Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Un mondo alla rovescia

Carissimi,
grazie, con la testa e col cuore, per ogni numero della vostra rivista, e in particolare per l’articolo che nel numero di marzo illustra quanto a Trieste fa per i migranti, da anni e meritoriamente, l’Associazione «Linea d’Ombra».

Immagino siate al corrente, essendone rimbalzata l’eco a livello nazionale, della perquisizione che ha subito, insieme alla moglie, il fondatore dell’Associazione, scoprendosi così indagato in un’inchiesta per favoreggiamento, a scopo di lucro, dell’immigrazione clandestina. Verrebbe proprio da dire: il mondo alla rovescia. Un saluto fraterno.

Susanna Cassoni
Trieste, 03/03/2021

Per i Romani contro i Giudei?

Lo svolgimento del processo di Gesù come è raccontato nei vangeli non mi convince. Insomma, se oggi nella democratica Repubblica Italiana il pubblico di un processo si mette a schiamazzare e cerca di interloquire, il presidente del tribunale fa sgomberare l’aula. Figuriamoci se nello stato romano, dove le cariche giudiziarie erano associate al massimo ruolo politico, il governatore di una provincia si mette a discutere con sudditi schiamazzanti se il processato è o no colpevole e quale pena merita. Penso che il racconto risenta troppo del trasferimento a Roma della maggiore colonia cristiana, mentre Israele era stata desertificata dopo l’ultima ribellione: la morte di Gesù doveva essere imputata agli ebrei in via di sparizione e mai e poi mai ai romani troppo importanti per la diffusione del cristianesimo. Il guaio è che quel modo di raccontare è diventato la base di secoli e millenni di antisemitismo.

Claudio Bellavita
25/03/2021

Gradara castello, crocifisso

Dopo aver consultato il nostro biblista Angelo Fracchia, ecco qui alcune riflessioni su questo tema scottante.

La Giudea non era una provincia romana amministrata in modo «regolare», perché mancava un potere locale affidabile (i romani preferivano appoggiarsi a chi c’era già: ma tra i figli di Erode alcuni, come Erode Antipa in Galilea, si dimostrarono capaci, altri, come Archelao in Giudea, no, e dovette essere sostituito), non era ancora stata costituita in provincia (accadrà solo nel 135 d.C.) ed era una zona turbolenta. I procuratori, quindi, non facevano a gara per andarci, e finiva che vi venivano nominati soprattutto amministratori meno capaci, quasi mandati in castigo. A quanto si ricostruisce dagli storici antichi, Pilato non faceva eccezione, anche se era un protetto di Seiano che di fatto comandava a Roma mentre l’imperatore Traiano era ritirato a Capri.

In più la situazione era delicata: a Pasqua, racconta Giuseppe Flavio forse esagerando, gli abitanti di Gerusalemme decuplicavano, tanto che il procuratore si trasferiva lì, da Cesarea, insieme a una coorte (ca. 500 soldati).

In quella situazione non c’era il tempo per allestire un processo regolare e, tutto sommato, mandare a morte, perché la gente lo chiedeva, quello che gli sembrava un predicatore inoffensivo, poteva sembrare la scelta meno scrupolosa ma anche meno rischiosa da prendere.

Va anche notato che la ricostruzione fatta dai Vangeli si ritrova sostanzialmente anche in Giuseppe Flavio e in Tacito. Ma questo basta per dire che gli evangelisti hanno attenuato le responsabilità dei romani nella morte di Gesù e hanno dato tutta la colpa solo ai «Giudei»?

Che sulla base dei racconti evangelici si sia costruito anche l’antigiudaismo cristiano purtroppo è vero. Anche se questo, in realtà, è successo diversi secoli dopo la stesura dei Vangeli stessi. Purtroppo anche espressioni della Liturgia cattolica preconciliare rivelavano l’influsso di questa mentalità.

Ma dare la colpa agli evangelisti dell’antisemitismo non è giustificato. Non vanno dimenticati infatti due punti importanti.

      • Per i Vangeli i responsabili della morte di Gesù sono i «Giudei» sì, ma questi – ed è chiarissimo soprattutto in Giovanni – non indicano il popolo di Israele come tale, ma solo quel gruppo di élite e di potere che controllava la vita religiosa ed economica della Palestina in quel tempo. Un gruppo che, nonostante le apparenze esteriori, era fortemente immanicato con i procuratori romani. Basta ricordare la relazione quasi mafiosa tra la famiglia del sommo sacerdote Anna (che di fatto ha controllato per anni tutta la vita economica e religiosa del Tempio di Gerusalemme) e il discutibile procuratore Pilato. Non a caso i due sono caduti poi in disgrazia nello stesso anno.
      • Inoltre, l’insegnamento di Gesù ben sottolineato dai Vangeli non offre appigli per giustificare l’antisemitismo, sia perché «amare i propri nemici» è un comando ben chiaro che lui ha lasciato, sia perché lui stesso ha perdonato i suoi uccisori proprio dalla croce: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Nella Chiesa primitiva, nonostante le persecuzioni subite anche da parte dei Giudei, né Pietro, né Paolo né gli altri apostoli danno adito a giustificare atteggiamenti di odio contro il popolo di Israele.

Un premio da condividere

Il 14 dicembre 2020, padre Sandro Nava, missionario della Consolata, è stato invitato presso l’Ambasciata italiana di Dar es Salaam, dove l’ambasciatore gli ha consegnato un premio per essere stato nominato «Cavaliere della Stella» dal presidente della Repubblica Italiana e dal ministro degli Esteri il 9 gennaio 2020 (foto sopra).

Padre Nava è stato insignito di questo premio per l’opera svolta al Consolata Hospital di Ikonda dal 2002 al 2019: in questi 17 anni di intenso lavoro il nosocomio è stato ricostruito e ampliato, diventando uno dei migliori ospedali della Tanzania (vedi foto qui sotto).

Padre Sandro Nava sentì la chiamata missionaria dopo aver ascoltato la predicazione di un missionario della Consolata nella sua parrocchia di origine (Osnago – Lc). Così, in giovanissima età, entrò nel seminario di Bevera, continuando poi gli studi a Varallo Sesia e all’Istituto teologico di Torino. Nel 1977 fu ordinato sacerdote e l’anno successivo partì con grande entusiasmo per la Tanzania, dove, passando tra diverse missioni e incarichi, da oltre 40 anni si trova tuttora.

Dal 2002 al 2019 ha vissuto uno dei periodi più intensi e significativi della sua vita missionaria. Con l’aiuto del Signore, della Madonna Consolata, di bravi collaboratori e di numerosi benefattori, è stato possibile realizzare il «miracolo di Ikonda», una realtà che continua e che dona consolazione a molti malati che giungono all’ospedale alla ricerca di cure qualificate.

«Come dissi al ricevimento presso l’Ambasciata – ha osservato padre Sandro -, questo è un premio che non è per me, ma è per tutti coloro che hanno reso possibile il “miracolo di Ikonda”. Io sono stato solo un rappresentante. Quindi voglio cogliere l’occasione per dire che questo è il riconoscimento e un ringraziamento a tutti i benefattori e a coloro che, con le proprie competenze, hanno collaborato con generosità a realizzare l’ospedale di Ikonda».

Dall’ottobre 2020, padre Sandro Nava e la dr.ssa Manuela Buzzi, accogliendo il caloroso invito del vescovo della diocesi di Singida, mons. Edward Mapunda, hanno iniziato una nuova esperienza, sempre in Tanzania, presso il Makiungu Hospital.

Il Makiungu Hospital è nato nel lontano 1954. La zona dove sorge questa struttura è poverissima e la gente vive affidandosi ad una agricoltura di sussistenza. L’ospedale necessita di una ristrutturazione generale, sia per quanto riguarda le costruzioni, divenute ormai inadeguate e in gran parte fatiscenti, sia per quel che concerne le attrezzature e la diagnostica.

«L’augurio che mi è stato rivolto in occasione della consegna del premio e che rivolgo a tutti i benefattori – ha aggiunto padre Sandro – è che anche al Makiungu Hospital riusciamo a fare qualcosa di importante e indispensabile per questa povera gente. Non sarà facile per tante circostanze, però ai “miracoli” crediamo. Se tutti sogneremo la stessa cosa, in qualche modo riusciremo a tradurre i sogni in realtà».

Marta Magni Barzaghi
25/03/2021

 


«Nulla sostituisce il vedere di persona»

Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti. La forte attrattiva di Gesù su chi lo incontrava dipendeva dalla verità della sua predicazione, ma l’efficacia di ciò che diceva era inscindibile dal suo sguardo, dai suoi atteggiamenti e persino dai suoi silenzi. I discepoli non solamente ascoltavano le sue parole, lo guardavano parlare. Infatti, in Lui – il Logos incarnato – la Parola si è fatta Volto, il Dio invisibile si è lasciato vedere, sentire e toccare, come scrive lo stesso Giovanni (cfr 1 Gv 1,1-3). La parola è efficace solo se si «vede», solo se ti coinvolge in un’esperienza, in un dialogo. Per questo motivo il «vieni e vedi» era ed è essenziale.

Papa Francesco

Pensiamo a quanta eloquenza vuota abbonda anche nel nostro tempo, in ogni ambito della vita pubblica, nel commercio come nella politica. «Sa parlare all’infinito e non dir nulla. Le sue ragioni sono due chicchi di frumento in due staia di pula. Si deve cercare tutto il giorno per trovarli e, quando si son trovati, non valgono la pena della ricerca». [W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto I, Scena I].

Le sferzanti parole del drammaturgo inglese valgono anche per noi comunicatori cristiani. La buona novella del Vangelo si è diffusa nel mondo grazie a incontri da persona a persona, da cuore a cuore. Uomini e donne che hanno accettato lo stesso invito: «Vieni e vedi», e sono rimaste colpite da un «di più» di umanità che traspariva nello sguardo, nella parola e nei gesti di persone che testimoniavano Gesù Cristo. Tutti gli strumenti sono importanti, e quel grande comunicatore che si chiamava Paolo di Tarso si sarebbe certamente servito della posta elettronica e dei messaggi social; ma furono la sua fede, la sua speranza e la sua carità a impressionare i contemporanei che lo sentirono predicare ed ebbero la fortuna di passare del tempo con lui, di vederlo durante un’assemblea o in un colloquio individuale. Verificavano, vedendolo in azione nei luoghi dove si trovava, quanto vero e fruttuoso per la vita fosse l’annuncio di salvezza di cui era per grazia di Dio portatore. E anche laddove questo collaboratore di Dio non poteva essere incontrato in persona, il suo modo di vivere in Cristo era testimoniato dai discepoli che inviava (cfr 1 Cor 4,17).

«Nelle nostre mani ci sono i libri, nei nostri occhi i fatti», affermava sant’Agostino, esortando a riscontrare nella realtà il verificarsi delle profezie presenti nelle Sacre Scritture. Così il Vangelo riaccade oggi, ogni qual volta riceviamo la testimonianza limpida di persone la cui vita è stata cambiata dall’incontro con Gesù. Da più di duemila anni è una catena di incontri a comunicare il fascino dell’avventura cristiana. La sfida che ci attende è dunque quella di comunicare incontrando le persone dove e come sono.

Dal messaggio di papa Francesco
per la 55ª Giornata mondiale per le comunicazioni sociali.

 




Mosè in Egitto (Es 4,18-7,7)

Mosè è fuggito dall’Egitto e si è sposato con la figlia di un sacerdote madianita. Mentre ne porta il gregge al pascolo, incontra Dio, che lo invia a liberare il popolo ebraico dall’oppressione egizia.

È già iniziato per Mosè un percorso che in queste pagine dell’Esodo viene proposto come modello di un cammino di fede per tutti.

Mosè si mette in moto per curiosità. La meraviglia, però, comporta anche la disponibilità a lasciarsi scomodare, e Mosè, sia pure con tutti i suoi difetti e tentennamenti (che non contraddicono, ma semmai danno profondità alla fede), decide, alla fine, di partire.

Dopo averne chiesto al suocero il permesso, presi moglie e figli, ritorna verso il Nilo (Es 4,18-20).

Può sembrare una (piccola) carovana di nomadi, ma Mosè non vaga senza meta, percorre a ritroso la stessa strada che ha percorso molti anni prima. Allora era da solo e a piedi, oggi è con la sua famiglia e viaggia a dorso d’asino. Soprattutto, allora era un fuggiasco spaventato verso luoghi sconosciuti, ora viaggia con un obiettivo: parlare con il faraone e convincerlo a lasciare espatriare un popolo di schiavi. Un compito affidatogli da Dio, che gli ha anche fornito argomenti e strumenti per portarlo a termine (4,21-23): riuscirà nella missione?

Un episodio enigmatico

Proprio all’inizio del cammino di Mosè verso l’Egitto per compiere la missione ricevuta, si colloca un episodio enigmatico che tanto ha fatto scrivere ai commentatori: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione».

Sembra che Dio cerchi di far morire il suo inviato, che viene salvato dalla moglie tramite la circoncisione del figlio (Es 4,24-26). Qui rinunciamo a prendere posizione sulle decine di spiegazioni possibili di questo brano, nessuna delle quali abbastanza convincente da imporsi sulle altre. Ci limitiamo a quattro considerazioni.

a) Un uomo in «debito»

Mosè sarà presentato più avanti come la guida, il punto di riferimento, il riassunto della legge. Si corre il rischio di esaltarlo troppo. Per questo, il libro dell’Esodo, che pure lo tiene sempre al centro della scena, sottolinea come lui non agisca da solo, non sia perfetto, come abbiamo già fatto notare, e debba riconoscere il proprio debito nei confronti di altri: la propria sorella e la figlia del faraone alla nascita, un compatriota che (per liberarsene) lo mette in guardia sul fatto che il suo assassinio è conosciuto, un sacerdote madianita, e ora la moglie.

b) Tra dubbio e fiducia

Non tutto riusciamo a capire, nella nostra vita. Neppure in quelle circostanze che più sembrano guidate dalla volontà di Dio. Occorre accettare che ci siano aspetti e particolari della nostra esperienza che restano apparentemente staccati dal quadro generale. Anche le vicende che più sembrano muoversi in un orizzonte chiaro, definito, sostenuto dalla grazia divina, restano segnate dall’incertezza, dal dubbio, dal sospetto. Continuano a chiamarci alla fiducia, a metterci in gioco, sapendo che non tutto dipende da noi. E che molto non riusciamo neppure a capirlo.

c) Fidarsi della «promessa»

Ci potrebbe anche essere un invito a non fidarci troppo di coincidenze e calcoli. Se Mosè fosse superstizioso, potrebbe dire che quel suo viaggio di ritorno inizia sotto pessimi auspici, e che farebbe bene a tornare indietro. Ma Mosè non si fida di brutti segni, si fida di una parola che gli ha promesso grandi cose, anche se la promessa non garantisce dagli inciampi. L’essere umano compiuto deve restare lontano da scaramanzie e presagi, che sono ingannevoli. Dio non passa da quelli, ma da promesse e appelli alla ragionevolezza umana. Certo, non ci invita ad affidarci semplicemente al calcolo e alla ragione (ad esempio, c’è poco di ragionevole nelle relazioni e negli affetti, che pure ci danno da vivere), ma di sicuro Dio non parla per enigmi: si rivolge al nostro «io» più autentico e completo, ragionevolmente padrone di sé.

d) Legame con Abramo

La circoncisione è segno dell’alleanza tra Dio e Abramo. Dio aveva chiesto ad Abramo che circoncidesse i figli. Mosè tornava al suo popolo Israele senza averlo fatto. Non è che Dio punisca Mosè, ma simbolicamente, l’episodio sottolinea il legame tra la vita e missione di Mosè e la promessa fatta ad Abramo. Nell’ottica dei redattori finali del Pentateuco è, inoltre, anche un modo per legare il ciclo di Mosè con quello dei patriarchi che, in origine, erano due cicli narrativi separati.

Al punto di partenza

Nel suo cammino verso l’Egitto, sul monte di Dio, Mosè ritrova Aronne, di cui noi lettori abbiamo sentito parlare per la prima volta in Es 4,14, nell’episodio del roveto ardente, e che forse abbiamo immaginato più giovane di Mosè. Invece Es 6,20 ci informerà che è Aronne il primogenito, e sappiamo da Es 2,4 che anche Maria, la sorella, è più vecchia di Mosè. Questi, insomma, è il più giovane dei tre.

Quello che sarà il grande condottiero del popolo, colui che parlerà faccia a faccia con Dio, per il momento ci è presentato come assassino, pavido, incerto, balbuziente, nonché il più giovane della sua famiglia.

Come in molti altri casi nella Bibbia, Dio non ha paura di fare grandi cose con persone che noi uomini magari non sceglieremmo (tipici i casi di Giuseppe e poi di Davide). E questo non per insinuare che l’umanità non conta niente (Dio, infatti, non fa nulla senza Mosè), ma, al contrario, per indicare che anche chi si reputa scarso, insieme a Lui, può raggiungere grandissimi risultati.

Aronne, chiamato dal Signore, va incontro a Mosè, il quale gli spiega tutto ciò che gli è successo. I due vanno dagli anziani del popolo di Israele, coloro che detengono la sapienza e sono chiamati a guidare la propria gente, e questi li ascoltano e credono in Dio (Es 4,27-31). Ci troviamo di fronte a una situazione che sarà rarissima nel resto dell’Esodo. Come succederà ben poche volte in futuro, Mosè, Dio e il popolo sono in accordo, in piena sintonia. Tutto sembra risolto, deciso, chiaro.

Anche se, in verità, nulla è ancora fatto e compiuto, anche se quell’armonia è destinata a rovinarsi presto.

Primi inciampi

Mosè e Aronne, a questo punto, si presentano al faraone. Questi, come è stato preannunciato da Dio a Mosè, oppone il suo rifiuto alle richieste. Non solo, però, non acconsente al progetto divino di lasciare uscire il popolo, ma dichiara di non conoscere per nulla quel dio che ne avrebbe ordinato l’uscita, e stabilisce di appesantire le condizioni di lavoro degli ebrei, che da ora dovranno consegnare lo stesso numero di mattoni senza averne a disposizione le materie prime (Es 5,1-11).

Il faraone, comprensibilmente, fa il proprio interesse, puntando a delegittimare il sedicente capopopolo davanti agli ebrei. E ci riesce, tanto che questi iniziano a rimproverare Mosè per la nuova peggiorata condizione (Es 5,20-21).

Mosè, d’altronde, non fa quello che il popolo si aspettava: ha convocato gli anziani, le persone più sagge ed esperte, i rappresentanti di tutto il popolo, ma poi non li ha portati davanti al faraone, dove è andato, invece, accompagnato dal solo Aronne. In più, non ha riferito al faraone ciò che Dio gli aveva suggerito di dire, né si è premurato di operare quei prodigi che gli erano stati consigliati (Es 4,21-23). Semplice disattenzione o mancanza?

Di fronte alla contestazione degli anziani, poi, Mosè sembra prendersela con Dio, riversando su di lui la responsabilità dell’accaduto e accusandolo di non aver ancora fatto niente (Es 5,22-23). Come succede in tanti altri passi, Mosè non sembra proprio essere l’eroe senza macchia e senza paura che ci si poteva aspettare.

Eppure, Dio si appoggia a lui, si fa rappresentare proprio da lui.

Il discorso di Dio

È a questo punto (Es 6,1) che Dio reagisce e conforta Mosè rivolgendogli un altro discorso. Immaginiamoci al suo posto: se fossimo Dio e dovessimo rassicurare il nostro inviato, probabilmente sottolineeremmo la nostra forza davanti alla debolezza del faraone, destinata a essere sconfitta. Dio però non parla così. Lascia da parte la forza, e insiste su altre due ragioni per cui Mosè può fidarsi: la prima è la promessa di una discendenza e di una terra fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, la seconda è l’oppressione degli ebrei.

Entrambe le ragioni si muovono sul filo delle relazioni personali. Per Dio l’unico motivo di saldezza è il credere alla sua promessa, che non è radicata nella sua forza, ma nella sua fedeltà.

È quasi un invito a Mosè e al popolo a cambiare modo di pensare: non è perché Dio è più forte del faraone che gli israeliti possono essere sereni. Questa è un’osservazione vera (di fatto, Dio è più forte del faraone), ma non è quella più significativa. Se il centro dell’azione di Dio fosse la sua forza, gli ebrei passerebbero da una schiavitù a un’altra (e, in un certo senso, è proprio quello che continueranno sempre a desiderare). Essi possono invece fidarsi di Dio, perché lui ha conosciuto i loro antenati, ha percorso un tratto di strada con loro, li ha accompagnati e ha rivolto loro una promessa. E ora vede i loro discendenti oppressi.

A guidare i pensieri di Dio non è la potenza o l’orgoglio, ma l’amore. Dio si muove perché gli ebrei stanno male, e perché ha garantito ai loro antenati che ciò non sarebbe successo.

Così inizia a cambiare il modo di ragionare di Mosè e dei suoi compatrioti, con un appello che continua a parlare anche a noi. Dio non cerca un popolo che lo lodi o gli offra sacrifici. Dio vuole la relazione, e vuole che questo popolo viva bene. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, ma di noi, del legame con noi. Quello che vuole stringere con l’umanità non è un contratto, ma una relazione di amicizia profonda. Potremmo addirittura dire che persino Dio non sia libero, perché è legato dall’affetto: non può tirarsene fuori!

Mosè… e noi

Chissà se è questo che Mosè intuisce quando si definisce, per ben due volte, «uomo dalle labbra incirconcise» (Es 6,12.30). La circoncisione era un segno del patto con Dio, del fatto di essere riservati per lui. Quando Mosè dice di avere le labbra non circoncise, può forse semplicemente ricordare che non è un buon oratore, e che anzi balbetta (cfr. Es 4,10). Ma questa interpretazione sembra superficiale e incoerente confrontata con tanta insistenza, e proprio in questo punto.

Si direbbe quasi che Mosè ammetta di non aver ancora capito fino in fondo qual è la relazione di Dio con il suo popolo, di non saperla spiegare. È vero che Dio gli suggerisce, di nuovo, di mandare Aronne a parlare al posto suo (Es 7,1), ma è come se Mosè, pur essendo ormai coinvolto nel progetto, riconoscesse di non averlo ancora compreso fino in fondo.

Perché i progetti di vita, le interpretazioni esistenziali, la relazione con Dio, non funzionano come una professione, per la quale devo essere stato promosso all’esame di laurea e a quello abilitante per poterla esercitare. La vita (ma in realtà è così persino per le professioni), la si capisce, se va bene, mentre la si vive, non prima. E più spesso dopo.

Questo però non toglie che il percorso possa essere fruttuoso, utile, e possa cambiare la vita anche agli altri. Mosè non ha capito ancora tutto, ma ha capito la cosa fondamentale: che la via d’uscita dalla situazione pesante in cui sono lui e il popolo si trova ascoltando Dio, fidandosi di lui. Allo stesso tempo, sente di non avere ancora imparato, lui per primo, a fidarsi fino in fondo, ma sa che, persino così, Dio gli concede di essere una guida per gli altri: incerta, limitata, ma autentica.

Perché Dio non fa nulla senza l’uomo, ma accompagna e sostiene l’uomo che è disposto a collaborare con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 04 – continua)




La chiamata (Es 3,1-4,17)

Testo di  Angelo Fracchia |


Con il terzo capitolo dell’Esodo entriamo nel cuore della vicenda di Mosè. Inizia un’avventura unica, che sarà fondamentale per la relazione tra il Dio d’Israele e il suo popolo, ma che si lascia anche interpretare come modello ideale di un percorso di fede. Nella nostra lettura, cercheremo di evidenziare entrambe le dimensioni di questo itinerario.

Ci troviamo di fronte a Mosè, salvato miracolosamente da bambino, cresciuto alla corte del faraone, fuggito per aver difeso un ebreo (uccidendo un egiziano). Diventato genero di un sacerdote di Madian, un personaggio rilevante ma che appartiene a un popolo disprezzato e, in più, non certo ricco, dato che si trova a dover mandare le proprie figlie a pascolare le sue greggi. Mosè diventa parte di quella famiglia e si prende cura di pascolarne il gregge.

L’incontro all’Oreb

Il territorio che dalla Giudea arriva all’Egitto è un deserto, ma non dobbiamo pensare a una distesa di dune di sabbia. È punteggiato da oasi, e se lo si attraversa in quei rarissimi momenti in cui piove, lo si trova addirittura trasformato in un prato fiorito e pieno d’erba nutriente e gustosa per le greggi. Al di là del deserto, ci dice il libro dell’Esodo (3,1), Mosè raggiunge il monte di Dio. Molto si è discusso e molto si discuterà sull’identificazione di questo monte, come su altre domande riguardanti la geografia dell’Esodo: in questo nostro percorso eviteremo di occuparci di tali questioni, che sono assolutamente interessanti, ma non hanno né una risposta sicura né ricadute sul messaggio religioso del libro. A noi interessa di più l’esperienza di Mosè e capire come percepisce quanto gli succede.

Mosè vede bruciare un rovo senza che si consumi e decide di avvicinarsi per capire meglio.

Per Mosè, come per noi, e per qualunque percorso di crescita umana, il punto di partenza necessario è la voglia di capire, di vedere, di conoscere. La disponibilità a mettersi in gioco, a non starsene in disparte da spettatori. Se Dio non avesse posto sulla strada di Mosè quel segno curioso, Mosè non si sarebbe fermato; ma se Mosè non avesse voluto andare a vedere che cosa accadeva, la sua vita sarebbe stata più semplice, sicuramente più vuota, e noi non avremmo mai sentito parlare di lui. E chi avrebbe condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto?

Un Dio coinvolto

Dopo essersi avvicinato al roveto ardente, Mosè sente una voce che lo invita a togliersi i calzari, perché si trova in un luogo santo.

Chi tra i lettori ha già sentito la voce di Dio? Magari dal crocifisso, come capitava nei film di don Camillo. Forse nessuno. O forse qualcuno racconterebbe di aver percepito la voce di Dio in momenti delicati della vita: nel consiglio di un amico, in un’intuizione improvvisa, nella serenità giunta come dono, nel coraggio di affrontare una certa scelta. Noi preferiamo essere più razionali nel presentare queste esperienze, mentre l’antichità si fa più facilmente prendere dal gusto del racconto e parla di una voce da un roveto. Forse davvero c’è stato qualche evento sovrannaturale, ma può anche darsi che si tratti solo di un modo di esprimersi metaforico, come anche noi oggi possiamo parlare di una guerra tra la testa e il cuore, senza davvero pensare che i sentimenti stiano nel petto e non nel cervello. Non possiamo sapere di preciso che cosa abbia sperimentato Mosè, ma in ogni caso si è sentito destinatario di un messaggio, partecipe a una conversazione.

E il senso di questa conversazione è chiaro: «Il mio popolo è davvero afflitto, l’ho visto, e ho deciso di scendere ad aiutarlo» (Es 3,7-8).

Non è una presentazione banale, ed è densa di sottintesi. Il libro dell’Esodo aveva già ammesso l’oppressione del popolo, che aveva alzato grida di lamento (Es 2,23). Queste grida però non sembravano essere rivolte in particolare a Dio. È invece Dio a essersi mosso per primo, perché non si è dimenticato di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 2,24; 3,6).

Il popolo afflitto resta il popolo suo. Lungo i secoli non era intervenuto a ricordare la propria esistenza, ma ora non può più tenersi lontano. Dio non si muove per farsi servire e adorare, ma quando l’uomo ha bisogno, si identifica con l’umanità sofferente, si mette al suo fianco. Mosè diventerà chi sappiamo perché ha accettato di mettersi in gioco, ma anche Dio si è messo in gioco: non se ne sta sulle nubi a guardare distaccato la storia, ma si sente coinvolto. E si sente coinvolto dalla sofferenza. Non per compiacersene, ma per guarirla, per toglierla: «Fammi scendere a liberarlo» (3,8).

Il nome di Dio

Comincia qui un lungo botta e risposta tra Dio e Mosè. Nella Bibbia non mancano personaggi che si offrono generosamente per collaborare con l’Altissimo (pensiamo ad esempio a Isaia: «Eccomi, manda me!»
(Is 6,8). Non tutti, però, si offrono senza indugi. Mosè, il più grande, colui che parlava faccia a faccia con Dio (Dt 34,10), l’intermediario per la liberazione dall’Egitto e per il dono della legge, non solo era un assassino fuggiasco e pavido, ma osa anche dire di no a Dio.

Una delle prime obiezioni che muove è che non sa chi ha davanti: «Ecco, io vado dai figli d’Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Che cosa dirò loro?» (Es 3,13).

Dio in realtà si era già presentato, rimandando ad Abramo, Isacco e Giacobbe (i «vostri padri», appunto: Mosè si era distratto). Ma questo rimando poteva suonare generico: nelle vite dei padri erano successe tante cose, alcune delle quali incoerenti tra di loro. Non sarebbe stato meglio una presentazione più dettagliata, precisa? Quando ci offrono un lavoro, pretendiamo di sapere con che contratto saremo assunti, qual è la retribuzione, quante ferie ci spettano, con quali garanzie. Ma quello che Dio offre non è un lavoro.

Ci sentiremmo molto in imbarazzo (speriamo) se un simile discorso si facesse all’inizio di un’amicizia o di un amore.

Anche Dio sembra perplesso di fronte alla domanda, come se non se l’aspettasse. Poi esce in un «Sono ciò che sono» (3,14), che potrebbe essere tradotto anche come «Sarò ciò che sarò» o «Continuerò ad essere ciò che sono». E prosegue, quasi convinto da una trovata che sembrerebbe estemporanea: «Dirai così agli israeliti: Sarò/sono/continuo a essere mi ha mandato a voi». Potremmo addirittura renderlo con «Ci sarò». Mosè ha chiesto un nome, una definizione, un’identità precisa e un perimetro della missione chiaro; ma di fronte a questa richiesta, che sembra quasi prospettare un lavoro, Dio risponde con la più alta e coraggiosa promessa: «Io ci sarò, io sarò con voi». Se ci pensiamo, noi sappiamo essere molto generosi nelle nostre promesse, le quali spesso si fanno grandi come le nostre speranze o desideri, anche se non siamo padroni del nostro futuro. Possiamo però garantire che non scapperemo, che non ci tireremo fuori. E che cosa accadrà, si vedrà strada facendo.

Manda un altro

Le obiezioni di Mosè non si fermano qui. «Non conto niente» (3,11), «non mi crederanno» (4,1), «non so parlare» (4,10), fino a una frase che le nostre traduzioni, giustamente, ci restituiscono alla lettera, ma di cui rischiamo di perdere il senso profondo e l’improvvisa reazione irritata di Dio. Quando, parlando in italiano, diciamo che Andrea esce da tre mesi con la stampella o esce da tre mesi con Lucia, non intendiamo dire la stessa cosa: nel secondo caso parliamo di una relazione profonda, di affetto reciproco, quanto meno iniziale. Se sentiamo dire che una certa offerta è «per molti», capiamo che non è per tutti, anche se questo di per sé non è stato detto.

Quando Mosè dice: «Signore, manda chi vuoi mandare» (4,13), a noi può sembrare una faticosa assunzione del proprio incarico (che Dio voglia mandare Mosè è chiaro, sta cercando di convincerlo da un quarto d’ora…). Ma nel modo di parlare ebraico quella frase sottintende «tranne me». Come se Mosè dicesse a Dio: «Mi hai convinto, il progetto è veramente affascinante. Ma non contare su di me. Trovati un altro, e sarà un successo». Ecco perché Dio perde un po’ la pazienza.

Anche se non può costringere Mosè. Come con un amico che può anche spazientirsi, ma vuole la collaborazione, non può forzarlo e non farà nulla senza di lui.

Qualche insegnamento

Possiamo provare a tirare un po’ le fila di questa tappa, cogliendo anche che cosa possa voler dire a noi.

L’inizio del libro dell’Esodo ci presenta un Dio che si sente coinvolto con l’umanità. Soprattutto con quella che soffre. Non è il motore immobile dei filosofi, che se ne sta nei cieli a guardare un po’ severo ciò che succede sulla terra. È piuttosto un padre che soffre per i suoi figli, finché non ce la fa più a resistere, e scende sull’Oreb.

E non è un Dio che voglia agire senza gli uomini. Con Mosè insiste, discute, prova a convincere, si arrabbia… ma non si muoverà senza di lui. Il Dio della Bibbia prende totalmente sul serio l’uomo, non lo tratta da burattino. Se Mosè dicesse di no, sarebbe no. Ecco perché Dio si prende il fastidio di tentare di convincerlo, non può passare sopra alla sua libera scelta. La libertà dell’uomo per Dio è tanto sacra da non poter essere forzata neppure da lui. Ecco perché è tanto grande e impegnativa la responsabilità umana.

E, insieme, questa non è un’opportunità riservata solo agli eletti, ai migliori, ai perfetti. Mosè ci può sembrare non migliore né peggiore della maggior parte degli esseri umani. Anche nel suo tentativo di non prendersi responsabilità. Dio non chiama a grandi cose l’umanità perfetta: al limite, la rende indimenticabile, se solo inizia a fidarsi di lui.

Cominciamo poi a cogliere le modalità della relazione con questo Dio: non c’è una proposta da ponderare con la calcolatrice. La chiamata divina non è una proposta assicurativa. È piuttosto un progetto di vita: come ogni progetto di vita (che sia un legame coniugale, una consacrazione, una professione, una scelta di stile o di residenza…) ci sono degli elementi che lo rendono conoscibile, credibile, attraente, ma alla fine se non si decide di fidarsene, di lasciargli spazio, di stare al gioco… non accade. Se ci impegnassimo nella vita solo in ciò che si dimostra affidabile e garantito, non faremmo nulla. Come nelle amicizie, anche nel rapporto con Dio l’unico modo di avere garanzie sulla credibilità della sua chiamata, è ascoltarla. Ciò di cui ci fidiamo, potrebbe tradirci, ma ciò di cui non ci fidiamo, non mostrerà mai le sue potenzialità, siamo noi a tradirne la promessa.

E Dio è promessa, è potenzialità, è slancio sul futuro, è relazionalità. Non è una definizione statica, non è il difensore dell’ordine, bensì della vita, che è disordinata, anche incoerente ma solare e piena di frutti. Per questo non può sopportare di rinchiudersi in una definizione, che possiamo controllare e che ci dice tutto. Il Dio di Mosè è un Dio capace di sorprendere, di invitare a scommettere, a mettersi in gioco. Capace di pentirsi ma anche di rilanciare, di ripartire. Non è il dio dei filosofi (o anche, a volte, del catechismo), racchiudibile in una griglia molto ben organizzata, ma è il Dio dei profeti, degli artisti, di chi ama. E se è vero che viene incontro al bisogno non espresso del suo popolo promettendo intanto la liberazione ma sapendo già che non basterà (allude al servizio che il popolo gli offrirà sul monte, Es 3,12, ma poi non se ne parlerà più finché non sarà ora), ciò che promette non è la programmazione dettagliata di tutto quello che dovrà succedere, ma «solo» la garanzia che la relazione non verrà mai meno: «Io ci sarò».

Angelo Fracchia
(Esodo 03 – continua)




Le origini di Mosè (Es 1,15-2,25)

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Mosè ha ispirato romanzi, opere artistiche e liriche, film e persino apprezzabili e raffinati cartoni animati, perché è una di quelle grandissime figure che ha cambiato la storia. Per il mondo ebraico antico il suo nome poteva addirittura diventare sinonimo della stessa Bibbia e della legge (cfr. At 15,21). La vicenda è certo conosciuta, tuttavia vale la pena riprenderla per riscoprirne diversi aspetti forse dati per scontati.

In breve

Un nuovo faraone, che non ha conosciuto Giuseppe (Es 1,8), e quindi non può essergli riconoscente, è spaventato dalla crescita numerica degli ebrei. Per questo inizia a opprimerli e ordina alle due loro levatrici di uccidere i maschi appena nati (1,15-16). Ma queste non obbediscono, così che il popolo «aumentò e divenne molto forte». Allora il faraone estende l’ordine a tutto il suo popolo (1,17-22). Dal massacro si salva un bimbo bello, Mosé, figlio di una coppia di leviti, che viene tenuto nascosto per tre mesi e poi affidato alle acque del Nilo (2,1-4). A trovarlo è la figlia del faraone, che lo adotta, affidandolo a una nutrice ebrea, la quale, grazie all’astuzia della sorella di Mosè, è la sua stessa madre (vv. 5-10).

Una volta cresciuto, Mosè, un giorno, reagisce ai maltrattamenti subiti dal suo popolo e uccide una guardia che sta picchiando un ebreo (vv. 11-12). Quando, il giorno dopo, intuisce che il fatto non è rimasto nascosto, fugge nel deserto, dove a un pozzo incontra le sette figlie di un sacerdote di Madian. Dopo averle aiutate, viene accolto in famiglia e ne sposa una (vv. 16-22).

Storia o favola?

Nel racconto ci sono di certo tanti tratti che ci ricordano una favola: come si può pensare che per tutto il popolo ebreo, tanto numeroso da spaventare il faraone, ci siano solo due levatrici (1,15)? E come fa la figlia del faraone a capire che quel bimbo è un ebreo (2,6), o le figlie del sacerdote madianita Reuèl a capire che Mosè è un egiziano (2,19)? Forse dagli abiti?

Poi la storia della famiglia di Mosè si apre con la sua nascita, come se lui fosse il primogenito, ma subito ci troviamo di fronte a una sorella più grande e abbastanza scaltra da pensare come ricongiungere la famiglia (2,4-7). E non è strano che siano proprio sette le figlie che Reuèl manda a pascolare (2,16 – sette è un numero altamente simbolico nella Bibbia, ndr)? Lo stesso incontro a un pozzo, con il protagonista che s’imbatte imprevedibilmente in una donna, è un cliché ricorrente nell’Antico Testamento (e anche nel Nuovo: Gv 4).

Ma, in fondo, è favolistico lo stesso motivo di partenza del racconto: il bambino affidato alle acque. È un tema che accomuna Romolo e Remo, Perseo, il dio Dioniso… e soprattutto Sargon, ritenuto per millenni il più importante sovrano mesopotamico, vissuto attorno al 2200 a.C., il modello stesso di conquistatore e imperatore finché non sorse Alessandro Magno. Presentare un bambino che viene affidato alla sorte dentro a una cesta abbandonata sulle acque era un espedeinte narrativo per farne presagire il destino importante.

Per i lettori ebrei, poi, quel «cestello» (teba, in ebraico), peraltro spalmato di bitume e pece, in cui Mosè è posto, è la stessa parola che in Gen 6-9 indica l’arca di Noè: entrambi porteranno a termine l’intenzione di Dio di salvare la vita galleggiando su acque che altrimenti sarebbero minacciose.

Ma quanto più i motivi favolistici si moltiplicano, tanto più il nostro senso critico di moderni alza le sopracciglia, perplesso: non si saranno inventati tutto?

Già nella puntata precedente abbiamo affrontato la questione. Qui basti richiamare i toni epici e mitologici con cui si presentano, persino tra noi razionalisti e scettici, le imprese sportive, dove la conquista di una vittoria sembra, a volte, presagita e predestinata fin dall’infanzia dell’atleta di turno. Quel tono favolistico serviva a dire, ai lettori antichi, che si trovavano di fronte a una vicenda eccezionale. La perfetta adesione del racconto alla veridicità assoluta della storia non era un problema per nessuno di loro.

Ironia e assenza di Dio

Due caratteristiche, tra le altre, rendono questo racconto interessante anche per il nostro gusto moderno.

La prima, su cui torneremo, è il fatto che non si citi Dio. Succede anche a noi lettori religiosi e credenti di restare infastiditi quando in una storia troppo viene affidato all’intervento miracoloso di Dio. Tutto sommato, preferiamo che non se ne parli. Forse ci rendiamo conto che affidare troppo velocemente alla responsabilità della provvidenza la nostra vita, non rispetta la nostra autonomia e libertà. Vorremmo cogliere Dio presente, sì, ma come chi si muove tra le righe. A quanto pare, gli autori di Esodo, in questo, ci capiscono.

La seconda è che il racconto scorre piacevole anche per la presenza di diversi spunti ironici. Eccone alcuni.

  • Il faraone vorrebbe negare una discendenza agli ebrei, ma sarà invece Dio a garantire una discendenza alle levatrici che non lo ascoltano (1,17-18.21).
  • Ciò che il faraone voleva impedire verrà portato a termine da un uomo allevato dalla sua stessa figlia (2,5). Questa, peraltro, affida l’incarico di balia, a pagamento, alla madre di Mosè che aveva dovuto abbandonarlo (2,7-9), e che in questo modo può accudirlo apertamente e, persino, protetta e stipendiata.

Le due caratteristiche che abbiamo qui richiamato, ossia il silenzio apparente di Dio e l’ironia, probabilmente sono collegabili. La storia può essere ironica perché non è nelle mani dei più potenti, ma di Colui che può fingere di essere assente per portare però i potenti a fare ciò che vuole Lui. Il fatto che Dio sembri mancare dalla scena, non significa che non ci sia: semplicemente, lavora dietro alle quinte. E chi non vuole vederlo, resterà convinto che lui non esista.

Mosè: Chi è costui?

Mosè è un ebreo, ma cresce alla corte del faraone. È la figlia di quest’utimo a dargli un nome che sembra egiziano, con il significato di «figlio di». Solitamente è la seconda parte di un nome
(-mosis/-mses) a cui si premette quello di una divinità come in alcuni nomi di faraoni, tipo Ah-mosis, Tuth-mosis, Ra-mses.

Nello stesso tempo, però, l’etimologia offerta nel testo è semita: «Tirato su dalle acque». Etimologia perfetta e adattissima, se il nome fosse Musai, non Mosè che vuol dire piuttosto «che tira su dalle acque»: è già un’allusione al passaggio del Mar Rosso? Mosè cresce alla corte del faraone, ma si riconosce negli ebrei perseguitati. Interviene a difendere uno dei suoi «fratelli» (2,11-12), ma per questo viene rimproverato dagli stessi suoi fratelli (2,14). È cresciuto alla corte, ma il faraone lo cerca per ucciderlo (2,15). È un profugo fuggitivo, ma sposa la figlia di un uomo importante, un sacerdote (2,21). Ogni volta che ci sembra che l’identità di Mosè sia fissata, viene rimessa in discussione. In fondo, non facciamo fatica a riconoscerci in lui: anche noi abbiamo un’identità di partenza che sembrerebbe molto chiara e definita, ma che viene continuamente messa in discussione dalla storia che attraversiamo con gioie e dolori, con successi anche insperati e fallimenti impensati. A differenza di tanti eroi della storia, esaltati come predestinati, Mosè si direbbe destinato soltanto a un’esistenza di normale fallimento.

Eroe o uomo qualunque?

A leggere bene la sua storia, il più grande personaggio della storia ebraica, colui che parlava con Dio faccia a faccia (Es 33,11), ha una caratteristica sorprendente: non è perfetto, e non tutto gli va bene.

Se lo guardassimo con gli occhi di un ebreo perseguitato e oppresso, Mosè, che è cresciuto alla corte del faraone, è un privilegiato. Se invece ci mettessimo nei panni del faraone, non sarebbe difficile definirlo un traditore ingrato.

Quando prende consapevolezza della triste sorte dei suoi fratelli e ne prende le parti (2,11), finisce però con l’uccidere, macchiandosi del peccato peggiore da cui, nella Genesi, Dio chiedeva che anche i non ebrei si tenessero lontani (Gen 9,5-6). Tra l’altro, prima si limita a nascondere il cadavere, ma poi, quando viene a sapere che il fatto è risaputo, anziché assumersi le conseguenze del proprio gesto, fugge fuori dall’Egitto (Es 2,14-15): al posto di un «eroe senza macchia e senza paura», abbiamo qui uno spaventato assassino e un liberatore fallito.

Potremmo dire che la sua sorte si trasforma quando arriva nel deserto, dove Dio gli prepara un futuro radioso tramite il matrimonio con la figlia di un sacerdote. Certo, perché i sacerdoti erano uomini protetti da Dio e detentori di un potere, spesso anche politico ed economico. Ma Reuèl, altrove chiamato Ietro, è sì un sacerdote, ma è anche un madianita. I madianiti erano una tribù di seminomadi, che vivevano di pascolo e di espedienti, ai margini delle terre e dei collegamenti importanti e ritenuti senza legge né morale. Erano madianiti, per esempio, i commercianti che avevano comprato e rivenduto Giuseppe (Gen 37,28.36).

Mosè acquisisce probabilmente un ruolo importante, benché straniero, nel clan dei madianiti, ma questo è uno dei clan meno desiderabili e più ignobili del tempo. E si direbbe che peraltro il suocero non gli possa garantire neppure ricchezza, dal momento che manda al pascolo le figlie nubili, segno che non ha neppure uno schiavo per accudire il suo bestiame, e accetta il rischio di esporre le figlie alle prepotenze e violenze degli altri pastori nel deserto. Mosè, pur integrato in una famiglia importante, patisce la propria condizione di straniero (Es 2,22). Peraltro, per anni sarà solo il pastore del gregge di Ietro (Es 3,1): da nipote adottivo del faraone a servo del suocero, il quale finalmente può lasciare riposare le figlie al sicuro.

Può stupire la scelta e il coraggio della tradizione biblica, che non esalta il proprio fondatore, non lo divinizza e, anzi, ne presenta con schiettezza i limiti, le fragilità, le meschinità. Ciò che gli autori dell’Esodo sanno è che la grandezza, anche di Mosè, dipende dall’intervento divino. Ma allora, ciò che accade in Mosè potrebbe ripetersi con qualunque persona che si lasci guidare dallo spirito di Dio.

Un Dio di relazioni

Il secondo capitolo di Esodo si chiude con un accenno, improvvisamente cupo, alle sofferenze del popolo ebraico (2,23-25). E qui ricompare Dio. Quando sembra che gli uomini riescano a gestire adeguatamente, tra alti e bassi, le proprie vicende, il Signore si nasconde dietro le quinte. Ma ora che tutto ciò che gli uomini riescono a fare è alzare lamenti (e non si dice neanche che li alzino a lui, che lo invochino), Dio si sente coinvolto, «se ne dà pensiero» (2,25). Non pretende di stare al centro della scena, ma si ricorda delle persone che di lui si erano fidate (2,24) e non le abbandona. E così anche la vicenda di Mosè, che sembra essersi incamminata su un binario morto della storia, acquisirà una nuova energia. Ma questa volta, in modo molto chiaro, per iniziativa divina.

Angelo Fracchia
(Esodo 02 – continua)


Quando, dove e chi ha scritto l’Esodo?

Per secoli si è ritenuto che l’Esodo fosse stato scritto da Mosè, quasi come un diario. Nel XIX secolo si è fatta strada una teoria che ha sostenuto che quattro quattro scuole diverse, in tempi diversi (*), avessero contribuito a comporre l’Esodo così come lo troviamo oggi tra i primi cinque della Bibbia. Anche questa teoria molto rigorosa, che ci ha aiutato a capire tanti particolari del testo, è ora in crisi.

Oggi, i più (non tutti) pensano che esistessero delle tradizioni, in parte anche già scritte, precedenti all’esilio del 587 a.C., quando Gerusalemme e il tempio furono distrutti dai babilonesi. In quel tempo di crisi (l’esilio terminò nel 538 a.C.) e nei decenni successivi diversi saggi decisero che la tradizione ebraica non doveva morire: ripresero quelle tradizioni orali e scritte e diedero loro una veste unitaria, in quello che chiamiamo Pentateuco, tenendo d’occhio la propria storia (dimensione più «di popolo»), le attenzioni di tipo rituale (più guardando al tempio e alle norme di purità e di alimentazione) e una sensibilità spirituale che potesse dare un’interpretazione e un senso all’esperienza personale e a quella comunitaria dell’esilio e della perdita di un proprio regno.

Tutto è confluito in un testo solo, perché tutte queste dimensioni erano importanti. E tutto incentrato su un’esperienza di coraggiosa uscita da una «terra di schiavitù», sotto la guida di Mosè, di cui peraltro nei profeti e nei salmi si parla molto poco, perché probabilmente non era considerato così importante. In quel tempo, però, parve che quell’esperienza, che forse aveva coinvolto solo alcuni piccoli gruppi, potesse interpretare bene il senso di quanto stava vivendo Israele dopo l’esilio. Così organizzarono quei testi non solo per non dimenticare vicende antiche, ma soprattutto per dare coraggio e una guida ai contemporanei.

Alla fine del VI secolo a.C. il testo dell’Esodo doveva probabilmente essere quello che abbiamo noi oggi. Le poche correzioni e aggiunte fatte in seguito per adattarlo via via a situazioni nuove, testimoniano quanto abbia continuato a essere ritenuto importante lungo gli anni. In fondo, continua a valere anche per noi, che non aggiungiamo più annotazioni e ampliamenti al testo, ma scriviamo articoli su MC.

(*) Queste le quattro scuole o fonti:

  1. Jahvista (la più antica) che per il nome di Dio usa il sacro tetragramma JHWH.
  2. Eloista (dell’VIII secolo a.C., nell’Israele del Nord) che usa il nome Elohim per indicare Dio.
  3. Deuteronomista (VII secolo, nell’Israele del Sud), soprattutto il libro del Deuteronomio.
  4. Sacerdotale (del post esilio) che raccoglie le norme liturgiche e rituali e si esprime soprattutto con il libro del Levitico.



Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

L’ospedale di Ikonda, centro di speranza

Sono una consacrata laica di Cagliari e mi trovo in Tanzania per una esperienza missionaria di due mesi per la realizzazione di un progetto di sostegno ad un orfanotrofio nella regione di Mbeya, grazie all’aiuto di tanti amici. Durante la permanenza nel paese ho avuto il piacere di dedicare una settimana all’incontro ed al servizio nell’ospedale di Ikonda, nella regione di Njombe, gestito dai Missionari della Consolata. Ho conosciuto l’ospedale l’anno scorso, quando avevo accompagnato la sorella di una suora, mia amica tanzaniana, a fare degli esami diagnostici. Ricordo la sua riluttanza: pareva una spesa troppo grande per lei, che si era sempre sacrificata per i figli ed i nipoti. Anche se il suo villaggio nella cartina geografica non sembra distante, mancando le strade dirette, occorreva prima andare nella città e poi prendere il mezzo per Ikonda: questo aveva significato prendere tre bus e viaggiare circa 14 ore, cioè dal mattino presto fino alla sera tarda. L’indomani sul presto aveva incontrato il medico che le aveva prescritto gli esami di base e quelli specialistici. Durante il giorno aveva potuto fare tutti gli esami, avere i referti, ricevere le ricette con la cura necessaria e comprare le medicine. Dunque eravamo potute ripartire all’alba dell’indomani. Ero rimasta colpita dall’ottima organizzazione e così quest’anno ho desiderato conoscere meglio la realtà della missione di Ikonda ed i missionari della Consolata: i padri Marco Turra, William Mkalula, Luis Zubia e Riccardo Rota Graziosi (francescano). L’accoglienza è stata molto buona. Ho potuto dare il mio piccolo contributo nella farmacia, organizzando il materiale per le medicazioni. È stato importante per me essere utile, nonostante parli solo un kidogo (poco) swahili.

L’ospedale di Ikonda ha circa 450 posti letto, ma non sono sempre pieni. Mediamente ne vengono occupati tra i 350 e i 400. Ogni giorno arrivano circa 250 persone per le visite ambulatoriali (con strumenti per la risonanza magnetica, la Tac, etc.), mentre il lunedì e il martedì le presenze sono circa 400.

Nell’aprile e maggio 2020 ci sono stati vari contagi del Covid-19 e sono decedute due persone, una delle quali era proprio un’infermiera della struttura, ancora debole per aver partorito qualche giorno prima. Poi la fase dei contagi è diminuita fino a cessare. Come è successo in tutto il paese. La sala di rianimazione ha solo cinque posti letto e un’emergenza con grandi numeri non sarebbe stata possibile da gestire.

Ho apprezzato che all’inizio della giornata ci sia un incontro tra i missionari e tutto il personale medico per condividere i casi più importanti e le scelte da assumere. Mentre la messa viene celebrata la sera. Ed anche se le attività ed i bisogni continuano ad essere tanti, in quell’ora la priorità dei missionari, e dei loro collaboratori – tra cui suore e catechisti -, è la preghiera a Dio, Medico delle anime e dei corpi.

Per quanto riguarda le attività mediche, rimane la domanda, dato che il contesto di vita della maggioranza della popolazione è molto povero, sul come dare continuità alle cure più impegnative. Ad esempio, nei giorni della mia visita, un’adolescente è stata ricoverata d’urgenza per un coma diabetico. Tornata a casa dopo la fase d’urgenza, come potrà continuare le cure? L’insulina ha bisogno di temperature basse per essere conservata ma probabilmente nella sua casa non c’è un frigo. L’anno scorso invece mi aveva colpito il caso di una bambina tracheotomizzata d’urgenza: come avrebbe fatto tornando nella sua capanna e respirando la polvere della strada? La domanda si può estendere alle cure più impegnative e continuative, dato che c’è la proposta di organizzare un nuovo reparto di dialisi. Le persone potranno recarsi nella sede dell’ospedale frequentemente (tre volte alla settimana) come richiede la cura?

Questi ed altri quesiti rimangono. Ma non devono oscurare il tanto bene che già si compie e la speranza concreta che viene data a tante persone grazie ad una precisa diagnosi e cura. La Tanzania è un paese ricco di risorse; eppure, la mortalità infantile e giovanile è ancora molto alta. Il nostro auspicio è che si realizzi l’esortazione alla fraternità universale di papa Francesco, ricordando che «ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente» (Fratelli tutti, n° 107).

Giada Melis
da Ikonda, 20/11/2020

Da dove è proibito ammalarsi

Mons. Pante a Wamba Covid-19

Cari amici,
saluti dal Kenya. [… Il] 2020 ci ha portato una pessima sorpresa, che nessuno si sognava, il Covid-19. Non si tratta della prima pandemia su questa terra. Già una mia nonna nel 1918 morì di febbre spagnola, una epidemia che uccise 50 milioni di vite umane. Forse il Signore permette che la natura abbassi la nostra superbia e ci insegni un po’ di umiltà e di solidarietà: ci salveremo solo se ci prendiamo cura gli uni degli altri. Pure qui in Africa, in Kenya, stiamo tremando, anche se meno che da voi in Italia. Abbiamo chiuso scuole e chiese per precauzione. I bambini che voi aiutate e sponsorizzate sono rimasti a casa con i genitori: hanno perso qualche chilo di peso, hanno perso un anno di scuola, qualcuno ha anche iniziato a rubacchiare per mangiare, qualche ragazza è anche rimasta incinta. Poi la disoccupazione è aumentata ovunque. Qui è severamente proibito ammalarsi, pena andare in fretta in paradiso. È meglio morire di fame o di Covid? Come Chiesa stiamo cercando di stringere la cinghia e dare una mano ai più poveri. In questi giorni spendiamo anche i pochi soldi rimasti per allargare le nostre scuole, creando più spazi, affinché quando riapriremo ci siano le distanze richieste come vuole il governo. Poco fa (inizio dicembre 2020, ndr) alcune scuole hanno riaperto le porte, ma solo per le classi che si preparano agli esami. Anche le chiese hanno riaperto, ma con tante precauzioni. Da noi dove non arrivano le medicine arriva la fede che qui è ancora forte, per fortuna. Però predichiamo che non basta la preghiera, occorre anche seguire le regole della salute: distanze, mascherine, acqua (…anche se non ci basta per bere!).

Carissimi, grazie sempre per la vostra amicizia e il vostro aiuto. Siamo tutti sulla stessa barca in balia della tempesta, ma non ci lasciamo prendere dal panico perché Lui è con noi, anche se sembra dormire. Diamoci una mano, siamo «fratelli tutti», come ci dice papa Francesco, e così vinceremo anche la seconda pandemia, quella dell’egoismo.

Un abbraccio, sempre con la mascherina.

+ Virgilio Pante
Maralal, Kenya, 20/11/2020


Non tutte le parabole sono di Gesù?

Il n. 18 di «Una Chiesa in uscita», in MC di ottobre 2020, è bello, argomentato, affascinante, ma un paio di affermazioni, categoriche, senza se e senza ma, mi lasciano perplesso e suscitano alcuni interrogativi.

«Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù». Quali sono le prove incontrovertibili che permettono di fare una affermazione così categorica? Quali sono le parabole di cui si parla?

Perché non si usa una frase del tipo: «Fra gli studiosi è largamente condivisa l’ipotesi che alcune parabole non possono essere state dette da Gesù»? Ipotesi e non certezza, comunque teoria.

Come è possibile che le prime comunità, e parlo di quelle che hanno partecipato alla testimonianza diretta degli Apostoli o dei primi loro discepoli, non si siano accorte di queste aggiunte? O, pur accorgendosi, le abbiano accettate?

Mi si dirà che un esempio di manipolazione sono i Vangeli apocrifi, ma mi è stato detto che la Chiesa primordiale li ha vagliati e scartati!

La lettura del Vangelo viene accompagnata dalla frase «Parola di Dio»: possiamo pensare che la frase, «in quel tempo Gesù disse la seguente parabola», non sia vera? Ne ho parlato con un sacerdote: mi ha dato una spiegazione abbastanza contorta, che mi ricordava le spiegazioni che venivano date per dimostrare che la terra era al centro di tutto il creato.

È vero che nei Vangeli ci sono delle contraddizioni, dovute con grande probabilità al fatto che i testimoni, o chi per loro, si erano dimenticati. Ma l’aggiunta è una cosa arbitraria, che rende poco credibile il tutto. O mi sbaglio? Quante potrebbero essere le parabole che non sono mai state trasmesse?

«La comunione con Dio passa da Gesù … ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare». Di che pratiche si tratta?

E se il signor Angelo prende in considerazione quanto ho scritto, spero che non mi risponda dicendomi di consultare questo o quel libro. Distinti saluti

Mario Rondina
16/11/2020

 

Gent.mo Mario Rondina,
intanto, e a prescindere, grazie per le domande: perché sono segno di attenzione e coinvolgimento, e perché esprimono problemi veri.

1) Parole di Gesù, sì o no.

Nel nostro mondo contemporaneo posso mettere in bocca a qualcuno (tra virgolette) solo ciò che ha effettivamente detto. Anche a costo di non restituire lo sfondo: magari si trattava chiaramente di una battuta, ma comunque, se le parole sono state dette e io le riporto tra virgolette, non sono ritenuto bugiardo.

Il mondo antico era meno attento alla precisione dei particolari e insieme guardava più al contesto generale. Se nel riportare un pensiero altrui veniva in mente un esempio nuovo, lo si poteva aggiungere senza essere considerati bugiardi.

È ciò che succede nei Vangeli, che almeno in alcuni casi non riportano le parole precise di Gesù, ma il contenuto del suo messaggio, anche se a volte con parole non sue. Come lo sappiamo? Mai in modo assolutamente sicuro, ma spesso con fortissima probabilità, anche se, nel giro breve di un articolo, a volte la «fortissima probabilità» diventa «certezza», per semplificazione. Capita infatti che nei Vangeli ci siano giochi di parole possibili solo in greco (e Gesù di certo parlava aramaico), o ci sia la risposta a un problema che al tempo di Gesù non c’era ancora, o un modo di ragionare poco ebraico. Quante siano quelle «aggiunte» dipende da dove mettiamo il confine di quella «probabilità».

Dunque, i Vangeli sono inaffidabili? Se fossero stati scritti oggi, sì; ma sono prodotti del passato, e, secondo i criteri storiografici di allora, erano precisi e credibili. Gli apocrifi, come giustamente annota, non lo erano, e non sono stati inseriti nel canone. I nostri quattro ci ripropongono non sempre le parole di Gesù, ma sempre il suo pensiero.

2) Pratiche che contestano la centralità di Gesù.

In quanto alle pratiche che contestano la centralità di Gesù, per Paolo erano la circoncisione e il rispetto della legge mosaica. Se si diceva che per diventare cristiani queste erano necessarie, si sottintendeva, pur senza dirlo esplicitamente, che la fede in Gesù non era sufficiente.

Oggi può capitare che diversi gruppi di credenti si accusino reciprocamente di infedeltà alla fede, di «modernismo» o «tradizionalismo», sottintendendo che così non si sia più cristiani.

Paolo, probabilmente, ci risponderebbe che se qualche pratica diventa più importante della fede in Gesù (e non un modo di esprimerla) è pericolosa. Ma non vorrei, ora, essere io a mettere troppe parole in bocca a Paolo: non ho l’autorevolezza e la bravura degli evangelisti.

Angelo Fracchia
24/11/2020

 




Esodo: Una storia di ieri e di oggi

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Dopo due anni passati in compagnia degli Atti degli Apostoli, a scoprire come Luca traccia gli inizi e i fondamenti della Chiesa, dal direttore della rivista arriva la sfida a confrontarsi con un testo altrettanto fondamentale, non solo per i cristiani. Ci spostiamo nell’Antico Testamento dove si trova il libro dell’Esodo che ci terrà impegnati per un altro biennio.

Libri di vita, non di leggi

Nel comune sentire di tanti che non conoscono la Bibbia (però anche, ahimè, di tanti che dovrebbero conoscerla!), quel volumone, composto da ben 73 libri, contiene molti obblighi e divieti che ciascuno di noi dovrebbe rispettare per piacere a Dio (e quindi da Lui essere trattati meglio di chi invece non li rispetta). In realtà, le norme morali, che pure ci sono, ammontano solo a circa un ottavo dei versetti biblici, e spesso sono legate alle circostanze specifiche nelle quali sono state scritte, quindi non sono tutte applicabili universalmente e per sempre.

Nel libro sacro, piuttosto, si trovano tante testimonianze su come persone diverse, in contesti e tempi diversi, hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con Dio e su quali sono state le sue conseguenze. Questi incontri e le loro conseguenze, a volte sono espressi nella Bibbia in forma di norme e leggi, ma più spesso in forma di racconti, inni, poesie e tanto altro. Diventa allora più facile capire perché alcune di quelle esperienze «ci parlano» meglio e più in profondità di altre, le quali invece restano più mute e lontane dalla nostra sensibilità.

Diventa allora più semplice capire e accettare il fatto che nella Bibbia ci sono alcuni testi che contano di più, sono più importanti e più centrali. E non c’è nulla di blasfemo o irrispettoso in questa constatazione.

È peraltro una valutazione naturale per i cristiani, almeno per il Nuovo Testamento (considerato più importante dell’Antico): i Vangeli sono più importanti delle pur preziose lettere di Paolo, e dentro i Vangeli il racconto della passione e risurrezione è assolutamente decisivo. Ed è significativo notare che i capitoli più importanti del Nuovo Testamento non ci offrano indicazioni su come comportarci, ma raccontino «soltanto» ciò che è successo a Gesù.

Al cuore dell’Antico Testamento

Un discorso simile si può fare per l’Antico Testamento, che noi cristiani rischiamo di trattare come se fosse tutto uguale. Nella tradizione ebraica il fondamento della scrittura è nella Torà, quella che in greco si chiama Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia. Tra questi, il cuore è costituito dal libro dell’Esodo, che narra l’uscita dall’Egitto del popolo d’Israele, che così si scopre popolo, sulle orme del suo Dio.

Chi ha narrato al cinema l’impresa di Mosè, in pieno stile hollywoodiano, ha pensato che la storia potesse finire quando il popolo raggiunge l’altro lato del Mar Rosso e l’esercito del faraone annega nelle acque: un vero «lieto fine» secondo tutti i criteri cinematografici. Solo che la storia raccontata nel libro dell’Esodo, a quel punto, non è arrivata neppure a metà.

Il suo percorso è infatti molto più intelligente e profondo di tante sue trattazioni romanzate, e presenta anche un itinerario ideale del cammino di incontro con Dio: il credente che lo leggerà, attraverserà, in un certo modo, le tappe vissute dal popolo. Il percorso tracciato dall’Esodo rappresenta l’evoluzione che compie la fede nel suo crescere e maturare.

Gli antichi non erano abituati a scrivere trattati di psicologia o teologia, non redigevano saggi, ma raccontavano storie, dentro le quali mettevano in evidenza gli elementi importanti, ben visibili per chi era abituato ad ascoltarle.

Noi, ormai poco avvezzi a presentazioni di questo tipo, possiamo ritornare bambini (perché tramite le favole i bambini sono abituati a questo stile), oppure passare decenni a meditare questi testi, come facevano i monaci (ma di solito così tanto tempo non lo abbiamo, o non riusciamo a prendercelo), oppure, infine, possiamo farcelo spiegare un poco. Esattamente ciò che proveremo a fare noi.

Quale storicità?

Noi adulti ci mettiamo davanti al racconto dell’Esodo chiedendoci subito quale affidabilità storica abbiano le sue pagine. Al riguardo è stato scritto tantissimo e, di tanto in tanto, accadrà che anche noi faremo qualche cenno in merito.

Per ora ci basti ciò che oggi viene ritenuto più probabile (non sicuro!) da tanti.

È verosimile che un piccolo gruppo di persone abbia vissuto un’esperienza simile a quella narrata nel libro: la fuga da un regime poderoso e oppressivo, seguendo non la più normale «via del mare» nel Nord del Sinai, ma quella, meno presidiata, che passava attraverso le paludi del Mar Rosso settentrionale per avventurarsi poi attraverso le oasi (rare e magre) del Sinai meridionale.

Queste persone avevano percepito di essere state salvate da un Dio che le aveva scelte senza loro merito, se non quello di aver accolto una chiamata che chiedeva loro di seguirla senza avere certezze.

Una volta approdati in Palestina, questi fuggitivi liberati si sono legati a gruppi umani già presenti sul territorio, i quali, sentendo narrare la loro vicenda di fiducia in un Dio che aveva scelto gli oppressi e non i grandi della storia, hanno riconosciuto in quel Dio lo stesso Dio che anche loro adoravano. E hanno pensato che quella vicenda di fiducia e rischio, interpretasse bene anche la loro esistenza di contadini o di pastori (per il resto avversari). Poi, col tempo, le «tre storie» (dei fuggiaschi, dei contadini e dei pastori) hanno finito con il confluire in una storia sola.

Un approccio diverso

L’effettiva storicità degli eventi, che giustamente ci preoccupa quando parliamo di Gesù, è però in questo caso meno vincolante.

Noi oggi abbiamo un approccio alla «realtà storica» che è molto diverso da quello dell’antichità. Noi troviamo citate con le virgolette, nei nostri giornali, solo le parole esatte che sono state pronunciate. Può poi accadere che quelle parole vengano tolte dal loro contesto, che aiuterebbe a capirle bene (basti pensare alle citazioni di frasi di papa Francesco, che in pubblicazioni o film vengono estrapolate dal contesto per fargli dire quello che lui effettivamente non ha mai detto), ma se sono state dette così, ci sentiamo autorizzati a riportarle così.

L’antichità ha un approccio diverso: conta il senso profondo degli eventi, e per farlo capire gli autori antichi a volte inventavano particolari o avvenimenti. Lo stesso Tucidide, storico greco e non semita, ritenuto modello di obiettività storica, afferma, nella «Guerra del Peloponneso», che metterà in bocca ai suoi personaggi storici anche ciò che era verosimile o magari solo opportuno che dicessero in quella situazione. E lo afferma nell’introduzione, dando quindi alle sue parole il valore di un principio di fondo della sua narrazione storica. Se le cose raccontate da Tucidide riguardo a un fatto storico interpretavano bene quel fatto, non importava che alcune cose fossero inventate, o supposte, restavano «vere».

Il principio di fondo di Tucidite vale anche per l’Esodo, che è sicuramente vero e storico, perché rispecchia in modo autentico la vita e la storia di tanti credenti nei secoli.

Sicuramente non riusciremo a precisare sotto quale faraone sia potuto avvenire l’Esodo (il testo non lo chiama mai per nome), né se davvero così tante persone abbiano potuto sopravvivere nel deserto per quaranta anni. Non lo sapremo mai perché per gli autori del libro questi due elementi, e anche altri che oggi per noi sono importanti, erano del tutto marginali.

Secondo la tradizione (che trae le proprie conclusioni a partire dalle scivolosissime cronologie bibliche) ci troveremmo intorno alla metà del XIII secolo a.C., ma neppure questo è sicuro. Il bello è proprio questo: che anche noi lo possiamo trascurare.

Il problema di partenza (Es 1,1-14)

Chi ha letto il libro della Genesi, o almeno i suoi ultimi capitoli, sa chi è Giuseppe, penultimo figlio del patriarca Giacobbe, che, con i suoi sogni, e la capacità di interpretarli, acquisisce un ruolo di primo piano nell’amministrazione egizia, tanto da poter accogliere i suoi fratelli e suo padre nella regione quando una carestia sparge la fame in tutta l’area. Ma è nella sorte delle cose umane di essere dimenticate, ed ecco che sorge in Egitto un faraone che non sa più chi sia stato Giuseppe (v. 8).

Il nuovo capo coglie solo il problema immediato, ossia che il popolo di Israele non è amalgamato con gli egizi ed è numeroso, tanto che, se l’Egitto fosse attaccato da nemici esterni, si potrebbe correre il rischio che si uniscano agli invasori (vv. 9-10). La paura del faraone sembra essere, soprattutto, quella della partenza degli ebrei, che si confermano, già solo per questo, oppressi.

Può darsi che si tratti soltanto di un trucco letterario per mettere in moto la trama, ma colpisce che il punto di partenza sembri essere la mancanza di memoria. Il faraone non conosce più Giuseppe, ma neppure il popolo di Israele pare essere particolarmente capace di ricordare: non richiama il proprio antenato, non invoca Dio, non tenta neppure di riprendere la strada del deserto. Semplicemente, si è rassegnato a una condizione di schiavitù.

A metà del libro, nella notte cruciale di Pasqua, molto si insisterà su questo invito a ricordare. Chi dimentica da dove viene, non sa dove potrebbe andare e si accontenta di restare schiavo. Quel Dio che aveva stretto un’alleanza con gli antenati non viene neppure invocato; sarà però lui stesso a mettersi in movimento, sebbene il suo popolo non si ricordi di lui.

Non si tratta in realtà neppure di un vero popolo: sono persone, separate tra di loro. È solo lo sguardo impaurito del faraone a renderlo un popolo. Quello sguardo, e poi quello compassionevole e protettivo di Dio.

Le due città

Senza entrare ancora nella questione di quando effettivamente sia avvenuto l’Esodo e quando il libro sia stato compilato, per ora ricaviamo qualche suggestione interessante, anche se soltanto probabile e non sicura, dal nome delle due città egizie costruite con il lavoro degli ebrei (Es 1,11). Ramses era infatti rimasto nella memoria come un faraone importante e potente, anche molte generazioni dopo la sua scomparsa. Citarlo significava spostare in un passato lontano la vicenda.

Intorno al VII secolo a.C., l’antica città di Pi-Ramses (nome completo, preferito dalle iscrizioni egizie), disabitata da secoli, venne utilizzata come cava di pietre già lavorate per la costruzione di una nuova città magazzino a Nord Est del Delta. Questa nuova città si trovò quindi con tante iscrizioni che citavano l’antica Pi-Ramses.

Nella stessa zona, venne allagata la città di Pitom, che fu quindi spostata e ricostruita altrove con il lavoro di braccianti non egizi. Che questi manovali non egizi potessero essere anche ebrei è molto probabile (2 Re 23,33-35 lascia intendere che diversi ebrei erano stati sequestrati come prigionieri di guerra proprio in quel periodo). Peraltro, la parola utilizzata per definire queste due «città-magazzino» (Es 1,11) è un prestito dalla lingua egiziana entrato nel lessico ebraico non prima del VII secolo a.C. Sembra insomma che l’autore dell’Esodo strizzi l’occhio al lettore, lasciandogli intendere che ciò che racconta riguarda vicende antiche, ma è rilevante anche l’oggi.

Fare memoria

Questi particolari potrebbero sembrarci (e in effetti sono) minimi, ma rivelano un atteggiamento che tornerà spesso in Esodo: ciò che ha riguardato la generazione che dall’Egitto è uscita, non interessa solo loro quella generazione, ma tutti coloro che in quella storia si ritroveranno. Non è un caso che il rito ebraico di Pasqua fa ringraziare «per quello che il Signore mi ha fatto quando mi ha liberato dalla schiavitù egiziana».

È questo il senso del memoriale, su cui tanto si concentrerà Esodo e quindi anche noi: non il ricordo nostalgico di un ottantenne che sa ancora i nomi di tutti i suoi compagni della prima elementare, ma l’ottantenne che, insieme alla moglie al suo fianco, richiama il giorno di sessanta anni prima in cui si sono incontrati.

Angelo Fracchia
(Esodo 01 – continua)

disegno orginale di Marco Francescato




Ai confini del mondo (At 27-28)

testo di Angelo Fracchia |


Siamo al termine della grande opera di Luca, quella che, partendo dalla vita di Gesù (il Vangelo), è sfociata poi nel racconto della vita iniziale della Chiesa. Dal capitolo 16 la narrazione è concentrata sulla sorte di Paolo di Tarso che, alla fine del capitolo 26, troviamo a Cesarea Marittima, prigioniero del procuratore Festo, il quale lo avrebbe già liberato come innocente, se l’incarcerato non si fosse appellato al tribunale di Cesare (26,32).

Luca ci racconterà come è andata a finire? Non ancora perché ha in serbo altre sorprese per noi.

L’ultimo viaggio (At 27)

La prima sorpresa è un avvincente ed emozionante racconto di viaggio. I «racconti di viaggi» erano un genere letterario popolare a quei tempi. Per apprezzarlo anche noi conviene però che ci facciamo qualche idea su come si viaggiava nell’antichità.

Dovunque i romani giungessero, ampliando il proprio impero, si preoccupavano tra le altre cose di garantire delle comunicazioni efficienti, sia costruendo strade lastricate, che potevano cioè essere percorse anche con il brutto tempo, sia garantendo che i mari restassero liberi e sicuri. Era infatti il mare la via di comunicazione preferita. Le strade lastricate erano ottime per lo spostamento di truppe, comunicazioni leggere e veloci a cavallo, e movimenti di persone e merci tra le varie città, anche d’inverno. Ma su quelle strade ci si spostava per lo più a piedi o su carri trainati da animali, e si poteva trasportare relativamente poco; oltre tutto, quanto più ci si allontanava da Roma, tanto meno si trovavano strade.

Per questo le vere autostrade del tempo erano i mari. Non esistendo però il sestante per orientarsi, ed essendoci nel Mediterraneo diverse zone pericolose, si preferiva navigare sotto costa. Via mare si trasportavano soprattutto le merci più pesanti o che occupavano più spazio, come ad esempio il preziosissimo grano egizio che dava da mangiare a una capitale come Roma che sfiorava già allora il milione di abitanti. Non esisteva un servizio passeggeri, ma era sempre possibile unirsi ad altri che facevano la stessa rotta (una nave merci aveva quasi sempre posto sul ponte, e a Roma andavano in molti).

Il problema era che il Mediterraneo d’inverno diventava pericoloso, poteva essere scosso da burrasche anche improvvise. Per questo d’inverno non si navigava. Ovvio che, per amore di guadagno, qualcuno provasse ad anticipare la primavera partendo un po’ prima o a ritardare l’inverno partendo a ridosso del freddo. Questo è ciò che prova a fare la nave carica di grano su cui si è imbarcato il centurione che ha in custodia Paolo e alcuni schiavi destinati al mercato della capitale.

La baia di Mistra a Malta (china di Paul Gichui)

Un viaggio avventuroso

Una volta salpati da Creta, equipaggio e viaggiatori si rendono presto conto che non si riuscirà a procedere sulla rotta stabilita. I marinai cercano allora di spostarsi verso un porto migliore, ma incappano in una burrasca che li trascina al largo per due settimane (At 27,7-15). La paura più tremenda è quella di incagliarsi nelle Sirti, grandi banchi di sabbia vicino alla costa africana tra Cartagine e la Cirenaica (negli attuali golfi di Sidra e di Labes), a giorni di navigazione dalla terra più vicina, e di rimanervi finché le onde non abbiano sfasciato la nave.

Un Paolo affidabile

Luca presenta un Paolo che, in questa situazione, si pone come punto di riferimento: prova a orientare le scelte del centurione e del capitano della nave, a tenere alto il morale dei marinai, a confortare i compagni di viaggio. Non ci sembri un ritratto inverosimile: Paolo è prigioniero, è vero, ma è un cittadino romano, e questo lo pone in una situazione di privilegio. È poi persona abituata a viaggiare. E si mostra animato da una grande fiducia in Dio che non lo abbandonerà mai, benché a noi possa sembrare quasi magico l’intervento dell’angelo che gli assicura che nessuno di quella nave morirà.

È ancora Paolo che, al quattordicesimo giorno di deriva, quando la nave si sta avvicinando a un’isola che peraltro nessuno riconosce, invita a prendere forza mangiando. Le parole utilizzate («prese un pane, rese grazie, lo spezzò» At 27,35) potrebbero quasi ricordarci l’Eucaristia. Non è detto che Paolo l’abbia in effetti celebrata, ma Luca ci strizza l’occhio: il nutrimento di Paolo, il punto di riferimento di chi cerca salvezza resta sempre Gesù. Perché non c’è contrasto tra la salvezza cercata dagli uomini e quella offerta da Dio.

A Malta (At 28,1-10)

Paolo a Malta (china di Paul Gichui)

I viaggiatori approdano a Malta, l’isola sconosciuta che nesuno di loro pare aver mai sentito nominare. L’accoglienza è splendida, salvo che, nel raccogliere legna per far fuoco, Paolo viene morso da una vipera (28,3). Interessante, anche nella sua ingenuità, la reazione degli abitanti. Dapprima, vedendo che Paolo, scampato miracolosamente a un naufragio, viene morso da un serpente velenoso, pensano che sia una prova della sua colpevolezza: gli dèi, non essendo riusciti a ucciderlo in mare, lo giustiziano a terra. Poi, notando che Paolo non risente del morso, si persuadono al contrario che sia un essere divino, a cui niente può portare danno.

Questa volta Paolo non si ribella con decisione al travisamento della sua identità, come aveva invece fatto a Listra (14,12-15). Che non si sia accorto di ciò che si diceva di lui, impegnato com’era ad aiutare gli altri? Di certo continua a spiccare come figura guida, sereno e sicuro, attento ai suoi compagni (viene morso dalla vipera mentre raccoglie legna per scaldare tutti) e agli abitanti del luogo.

Durante i tre mesi di forzata permanenza è comunque sempre teso a fare del bene, anche con la guarigione miracolosa (28,8-9) non solo del padre del governatore, ma anche degli isolani, senza perdere l’occasione di predicare il Vangelo.

In Italia (At 28,11-28)

Alla fine, il centurione trova a Malta una nave proveniente dall’Egitto, probabilmente anch’essa carica di grano: il suo capitano doveva aver provato a sua volta a raggiungere Roma prima della brutta stagione, riuscendo a portarsi solo poco più avanti ma salvando il carico.

Partono e sbarcano a Siracusa. Da lì, Luca ci racconta il viaggio a piedi verso Roma. L’autore degli Atti pare che abbia fatto il viaggio insieme a Paolo fin da Cesarea Marittima, e ci offre tutti i dettagli sulle tappe affrontate, e sulle comunità incontrate, che ovviamente gli interessano di più.

Ancora una volta, è interessante ciò che l’autore dice, ma anche ciò che tace. I cristiani non sono solo a Roma, ma già anche a Pozzuoli (28,13-14). Quelli di Roma vengono incontro a Paolo «fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne» (28,15), il che ci permette di fare almeno due deduzioni. Intanto, Paolo è famoso, al punto che si organizza per lui un comitato d’accoglienza, anzi due. Proprio questo particolare, però, ci suggerisce che forse anche la comunità di Roma non è compatta e unita. Il Foro di Appio era il punto in cui un canale navigabile proveniente da Terracina si congiungeva con la via Appia, così da farne uno snodo importante a circa 60 chilometri da Roma (su una bella strada lastricata, ma comunque a quasi due giorni di viaggio per chi avesse a disposizione dei carri trainati da animali o fosse particolarmente forte e veloce nel camminare). Ma le Tre Taverne, anche se non siamo sicurissimi sulla loro posizione precisa, si trovavano sulla stessa via Appia a una quindicina di chilometri da Roma. Qualche ritardatario, oppure le comunità cristiane romane non erano riuscite a mettersi d’accordo?

Teoricamente queste comunità dovevano aver già ascoltato la lettera di Paolo ai Romani, ma paiono non sapere niente dell’opposizione contro di lui che si era diffusa a partire da Gerusalemme (28,21). Può stupirci, ma c’è da ammettere che le pretese del sinedrio di governare su tutto il mondo ebraico (i cristiani di origine ebraica si consideravano ancora ebrei), non sono messe facilmente in pratica. Peraltro, questi ebrei sanno che sul movimento dei cristiani c’è parecchia discussione (28,22).

Tale discussione si rinnova ancora intorno a Paolo, in grado di incontrare persone, dibattere, evangelizzare, argomentare e suscitare almeno domande e dubbi nei suoi interlocutori (28,23-24). Di nuovo, non stupiamoci per la libertà di movimento di un prigioniero indagato come Paolo: è in catene, è vero, e infatti un soldato è sempre con lui, ma è un cittadino romano, quindi trattato comunque con i guanti (anche se a Roma nella sua condizione si trovano in tanti, molti di più che in Oriente), e in ogni caso con dei capi di imputazione evidentemente alleggeriti dalle testimonianze dei procuratori.

Una conclusione aperta (At 28,30-31)

Decapitazione di Paolo (china di Paul Gichui)

Abbiamo già detto che a volte Luca sembra uno sceneggiatore per il cinema. Ma a Hollywood avrebbero di certo pensato a un lieto fine in cui Paolo venisse liberato, magari dopo aver parlato del Vangelo davanti all’imperatore. E invece gli Atti degli Apostoli qui ci offrono la seconda grande sorpresa di questi ultimi capitoli: la narrazione finisce con l’annotazione che Paolo poteva incontrare chi voleva e annunciava il regno di Dio, ma nulla si dice su come sia andato a finire il processo. Non solo manca il lieto fine, ma sembra che manchi la fine. Perché mai?

Oggi c’è chi fa notare che due anni (28,30) erano il tempo massimo di durata legale di un procedimento giudiziario. Peraltro, in tribunale si dava la precedenza ai processi più importanti, o che avevano alle spalle pressioni più potenti. Evidentemente il caso di Paolo non è stato ritenuto pericoloso per Roma, e nella capitale le pressioni del sinedrio non riescivano a farsi sentire. Può anche darsi che, finiti i due anni, Paolo sia stato semplicemente scarcerato, senza che il processo abbia avuto luogo. Che cosa abbia fatto dopo, Luca preferisce non dircelo.

C’è chi sostiene invece che proprio il silenzio di Luca suggerisca che il processo, per un motivo o per l’altro, sia andato a finire male, con la condanna a morte di Paolo. La tradizione romana vuole che l’apostolo sia in effetti morto martire alle Tre Fontane oppure lungo la via Ostiense. Già in questa occasione o più tardi? Non lo sappiamo. Ma si potrebbe ritenere che l’autore degli Atti non volesse finire la sua opera con quello che, umanamente, era un fallimento. Altri ribattono che come il martirio di Stefano non è presentato di sfuggita né tantomeno come un insuccesso, così la stessa glorificazione si sarebbe potuta narrare per Paolo.

Se ci teniamo però a quello che è scritto, dobbiamo ammettere che la conclusione ha delle somiglianze con quella del Vangelo di Marco (la conclusione originaria, in Mc 16,8), che Luca sicuramente conosceva, in quanto ne aveva usato diverse pagine per il proprio Vangelo. Quel Vangelo finisce con le donne che vanno via dalla tomba vuota senza dir niente a nessuno, perché avevano paura. Si ammette oggi che l’intenzione dell’evangelista doveva essere proprio di tenere aperta la porta ai lettori, perché si mettessero in gioco, si facessero domande e completassero l’opera delle donne.

Luca, alla fine degli Atti, ci dice solo che Paolo continuava a evangelizzare, senza ostacoli e senza paura. Sappiamo così che il Vangelo viene annunciato a Roma, centro del mondo, capitale di un impero che si poteva ritenere universale ed eterno. E allora Luca ci porta di nuovo al centro del discorso. È vero: negli ultimi quindici capitoli ha parlato quasi solo di Paolo, che per noi lettori è diventato il protagonista e il centro dell’attenzione. Ma Luca, lasciando aperto il racconto delle sue vicende, ci ricorda, quasi di colpo, che il protagonista non è l’apostolo. Il vero attore di quest’opera è lo Spirito che muove l’annuncio. Ed entrambi sono liberi di agire, persino nella capitale, in quella Roma che poteva essere considerata il centro del mondo, del potere, del male.

Paolo è in catene, ma il Vangelo è libero. E allora, ci suggerisce Luca, non c’è bisogno di aggiungere altro, perché tutto l’essenziale è stato detto. Possiamo scrivere la parola «Fine».

Angelo Fracchia
(20-fine)




Paolo il romano (At 22,22-26,32)

Testo di Angelo Fracchia |


Ogni scrittore vuole intrattenerci ma soprattutto comunicarci qualcosa. Un saggista lo farà con argomenti, un romanziere, se è bravo, lo farà con suggestioni.

Luca è un bravo scrittore. Solo che nel Vangelo e nei primi due capitoli degli Atti aveva tenuto quasi sempre un po’ imbrigliato il suo genio, rinchiudendosi in formule e in uno stile narrativo che alle orecchie dei lettori non poteva che ricordare il mondo ebraico. Aveva infatti copiato lo stile con cui era stata tradotta in greco la Bibbia. Dal terzo capitolo degli Atti in poi, però, la sua lingua ha iniziato a essere più elegante, raffinata, e il racconto a farsi più articolato, avvincente. Più greco. Poco alla volta, Gerusalemme, che era diventata centrale alla fine del Vangelo e lo era rimasta all’inizio degli Atti, è diventata sempre più marginale, è stata citata sempre meno.

Luca, infatti, voleva comunicarci soprattutto due idee, peraltro collegate tra loro: che il movimento cristiano si era aperto ai non ebrei su stimolo dello Spirito Santo (e non per invenzione di Paolo), e che, pur nascendo da un mondo biblico che non avrebbe mai rinnegato, era però slanciato per raggiungere i confini del mondo (Lc 24,47; At 7,8). La prima parte della tesi Luca l’ha chiarita nei primi 14 capitoli degli Atti. Dal capitolo 15 in poi, quello che sembrava semplicemente una conseguenza (l’annuncio di Paolo ai non ebrei), ha preso sempre più il centro della scena. E ormai, al capitolo 22, è chiaro che Paolo resterà il protagonista fino alla fine.

 

Colpo di scena (At 22,22-30)

Siccome Luca sa scrivere bene, e ha una cultura greco latina che ci assomiglia più di quanto ci assomigli quella semita, alcuni dei suoi «allestimenti scenici» non sfigurerebbero nel nostro stile narrativo cinematografico.

Avevamo lasciato Paolo nel tempio, accusato ingiustamente di blasfemia e salvato dalla guarnigione romana, il cui centurione aveva già deciso di trattarlo come un qualunque agitatore di popolo, interrogandolo sotto tortura per sapere che cosa avesse combinato (At 22,24). La flagellazione era pena pesante, ma usata normalmente negli interrogatori dei potenziali «terroristi». Paolo ha però un asso nella manica. A sorpresa, svela di essere cittadino romano.

Durante il primo secolo d.C., la cittadinanza romana era appannaggio non solo degli italici (dall’89 a.C.) ma anche degli abitanti di alcune città privilegiate, di chi aveva prestato per vent’anni il servizio militare, o aveva aiutato lo stato romano in qualche modo. La cittadinanza, ereditaria, permetteva di essere trattati molto meglio di altri. La flagellazione, ad esempio, come la crocifissione, era una punizione che non si poteva infliggere a cittadini romani. E chi avesse imposto una punizione ingiusta, avrebbe subito la medesima punizione.

Si capisce, quindi, la paura del centurione e del comandante, quando Paolo svela di essere cittadino romano, e fin dalla nascita (22,25-28).

Paolo, d’un tratto, guadagna importanza e attenzione, che spiegano i privilegi di questo prigioniero speciale.

Il colpo di scena cambia anche la nostra attenzione su Paolo. Lo avevamo conosciuto ebreo persecutore di cristiani (8,1), abbiamo assistito alla trasformazione del suo nome (13,7: «Saulo, detto anche Paolo»), ora scopriamo che quel nome latino non era un soprannome casuale. Senza accorgercene, voltiamo le spalle a Gerusalemme e guardiamo al Tevere.

Cesarea Marittima. Resti della zono commerciale e amministrativa del periodo romano e bizantino, con iscrizioni in mosaico.

Drammatica sfida giudiziaria (At 23,1-11)

Ciò che Luca racconta sulla vicenda di Paolo suona a volte imprevisto ma sempre verosimile. La prima mossa di un comandante romano di fronte a un possibile agitatore politico, in effetti, sarebbe stata di interrogarlo (con tortura, era normale). Paolo si svela cittadino romano, e questo complica il quadro, anche perché le accuse sono di tipo religioso. Tendenzialmente i romani si disinteressavano di religione, a meno che avesse ricadute politiche. Ma per capire se in questo caso ce ne sono, devono sentire i capi del tempio. Ed è ciò che il comandante fa: interroga Paolo (senza tortura, il prigioniero è speciale) davanti al sinedrio.

E qui Paolo compie un gesto di rottura che, prima di lui, con la stessa gravità, era stato osato soltanto da Stefano con il suo discorso contro il tempio (At 7). Rimprovera infatti il sommo sacerdote (23,2-3), scusandosi per il fatto di non sapere chi sia (sarcasmo aggravante). Paolo infatti ammette che secondo la legge non bisogna insultare il capo del popolo (23,5), ma è chiaro che in questo contesto a guidare il popolo è Anania, anche qualora Paolo non lo conosca (il che pare improbabile). Questa risposta che sembra di scuse, in verità, sottintende che Paolo non riconoce Anania come guida, rompendo quindi nettamente con quella tradizione giudaica con cui fino al giorno prima Paolo sembrava voler scendere a patti. Ormai l’apostolo è difeso dai soldati romani, e, dopo aver tentato per anni di accordarsi con l’autorità religiosa ebraica, se ne distacca.

Complotti e fuga (At 23,12-33)

La reazione ebraica, cioè il complotto per uccidere a tradimento Paolo, ci può sembrare eccessiva, ma probabilmente non lo è. Un uomo di grande carisma, con un’ottima preparazione teologica, ha appena contestato in modo radicale l’autorità del sinedrio. Dal punto di vista ebraico, merita la morte, ma sono i romani a detenerlo, e il sinedrio non può quindi fare niente, se non cercare di ucciderlo a tradimento durante un trasferimento. Se morissero anche dei romani, dimostrandosi tra l’altro inaffidabili, tanto meglio.

A questo punto Luca inserisce un altro colpo di scena. Scopriamo infatti che Paolo a Gerusalemme ha una sorella, il cui figlio viene a sapere della congiura. Non è raro che Luca inserisca le informazioni solo quando servono. I bravi narratori riescono a farlo senza che sembri una forzatura (i narratori meno abili ci offrono tutte le informazioni all’inizio, e quando servono non ce le ricordiamo più). È sicuramente a motivo della cittadinanza romana che Paolo può ricevere in carcere dei familiari, mandarli dal centurione ed essere immediatamente trasferito a Cesarea Marittima, insieme a metà della forza armata disponibile ai romani. Il comandante ha capito che per questo personaggio il sinedrio è disposto a rischiare, ma non ha ancora capito perché, e quindi decide di proteggerlo. Inoltre, i soldati inviati a Cesarea possono essere di ritorno in due giorni.

A margine e implicitamente, Luca può suggerirci un sorriso e una lacrima. Quaranta ebrei giurano di non mangiare né bere finché non avranno ucciso Paolo… che però a sorpresa è fornito di una scorta insuperabile: non si saranno per caso condannati a morire per non aver saputo infliggere una morte? L’altra annotazione è un silenzio abbastanza sorprendente. Paolo gode di condizioni di detenzione evidentemente morbide, eppure non si dice mai che sia visitato da qualche fratello cristiano, come invece accadrà a Roma (At 28,30-31). Luca non calca la mano sulle mancanze dei credenti, ma è pronto a lasciarle intuire. Offre il quadro ideale di una chiesa, ma sa bene che imperfezioni e difetti restano sempre presenti. Sembra quasi dire anche a noi di puntare a una chiesa perfetta, ma senza pretenderla: neppure quella degli apostoli lo era!

A corte a Cesarea (At 23,34-24,27)

Non stupisca che si parli di corte. Certo, i governatori romani non erano re, rendevano conto all’imperatore e potevano essere deposti da un momento all’altro. Ma intanto, vivevano una vita quotidiana non molto diversa da quella di un re orientale, come Luca ci fa intuire tratteggiando i vari personaggi in tinte coerenti con ciò che ne dicono gli scrittori antichi.

Si parte dal governatore Felice, che abbozza non tanto un processo, quanto un’audizione informale per capire se avviare un procedimento vero e proprio. Ad accusare Paolo arriva un tale Tertullo (il nome è latino: cosa si diceva sull’intento di far dimenticare Gerusalemme?), apparentemente avvocato di mestiere, che inizia lodando Felice, per poi tentare un’accusa abbastanza mal concepita; la replica di Paolo procede liscia finché il suo discorso, da storico e filosofico, arriva a chiedere impegno da parte di chi ascolta (24,25). A quel punto Felice lo ferma. È un governatore che anche le altre fonti antiche ritengono inaffidabile: infatti, secondo Luca, il processo a Paolo non viene avviato né l’apostolo viene liberato perché Felice spera in qualche mazzetta per lasciarlo andare (24,26). Sappiamo che al termine del suo mandato, verrà poi chiamato a Roma per spiegare diversi difetti della sua gestione, ma alcuni giudei intercederanno per lui e non verrà punito. Forse l’annotazione perfida di Luca (24,27) non è campata in aria.

Cesarea Marittima.
Promontorio con colonne del palazzo inferiore, risalente al periodo romano

L’ultimo re giudeo (25-26)

A Felice succede il nuovo governatore, Festo, il quale cerca innanzi tutto di sciogliere i casi che si sono accumulati, e per questo ascolta Paolo. Evidentemente non trova nessun fondamento per le accuse politiche (altrimenti i romani non avrebbero avuto scrupoli a punirlo) e, sentendo che le dispute sono religiose, vorrebbe rimandarlo a Gerusalemme (25,9), anche come gesto di lusinga nei confronti degli ebrei che è appena arrivato a gestire. Di fronte al pericolo del viaggio e di un nuovo processo a Gerusalemme, Paolo taglia definitivamente i ponti e si appella al tribunale di Cesare. È un privilegio degli ebrei, quello di poter essere giudicati da tribunali ebrei, ma per Paolo sarebbe un rischio; i cittadini romani, a loro volta, possono in ogni momento appellarsi a Cesare, così da essere processati a Roma, dove i giochi di potere delle province non contano nulla. Non ci si può ritirare da un appello del genere: i romani sono particolarmente severi nei confronti di chi muove accuse e poi le lascia cadere. A Roma, quindi, Paolo andrà.

Non prima, però, di incontrare Agrippa e Berenice. Erode Agrippa II è un nipote di Erode il Grande, cresciuto a Roma e tenuto dai romani in un’alta considerazione che pare si sia abbondantemente meritata. C’è chi dice che se non fosse nato troppo tardi avrebbe potuto riprendere in mano lui la provincia di Giudea, evitando la rivolta del 66. Luca ce ne offre un ritratto altrettanto lusinghiero (26,3, ad esempio). Benché anche lui abbia sposato sua sorella, dopo che lei era già stata moglie di un altro (e più tardi avrebbe avuto un terzo marito), e sebbene il loro arrivo (25,23) ricordi per sfarzo e contesto il banchetto nel quale si decise la sorte di Giovanni Battista (Mc 6,21-22), Agrippa e Berenice ascoltano con attenzione l’ultima delle grandi autodifese di Paolo. Se Festo, digiuno di cose ebraiche, alla fine del discorso esplode in un «Sei pazzo, Paolo: la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24), Agrippa non si espone, come si conviene a un politico, ed è molto più rispettoso. Paolo, in realtà, tenta di coinvolgerlo con una domanda volta a fargli prendere posizione, dal momento che Agrippa conosce bene i profeti e può valutare la bontà del suo discorso (26,25-27). La risposta del re è una battuta diplomatica: «Ancora un poco e mi convinci a diventare cristiano!» (anche se l’interpretazione di questa frase abbastanza difficile potrebbe essere un po’ diversa). Così dicendo però ammette implicitamente che il discorso di Paolo ha senso, coerenza e correttezza.

E l’ultima parola registrata negli Atti da parte di un governante in Palestina è chiara: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (26,32). Con una narrazione avvincente e facilmente leggibile, Luca ribadisce che Paolo non è colpevole, e chiarisce che ormai la prossima tappa sarà Roma.

Angelo Fracchia
(19-continua)




Verso la fine (At 20,1-22,21)

testo di Angelo Fracchia |


Luca, negli Atti degli Apostoli, ci ha portati a scoprire che cosa è accaduto nei primi tempi della Chiesa, ma ci ha indicato anche che cosa, dentro quel cammino, era da preferire, e soprattutto ci ha indicato che la guida di quei passi era lo Spirito Santo.

Luca ha poi progressivamente messo al centro della scena Saulo di Tarso, un fariseo che, dopo aver perseguitato i cristiani, era diventato uno di loro e, più tardi, aveva iniziato a farsi chiamare Paolo, insistendo per aprire la porta della Chiesa ai non ebrei.

Ci sono state persecuzioni e intoppi, ma dentro a un cammino globale di crescita.

Da lettori potremmo esserci anche dimenticati che il progetto di testimoniare Gesù fino ai confini della terra (At 1,8) non è ancora realizzato. Ma ci aspetteremmo di essere condotti verso un lieto fine. E invece Luca ha ancora sorprese in serbo.

Non ce lo aveva detto

Il percorso della Chiesa dei primi decenni non è stato trionfale. Certo, un lettore distratto potrebbe vedervi soltanto successi, ma Luca ha lasciato intuire che, nonostante le persecuzioni risolte con liberazioni inattese (At 5,17-40), ci sono anche state vittime (Stefano: At 7,57-60; Giacomo: At 12,2) e profughi (At 8,1). Lo stesso lettore potrebbe vantarsi della condivisione di tutti i beni (At 4,32-35), ma non tutti la rispettavano (At 5,1-10), e alcuni cristiani venivano discriminati persino da altri credenti (At 6,1). In quanto a Paolo, egli è il grande campione dell’annuncio ai non ebrei, ma oltre alle molte persecuzioni da parte di giudei, ha dovuto anche affrontare tensioni importanti all’interno della comunità (At 15,1-2). Su queste ultime, peraltro, Luca glissa.

Nel punto in cui racconta del ritorno di Paolo dal terzo viaggio, però, Luca fa intuire che sta per accadere qualcosa di pesante. Senza le lettere di Paolo, forse non capiremmo fino in fondo che cosa è davvero successo, ma grazie soprattutto alla lettera ai Galati (in particolare Gal 1,6-8; 5,1-14), riusciamo a ricostruire un quadro meno ideale di quello che Luca ci mostra.

 

La questione dei «Gentili»

In ogni grande società esistono inevitabilmente più anime, che a volte faticano a dialogare e ad andare al nucleo che le ha fondate. È capitato persino nella prima comunità cristiana. Il mondo in cui il cristianesimo è nato, separava nettamente gli ebrei dai «gentili», ossia da tutti gli altri, «le genti». Gli ebrei si distinguevano per il rispetto della legge di Mosè, sintetizzata simbolicamente nella circoncisione.

Una delle prime scelte di fondo che i cristiani si sono trovati a dover prendere, ha proprio riguardato la sorte dei non ebrei: potevano essere inseriti nella comunità cristiana? E a che condizioni? Solo dopo essersi fatti circoncidere?

È il problema affrontato da Luca in Atti 15, quando racconta la decisione presa a Gerusalemme di ammettere nella comunità anche i non circoncisi; salvo che, a quanto pare, quella soluzione non aveva accontentato tutti. E alcuni avevano iniziato a tallonare Paolo nei suoi viaggi apostolici, quasi a correggerne le scelte, spiegando che Gesù era un ebreo, e che per vivere come Gesù bisognava diventare ebrei, rispettando tutta la legge di Mosè.

Paolo aveva intuito che se la decisione divina, accolta dall’uomo, non fosse stata sufficiente in mancanza di un gesto esteriore (come la circoncisione), allora nulla sarebbe mai bastato. Per dirlo con le parole di Paolo, la circoncisione è inutile (Gal 5,2), altrimenti Cristo è morto invano e la sua esistenza è inefficace (Gal 2,21). È chiaro che non si è trattato di piccole dispute di regolamento interno.

Ma è chiaro anche che gli avversari di Paolo non hanno lasciato perdere, e hanno iniziato a denigrarlo, affermando che volesse abbattere la legge di Mosè (At 21,20).

La colletta

Forse per questo Paolo (e qui siamo al punto dove ci siamo lasciati lo scorso numero) torna a Gerusalemme portando una imponente elemosina per i poveri (cristiani) di quella città. Luca, in realtà, ci ha parlato della colletta già prima (At 11,29-30), ma sembra un modo per confonderci. Una delegazione imponente come quella che parte per Gerusalemme (At 20,4: sette persone elencate, più Paolo e probabilmente Luca, che si include nel viaggio dal versetto 5), era costosa, e aveva senso se si doveva portare qualcosa di pesante, come una grande somma di monete, dal momento che gli assegni e i bonifici bancari non esistevano. Più persone garantivano una migliore protezione della somma e solo una somma importante poteva giustificare (e mantenere) una delegazione così numerosa.

Una prova

Luca, peraltro, spiega che a Gerusalemme chiedono a Paolo di finanziare il rito di scioglimento di un voto per quattro persone (At 21,21-24), per (di)mostrarsi un buon ebreo. Perché Luca ci racconta la vicenda in questi termini?

Un buon narratore ha come obiettivo di far capire ai lettori gli avvenimenti e di muovere alle emozioni che ritiene giuste, non necessariamente di riferire solo i particolari storici precisi. Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù: se però ci aiutano a capire meglio quello che Gesù diceva, non importa che, materialmente, siano «invenzione» degli evangelisti. Anche un romanzo storico scritto bene può non essere accurato in tutti i particolari, ma farci intuire un contesto e delle vicende storiche persino meglio di opere più precise.

Luca vuole presentarci il quadro ideale di una Chiesa senza tensioni, se non magari occasionali (perché non può certo negarle tutte). Ma se dicesse esplicitamente che Paolo aveva coordinato una colletta così grande, quindi gestita durante lunghi mesi, farebbe intuire che le tensioni andavano avanti da tanto tempo, il che è storicamente molto probabile, rischiando di spaventare o scoraggiare i credenti.

Meglio allora parlare della colletta collocandola in un altro momento della storia e poi inserire Paolo nel rito tradizionale del voto, anche se, in realtà, vi era stato coinvolto per caso solo all’ultimo momento.

Luca, però, sa bene che la situazione è pericolosa e ce lo fa capire chiaramente quando riferisce gli ammonimenti di discepoli e profeti che predicano per Paolo un tempo difficile (At 20,23; 21,4.10-13), e scrivendo uno dei brani più toccanti degli Atti degli Apostoli.

Agli anziani di Efeso (At 20,17-38)

A Efeso, Paolo aveva lavorato per almeno due anni (At 19,10), ma forse di più. Passando per Mileto, diretto a Gerusalemme, l’apostolo convoca gli «anziani» di Efeso, città distante circa 80 km. Sono due particolari curiosi, difficili da inventare. Paolo – nelle sue lettere – non chiama mai «anziani» i responsabili delle sue comunità (è un modo molto ebraico di esprimersi); viene da pensare che, in fondo, anche le sue chiese avessero un consiglio di persone più sagge ed esperte che fungeva da organo di dirigenza, come sarebbe accaduto in seguito e altrove, e come quindi poteva già essere vero anche al tempo di Paolo. Lui convoca solo costoro e li fa venire a Mileto. Evidentemente la nave di Paolo non faceva scalo a Efeso, o forse (o in più) lui temeva che fermarsi in quella città, dove aveva così tante conoscenze, lo avrebbe fatto tardare troppo. Meglio incontrarsi in un luogo neutro.

A questi anziani Paolo rivolge un vero e proprio discorso d’addio, incentrato soprattutto su tre temi.

 Intanto, rivendica di aver predicato Gesù in modo trasparente e generoso. È il punto di partenza essenziale e cruciale. Non si mette a fare l’elenco delle proprie imprese o di ciò che ha patito (come fa invece in 2 Cor 11,22-29), ma si concentra sull’essenziale.

 Poi, ribadisce di averlo fatto gratuitamente, senza farsi mantenere, senza chiedere nulla. Anche l’evangelizzazione, allora, diventa più chiaramente un dono generoso fatto ad altri, un «soccorrere i deboli» (At 20,33-35).

 In mezzo, avvisa che sarebbero arrivate persone (chiamate «lupi rapaci») che avrebbero provato a inquinare l’annuncio del vangelo. Non sarebbero stati, evidentemente, degli estranei, ma dei cristiani. Luca si mostra ancora una volta consapevole che nella chiesa non tutto è bello e buono. Ma le parole di Paolo sono edificanti: di fronte ai «lupi rapaci», c’è semplicemente da stare in guardia, continuando a vivere generosamente per gli altri, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Paolo, qui, non invoca maledizioni o punizioni sugli avversari (come fa invece in Gal 5,12), ma affida semplicemente i credenti allo Spirito.

Per chi vuole capire, Luca, a partire dall’esperienza di Paolo, ci ricorda che fallimenti e persecuzioni ci saranno, nell’esperienza dei cristiani, e che potrebbero partire addirittura da dentro. Ma l’unico modo cristiano di reagire è quello di Gesù, ossia confidando nell’opera di Dio e cancellando in sé qualunque desiderio di vendetta. Dio non abbandonerà i suoi, nonostante il quadro non sia senza nubi fosche.

Incompreso

Paolo, quindi, arriva a Gerusalemme. Luca non può nascondere che l’accoglienza degli altri credenti è piuttosto fredda (At 21,20-25). La comunità consiglia a Paolo di mostrarsi osservante della legge per non irritare i fratelli povenienti dal giudaismo, e lo invitano a pagare le spese per lo scioglimento del voto di nazireato di quattro uomini. Il voto consisteva nel non tagliarsi i capelli per un certo tempo per offrirli poi al tempio insieme a un sacrificio. C’erano persone di buona volontà (e portafogli) che pagavano ad altri le spese per questo rito, schierandosi in qualche modo a fianco di chi lo aveva celebrato. Si tratta di una consuetudine antica, molto «ebraica», più tipica degli ambienti tradizionalisti. Paolo si adegua. Evidentemente il suo scopo non è quello di cancellare la tradizione ebraica, ma di contestarla solo quando mettesse in questione la centralità di Gesù. Se si salva l’essenziale, che Gesù è l’unico mediatore per la nostra comunione con Dio, il resto si può accettare.

Una parola per oggi

Ancora una volta, quasi senza averne l’aria, Luca ci offre criteri per vivere la dimensione ecclesiale della fede ancora oggi. Siamo anche noi, infatti, a non sapere ancora bene dove mettere i confini di ciò che «non si può accettare», e continuiamo ad accusarci reciprocamente di essere tradizionalisti o modernisti. Negli Atti degli apostoli non troviamo un’indicazione precisa di ciò che dobbiamo fare o evitare, ma un criterio di fondo: la salvezza, ossia la comunione con Dio, passa da Gesù. Questo è indiscutibile, e siccome ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare. Ma su tutto il resto, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Questa attenzione e questo sforzo, però, non sono una garanzia di successo. O meglio, non garantiscono il successo se lo misuriamo con i nostri criteri consueti, di vittorie, conquiste e numeri consolanti.

Da Gerusalemme a Roma

Di fatto Paolo, che ha accettato di scendere a patti con le frange più conservatrici della chiesa ebraico-cristiana, viene accusato ingiustamente di aver profanato il tempio. Come Gesù, anche Paolo viene incolpato di blasfemia sulla base di tradizioni secondarie e discutibili, proprio perché intende invece rendere a Dio la sua piena gloria.

Anche questa accusa e arresto diventano però l’occasione per ampliare la platea degli ascoltatori: stupendo l’uno e gli altri, Paolo parla in greco al centurione (At 21,37-39) e in «ebraico» (in realtà doveva essere aramaico, ma i greci del tempo di Luca, di solito, non coglievano la differenza tra le due lingue) al popolo radunato nel tempio (At 21,40). Di nuovo, Paolo si fa «tutto a tutti», condividendo una volta ancora la propria vicenda (At 22,3-21).

Il punto d’arrivo, su cui, come per Gesù, si invoca la sua morte (22,22) è l’annuncio alle nazioni lontane. Luca ci porterà fin là, anche lungo un percorso più accidentato, faticoso e tormentato di quanto non sia stato fino a questo momento.

Angelo Fracchia
(18 – continua)

Panorama di Gerusalemme vista dal Gallicantu, vista su mura e spianata del tempio (foto Benedetto Bellesi)




Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)

testo di Angelo Fracchia |


Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.

In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.

Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.

Uno storico accurato

Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.

Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.

Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.

Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.

Aquila e Priscilla

I collaboratori

Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.

Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.

Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.

A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.

Formazioni incomplete

Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.

In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.

Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.

Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.

Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.

Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.

Rapporto con i poteri

L’Artemide di Efeso (© AfMC)

Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.

In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.

Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).

Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.

E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.

Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.

Angelo Fracchia
(17-continua)