, ma ha agito,
così anche il cristianesimo non è questione di conoscenza sola, né solo di
azione, ma di agire consapevole, di intuizione che si fa vita vissuta.

Quindi Luca fa notare che l’opera di Gesù nel mondo è finita (ascende
al cielo) ma non per caso o incidente: egli dà disposizioni ai suoi, organizza
la sua partenza, e infine non è più fisicamente presente ma solo dopo aver
lasciato lo Spirito. Insomma, Gesù continua a esserci ma in una modalità nuova,
che aumenta la responsabilità dei suoi discepoli.

Gesù in cielo (At 1,3-11)

Gesù risorto non resta nel mondo. Lo sappiamo. Anche perché Luca lo
aveva già detto alla fine del Vangelo (Lc 24,51). Là, però, sembra che tutto
sia successo in un giorno solo, qui si parla di un tempo di quaranta giorni tra
la risurrezione e l’ascensione al cielo. Possibile che Luca si sia contraddetto
da solo? A partire da ciò che abbiamo già intuito sulla sua precisione, è
improbabile. Piuttosto, la contraddizione è uno dei trucchi degli scrittori,
soprattutto nell’antichità, per suggerire al lettore quali sono gli aspetti più
importanti cui fare attenzione. Se nel Vangelo ci dice che Gesù è asceso dopo
un giorno e poi, negli Atti, dopo quaranta, significa che la durata non è
importante. E che quindi il dato temporale vuole indicare altro, è un dato
simbolico. Gesù nel Vangelo ascende al cielo il giorno della risurrezione
perché il suo essere il Vivente e il suo essere alla destra del Padre
coincidono. Gesù negli Atti ascende al cielo quaranta giorni dopo la
resurrezione, perché comunque c’è un distacco tra i due elementi, la
risurrezione di Gesù non è soltanto un modo per dire che in qualche modo lui
vive ancora, spiritualmente o nel ricordo: no, lui è davvero il Vivente,
davvero il suo corpo ha lasciato il sepolcro. Ma non è più fisicamente tra noi.

La tentazione di aggrapparci alla nostalgia è umana e Dio la capisce
bene, infatti due angeli, dice Luca in At 1,10, arrivano a scuotere i
discepoli: «Perché state a guardare il cielo?». Andate, agite. Gesù tornerà, ma
adesso non è qui; c’è lo Spirito Santo che vi accompagnerà, ma dovrete metterci
del vostro.

Di nuovo in dodici (At 1,15-26)

Cosa fanno i discepoli appena rispediti nel mondo? Può stupirci, ma
iniziano prima di tutto a recuperare le proprie radici. Innanzitutto, si
trovano nel cenacolo, ossia là dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù.
Con loro ci sono la madre e i fratelli di lui (At 1,13-14): è chiaro che tutto
rimanda a colui che sembra assente. E poi ricostituiscono il numero dei dodici.
Dodici rimandava al numero dei patriarchi, alle dodici tribù d’Israele. Giuda
non c’è più, ma il numero non va perso. È un rimando importante alla storia che
c’è alle loro spalle, a quello che noi chiamiamo tempo dell’Antico Testamento.
Tutto è nuovo, ma non dimentica le proprie radici.

È poi curioso come procedano a scegliere il dodicesimo: selezionano
chi è stato testimone della vicenda di Gesù (At 1,21-22), e ne trovano due. Uno
dei due ha una bella presentazione, più ampia («Giuseppe, detto Barsabba,
soprannominato Giusto»), l’altro ha solo il nome, Mattia. Tra questi si tira a
sorte. Era il modo con cui in Israele si affidava la scelta a Dio. Ancora una
volta si ricorre a modalità «antiche», tradizionali, che stanno alle spalle,
per impostare il nuovo che va costruito. E Dio, stranamente (ma come ha già
fatto tante volte nell’Antico Testamento), sceglie colui che potevamo ritenere
svantaggiato. Fin dall’inizio, si tratta di collaborare noi con Dio per
costruire il nuovo che abbiamo davanti senza dimenticare ciò da cui veniamo.

Angelo Fracchia
(1 – continua)

Iniziamo in queste pagine la collaborazione con Angelo Fracchia che ci accompagnerà alla scoperta del libro degli Atti degli Apostoli, il libro della missione.

Ecco come lui stesso si presenta:

«Ci vuole coraggio per subentrare a un maestro come don Paolo Farinella nel tentativo di far conoscere e affascinare ai testi biblici. Coraggio, o incoscienza. Più probabilmente la seconda. Forse la stessa incoscienza che si mette in campo nel far crescere un figlio, avventura per la quale, a pensarci, non possiamo che dirci incapaci (nel mio caso, poi, quell’incoscienza si è ripetuta quattro volte). O l’incoscienza che ci vuole nel pronunciare un per sempre, quale che esso sia. Potrebbe essere l’incoscienza di chi ama. Che quindi si apre semplicemente in un grazie, nel mio caso a don Paolo, a padre Gigi che – incosciente anche lui – mi ha chiamato a questa bella avventura. Che lo Spirito mi aiuti a dire di lui cose rette, come Giobbe (Gb 42,7), rimproverato per la sua incoscienza ma lodato per come di Dio si era fidato, anche quando se ne lamentava».

Chi è Angelo Fracchia?

Padre di quattro figli, amante della musica, ha studiato all’Istituto biblico di Roma e collaborato come traduttore con l’editrice Paideia. Guadagna il pane quotidiano per sé e la sua numerosa famiglia facendo l’insegnante di religione in due scuole superiori a Saluzzo e Dronero nella provincia di Cuneo. Ma la sua vera passione e missione è far conoscere e amare la Parola di Dio.

Perché gli Atti degli Apostoli?

Uno degli inviti pressanti di papa Francesco a tutta la Chiesa è quello di essere «una Chiesa in uscita». Il libro degli Atti, continuazione del cammino di Gesù nella storia dell’umanità attraverso la sua Chiesa, non è certo un semplice libro di storia, ma è piuttosto una fonte di ispirazione, un paradigma di vita. Il mandato degli Apostoli diventa allora il nostro mandato. Il loro stile di dare la bella testimonianza di Gesù è ispirazione e modello per noi. Non per ripetere quello che gli apostoli hanno fatto, ma per acquisire il loro stesso spirito e imparare e riconoscere l’azione dello Spirito nel nostro oggi.




Preghiera 20. La preghiera immerge nella presenza dell’Assente

 


Concludiamo la lettura di Mc 4,35-41, iniziata nella puntata precedente (MC n. 11, nov 2018).


Testo di Paolo Farinella, prete


Mc 4,37
Allora sopraggiunse una forte tempesta di vento; le onde si scagliavano contro la barca tanto che ormai era piena.

Si pone il problema della presenza di Dio che il nostro ateismo religioso semplifica nella convinzione che Dio debba intervenire come un orologiaio ad aggiustare le cose della natura, gli errori o le malvagità degli uomini. Quando diciamo: se Dio è Padre (se è buono, se è onnipotente, ecc.), non dovrebbe permettere questo o quello (dolore, sofferenza, cataclismi, ecc.), non siamo consapevoli della bestemmia che proferiamo, bisognosi come siamo di un «dio-jukebox» pronto a cantare la canzone che vogliamo, pigiando un tasto. La presenza di Dio nella barca della vita e della Chiesa non ci risparmia la fatica del cammino personale lungo la nostra storia e il nostro percorso di maturazione con il lavoro che comporta e le regole insite nella vita stessa che è vita «umana», cioè limitata, caduca, mortale.
Essere cristiani non ci mette al riparo dalle tempeste e dalle bufere che ci sovrastano.

Sullo sfondo di questo racconto c’è quello di Giona che scappa da Dio perché non accetta che egli sia «salvatore» dei pagani e si mette a dormire nella stiva (cfr. Gio 1,5) scatenando così una grande tempesta che solo l’ammissione della colpa farà cessare. I credenti rinnegano il loro Dio quando ne vogliono limitare l’anelito universale di salvezza. Nel racconto del Vangelo la colpa della tempesta è determinata dall’incredulità degli apostoli (cfr. Mc 4,40-41) che vorrebbero impedire a Gesù di andare verso i pagani. È lo stesso atteggiamento che moltissimi cosiddetti credenti hanno verso gli immigrati, i poveri del Sud del mondo che vengono, novelli «Lazzari», a mendicare le briciole delle nostre mense (cfr. Lc 16,21) e che assumono la forma della nuova Nìnive, da cui anche noi scappiamo, pensando forse che il Dio di Gesù debba tutelare solo noi, abbandonando gli altri alla deriva, nel cuore della tempesta della povertà.

«12Cristo Gesù: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 13Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15“Colui che raccolse molto non abbondò,
e colui che raccolse poco non ebbe di meno”»
(2Cor 8,12-15).

Al di fuori della logica dell’agàp?, sacramento primo del riconoscimento dell’altro e dell’accoglienza, ogni discorso religioso è un gargarismo vacuo. La tempesta è un’opposizione all’ordine di Gesù: «Passiamo all’altra riva». I Giudei che si ritengono superiori ai pagani non vogliono mischiarsi con essi. In termini moderni è l’aberrazione della civiltà occidentale che si crede superiore alle altre e di alcuni, anche religiosi, che pretendono che Dio s’identifichi con essa. Se così fosse, il Dio di Gesù Cristo rimarrebbe ancora nell’ambito della concezione territoriale o nazionalista: il Dio di una parte, non il «Padre nostro», cioè di tutta la famiglia dei popoli della terra.

Mc 4,38a
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.

Il versetto è drammatico per due motivi: mentre tutto attorno parla di paura e di pericolo mortale, l’evangelista sottolinea il contrasto di un Gesù che se ne sta a poppa, cioè in fondo alla barca, dietro a tutti. E non solo, ma indifferente e disinteressato a quanto accade, se ne sta anche «sul cuscino», che è un non senso in questo contesto. Una barca di pescatori non ha un cuscino per riposare comodi: la barca è sporca, piena di salsedine e nessuno vi porterebbe un cuscino. Poiché è inverosimile, bisogna fermarsi e interrogarsi sul suo senso «nascosto». L’evangelista vuole esprimere qualcosa che probabilmente ha ricevuto dalla tradizione orale, un significato importante. Cuscino (gr. proskefàlaion, lett. capezzale/guanciale/cuscino) è un termine che indica ciò che si mette sotto la testa di un defunto (cfr. Lisia, XII,18).

Detto così, il cuscino e il sonno di Gesù sono un riferimento anticipato alla sua morte e alla sua lontananza: verrà veramente un giorno in cui Gesù non ci sarà più fisicamente e regnerà l’angoscia della persecuzione: «Ancora un poco e non mi vedrete più» (Gv 16,16-20, qui 16).

L’episodio è un’evidente riflessione post pasquale, quando la prima comunità cristiana si interroga su come Gesù, assente fisicamente, possa essere presente nella storia. Come a dire: il Signore è morto, se n’è andato, noi siamo soli in balia delle onde: chi ci salverà? Perché il Signore ci abbandona e non interviene? È il dramma che si consuma sempre nella storia, specialmente nel sec. XX, che ha visto i genocidi pensati scientificamente, la shoàh programmata in ogni particolare. In tutto questo dov’era Dio? Con una formula a effetto si parla di «silenzio di Dio». Già nel capitolo 4, l’evangelista ci mette in guardia sul fatto che andare dietro a Gesù non è una passeggiata, ma un cammino verso la morte e la morte violenta (tempesta). Qui è anche la prova che la vita di Gesù descritta nei vangeli, è illuminata costantemente, a posteriori, dalla luce della Pasqua: morte e risurrezione, che ci vengono offerte come le chiavi per entrare nella dinamica del pensiero di Dio.

Mc 4,38b
Allora lo svegliano e gli dicono: «Maestro, non t’importa che moriamo?».

Il testo greco usa il verbo al presente che dona vivacità e contemporaneità all’azione: «Lo svegliano» (gr. eghèirousin, lett. lo risorgono). Si potrebbe anche tradurre con un drammatico: «Continuano a svegliarlo». Non è sufficiente per loro la presenza assente del Signore, essi lo vogliono vedere all’opera e quindi non si rassegnano alla sua morte. Gli apostoli sembrano dire: come facciamo adesso che tu non ci sei? È un’accusa a Dio di non occuparsi di loro, di lasciarli soli: essi esprimono un senso materialistico della fede. Il versetto dice la fatica che vissero i discepoli nel loro cammino di fede prima di interiorizzare la risurrezione e la presenza di Gesù come dinamica delle proprie responsabilità. Solo dopo la Pasqua con l’irruzione dello Spirito Santo, capiranno di essere responsabili dell’«Assenza-Presenza» del Signore attraverso il sacramento o magistero della testimonianza.

Mc 4,39a
Dopo essersi svegliato, intimò al vento e disse al mare: «Silenzio!/Sta’ zitto!».

Gesù deve risorgere perché i suoi apostoli non sono in grado di reggere la sua morte: sono perduti. Egli deve svegliarsi dal sonno della morte e riprendere in mano la situazione per ristabilire i confini della competenza di Dio e quelli della natura. «Intimò» (da epitimà? – io intimo/minaccio) è un verbo che nella LXX è riservato all’autorità con cui Dio domina le forze negative (Sal 9,6; 67/66,31; 105/104,9; 118/117,21), mentre nel Nt, Gesù lo utilizza negli esorcismi contro le forze del maligno che dominano l’uomo (cfr. Mc 1,25 per l’uomo posseduto e Mc 3,12 per gli spiriti impuri). Il mare è sede degli spiriti malvagi ed è dominato da Gesù che assume su di sé la potenza creatrice di Dio: «Silenzio! Sta’ zitto!». Il verbo greco siôpà?, usato qui all’imperativo «(fa) silenzio/taci!», in Mc 3,4 indica il silenzio ostinato dei farisei: «Essi rimasero in silenzio», un silenzio nemico, ostile, oppositore, un silenzio che è premessa di morte. Il silenzio che impone Gesù è invece quello del suddito che deve obbedienza al suo signore.

Mc 4,39b
Il vento cessò e sopraggiunse una grande calma.

Alla parola autorevole di Gesù corrisponde un fatto: «Il vento cessò». Gesù domina le acque come Yhwh dominò il Mare Rosso (cfr. Es 14,15-31), come il Creatore dominò gli abissi e regolò e rinchiuse entro i confini prestabiliti le acque delle origini (cfr. Gen 1). Gen 1 ha lo stesso schema: «Dio disse …. E così fu!» (Gen 1,3.6-7.9.11.14-16.20-21.24.26-27.29-30). Anche Gesù ordina, intima, comanda e così avviene. Gesù è il senso nuovo del creato e con lui l’ordine della creazione è ristabilito per essere riportato al suo «principio» e al suo fine. Dio non è la risposta ai nostri bisogni; egli è la prospettiva del nostro senso, la direzione del nostro obiettivo esistenziale.

Mc 4,40
Poi disse loro: «Perché siete codardi?
Ancora non avete fede?».

Il termine greco dèilos significa meschino/codardo e indica chi non osa affrontare il nemico (cfr. Dt 20,8; Gdc 7,3; Sir 22,18; Sap 9,14-15). Non basta stare fisicamente con il Signore per avere il coraggio della lotta o vivere un impegno di fede. Si può essere specialisti di Dio, praticanti di molta religione, si possono fare indigestioni di preghiere precostituite, si può passare la vita a imparare a memoria la Bibbia, si può essere specialisti di essa, ma si può anche restare del tutto privi di fede perché fuori dalla prospettiva di Dio e dalla sua logica. Si può essere preti, frati, monaci, monache, vescovi e papi ed essere tecnicamente religiosi, ma sostanzialmente atei. La fede non è uno stato o un accredito, ma un impegno da assolvere e da condividere; non è la conseguenza di un miracolo, ma la premessa di un incontro che la rafforza e la semplifica: avere fede è una questione di cuore perché il cuore ha l’intelligenza della volontà e della ragione (cfr. Lc 24,25.32). Si crede perché si vuole intraprendere un cammino di vita che può solo essere un’avventura d’amore.

Mc 4,41a
E li prese un enorme timore e si dicevano l’un l’altro…

È la stessa paura dei marinai di Giona (cfr. Gn 1,16). È lo stesso stupore e timore degli abitanti di Cafàrnao di fronte alla guarigione dell’indemoniato (cfr. Mc 1,27) o del paralitico (cfr. Mc 2,12). È lo stesso timore e stupore che popola la vita dei discepoli, confermati dopo la risurrezione a superare ogni forma di timore: «Io-Sono. Non abbiate paura!» (Gv 6,20; cfr. Mt 28,5.10). Se fosse vero che crediamo in Dio, nulla e nessuno ci potrebbe smuovere di un solo millimetro dalla trasparenza della testimonianza che non può conoscere né paura né coraggio perché essa esige solo che siamo noi stessi. Sempre. Ovunque.

Mc 4,41b
«Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».

È la stessa domanda che si pongono i presenti all’esorcismo dell’indemoniato: «Chi è mai questo? … Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (cfr. Mc 1,27). Per conoscere «chi è» Gesù non basta stare con lui e condividerne la vita (cfr. Gv 1,39), è necessario partecipare alla sua azione liberatrice. Per stare con Gesù bisogna essere e agire come lui. I preti sono soliti dire di essere «alter Christus», ma solo in riferimento all’aspetto sacerdotale-eucaristico: «Un altro Cristo», perché il prete consacra il pane. Che povera teologia, quella che riduce la questione dell’identità a un solo aspetto per mettere in sicurezza il prete dalle commistioni col mondo e con la vita reale degli uomini. Questa teologia è servita per condannare i preti-operai col divieto di fare lavori manuali o di vivere la vita dei propri contemporanei, solo perché «le sue mani sono consacrate» (anni ’50-’60 del sec. XX). Oppure per giustificare la gestione «monarchica» del prete nella pastorale e nell’economia. In questo c’è un abisso tra la «singolarità» di Gesù e la nostra stupidità che cerca ogni mezzo per distinguersi dal Gesù della storia a vantaggio di un Gesù addomesticato e, diciamola tutta, all’occorrenza molto comodo perché inoffensivo.

Somigliare a Gesù Cristo, o meglio essere «come lui», significa farsi carico della croce della sofferenza del mondo, diventare cirenei dei poveri della terra e assumere l’annunzio di liberazione del Vangelo per combattere ogni forma di ingiustizia e disuguaglianza per impiantare l’inizio del regno di Dio che ha diritto di cominciare sulla terra per estendersi fino ai confini dell’eternità. Imitare Cristo significa decidere di voler morire per la salvezza e la liberazione dell’umanità che oggi è martoriata, rifiutata e crocifissa nei migranti, carne di Dio vilipesa. Bisogna pescare nel pozzo profondo del proprio essere e divenire una cosa sola con lui che non perde mai di vista il senso della sua vita e non ha paura di sporcarsi le mani.

Conclusione

Nell’intervento di Gesù notiamo che egli prima agisce per ristabilire l’ordine e la calma e poi parla ai discepoli e li rimprovera. Non basta recriminare – specialmente a caldo – bisogna creare le condizioni per una vita reale. Un secondo elemento è dato dalla personificazione degli elementi della tempesta: il vento e il mare ai quali Gesù parla sono descritti come se fossero persone. Ciò ci fa supporre fondatamente che il racconto sia da leggersi in modo figurato anche perché Mc usa lo stesso termine per descrivere il silenzio ostile dei farisei (cf Mc 3,4). I farisei anteponevano la struttura «religione» alla persona: l’osservanza materiale della Toràh prima di ogni cosa. Allo stesso modo il popolo ebraico e i primi cristiani non immaginavano che anche i pagani potessero accedere alla salvezza con gli stessi diritti e le stesse prerogative. Gli apostoli, da veri ebrei religiosi, sono sulla stessa linea.

Con questo racconto simbolico, post pasquale, scritto quando già Paolo aveva evangelizzato i pagani della Turchia e della Grecia, l’evangelista ci presenta il vento/pnèuma come parallelo dello spirito impuro che si è impossessato dei discepoli, la cui mentalità ristretta e chiusa provoca la reazione del mare, simbolo del mondo pagano. Gesù usa una forza veemente solo nei confronti del vento: «Silenzio!/Sta’ zitto», invece al mare Gesù non fa alcun rimprovero o intimazione. Il testo greco annota solo che «disse al mare»: cioè sollecita i popoli pagani a calmarsi perché egli ha messo il vento al suo posto. È come se l’evangelista volesse informare le nazioni pagane che la reazione del vento non gli appartiene perché il suo messaggio è universale, senza confini, aperto a tutti, senza esclusione di alcuno. In fondo credere non è difficile: basta lasciarsi amare e prendere in carico da qualcuno che ne abbia voglia e desiderio. Per questo bisogna invocarlo e chiederlo nella preghiera. Questo è il senso ultimo dell’Eucaristia: prendere coscienza che Dio si prende cura di noi per avere la forza di prenderci cura degli altri.

Per la lettura personale. In tutto il brano, riletto ancora una volta a livello del cuore, scelgo un elemento o un personaggio che corrisponde alla mia situazione (discepoli, Gesù, barca, vento, mare, paura, ecc.) e mi metto a confronto. Chi sono io? Chi è Gesù per me? È il perno portante della mia vita o un corollario di seconda scelta?

Signore, sono qui, non ho nulla per te, se non me stesso, so che tu mi accetti come sono e che mi trasformi come devo essere senza violentarmi, senza prevaricare. Mi abbandono a te perché mi fido, sapendo che la mia fiducia, riposta sul cuscino della tua Presenza, accompagna il mio cammino nella vita e nella morte per una esistenza di pienezza che vale la pena vivere.

 

Cielo da casa Gabry


Alle lettrici e ai lettori di MC

Con questa puntata si chiude la mia collaborazione con la rivista, iniziata a febbraio 2005, 13 anni completi. Ricordo come fosse oggi quando il redattore Paolo Moiola inventò la rubrica «Così sta scritto», appositamente per me, e l’entusiasmo di padre Benedetto Bellesi che non solo accettò, ma volle che fosse una rubrica biblica «e di esegesi», lui che ogni giorno pregava con il vangelo greco. Alla sua morte, vissuta con grande testimonianza cristiana, alla direzione di MC gli succedette padre Gigi Anataloni, che ha sempre avuto benevolenza nei miei riguardi, facendomi a volte anche da scudo. A loro voglio bene e restano amici del cuore.

Alle lettrici e ai lettori di MC sono particolarmente grato perché mi hanno costretto a pensare e a scrivere dal loro punto di vista, con un linguaggio semplice e mai ricercato, almeno nell’intenzione. Ho vissuto la responsabilità di entrare nelle loro case e nelle loro letture con «timore e tremore», senza per altro mai venire meno al mio dovere d’integrità e di fedeltà alla Scrittura. Tutti ogni giorno sono stati e continueranno a essere presenti nel mio cuore e nella mia preghiera perché non si può condividere la Parola per 13 anni e poi fare finta di niente.

La decisione di interrompere la mia collaborazione è stata condivisa con la redazione di MC per due semplici motivi.

  • Ho detto loro che le lettrici e i lettori di MC avevano il diritto di sentire altre voci, altri stili, altri metodi, anche come segno interiore di rispetto e di amore verso di loro, in totale spirito di servizio.
  • Il secondo motivo è la mia salute che da tempo è barcollante: è necessario che riduca gl’impegni e inizi a prepararmi all’esodo verso quel regno di Dio che è già cominciato con Gesù e di cui sono sempre stato strenuo annunciatore.

So che hanno cercato e trovato un altro biblista, che, sono sicuro, saprà meglio di me essere in sintonia con la Parola e con il meraviglioso pubblico di MC. A lui il mio affetto e la mia gratitudine, anche senza conoscerlo, perché sia che spieghiamo sia che leggiamo, siamo tutti figli e servi della Parola che si fa storia in e tra di noi. Continuerò a leggere la Rivista per sentirmi a casa e respirare l’afflato mondiale, «cattolico», che MC sa dare in modo eminente. È una bella rivista, tra le più belle esistenti, che vale la pena «lasciare in eredità» a chi viene dopo di noi perché ci permette di non ripiegarci su di noi, ma di respirare con i polmoni della Chiesa del Vangelo: il respiro del mondo, il respiro di Dio. Se volete fare un vero regalo a figli e nipoti regalate loro MC che li fa viaggiare nel mondo con una informazione di prima mano e di rilievo.

Nell’augurarvi un Natale nel segno dell’incarnazione, un abbraccio affettuoso, garante, ogni giorno, della mia preghiera, specialmente nell’Eucaristia, con e per voi come per le persone che amate. A tutti con immenso affetto,

Paolo Farinella, prete,
grato per la vostra pazienza. [La Preghiera-20 – FINE]

Clicca qui per scaricare il pdf di tutta la serie.




Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita


Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?

Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».

Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».

Due racconti, un insegnamento

Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.

Tempesta sedata (Mc 4,38-41) Schema Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38 Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Rimproveri

a Gesù

1,24 «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39 Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Minacce

di Gesù

1,25 E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Obbedienza

a Gesù

1,26 e

1,27b

E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?» Timore

e stupore

1,27a

 

1,28

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»

Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).

Preghiera:

Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.

Le quattro chiavi di Dio e di Gesù

Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:

Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.

La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:

La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).

La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).

La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).

La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).

Nota esegetica:

Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:

MA       = MA?àr                      = Pioggia
P          = Parnàsa                   = Nutrimento
TEA      = Tehiàt hAmetìm     = Resurrezione dai morti
CH        = CHayyìm                 = Viventi

Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).

Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».

La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.

La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.

Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».

Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).

Preghiera attualizzante

Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.

La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?

La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?

Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.

L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?

Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-9].




Preghiera 18. Pregare: lasciarsi accostare dalla Parola e… dalla volpe


Nella 4ª puntata del maggio scorso abbiamo commentato il racconto della tempesta del mare di Mt 14,22-33 nel quale Gesù fu scambiato per un «fantasma», cioè un’inconsistenza, fonte di paura. Per restare sempre sul tema «mare», oggi proviamo ad accostarci al testo di Mc 4,35-41 (che trova i paralleli sinottici in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25). Considerata, però, la ricchezza del brano, dobbiamo dividerlo in due puntate (questa e la prossima, di novembre 2018).

Il progetto del regno di Dio e i suoi ostacoli

Purtroppo, non conoscendo la Scrittura e abituati a una lettura superficiale e letterale, siamo propensi a leggere i Vangeli come racconti storici, senza alcun «distinguo». Anche senza volerlo, in questo modo, vanifichiamo il significato che l’autore o gli autori hanno inteso dare ai loro racconti che non sono finalizzati a fare «la storia di Gesù», ma a dire chi è Gesù per loro, per chi crede in lui e per chi vorrà credere in futuro: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). In parole semplici, i Vangeli hanno lo scopo di suscitare interesse per la persona di Gesù con l’obiettivo, volendogli bene, di assumere il suo messaggio come criterio di vita e progetto sociale: costruire un mondo «su misura di Dio» che significa solamente impegnarsi a fare della terra il «giardino di Èden» che Dio ha avuto in mente fin dall’eternità per tutto il genere umano di tutti i tempi.

Costruire il regno di Dio, significa appunto fondare i rapporti umani e relazionali sulla roccia della condivisione, della fraternità e della giustizia. Il mondo laico, pur con le sue contraddizioni, misfatti, genocidi e aberrazioni atroci, ci ha provato diverse volte: con la rivoluzione francese del 1789 ad esempio, e con il motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Anche con la rivoluzione russa del 1917/18, che, col progetto del messianismo mondiale, ha cambiato il corso della storia (e sappiamo come, proprio perché nessuno seppe cogliere l’enorme massa di speranza che aveva seminato, neanche purtroppo la Chiesa). La mattanza sulla quale la rivoluzione russa si è fondata non elimina l’anelito di giustizia messianica che portava. È necessario, infatti, che la prospettiva «rivoluzionaria» superi l’orizzonte della «sostituzione»: scalzare questi per metterci quelli, escludendo il «bene comune», unica prospettiva di decenza umana. Il Vangelo non ci dice solo che Gesù ha fatto miracoli strepitosi o risuscitato morti, ma attraverso questi modi di narrare, che Pio XII chiamò per la prima volta, in maniera ufficiale, «generi letterari», ci vuole fare sperimentare che lui è la «novità», il kairòs della nuova irruzione di Dio nella storia, la sua Presenza:

«Quale sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com’è per esempio negli scrittori dei nostri tempi… l’interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell’Oriente e con l’appoggio della storia, dell’archeologia, dell’etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch’erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l’esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un’accurata ricognizione delle antiche letterature d’Oriente» (Divino Afflante Spiritu, Enciclica, 30-09-1943, parte II, § 3).

Con questa premessa, ci accingiamo a pregare con il seguente brano:

Mc 4,35Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti»? 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?».

Passi lenti e profondi

  1° passo

Non fermarsi al solo testo indicato, ma vedere cosa precede e cosa segue per comprendere il contesto prossimo e remoto del brano. Il racconto della traversata del mare è preceduto dalle parabole del regno: il seme e le varie tipologie di terreno con relativa spiegazione ai discepoli; la lampada sotto il moggio o sopra il candelabro; di nuovo il seme che cresce, anche se il contadino dorme; il granello di senape (Mc 4,1-34). Il brano è seguito da racconti di guarigione: due indemoniati (Mc 5,1-20); l’inizio del racconto della guarigione della figlia del capo della sinagoga, Giàiro (Mc 5,21-24); un intermezzo con la guarigione della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-37); ripresa del racconto di guarigione della figlia di Giàiro (Mc 5,38-43) e le non guarigioni per mancanza di fede a Nazareth (Mc 6,1-6). Questo è il contesto, prossimo e remoto: da una parte c’è il progetto (seme, lampada, senape), dall’altra gli ostacoli e la resistenza (malattia, schiavitù/indemoniati, morte, incredulità). Non abbiamo qui lo spazio per mettere a confronto Mc con Mt e Lc ed evidenziare la diversità di obiettivi e di lettura del materiale stesso, per cui ci limitiamo solo a Mc.

  2° passo

Individuato il contesto, leggere il brano tenendo conto dell’insieme e cercando di leggere le connessioni tra le diverse parti, in base al principio che se l’autore ha scelto «questa» composizione, aveva in mente una visione, un obiettivo, una strategia. Quale potrebbe essere, secondo me?

  3° passo

Rileggere il testo, così contestualizzato, e cercarne il senso nel contesto della mia vita e del mio tempo. La Parola di Dio, infatti, è per me «qui e adesso», una Parola rivolta alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia ragione per viverla oggi, nella mia vita e nel contesto della storia del mio tempo.

  • Quale tempesta rovescia oggi le barche in mezzo al mare?
  • Chi dorme sul cuscino?
  • Chi si sveglia e tiene a bada il mare, facendo cessare il pericolo?
  • Dove sto io?
  • Se Gesù non fosse stato sulla barca «così come era», cosa sarebbe successo?
  • È lecito domandarsi se questo brano, proclamato nella Liturgia nella 12a domenica del tempo ordinario dell’anno B, abbia un impatto su quello che sta avvenendo nel «Mare Mediterraneo»? Oppure questa osservazione mi dà fastidio? Perché?
  • Quasi sempre la Parola di Dio non è casuale, ma come «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), inchioda alla domanda di fondo: «Chi sono io?». È lecito di fronte a questo testo chiedersi: se Gesù fosse su una barca in pieno Mediterraneo, cosa farebbe? Poiché credere in lui significa «imitarlo», le conseguenze pratiche non sono neutre per la fede.

  4° passo

Rileggere lentamente e individuare le parole, specialmente i verbi, ma anche le altre parti del discorso, che sembrano più attinenti alla nostra condizione. Esclusi i verbi ausiliari e servili, restano 21 verbi che esprimono altrettante azioni, cioè movimenti, emozioni, decisioni, scelte. Ci limitiamo ad essi: passare, congedare, prendere con sé, rovesciarsi, essere pieno, starsene, dormire, svegliare, importarsi, essere perduti, destarsi, minacciare, tacere, calmarsi, cessare, avere paura, non avere fede, intimorirsi, essere, obbedire. Quale emozione suscita in me, ogni singola azione, espressa dal verbo? Tra di essi ce n’è uno che mi qualifica in modo particolare? Rileggo la mia vita alla luce del verbo o dei verbi per me qualificanti, in base al passo seguente.

  5° passo

Il criterio di Ezechiele: mangiare la parola, esattamente come si mangia l’Eucaristia, che poi sono la stessa cosa, perché, come Lc 24 narra nel racconto dei discepoli di Èmmaus, udire la Parola e spezzare il pane sono modi diversi della stessa intimità. Nell’Eucaristia noi facciamo due volte la «comunione»: una volta con le orecchie, ascoltando la Parola-Lògos che è il Figlio, proclamato sul mondo e una volta con la bocca, mangiando il pane e bevendo il vino, simboli reali dell’intima unione, attraverso la Chiesa, del genere umano con Dio (Lumen Gentium, 1).

«2,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava… “apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. 10Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra… 3,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 1,1.9-10; 3,1-4).

Il criterio di Ezechiele

Nel criterio di Ezechiele vi è una concatenazione logica ferrea: il parlare di Dio genera l’irruzione del suo spirito nel profeta che deve alzarsi in piedi, la posizione dell’orante, pronto all’ascolto. Le azioni conseguenti sono: aprire la bocca e mangiare il rotolo, che – attenzione! – è scritto davanti e dietro, cioè è parola abbondante e completa. Dopo aver mangiato non ci si può fermare a fare la pennichella, ma bisogna andare, andare alla comunità con la quale condividere ciò che si è mangiato. Gesù ha un progetto che si chiama «regno di Dio» e riguarda tutta l’umanità. Vi si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il senso di abbandono anche da parte di Dio, il dubbio stesso dell’assenza di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere per non mettere a rischio la vita dei discepoli?

Nel progetto di Dio non si mangia per saziarsi, nessuno è chiuso in sé, si mangia per vivere, per andare, per condividere: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. [Prendete e] bevetene tutti… questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,26-28). Tutto è connesso e tutto si tiene: l’ascolto/mangiare, prendere coscienza e andare in missione nel mondo a dire con la vita che Gesù «è il Signore» (Gv 21,7). Ascoltare e mangiare, nella Bibbia, sono sinonimi perché bisogna «stare sulla Parola» (Gv 8,31), ruminarla, sminuzzarla, assaporarla lettera per lettera, iota per iota, fino a sentirne la dolcezza del miele e il sapore del fiele, il doppio taglio della Parola-spada (Eb 12,4) se vogliamo giungere al «monte di Dio» e stare alla sua presenza:

«7Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, toccò Elia e gli disse: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).

Solo così il profeta può sperimentare la presenza di Dio in tutta la sua gloria e fare l’esperienza della «voce di silenzio sottile», dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco (cfr. 1Re 19,11-13). Se pregare è vivere l’esperienza della Shekinàh, o Dimora o Presenza, è indispensabile arrivarci, ascoltando e mangiando, in una parola interiorizzando. Ascoltare significa «portare dentro di sé la Parola» che è la Persona di Gesù e mangiare significa «portare dentro il cibo» che è la vita stessa di Dio. Chi mangia lo stesso cibo diventa la stessa realtà. Qui è il punto focale dell’intimità che può essere solo personale, vissuta «nel deserto» come spazio senza occhi indiscreti, senza curiosi, senza distrazioni di superficialità. Tutto ciò esige tempo, tempo, tempo… come insegna la volpe al Piccolo Principe, contro la logica della nostra epoca, in cui «non abbiamo mai tempo…»:

«“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo»
(v. più avanti il testo integrale).

Perdere tempo.
Perdere tempo per la persona amata

Questo è il segreto, l’unico che coglie il cuore della vita. Quando noi riserviamo a Dio gli scampoli del nostro tempo, quando controlliamo l’orologio perché «bisogna fare in fretta», quando la Liturgia delle Ore o l’Eucaristia sono contingentati perché «abbiamo tante cose da fare», allora è inevitabile rifugiarsi nelle formule, negli orari, nel rituale perché ci sentiamo protetti e scusati: fatto il nostro dovere, esattamente come qualsiasi salariato, abbiamo pagato il nostro debito. Abbiamo praticato molto, ma non abbiamo amato. Perdere tempo esige silenzio e svuotamento della polvere che ricopre le nostre morte parole (Tagore). Perdere tempo esige avere coscienza di essere l’altra metà di Dio, senza della quale la sua identità come la nostra sono vanificate, annullate.

C’è una pagina mirabile nel «Piccolo Principe», in cui si stabiliscono le regole dell’amicizia «addomesticata» fino a quando gli amici non diventino «unici» tra tutti gli esseri umani. Ho mai pensato di «addomesticare» Dio, riducendo le distanze giorno dopo giorno? Ho mai udito i suoi passi nel giardino della mia vita (Gen 3,8)? Ho mai detto a Dio espressamente: «Per favore, addomesticami!»? Oppure in quella che chiamiamo preghiera personale o corale, mi limito a leggere quanto è prescritto, come se fosse un compito di scuola? «Non si conoscono che le cose che si addomesticano… Gli uomini [e le donne] non hanno più tempo…».

Questo brano, tratto dal «Piccolo Principe», vale più di un trattato sulla preghiera, con l’augurio che ciascuno possa applicarlo al proprio modo di pregare, al proprio tempo di pregare, al proprio Dio che immagina di pregare, perché non è detto, non è scontato, che noi preghiamo il Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6). Leggendo la catechesi della volpe al piccolo principe, proviamo a capire se non parliamo con noi stessi in una forma di narcisismo che è la negazione della natura della preghiera che è solo ed esclusivamente, perdere tempo per la persona amata, perdere vita e desiderio, e anelito e passione per chi vogliamo sia importante per noi.

Maestra volpe…

«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo…”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”. “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe “che cosa cerchi?”. “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?…”. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.

“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “È possibile”, disse la volpe, “capita di tutto sulla terra”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “La mia vita è monotona… E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore… Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. Soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto…”. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”. “Io sono responsabile della mia rosa… ripeté il piccolo principe per ricordarselo» (Da Antornine Saint-Exupéry, de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.A., Milano 1985, 11, 91-98).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-18]