Storia del Giubileo 4. Un lungo cammino prima del giubileo

This handout picture released by the Vatican press office shows Pope Francis making the symbolic gesture by opening a "Holy Door" at Bangui Cathedral on November 29, 2015, in the Central African Republic capital. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
Apertura della porta santa della cattedrale di Bangui.

Comunemente si pensa che l’istituto del Giubileo sia una norma antica, da sempre presente nella Bibbia perché si trova nel Pentateuco, ma non è così perché se guardiamo i testi, cioè le fonti letterarie, scopriamo subito che esso è lo sviluppo di un’altra istituzione precedente che è l’Anno Sabatico. Di questi due istituti giuridici si parla solo in tre libri: Esodo, Levitico e Numeri, cui bisogna aggiungere alcuni accenni in Deuteronomio e Isaia. Possiamo quindi dire che non abbiamo molto. E quel poco che abbiamo è tardivo, non antico; certamente risalente a non prima del sec. VI/V a.C., dopo l’esilio di Babilonia.

Nulla toglie che qualche stralcio di questa tradizione esistesse anche anteriormente, nella tradizione che fa capo al Deuteronomio (sec. VII-V a.C. ca.). Per capire l’importanza, ma anche la natura e il senso dell’istituto giubilare, a beneficio di chi non conosce la storia della Bibbia al di là di quanto appreso al catechismo, è sufficiente riportare alcune date in ordine cronologico per avere uno sguardo d’insieme e collocare gli eventi nel loro contesto sia storico sia teologico. Tratteremo pertanto sia l’Anno Sabatico sia il Giubileo, che spesso sono confusi, mentre sono due realtà distinte e separate, anche se connesse tra loro.

Quadro storico

Di solito si pensa che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe siano vissuti nel 2° millennio a.C. e da essi avrebbe avuto inizio tutta l’avventura «divino-umana» che è raccontata nella Bibbia. Un lettore che cominciasse a leggerla dalla prima pagina in poi, progressivamente, avrebbe due sensazioni: la prima di trovarsi di fronte a un’opera scritta a tavolino in modo ordinato e uniforme; la seconda quella di provare una «difficoltà» inestricabile per cui molto presto abbandonerà la lettura. Vediamo come stanno le cose e come e quando è nato l’istituto giuridico del Giubileo.

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La cronologia che, in genere, si trova nei libri è la seguente

  • – 1850 ca.: Abramo, profugo da Ur di Caldea (Iraq) approda in Canaan (Palestina).
  • – 1800-1700 ca.: vita dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe in Palestina.
  • – 1700-1250 ca.: peregrinazioni degli Ebrei verso l’Egitto e schiavitù.
  • – 1250-1230 ca.: esodo dall’Egitto e arrivo al Sinai.
  • – 1220-1200 ca.: ingresso nella terra promessa e sua conquista con Giosuè.
  • – 1150-1000 ca.: epoca dei Giudici (confederazione di tribù).
  • – 1010-970 ca.: regno di Davide.
  • – 970-931 ca.: regno di Salomone. Divisione del regno in «Israele» (Nord) e «Giuda» (Sud).
  • – 931-724 ca.: regno d’Israele con venti re che si succedono.
  • – 721: assedio degli Assiri e deportazione degli Ebrei del Nord («Israele») in Assiria.
  • – 931-587 ca.: regno di Giuda con diciotto re che si susseguono.
  • – 597: Gerusalemme è conquistata da Nabucodonosor che deporta gli Ebrei in Babilonia.
  • – 587: seconda conquista e distruzione di Gerusalemme. Deportazione. Fine del regno di Giuda.
  • – 538: editto di liberazione del persiano Ciro (dall’attuale Iran) e ritorno di alcuni Ebrei in Palestina.
  • – 520-430: inizio della ricostruzione del tempio di Gerusalemme (Giudea).
  • – 330: costruzione sul monte Garìzim del tempio dei Samaritani.
  • 323: Giudea dominata dai Tolomei d’Egitto e traduzione della Bibbia dei «Settanta» in greco.
  • – 200: Giudea dominata dai Selèucidi di Antiochia.
  • – 143-134: nascono le correnti dei farisei, dei sadducei ed esseni (Qumran).
  • – 63: Pompeo occupa Gerusalemme.
  • – 7/6 (a.C.): nasce Gesù di Nàzaret.
  • – 1/8 (d.C.): nasce Paolo di Tarso.
  • – 30: muore Gesù.
  • – 34: conversione di Paolo di Tarso.
  • – 66-70: rivolta giudaica antiromana. Distruzione di Gerusalemme. 1a diaspora ebraica.
  • – 74: presa di Masada e divieto agli Ebrei di risiedere in Gerusalemme.
  • – 132-135: rivolta di «Bar Kochba – figlio della stella» in Galilea, sotto Adriano.
  • – 135: Vittoria romana, proibizione agli Ebrei di risiedere in Palestina; 2a e definitiva diaspora.

Nozioni bibliche elementari

La tabella che riportiamo (sopra) serve come riferimento per collocare non solo gli avvenimenti, ma anche le idee, altrimenti si fanno confusioni indebite che non aiutano la chiarezza. In base all’insegnamento catechistico tradizionale, se si prende la Bibbia senza esame critico, i libri di Levitico e Numeri dovrebbero essere collocati tra il 1250 e il 1200, il periodo cioè in cui la cronologia tradizionale collocava l’esodo e l’ingresso nella terra promessa. Purtroppo le cose non stanno così.

In ebraico i libri prendono il nome dalla prima o dalle due prime parole del testo (come avviene oggi per le encicliche papali), mentre la Bibbia greca dei LXX mette come titolo una parola che sintetizza il contenuto. La Vulgata latina di San Girolamo, mentre per il contenuto è più fedele al testo ebraico, per i titoli segue la LXX. Di seguito diamo i titoli greco-latini del Pentateuco e tra parentesi in ebraico:
1. Genesi-Origini (Bereschìt-Nel principio): riporta testi tramandati e scritti dal sec. X al sec. V d.C.
2. Esodo-Uscita (Shemòt-I nomi): riguarda eventi tra il 1250 e il 1200 a.C., rivisitati e scritti nel sec. VI a.C.
3. Levitico-Tribù-di-Levi, addetta al culto (Wayqrà’-E chiamò/convocò);
4. Numeri-Censimento (Bemidbàr-Nel deserto);
5. Deuteronomio-Seconda-Legge (Devarim-Parole).

La tradizione ebraica e, per molto tempo, anche quella cristiana, attribuivano la formazione dei primi cinque libri della Bibbia («Pentateuco») a Mosè, tesi che già dal sec. XVII (Jean Astruc, 1694-1766) ha cominciato a essere messa in dubbio e che nel corso del sec. XIX è stata definitivamente accantonata. Oggi la totalità degli studiosi, con qualche differenza di accentuazione, alla luce delle scoperte archeologiche e letterarie, ormai definitive, è giunta a conclusioni certe, almeno allo stato dei fatti.

La Bibbia non è un libro storico, ma il racconto dell’esperienza religiosa di un popolo che interpreta eventi, situazioni e fatti, alla luce del proprio credo religioso che espone anche attraverso racconti di natura storica, mitica e comunque interpretati religiosamente. È quella che comunemente chiamiamo «Storia della salvezza», espressione equivoca perché il concetto di «storia» degli antichi non è lo stesso che hanno gli storici di oggi.

Di Abramo, Isacco e forse anche Giacobbe, dal punto di vista storico non sappiamo nulla perché le uniche informazioni su di loro si trovano nella Bibbia. La «storia dei Patriarchi» si perde nella notte dei tempi e potrebbe essere anche una «invenzione» posteriore, di quando, dopo l’esilio di Babilonia, si ha la necessità di dare un fondamento «antico» e «teologico» alla ricostruzione non solo del tempio di Gerusalemme, ma anche e specialmente allo spirito del popolo e alle sue istituzioni politiche, sociali, economiche e religiose.

Con questo non si vuol dire che «i Patriarchi» siano frutto di fantasia, ma che non abbiamo documentazione verificabile, se non incerti spiragli insufficienti a fare storia. L’archeologia, per esempio, nulla è riuscita a dirci di Abramo e Isacco, perché, allo stato attuale, essa si ferma, forse, a Giacobbe, il padre dei dodici figli che danno origine alle dodici tribù d’Israele, di cui qualcosa si trova negli scavi di Bersabea, l’ultimo avamposto palestinese verso l’Egitto, via Sinai, prima di avventurarsi nel deserto del Neghev.

È possibile che la memoria collettiva delle antiche tribù o gruppi abbia tramandato ricordi, racconti, saghe, che via via si sono sedimentate come «storia di fondazione». In questo modo, quando si pone mano alla riforma radicale dell’organizzazione della vita del «nuovo Israele», dopo l’editto del persiano Ciro (538) che ha sconfitto e annesso Babilonia, quelle memorie siano state utilizzate e narrate come «radici», cioè pilastri fondativi del nuovo mondo che stava sorgendo.

Dopo l’esilio

Dopo cinquant’anni di esilio, in cui ciascuno era rimasto abbandonato a se stesso, senza autorità e tessuto sociale, la depressione e lo sconforto avevano pervaso chi era rimasto in Palestina (per lo più anziani e poveri). Il senso di rivalsa di coloro che ritornavano da Babilonia pretendeva di rientrare in possesso delle proprietà perdute con l’esilio, ponendo gravi problemi di coesistenza. In questo periodo nascono i due libri, Levitico e Numeri, dove si trovano le norme che riguardano l’Anno Sabatico e il Giubileo. Siamo nel sec. V a.C., il tempo di Esdra e Neemia, autorizzati da Ciro a ricostruire Gerusalemme e il tempio, con il culto connesso, insieme alla vita sociale e civile. Nel 444 a.C. si forma definitivamente il libro del Pentateuco o Toràh per gli Ebrei, come lo possediamo oggi e che costituisce la redazione finale di un processo che ebbe inizio nel sec. X a.C., alla corte di re Salomone in Giudea, e forse anche prima, attraverso la trasmissione orale di generazione in generazione.

Con l’editto di Ciro, gli Ebrei sono autorizzati a ritornare in Palestina. Non tutti gli Ebrei presenti a Babilonia ritornano, ma solo una parte degli esiliati decide di rientrare in Palestina e ricominciare daccapo nella terra d’Israele. Molti, forse la maggioranza, specialmente coloro che erano nati in Babilonia e si erano ormai fatti una vita e una posizione sociale, decidono di restarvi non più da schiavi, ma da cittadini autonomi e liberi di avere una propria vita, un proprio lavoro, un proprio futuro per sé e i propri figli. Molti di costoro si erano accasati «mescolandosi» ai Babilonesi per cui c’erano famiglie «miste» che preferirono continuare la vita ormai avviata e non ritornare per ricominciare dal nulla distruggendo le proprie famiglie, come imponeva la nuova legge.

Il capitolo 10 del libro di Esdra racconta la tragica scelta di rimandare a casa loro le donne non ebree e i figli avuti con loro perché questo sembrava l’unico modo per ridare una identità «certa» all’ebraicità del nuovo popolo postesilico. Da quel momento, vale la norma che è ebreo solo chi nasce da madre ebrea. Questa legge è valida ancora oggi in Israele. Il libro del Levitico serve allo scopo di «fondare» l’identità del «popolo di Dio», ancorandola alla purità cultuale e religiosa. La religione diventa discriminante sociale: chi è ebreo di nascita può fare parte del popolo della ricostruzione, chi non è ebreo, non può nemmeno rientrare nella «terra santa». Le donne babilonesi con i loro figli avuti dagli ebrei sono drasticamente separate e rimandate al loro paese. Famiglie intere sono distrutte in nome di un’esclusività di appartenenza che da questo momento, non prima, farà del popolo ebreo, il popolo di elezione, il popolo «separato tra gli altri popoli», arrivando alla distinzione teologica tra Israele «’am haheloìm – popolo di Dio» e i «goìm – i popoli altri / pagani». Da questo momento la religione non è solo un rapporto con Dio, ma si trasforma in un’identità etnica che in futuro sarà foriera di tragedie immani, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

L’At riporta due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo, che sono distinti, ma strettamente connessi perché sembra che il secondo sia uno sviluppo del primo. Di questo parleremo nella prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(4, continua)




Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo | Rendete a Cesare – 8

«Siate pastori con l’odore delle pecore»

(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)

Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.

Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:

13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).

Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.

In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.

Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?

Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.

Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.

Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.

Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.

L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.

Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.

Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).

Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.

La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Conclusione

Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

[8 – fine]

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1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.

2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.

3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC  l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.

4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].

5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

Paolo Farinella




La politica di Dio (che è laico) | Rendete a Cesare – 7

«Non sei lontano dal Regno di Dio» (mc 12,34)

Un esodo al contrario

Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.

Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.

Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo.

La politica prolungamento della creazione

Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta.

Dio è laico

Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).

Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.

Politica e carità

La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti.

[7 – continua con la prossima e ultima puntata]

 

Dalla lettera a Diogneto – 1

V.  1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati giorniscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).

 

Dalla lettera a Diogneto – 2

VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).

 

Paolo Farinella




La Politica del cristiano | Rendete a Cesare – 6

«Perché il mondo sia salvato per mezzo di lui…» (Gv 3,17)

«Non prego perché tu li tolga dal mondo» (Gv 17,15)

Cattolici finti e politica evangelica

Ogni volta che tra i cattolici, e oggi tra chiunque, si accenna a «politica» o, peggio ancora, ai «politici», ci si trova di fronte a un senso di ribrezzo e di nausea, perché «politica» è diventata sinonimo di corruzione, di sporcizia, di malaffare, e nel caso più benevolo di furbizia. Il merito principale è dei politici professionisti che si professano cattolici, ma i cui comportamenti e le cui scelte sono sistematicamente in contraddizione con la loro asserita appartenenza religiosa. Essi non hanno scelto di servire il loro popolo in nome di una superiore carità che ha come obiettivo il «bene comune», al contrario, essi si servono del loro stato di credenti per approfittare dei benefici ideologici e materiali che la loro condizione di eletti offre loro senza che essi facciano alcuna fatica. La cronaca è piena di questi cultori di «sistemi di peccato» che trafficano tra il diavolo e l’acqua santa con noncuranza e senza problemi di coscienza: la maggior parte degli inquisiti, dei condannati con sentenze di tribunali sono cattolici dichiarati. Cattolici che si vantano di essere tali e non perdono occasione di mettersi in mostra come praticanti e osservanti religiosi, che addirittura fanno parte di associazioni e movimenti religiosi «impegnati», qualcuno anche con «voti» espliciti, e che al tempo stesso militano alacremente in partiti dove la corruzione scorre con dovizia, sostengono governi che legiferano a favore di mafiosi e delinquenti, votano contro gli arresti di camorristi, rubano direttamente e sostengono sistemi perversi, dove l’economia è a favore dei più forti e potenti e a danno dei più poveri e indifesi.

Per un cristiano, «la Politica» dovrebbe essere il prolungamento del Vangelo, l’ambito e l’obiettivo della propria azione di testimone del Regno, perché è strettamente legata all’Eucaristia, dove il Pane indiviso è «spezzato» sull’altare che convoca tutti i popoli della terra per realizzare la profezia del «sentiero di Isaia» (cf Is 2,1-5). Tutte le volte che il credente celebra l’Eucaristia, prima di partecipare la comunione al Pane, si ferma e guardando negli occhi chi gli sta vicino, di fronte e dietro, proclama «Padre Nostro», dove l’aggettivo possessivo «nostro» diventa o profezia o condanna. La teologia che il «Padre Nostro» esprime, infatti, riguarda l’orizzonte della ecclesialità, perché Gesù non ci ha insegnato a pregare dicendo «Padre Mio», ma sempre e solo «Padre Nostro», forma inclusiva dei singoli individui, senza esclusione di alcuno. La paternità di Dio, infatti, per definizione è reale solo se include la fraternità, senza condizione. Anzi, la fraternità totale è segno e sacramento della presenza della paternità di Dio, altrimenti questa può essere un’illusione. Don Lorenzo Milani traduceva tutto questo principio in una affermazione lapidaria di altissima pedagogia: «Politica è sortirne tutti insieme. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera ad una professoressa, Lef Firenze 1966, 14). Il Cristianesimo è per sua natura «assemblea», cioè il contrario di individualismo; è progetto d’insieme, che è il contrario dell’interesse privato; è convenire insieme, che è il contrario di vagare da soli.

Celebrare l’Eucaristia è dunque l’atto più politico e rivoluzionario del credente sulla terra perché da un lato esprime la missione senza confini propria della proclamazione della Parola e dall’altro enuncia la profezia dei segni del pane e del vino che non sono «dati» per essere mangiati in santa pace, ma perché a chi li mangia diano il vigore e la forza di spezzarsi e distribuirsi a loro volta con la stessa volontà e libertà del Signore Gesù. «Mangiare» insieme è la prima forma di religiosità basilare e in tutte le religioni, il cibo ha una valenza sovrumana perché accomuna il cielo e la terra e in terra convoca i diversi per farne un «solo corpo e un solo Spirito» (Preg. eucar. II). I cristiani dovrebbero amare «la Politica» e custodirla dai predatori che per tornaconto e interesse personale o di gruppo la scempiano e la deturpano in modo inverecondo. «La Politica» per il credente è l’azione santificatrice dello Spirito del Risorto che fa emergere l’identità di figli di Dio che converte alla condivisione. Politica è pregare agendo e agire pregando. Tra i cattolici, solo chi ha un altissimo senso di Dio e della propria insufficienza, solo chi ha sperimentato l’incontro con il Signore, solo chi è immerso nello Spirito missionario del risorto dovrebbe e potrebbe spingersi a operare in politica, come sacramento visibile della Presenza di Dio che pone la sua tenda in mezzo al mondo di ogni tempo e cultura.

Gesù politico-servo

Gesù fu un grande politico perché non guardò mai al suo interesse, ma ad esso antepose sempre il benessere materiale e spirituale delle folle che lo cercavano. Gesù esercita in sommo grado la politica come servizio e disponibilità verso i bisogni della povera gente, come sfamare gli affamati, guarire i malati, consolare i dubbiosi, prendersi cura dei piccoli e dei deboli. Nello stesso tempo, egli prende le distanze dai potenti che fanno della politica lo strumento della loro sete di onnipotenza per avere sempre più potere per i propri interessi. In tutto il Vangelo, Gesù opera prevalentemente lontano dalle grandi città, specialmente se sono centri di potere e predilige i villaggi, anche non ebrei, ma abitati da pagani, ai quali offre lo stesso servizio e gli stessi segni che opera per i Giudei. è il criterio della «Politica generale», quella che non fa preferenze, ma guarda all’umanità nella sua globalità di creatura del Padre.

Le beatitudini nella versione di Luca sono una chiara e inequivocabile «scelta preferenziale per i poveri» (cf Lc 6,20-26). Gesù non è il Messia adattabile a tutte le stagioni o l’uomo per tutti: egli esige non solo la conversione interiore, come atteggiamento morale personale, ma impone l’obbligo di una scelta radicale, come fa con l’uomo ricco, al quale impone di «vendere» le ricchezze per diventare suo discepolo. Sappiamo com’è andata a finire e sappiamo anche perché: «Aveva molte ricchezze» (Mc 10,21-22).

Gesù non prende mai le difese dei ricchi e quando li incontra li obbliga a prendere coscienza del valore sociale e comunitario dei loro beni (ricco epulone, Zaccheo, uomo ricco, ecc.). Nessuna ricchezza è individuale perché la creazione non può mai essere privata, avendo ricevuto fin dalle origini una destinazione universale. Gesù si differenzia sempre da chi esercita il potere con i quali non cerca mai il conflitto diretto e se può opera in periferia, mai a Cesarea, sede del governatore romano. Affronta però il conflitto, quando è inevitabile. In questo modo egli afferma la sua prospettiva che non è mai confusione di ruoli o di competenze.

La prova che la distinzione tra la «regalità» di Gesù e il «potere» di qualsiasi Cesare non è questione di aree d’influenza o di gestione di leggi, ma di prospettive e quindi, in conseguenza, di logiche che comportano decisioni, scelte, valutazioni, discernimento, sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17 di Giovanni, dove  Gesù stesso equipara  i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

«Essere nel mondo» significa vivere la stessa sorte di tutti gli esseri viventi, partecipare all’esistenza dell’umanità. Null’altro. Infatti, essere cristiani o credenti non implica diritti particolari o privilegi o «statuti» diversi da quelli di chiunque altro. L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo, inteso come complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini o un disincarnarsi dall’umano, ma il rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere basato sulla forza o, peggio ancora, del potere che nasce dalla corruzione e che genera corruzione. Dove c’è corruttela, infatti, c’è lo spirito del mondo che è opposizione al mondo di Dio. I cristiani non sono speciali, ma vivono in modo speciale perché stare nel mondo è un servizio che nasce dal senso della giustizia animato dall’agàpē e nello stesso tempo portano nel mondo «un metodo» di presenza e di «utilizzo» che esprime la gratuità di Dio che si rapporta con tutti e chiama tutti al suo convito. Se, sul piano della mistica, si ostenta fino all’esasperazione l’immagine del cristiano, «alter Christus», occorre che la stessa immagine diventi visibile sul piano delle scelte economiche, sociali, quando tocca interessi diretti e impone scelte che esigono separazione da metodi e sistemi che nulla hanno a che vedere con Cristo.

La politica come credibilità di Dio

Un credente che evade le tasse, che non svolge con competenza e impegno il proprio lavoro, che approfitta delle proprie conoscenze per prevaricare sugli altri, che usa la religione per avere contatti «importanti» o leggi o denaro o qualsiasi altro vantaggio per sé e la propria istituzione, tradisce il Regno di Dio e allontana la città degli uomini dal volto divino di Dio perché solo con la propria non coerenza rende visibile l’incredibilità di Dio. Questo, infatti, è il compito della religione: rendere credibile Dio, che non si vede, attraverso le azioni, le scelte, le parole (pensieri, parole, opere e omissioni) di chi dice di credere. La persona religiosa è una persona condannata a essere coerente fino allo spasimo perché ogni suo gesto, ogni suo respiro testimonia Dio o lo nega.

«Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Conc. Ecum. Vatic. II, Gaudium et Spes, n. 19).

C’è mondo e mondo

In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

a) Il mondo geografico, ambiente materiale, il contenitore dove l’umanità vive.
b) Il mondo come genere umano considerato nel suo complesso, senza alcuna qualificazione.
c) Il mondo dell’incredulità o delle tenebre: coloro che combattono Dio e lo negano «a prescindere».
d) Il mondo della fede o della luce: coloro che avendo visto la «Gloria di Dio» nel Figlio, lo rendono ancora più visibile nella loro vita e nel loro operato.

I primi due significati sono abbastanza neutri, mentre gli ultimi due acquistano una valenza morale e teologica alternative, anzi contrapposte. Non possono coesistere, anche se possono convivere nel mondo come ambiente o come umanità. La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» perché il valore semantico della parola «mondo» è molteplice: il primo indica il mondo come creazione, come «luogo» della vita; il secondo, invece, indica il mondo come condizione di vita, come prospettiva di esistenza e quindi di scelte morali. Con questa espressione, Gesù intende affermare la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. La Chiesa non può gestire potere mondano perché è destinata a scomparire, una volta instaurato il Regnum Dei. «Nel», ma non «del» mondo: è il rapporto tra lo stato in luogo e l’appartenenza interiore. Se Gesù è/sta «nel mondo», è una creatura che ha in comune con tutte le creature l’esistenza, la ricerca, la fatica, la riuscita, il fallimento, la condivisione, il conflitto, tutto ciò che fa umanità, nel bene e nel male. Questo esige la coscienza che il mondo è sinonimo di diversità: uomo/donna; ricco/povero; giusto/ingiusto; credente/non credente; religioso/indifferente; osservante/non osservante. Stare «nel mondo» vuol dire acquisire questi binomi e assumerli nella propria vita, come condizione esistenziale «previa». «Nel mondo» deve prevalere quello che unisce, cioè l’umanità e la fragilità, su quello che può differenziare come, ad es., essere credente o non credente.

 [6 – continua]

Tasse

L’esempio delle tasse è devastante. Si è diffusa la mentalità che siccome la tassazione è alta, in un certo senso, sarebbe «morale» autodetassarsi, cioè evadere, come ha addirittura incitato a fare un presidente del consiglio dei ministri in campagna elettorale per guadagnare qualche voto in più (Il Corriere della Sera, 17-02-2004). Nessuna reazione da parte del mondo cattolico a questo invito che guardava con benevolenza agli evasori costringendo gli onesti a pagare sempre di più. Chi sta al governo dovrebbe educare al senso dello stato e della partecipazione come condivisione dei servizi per lo sviluppo della personalità, la tutela della famiglia, il progresso ordinato e congruo della comunità. Quando manca il senso di Dio, è fortemente carente anche l’etica dello stato. Si ha un bel dire di essere cristiani o d’ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma se si evadono le tasse, ci si mette fuori dall’amore di Dio, che s’incarna nell’amore del prossimo, e dal diritto di pretendere dallo stato servizi essenziali (sanità, scuola, assistenza, trasporti, pensioni, ecc.).

Chi non paga le tasse, non solo costringe chi le paga onestamente a pagarne sempre di più, ma non ne ha nemmeno lui stesso un beneficio diretto, in quanto alla fine deve pagare di più i servizi che lo stato non può erogare per mancanza di fondi. Pagare le tasse è condivisione evangelica oltre che dovere civile di altissima responsabilità. Per questo bisogna mandare al governo persone oneste che garantiscano non i privilegi in nome della religione, ma che amministrino con grande senso di responsabilità il denaro di tutti, verso il quale dovrebbero, se credenti, avere lo stesso rispetto che hanno per il Corpo di Cristo perché sono chiamati a servire e curare i corpi e gli spiriti di coloro con i quali Cristo si è identificato in tutti i tempi (cf Mt 25, 31-46). Il mondo del diritto e della trasparenza, dell’onestà e della condivisione è il mondo proprio dei credenti che devono anche farlo diventare il mondo proprio della politica e dello stato.

Paolo Farinella




«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




La speranza della chiesa non sta nei privilegi offerti dall’autorità civile | Rendete a Cesare (4)

«Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi le tasse, le tasse; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7)

All’interno del contesto di fede, che emerge dalle puntate precedenti in cui abbiamo esaminato i testi biblici, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale, rapporto che tocca sempre nervi scoperti, data la delicatezza e il rischio insito in esso, perché coinvolge la vita di ogni giorno che impone scelte e valutazioni. In questa puntata non possiamo quindi esimerci dal fare riferimento all’attualità e a quale deve essere l’atteggiamento interiore del credente, alla luce della Parola di Dio che, diversamente, rischia di restare astratta e avulsa dalla realtà.

Rito e vita sono indissolubili

L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra, dove nulla è così netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che, inevitabilmente, portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Non bisogna mai perdere di vista la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) che «crescono insieme» fino alla mietitura; oppure la parabola della rete da pesca che raccatta ogni sorta di pesce, sia buono che cattivo (cf Mt 13,47-50).

Gesù nel vangelo non si stanca di invitare ed esortare alla «vigilanza» come condizione essenziale e previa dell’agire credente, sintetizzato nella massima riportata da Mc: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La debolezza della «carne» non è riferita alla sessualità, ma alla condizione umana in sé, alla fragilità dell’individuo e della struttura in cui vivono le persone e che inducono alla lussuria del potere che è la tentazione più satanica contro cui il credente deve combattere.

Nessuno può essere parcellizzato: in chiesa si è cristiani, nel partito si è politici, negli affari si è economisti e trafficanti, nel sindacato si è sindacali. Un individuo che è padre, e al tempo stesso figlio, amico, marito, impiegato, letterato, studioso, sportivo, volontario, non può vivere a compartimenti, ma è sempre lo stesso mentre svolge ruoli diversi. Purtroppo la realtà dei cristiani è diversa: essi separano volentieri gli ambiti della loro vita con il risultato che si ritrovano smembrati, divisi «dentro» se stessi, mentre dovrebbero essere un «tutto» in ogni istante della vita, senza distinzione di luogo, condizione e scelta.

Il battesimo consacra «figli di Dio», membri del popolo sacerdotale, profetico e regale: lo siamo realmente e lo siamo per sempre, anche quando ce ne scordiamo. Da questo dipende l’attendibilità nostra e di Dio perché se negli affari, nella politica, nel sindacato, nell’economia non portiamo il nostro «essere credenti», non serve a nulla «andare in chiesa»; anzi rischiamo di aggiungere peccato a peccato. Nello stesso tempo, non possiamo «stare in chiesa» come se questo luogo fosse avulso dalla vita che si snoda fuori, perché la preghiera e la fede senza la vita sono solo ritualità morta, droga dello spiritualismo che illude artificialmente.

O la vita dà contenuto al rito o il rito è solo scenografia che dura lo spazio di un sospiro. Ogni volta che celebriamo un’Eucaristia, compiamo l’atto più politico che esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo, e del «Dio spezzato» noi siamo gli strumenti provvidenziali con cui si manifesta il volto di Dio, anzi la sua «immagine», che non è quella impressa sulle monete di Cesare, ma quella ben più intima e profonda del Dio creatore e padre.

Il vescovo di Recífe, dom Hèlder Cámara, un grande profeta del sec. XX, soleva dire: «Quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un “santo”, quando dico perché esistono i poveri sono “comunista”». Se uno si limita a fare l’elemosina, magari coinvolgendo i ricchi, riciclatori ed evasori, ma senza interferire, tutti lo aiutano; se invece grida contro le ingiustizie che creano l’elemosina, contro l’evasione fiscale che ruba e depreda la collettività dei servizi primari (scuola, sanità, stato sociale), è facile che resti solo e sia tacciato di sovversivismo. Per molti cristiani, vescovi e prelati, spesso Dio è un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte e non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).

Quando il silenzio è complicità

Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o peggio ancora leggi di scambio), non si può contestare lo stato o il governo di tuo, i quali hanno il diritto di emanare le proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo stato può esigere obbedienza da chi usufruisce dei vantaggi della sua protezione (cf Rm 13,1-8; Tt 3,1-3; 1Pt 2,13-14). È quello che è successo in Italia negli ultimi venti anni: parte della gerarchia cattolica ha appoggiato governi e politici che sono stati (lo sono di natura) l’opposto della legalità, della moralità privata e pubblica come del «bene comune», pagando il prezzo di un silenzio assordante e l’allontanamento di molti credenti anche dalla fede. Non si può essere profeti e legati alla mangiatornia del potente, come i veggenti di corte combattuti dal profeta Amos nel sec. VIII a. C. (cf Am 7,10-16).

Persone di pensiero che non possono essere considerate «rivoluzionarie» e che hanno svolto funzioni e ruoli di prestigio all’interno della Chiesa cattolica, non esitarono, «voce che grida nel deserto», a parlare apertamente e ufficialmente di fronte «al silenzio dei vescovi». Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore de «la Civiltà cattolica», la rivista quindicinale dei gesuiti italiani che nulla pubblica senza l’approvazione della Segreteria di Stato vaticana, direttore del «Centro Studi Pedro Arrupe» di Palermo negli anni ’80 del secolo scorso e ultimamente direttore della prestigiosa rivista «Aggiogamenti sociali» di Milano, stretto collaboratore di Paolo VI e della Cei per i convegni a cadenza decennale e uomo di grande prudenza, nel marzo del 2004 scriveva:

«Il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come “un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto” (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30)». (B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, in «Aggiogamenti sociali», Vol. 55, n. 3, marzo 2004, pp. 161-166).

Consapevole che le sue parole sarebbero apparse forti se non dissacratorie alle orecchie degli interessati e delle persone pie di professione in qualche gruppo interessato perché connivente, egli fece ricorso all’appoggio di un vescovo e cardinale della statura e della caratura di Carlo Maria Martini, unica voce fuori del coro nel panorama della diaspora episcopale italiana. Egli il 6 dicembre 1995 (già nel millennio scorso!), in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel discorso alla città dal titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse testualmente:

«La Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia. Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza».

Padre Sorge, forte di questo assist, espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione esplosiva che si era prodotta in ambito ecclesiale.

«La necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici, si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia» (Sorge B., ivi).

Quale rapporto tra fede e politica?

Il cristiano, sia esso vescovo o semplice credente, vive nella prospettiva del Regno di Dio e sa che nella gestione delle realtà terrestri deve essere «prudente», senza cercare scorciatoie e protezioni o favori e raccomandazioni perché il suo agire è prova diretta del suo essere e della sua fede. Mai deve dimenticare che ovunque egli sta, porta sempre con sé «l’immagine di Dio», di cui è custode e responsabile.

Nessun governo sulla terra potrà mai essere «adeguato» alle esigenze del Vangelo, per questo il credente starà a casa sua all’opposizione di ogni potere come coscienza critica del diritto dei poveri e degli emarginati a partecipare alla condivisione della mensa sociale e civile della «polis». Se il credente si schiera con il «potere», qualunque esso sia, finisce per essere complice delle sue scelte e delle conseguenze che esse comportano. Ciò esige, come dice padre Sorge, profezia e lungimiranza e comporta la rinuncia ai privilegi e ai vantaggi importanti o anche irrisori che lo stato può garantire. In altre parole la separazione totale: non può esserci commistione e confusione di sorta tra la fede e la gestione immorale del potere politico ed economico.

Credere in Dio esige integrità di vita e trasparenza di pensiero che devono vedersi negli atti quotidiani e nelle scelte della vita. Su questo punto anche il magistero supremo della Chiesa, che si esprime nel concilio ecumenico Vaticano II, è inequivocabile. Insegna il concilio (sottolineature mie):

«Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre… la Chiesa… tuttavia non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

Pronti a rinunciare anche ai diritti

Il concilio invita a rinunciare addirittura ai «diritti legittimamente acquisiti» per non dare motivo di nessun dubbio o parvenza di privilegio. Oggi, invece, il privilegio è la norma e la rinuncia una chimera.

«Sembra proprio venuto il momento che la Chiesa cattolica recuperi la propria dimensione costitutiva, la dimensione escatologica. E ritrovi la forza della profezia, del coraggio, sradicando per sempre dal suo corpo quel male micidiale, il clericalismo, che ne corrode l’anima» (Svidercoschi G. F., Il ritorno dei chierici. Emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio, Dehoniane, Bologna 2012, 10).

Queste parole hanno un peso più grave perché sono scritte da un giornalista, Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore de L’Osservatore Romano, coautore con Giovanni Paolo II del libro «Dono e Mistero» (1966) e autore del libro «Verso il 2000 rileggendo il concilio», commissionatogli nel 2000 dalla Santa Sede. Egli arriva a parlare «del progressivo decadimento di una certa classe episcopale, tanto nella dottrina quanto nel governo della pastorale» (Id., 27). Gli scandali che hanno coinvolto il Vaticano in questi anni, dallo Ior alla pedofilia fino alle dimissioni di papa Benedetto XVI, non solo sono sintomi, ma anche causa del degrado ecclesiale giunto ormai a livelli insopportabili.

È in questo contesto che deve essere letta la scelta di papa Francesco, «il papa venuto dalla fine del mondo», il quale con i suoi primi atti e gesti è stato eloquente e dirompente, per non dire «rivoluzionario»: non ha mai usato la «mozzetta rossa», residuo della «clamide rossa» (mantello) dell’imperatore romano che la usava come segno del suo potere regale. Rinunciando a essa, papa Francesco ha voluto distinguere il servizio del vescovo di Roma da quello del capo di stato, cioè del politico. Con un solo gesto ha detto al mondo intero: Cesare è Cesare. Dio è Dio. Vengo a voi come «immagine di Dio» non come potente tra i potenti.

Il Vangelo di per sé non pone un’opposizione tra «Cesare» e «Dio», né determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare, non è fuori dal territorio e dall’umanità su cui governa Cesare. Gesù non parla di separazione tra «stato e Chiesa»: questa è un’indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che si dividono la torta umana. La parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo stato, come si è tentato di fare nel Medioevo attraverso le investiture dei re da parte del papa, fino a quando Bonifacio VIII, nel giubileo del 1300, non pretese di assumere per sé le due funzioni (la teoria delle «due spade»).

Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità», in cui la visione teologica e la morale di una confessione religiosa diventano patrimonio esclusivo di quella società che le impone anche con la forza o con la semplice legge. È la prospettiva cristiana della vita e del mondo applicate alle realtà terrestri senza distinzione di sorta; in questo senso la Chiesa detta le regole e i laici le applicano come «braccio secolare» come si è manifestato nel regime di «cristianità» di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico parte dei propri compiti scellerati. Poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), l’Inquisizione non si sporcava le mani, ma appaltava le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo stesso le persone, quasi sempre innocenti, ma non erano i preti a farlo materialmente. È il vero regno della confusione tra stato e Chiesa che storicamente tanti guai ha portato e alla Chiesa e allo stato.

In quanto cittadini credenti, noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla Carta costituzionale e li dobbiamo esigere non perché credenti, ma perché cittadini. Essi, infatti, non sono una concessione benevola del governo di tuo. Al di fuori di ciò, dobbiamo essere attenti, come esige il Vangelo: se ci avvaliamo di un condono, significa che abbiamo compiuto un illecito e quindi ci collochiamo dentro un clima d’immoralità. In secondo luogo, diventiamo complici del degrado ambientale o sociale, anche se ne possiamo avere un beneficio immediato. Di conseguenza, non possiamo contestare il governo per immoralità o, in caso di disastro ambientale, gridare contro Dio o la fatalità, se per esempio abbiamo costruito abusivamente, violentando ambiente ed equilibrio ecologico. Se frodiamo il fisco, noi riduciamo i benefici dello stato sociale, rubiamo a noi stessi, alla scuola dei nostri figli, eliminiamo risorse per la sanità, e di conseguenza perdiamo il diritto di parlare di poveri e di stato inadempiente, né possiamo andare in piazza a gridare contro gli evasori perché saremmo complici.

La fede è esigente, perché impone la coerenza. Nella prossima puntata, termineremo questa lunga digressione sul rapporto tra «Cesare e Dio», riflettendo sul testo fondamentale della distinzione «Chiesa e stato» e che è Gv 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

(continua – 4).

Paolo Farinella




Dalla Signoria di Dio alla Sudditanza a Cesare | Rendete a Cesare (3)

«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

«Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19)

Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne formalmente l’autorità, in cambio della possibilità di usarne i benefici per il commercio, lo scambio economico e la vita quotidiana. In questo modo chi detiene la moneta porta con sé l’immagine dell’imperatore e ne favorisce il potere. Quando vivevo in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, facevo loro notare una contraddizione: non era possibile contestare gli Usa, bruciandone la bandiera, vestiti con i jeans americani e calzando le scarpe nike! Nemmeno potevano andare all’assalto d’Israele con in tasca lo «shèkel», la moneta ufficiale ebraica. La prima rivoluzione deve essere morale, rifiutando i simboli del nemico, specialmente se tornano utili.

La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dal rifiuto di indossare i vestiti confezionati in Inghilterra e dal rifiuto di usare la moneta con l’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industria tessile inglese e con essa il protettorato sull’India.

Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti

Nel rispondere che l’immagine   è «di Cesare», i capi religiosi si sono condannati da soli, svelando il loro doppiogioco, fatto di compromessi e interessi: da un lato difendono la «purità» della loro religione, il cui Dio non ammette «altri dèi di fronte a me» (Es 20,3); dall’altro, essi non esitano a contaminarsi nella vita di ogni giorno, corrompendosi con l’uso della moneta come strumento di scambio per l’acquisto di beni. Nel rispondere a Gesù, infatti, essi hanno dovuto prendere una moneta dalla loro sacca, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che usufruiscono anche dei suoi benefici, senza rendersi conto delle conseguenze: usare le monete coniate da un re straniero e invasore, significa legittimare anche l’invasione della loro terra, che è terra di Dio, e dichiararsi sudditi di chi li ha privati della libertà e della loro dignità. Il procuratore romano, infatti, per affermare la suprema autorità dell’imperatore «divus Caesar», su tutto Israele, teneva in custodia la veste solenne del sommo sacerdote, il quale la riceveva dalle mani imperiali tutte le volte che era necessario; alla fine del servizio liturgico la veste doveva essere riconsegnata. Un’umiliazione totale: anche il «dio straniero d’Israele» doveva inchinarsi davanti al «divino Cesare». La risposta di Gesù è duplice. «E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v. la 1a puntata in MC 3, 2013, 33-34): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri affari, è vostro obbligo obbedirgli, pagando anche le tasse che la sua autorità impone, perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene. In altre parole, Gesù condanna scribi e sacerdoti che, servilmente e liberamente si sottomettono a un’autorità che hanno accettato, ben sapendo che essa non avrebbe potuto imporre tributi se non ai propri sudditi che controlla e domina perché li gestisce come estranei e non come figli: «I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei? Rispose [Simone]: “Dagli estranei”» (Mt 17,25-26).

Se i Giudei utilizzano i benefici di Cesare, non possono lamentarsi se pagano il pedaggio sui servizi che l’uso della moneta comporta. Fare pagare le tasse, infatti, è un diritto di Cesare perché esse sono il «prezzo» dei servizi esercitati. Gesù, in questo modo, con una risposta lapidaria, mette sul banco degli accusati l’autorità religiosa del suo tempo perché si è posta fuori dell’autorità di Dio per passare alla sudditanza di Cesare di cui accetta il denaro come strumento sociale e comunitario. Il possesso di «quella» moneta è un’apostasia perché contravviene il comandamento del divieto delle immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 26,1). La conseguenza è tragica: chi accetta l’autorità di un’immagine scolpita nel bronzo che raffigura l’«idolo» Cesare, significa che ha trasmigrato dal Dio che non può essere raffigurato e che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (2Cr 6,18). La conseguenza è logica: chi usa la moneta con l’immagine di Cesare rinnega la regalità di Dio perché «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).

Amare Dio con tutto il cuore

Gesù non si lascia scappare l’occasione per richiamare i capi religiosi alla verità della loro coerenza e li invita a ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati per sottomettersi a Cesare. Egli, infatti, con la seconda parte della sua risposta, li porta di peso nel cuore dell’Eden, quando Dio inventò l’umanità, costruendola «a sua immagine e a sua somiglianza» nella prospettiva di Genesi 1,27: «e [ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio». Gesù non ha alcun orizzonte politico con questa frase, perché il contesto in cui si muove è solo ed esclusivamente religioso, anzi teologico. Qui si tratta di antropologia teologica e non di una banale distinzione di poteri tra «Chiesa e Stato», un concetto estraneo a Gesù, almeno nella portata che noi oggi attribuiamo a esso, alla luce dei concordati pattizi.

Quando si legge la risposta di Gesù, non bisogna correre, ma avere attenzione e fare una lunga pausa tra i due imperativi uniti e separati dalla congiunzione copulativa di valore avversativo «e»: rendete a Cesare quello che gli appartiene, perché è suo di diritto (la moneta con la sua effige), e/piuttosto… [lunga pausa] convertitevi/ritornate a Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza perché siete voi l’effige che rende visibile il Creatore nel mondo. È un invito a ritornare alla dignità di figli di Dio da cui essi hanno abdicato perché si sono venduti come schiavi a un’autorità illegittima. È l’appello radicale alla conversione, spezzando la confusione tra un «Cesare», che pretende di essere di natura divina, e «Dio», che esige «l’immagine» del suo popolo come segno visibile della sua presenza nel creato. Cesare si faceva chiamare «Divus» per cui accettarne l’autorità e trafficare con il suo denaro che lo raffigura, è un atto di ribellione al Creatore perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. L’Ebreo che vi si sottomette contravviene al precetto tassativo di non farsi idoli (Es 20,4; Dt 4,16): «Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; no, non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135/134, 15-17).

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa, non politica. Si tratta di scegliere tra due regalità: quella del Dio creatore e liberatore oppure quella di Cesare imperatore. È una scelta tra due prospettive di vita: da una parte sta Dio che crea a sua immagine per la libertà e dall’altra sta Cesare che con la sua immagine conia un impero di schiavitù. È in gioco la scelta radicale della vita tra il Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente la terra d’Israele. Cesare non può pretendere l’adesione interiore, che, invece, scribi e sacerdoti gli concedono, usando la sua moneta. Non si tratta della gestione del potere tra due ordini diversi, ma dell’opposizione radicale tra due irriducibili: o Dio o Cesare. Non è in gioco «una parte» ma «tutta» l’esistenza perché riguarda due mondi: quello di Dio che stipula l’alleanza con i figli di Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.

Nota di attualità. Questo brano è un appello alla Chiesa in ogni tempo, e, nella Chiesa, specialmente a chi esercita il servizio dell’autorità perché stia sempre attento nella scelta delle cose che riguardano questo mondo. Il cristiano vive il mondo con distacco perché il suo cuore è teso al Regno di Dio. Ricchezza, potere, successo, denaro non sono obiettivi primari e nemmeno secondari, perché l’impegno del credente è di avere sempre coscienza di essere custode e garante del giardino di Eden che deve consegnare alle generazioni future, fino alla fine del mondo. Quando l’autorità religiosa si rapporta con i potenti della terra, mai deve dimenticare le parole di Gesù che mette sull’avviso di non tradire mai l’immagine di Dio per nessun interesse, perché Dio vien prima di tutto: è lui e solo lui che bisogna amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il resto viene dal maligno.

Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»

Quella di Gesù è una risposta ad hominem, cioè puntuale, connessa alla domanda con cui argomentano «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc 20,19).

Nota STORICA. Gli scribi erano i letterati dell’epoca, coloro che spiegavano la Scrittura al popolo, che davano indicazioni di vita e di condotta, che dirimevano interrogativi d’interpretazione della Parola di Dio; cioè svolgevano la funzione di maestri. Il sommo sacerdote era uno solo e svolgeva il compito di capo del sinedrio, composto da settanta membri comprendenti sacerdoti, anziani e scribi. Il sommo sacerdote emerito vi partecipava di diritto. Al tempo di Gesù vi era il sommo sacerdote Caifa, eletto nell’anno 18 dal procuratore romano Valerio Grato e rimasto in carica fino al 36. Egli era subentrato al suocero, Anna (o Anano o Ananiah) che pertanto era membro attivo del Sinedrio. Per questo il vangelo parla di «sommi sacerdoti».

Come massima autorità in Israele essi avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di Dio», avendone gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. Invece, non solo inducono il popolo nell’errore, ma essi stessi si rendono colpevoli perché, contravvenendo agli insegnamenti della Toràh, si adeguano a portare monete con l’effige dell’imperatore. La risposta di Gesù non è pacifica e superficiale e tanto meno si può ridurre a una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Gesù non dice se l’autorità di Cesare è lecita o illegittima, se ha diritto o no. Egli si limita a prendere atto della situazione descritta dall’immagine della moneta: «Di chi è questa immagine»? La questione in gioco è molto più radicale e parte da un dato di fatto: scribi e sacerdoti sono coinvolti nel riconoscimento di un’immagine che non è quella di Dio. Di fronte all’inchiesta che fa Gesù, essi affermano e confermano che quella immagine è «di Cesare». Gesù non ha dubbi perché essi sanno quello che fanno: Preso atto che voi state parlando di Cesare, il romano, ebbene io vi dico: dategli quello che gli appartiene; ma a voi dico io, di mia iniziativa: ritornate a Dio che vi ha creato come sua immagine. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.

  1. a)    Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per cui se essi stessi dicono che «è di Cesare», allora è giusto che la moneta sia restituita al legittimo proprietario perché è impropria nelle mani degli scribi e dei sommi sacerdoti.
  2. b)    La seconda parte della risposta è un’affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i suoi interlocutori alla «teshuvàhmetànoia» che non è solo un cambiamento di comportamento, ma un radicale capovolgimento del criterio di pensare e scegliere. La conversione cui si appella Gesù comporta una decisione esistenziale che parte dall’intimo per avviarsi verso una prospettiva di vita che abbia come orizzonte solo il Regno di Dio. È l’invito al ritorno al Dio della creazione di cui, essi, guide liturgiche e morali del popolo, hanno usurpato l’immagine rendendola impura. Usando il denaro con l’immagine di Cesare, essi hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.

L’immagine e il progetto di Dio

Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi a Genesi 1,27, secondo cui Dio «creò Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: κατ΄ εικόνα θεου – kat’eikòna theû; lett.: secondo l’immagine di Dio». Con questa espressione l’autore biblico, circa cinque secoli prima di Cristo, definisce il fondamento ontologico della consistenza di Adam, inteso come genere umano, composto di uomini e donne. La persona umana, in quanto natura relazionale, è «immagine» di Dio, nel senso che «uomo-donna» è intimamente legato non nell’apparenza, ma nella sostanza. In altre parole, è il genere umano come tale che è «immagine» e, in esso, ogni individuo in quanto persona, compresi gli scribi e i sommi sacerdoti. Da tale struttura antropologica esistenziale nessuno può abdicare, pena l’inconsistenza, la morte.

Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini del proprio regno con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità del re che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete di uso corrente sia per farsi meglio riconoscere da chiunque ne venisse in possesso, sia per affermare il diritto della propria autorità su chiunque le utilizzasse come moneta di scambio.

Anche il Dio biblico della creazione si comporta come un re orientale: in Gen 2, secondo il racconto jahvista, egli crea con la polvere del suolo, come un vasaio o un artista della creta, la sua «statua» bifronte, Adam ed Eva, che pone nel giardino di Eden come suo luogotenente e fiduciario, come sua «Presenza». La coppia è il rappresentante di Dio nel creato perché esso, guardando l’immagine del creatore, possa essere riportato al fondamento della propria esistenza. In Gen 1, il racconto sacerdotale lo afferma espressamente come «dottrina»: l’essere umano, in quanto sessuato, è «immagine» di Dio creatore. La terra e il cosmo, cioè l’ordine della creazione, sono lo scenario di sfondo, dove Dio colloca il riferimento alla sua autorità: l’uomo-statua, richiamo permanente alla «signoria» di Dio.

L’immagine di Dio posta sulla terra non ha un compito passivo, ma riceve il potere delegato di «dare il nome» agli animali; in oriente «dare il nome» significa avere il potere di vita e di morte su ciò di cui si conosce il «nome», cioè la natura intima e profonda (Gen 2,19-20). La statua/immagine, però, ha un limite strutturale: esercita solo un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. Gen 2,15 è esplicito a riguardo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco della LXX. L’ebraico, invece, usa due verbi straordinari: «Dio pose Adam nel giardino di Eden perché lo servisse e l’osservasse/custodisse»1. Non padroneggio, ma dipendenza umile e attenta.

Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.

Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio è diventato l’unico re e la sola autorità da cui il popolo dipende, e in esso ogni Israelita. Mosè e i profeti sono luogotenenti, intermediari portavoce. Nulla di più. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e, infatti, è durato solo due secoli. Israele ha Dio come re di cui è «immagine» rappresentativa o come si direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio, infatti, passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione. Il testo ebraico usa un’espressione forte, descrittiva della natura umana: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» che le traduzioni rendono più poveramente con «maschio e femmina»2.

È questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e «gli scribi e i sommi sacerdoti». Se Gesù avesse risposto che non è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo stato; se avesse risposto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei che considerava alla stessa stregua dei pagani. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto», ma senza porre la questione teologica ed esistenziale di fondo: la natura dell’umanità e la sua funzione all’interno del creato e della società.

Riconoscendosi «immagine» dell’imperatore, di cui accettano la moneta simbolo della sua autorità, essi sconvolgono l’ordine del creato, capovolgendo la natura umana e il fine dell’esistenza. Non è solo una questione banale di separazione tra poteri politici, ma la questione radicale se Dio è il Creatore e se l’uomo, nella sua natura di «pungente e perforata», ne è il segno e la presenza di garanzia nel mondo.

(continua – 3).

 1 Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro: Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, 2008, 67-75. 2    Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf Ibidem, 61-65.

Paolo Farinella

 




Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)


Per leggere la prima parte

Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

Le parole svelano le intenzioni del cuore

Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:

– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.

– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.

– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.

Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:

«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».

Le parole hanno un senso oltre le apparenze

La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.

Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».

Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.

La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.

Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.

Contesto prossimo: il complotto

Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.

Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:

– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.

– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.

I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».

È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.

La risposta di Gesù: la coerenza nella verità

Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?

Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.

I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.

(continua – 2)

Paolo Farinella




Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


Per andare al secondo articolo su Rendete a Cesare:

Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? Rendete a Cesare (2)


(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

«Non abbiamo altro re che Cesare …Non avrai altri dèi di fronte a me» (Gv 19,15; Es 20,3)

 

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Premessa

Con MC di gennaio-febbraio 2013 abbiamo concluso il commento del racconto dello sposalizio di Cana, riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 2. In totale appena undici versetti che ci hanno impegnato per quattro anni, avendo iniziato nel febbraio 2009. È la prova che una vita sola non basta per leggere in profondità tutta la Bibbia o anche una parte di essa. Se fossimo solo riusciti a suscitare un po’ più di rispetto per la Parola di Dio, il nostro obiettivo, come autore e come rivista, è stato raggiunto. Di fronte ad ogni singola parola di Dio dobbiamo avere un sentimento di «ascolto» interiore perché essa non si esaurisce nel significato immediato, ma esige di scendere in profondità perché Dio è inesauribile. Se poi fossimo anche riusciti a suscitare un atteggiamento di rispetto che ci impedisce di «improvvisare», allora siamo proprio contenti e pensiamo di avere reso un servizio a noi e alla Chiesa. Il nemico più pericoloso della Scrittura è l’improvvisazione e il pressapochismo.
Ora cominciamo un nuovo ciclo. Per la verità avevo pensato anche di sospendere per un po’ questo servizio, per me molto impegnativo sotto ogni punto di vista (e anche costoso per l’aggiogamento); ne ho parlato anche con qualche amico che legge MC. Per poco non mi scomunicava, dicendomi che parlava anche a nome di altri. Ho ricevuto, infatti, segnali e suggerimenti dai nostri lettori per continuare. Li ringrazio tutti per le loro parole affettuose e riconoscenti. Mi ritengo un servo della Parola e nulla di più. Ho riflettuto molto, prima di prendere una decisione, e ora sono in grado di comunicare il mio progetto ai lettori di MC che pur non conoscendo, sono parte di me e del mio popolo con cui condivido l’Eucaristia e la ricerca di Dio.
Con la prossima primavera, dopo Pasqua, verso la fine di aprile, inizierò nella mia parrocchia di Genova una «Scuola di Sacra Scrittura», un Corso biblico organico e al contempo elementare, partendo dal presupposto che non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici siamo soliti «sentire» la Parola di Dio quasi esclusivamente nella Liturgia, quindi in forma discontinua, ma poco sappiamo del «libro» in sé, la sua storia, il travaglio della sua formazione, i tempi della sua scrittura, dopo la sedimentazione della trasmissione orale. Molti dicono che si sono cimentati nella lettura della Bibbia, ma poi si sono dovuti arrendere perché «non ci capisco niente». È ovvio che ciò accada perché ai cattolici manca la conoscenza delle chiavi di lettura, gli strumenti storici, letterari e religiosi per capie la mentalità, il contesto storico, l’ambiente geografico e le circostanze delle varie fasi. Non possiamo leggere la Scrittura con la nostra mentalità occidentale perché è un libro, sintesi di una grande esperienza, nato in oriente e sviluppatosi in una cultura diversa dalla nostra, con linguaggi diversi dai nostri e con strumenti che bisogna conoscere. Diceva Pio XI ai seminaristi del Seminario Lombardo, già negli anni ’20 che «spiritualmente noi siamo semiti» ed è pertanto necessario acquisire una mentalità semitica, se vogliamo cogliere il senso proprio della Scrittura e dei suoi singoli libri.
Alla luce di questa premessa, sollecitato, pressato e minacciato dalla mia comunità, ho deciso di mettermi all’opera, iniziando un percorso che non so quando finirà, ma spero di riuscire ad offrire almeno gli strumenti necessari perché ciascuno possa cominciare a leggere e a pregare la Bibbia come il libro-codice della fede. Dopo una introduzione sulla composizione della Bibbia e la sua divisione, il corso prevede la lettura esegetica, centellinata, cioè approfondita dei primi 11 capitoli della Genesi, la storia dei Patriarchi nomadi da Abramo a Giacobbe, la grande epopea dell’esodo, che è l’atto fondativo di Israele come popolo, i profeti, l’esilio, la letteratura sapienziale, la preghiera sedimentata nei Salmi per giungere al dominio romano e diaspora d’Israele. In un secondo momento si passerà al Nuovo Testamento. Tutto questo esige preparazione, studio e tempo, molto tempo.
Poiché le richieste di partecipazione sono oltre ogni aspettativa, ho deciso che scriverò tutto il corso per poterlo pubblicare in un secondo momento. Per non privare i lettori di MC di questa opportunità, ho pensato che dal mese di giugno questa rubrica potrebbe ospitare il corso a puntate. Nel frattempo, per i mesi da marzo a maggio 2013, offro ai nostri lettori una lettura esegetica di un passo controverso del vangelo che spesso, anche dai vescovi, sento usare in modo maldestro e fuorviante, segno che nella Chiesa c’è bisogno non di catechismo, ma di «scuola della Parola», fatta in modo sistematico, continuo e progressivo. Spero di non essere andato fuori tema e mi auguro che i lettori di MC possano gradire questa proposta che ci impegnerà a lungo, finché il Signore ci darà la forza e la grazia di poterla realizzare. Passiamo quindi all’esegesi del testo sinottico: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio» (Lc 20,25).

Rendete a Cesare … rendete a Dio»

(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

Per comprendere il brano del vangelo è necessario capirne la portata, altrimenti lo si usa a sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza delle Scritture» e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. San Girolamo già nel sec IV ci metteva in guardia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25). Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: CesareDio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa «eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione (o se si vuole la nostra ideologia contemporanea, che però è estranea alla Scrittura) e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo

Il testo

Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli (segno di un percorso travagliato) specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo, cioè la risposta di Gesù, è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo però in forma di sinossi i tre testi, avendo presente quando si parla di «erodiani» ci si riferisce al partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani; e il «denaro» che Gesù chiede di vedere è il denaro d’argento di Tiberio che recava l’immagine dell’imperatore, il quale in questo modo affermava la propria autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.

Mc 12,(12).13-17
Mt 22,15-22
Lc 20,19-26
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva
detto quella parabola contro di loro [contadini omicidi: cf Mc 12,1-12]. Lo lasciarono e se ne andarono.
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 19In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, 20Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
14Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
21Costoro lo
interrogarono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non
guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità. 22È
lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova?
Portatemi un denaro: voglio vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 23Rendendosi conto della loro malizia, disse: 24“Mostratemi un denaro:
Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”.
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
21Gli risposero: “Di Cesare”.
Risposero: “Di Cesare”.
17Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 25Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”.
E rimasero ammirati di lui.
22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono. 26Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

–      Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (cf Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare, «e»  le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

–      Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ri-date/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare «e» le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

Si capisce subito che la questione è solo una trappola perché qualunque risposta Gesù possa dare, lo metterebbe a mal partito: in caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; in caso di risposta negativa, poteva essere accusato presso l’autorità romana come sobillatore antigovernativo.

Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che qui ha valore fortemente «avversativo» perché Gesù intende riportare i suoi ascoltatori davanti alla loro responsabilità di avere messo sullo stesso piano «Dio» e «Cesare», cadendo così nell’apostasia. La congiunzione quindi non ha valore coordinante, ma oppositivo: non quindi «a Cesare quello che è di Cesare e (= allo stesso modo, contemporaneamente) a Dio quello che è Dio», ma «a Cesare quello che è di Cesare e (= ma al contrario, ritornate a restituire a Dio quello che è Dio», segno che i Giudei avevano confuso Cesare e Dio. Tutta la questione, come vedremo, riguarda non il potere, ma «l’immagine», cioè la propria identità in relazione al Creatore.

Una questione antica

Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro, ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele, a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.

 «1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).

La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe essere solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.

Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re lo dissanguerà, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, che farà solo gli interessi di sé, della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure il popolo vuole un re per essere governato da un aguzzino, avverando la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:

«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).

Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. [Continua – 1]

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Paolo Farinella