Pakistan. L’eredità di Bhatti, difensore delle minoranze
Sono passati tredici anni dall’assassino del ministro per le Minoranze del Pakistan Shahbaz Bhatti che difendeva i cristiani e le altre persone discriminate nel suo paese. Parla il fratello Paul Bhatti che oggi ne ha preso l’eredità.
«Shahbaz ci manca, ma il suo messaggio è arrivato in tutto il mondo e il suo sacrificio ha portato tanti frutti», ci dice Paul Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo del 2011 per la sua azione di difesa delle persone discriminate del suo Paese. A partire dalla sua comunità: quella cristiana.
Oggi Paul, medico che vive tra l’Italia e il Pakistan, ne ha assunto la difficile eredità.
Lo abbiamo incontrato l’11 marzo scorso al Senato della Repubblica italiana in occasione di un evento dedicato proprio all’opera di Shahbaz Bhatti a tredici anni dalla morte.
«II Pakistan è un Paese che ha avuto, e che ancora ha, gravi problemi dal punto di vista economico, sociale e politico – sottolinea Paul Bhatti -. Per quanto riguarda la libertà religiosa e l’integrazione delle persone più emarginate, i problemi restano, ma molto è stato fatto da Shahbaz. È quanto riconoscono in Pakistan ma anche a livello internazionale. La sua perdita ci ha fatto soffrire, mio fratello Shahbaz ci manca. Però il messaggio che è stato percepito a livello nazionale in Pakistan e anche internazionale in qualche modo ha ridotto questa sofferenza. Ci dà sollievo che il suo sacrificio in qualche modo non è stato vano».
Paul racconta quanto la perdita del fratello abbia inciso sulla sua vita personale: «Io facevo il medico in Italia, ero contento. Lui mi diceva sempre: “Devi tornare in Pakistan, anche qui ci sono gli ospedali”. Io gli rispondevo: “Ma tu vuoi che io passi dal paradiso all’inferno…”. E invece con la sua morte ho capito che dovevo tornare e fare qualcosa per il mio Paese».
Parla dei suoi incontri per pacificare il Pakistan: «Nei giorni scorsi ho avuto un incontro con politici, leader religiosi musulmani, vescovi cattolici. Tutti riconoscevano quanto fatto da Shahbaz e questo mi dà sostegno e coraggio.
Dopo la morte di mio fratello – confida – ho avuto alti e bassi. Però ci sono state anche grandi soddisfazioni. Prima mi ero limitato al mio lavoro in campo medico e alla famiglia. Ora sono esposto al mondo intero e spesso non riesco a credere a quante persone ritengono importante il messaggio di fratellanza e di pace di Shahbaz».
Paul Bhatti nel corso di questi anni ha incontrato più volte Papa Francesco ed è in stretto collegamento con la Segreteria di Stato vaticana per portare avanti le sue iniziative.
Per Shahbaz Bhatti, che aveva scelto la via politica per difendere gli ultimi del suo Paese e ha pagato con la vita il suo impegno, è in corso il processo di beatificazione. «La fede è stata fondamentale. Lavorare in Pakistan parlando contro determinate leggi, come quella sulla blasfemia, e contro alcune ideologie fondamentaliste, comporta dei rischi. Lui con grande coraggio ha affrontato questi temi. Noi, in famiglia, quando ha cominciato, eravamo tutti terrorizzati. Non riuscivamo a capire da dove gli arrivava questo coraggio, poi abbiamo capito – dice Paul Bhatti – che la sua fede era talmente forte che non aveva paura».
Shahbaz, infatti, diceva che «lui aveva scelto di seguire Gesù Cristo e che non faceva altro che quello che Lui gli aveva insegnato».
Manuela Tulli
Sentirsi a casa
«Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme, per poi lavorare assieme per tutta la vita. Una comunità in cui si mantiene questa unione, non può non fare del bene».
Giuseppe Allamano
Il 29 gennaio scorso, abbiamo celebrato, come missionari della Consolata, ben 120 anni di vita… con tanta gratitudine al Signore che, attraverso il coraggio e la fede del beato Giuseppe Allamano, ha «regalato» alla chiesa e al mondo i nostri due istituti missionari, per comunicare a tutti «la gioia del Vangelo». Ma, come ci ricordava il nostro Fondatore, più che in un istituto, noi missionari/e viviamo e lavoriamo insieme come «una famiglia» per tentare di trasformare anche questo nostro mondo in una comunità di fratelli/sorelle («Fratelli tutti»!).
Per questo ci hanno toccato il cuore le parole che padre Stefano Camerlengo, nostro superiore Generale, ha scritto nel messaggio di auguri per la festa del 29 gennaio, intitolato proprio «Sentirsi a casa». «Approfittando dell’anniversario della fondazione, vorrei portare l’attenzione al recupero del senso di sentirsi a casa, di sentire l’istituto come casa propria, “casa mia”. Solo se “indossiamo” la nostra casa, solo se “addomestichiamo e sposiamo” la nostra casa, con le persone che la abitano, possiamo sentirci realizzati e felici e allora saremo capaci anche di cambiare! La regola della comunità è l’amore, il bene dell’altro. Il bene degli altri non è mai un male per me; il bene è bene, sempre, per tutti. La dimensione comunitaria è una ricchezza, in ogni circostanza. Le cose fatte insieme sono più belle, più ricche, più varie, più divertenti, più efficaci e coinvolgenti di qualunque altra cosa. La comunità ha bisogno di tutti, tutti sono importanti e in questa importanza riscopriamo la nostra bellezza.
La comunità è un luogo, forse l’unico, dove si può sperimentare insieme la fatica della croce, ma anche la gioia, la luminosità, la freschezza, il profumo della rinascita, di una vita nuova. Una comunità vera è una ricchezza anche per le altre persone, per chi è esterno alla comunità; è una fonte capace di dissetare anche altri che ad essa si avvicinano, assetati e incuriositi; l’amore e la luce che nascono da una comunità scaldano e illuminano il freddo di molte tenebre. L’augurio, la preghiera, l’invito è che possiamo vivere questo anniversario di fondazione recuperando il nostro senso di appartenenza, di sentirci parte, protagonisti della nostra famiglia, della nostra comunità, conosciuti e chiamati per nome, costruttori di un istituto sempre più “nostro”, sempre più “casa mia”!».
Ed è sicuramente anche l’augurio che il Padre Fondatore, dal cielo, porge sorridendo a ciascuno/a di noi.
padre Giacomo Mazzotti
Giuseppe Allamano Beato
7 ottobre 1990 – 7 ottobre 2020
Il 7 ottobre 2020 i missionari e le missionarie della Consolata hanno celebrato il 30° anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano loro fondatore. Per l’occasione, il superiore e la superiora generali dei due istituti fondati dall’Allamano, hanno scritto una lettera ai loro missionari ricordando il felice evento.
Carissimi missionari e missionarie, trent’anni fa, ripetevamo, gli uni agli altri, con gioia indicibile: «Questo è il giorno che il Signore ha fatto per noi!». Era il 7 ottobre del 1990, giorno di luce e di festa, quando il nostro amato Padre Fondatore veniva proclamato «Beato» da papa Giovanni Paolo II.
Rivisitiamo l’avvenimento richiamando le belle parole del padre Giuseppe Inverardi, allora superiore generale, in quel giorno: «Giorno in cui la nostra Consolata si è compiaciuta per l’onore tributato a suo figlio e servitore fedele.
Giorno in cui la Chiesa ha esaltato un altro testimone della fede proponendolo come modello di santità e intercessore.
Giorno in cui a Giuseppe Allamano sono state riconosciute la fecondità spirituale e apostolica.
Giorno in cui la missione è stata riproposta con nuovo vigore e responsabilità di ogni fedele.
Giorno in cui l’istituto ha cantato la sua gioia, ha proclamato la sua lode, ha detto il suo grazie.
Giorno in cui le missionarie e i missionari della Consolata hanno guardato compiaciuti alla “roccia da cui sono stati tagliati”.
Giorno in cui i popoli, molti popoli, hanno riconosciuto di essere stati amati e beneficati da un uomo mansueto e forte.
Giorno in cui tutti noi ci siamo ri-consacrati al Signore, ai fratelli e alla nostra vocazione, per essere “prima santi e poi missionari”».
Ovunque ci troviamo in questo anno, segnato dalla nube grigia di una pandemia che si è infiltrata in ogni angolo del pianeta, non possiamo non sostare in raccoglimento, ricordando e ringraziando per questo «evento di grazia», dentro il quale ci siamo sentiti orgogliosi di seguire le orme di questo umile sacerdote torinese che ci ha lanciati nel mondo, chiedendoci di essere semplicemente e autenticamente «sante e santi per la missione».
Tutti noi siamo consapevoli che la «beatificazione» che stiamo ricordando e celebrando, è stata resa possibile, perché il nostro Fondatore, nel linguaggio preciso e solenne della Chiesa, ha vissuto «in grado eroico» le virtù che costellano la vita di ogni credente e discepolo del Signore.
Sì, il Fondatore ha vissuto «eroicamente», ma nel suo stile tutto particolare, mutuato dall’esempio del suo santo zio, Giuseppe Cafasso: «Fare bene il bene», cioè con entusiasmo, zelo, passione, sollecitudine, umiltà, mansuetudine, libertà e saggezza… ricordandoci che il Signore «guarda il cuore» e «vede nel segreto»; che neppure un bicchiere d’acqua fresca sarà dimenticato; e che, alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore dato specialmente ai bisognosi e agli ultimi.
Quale emozione proviamo, allora, pensando che già due nostre sorelle hanno percorso, come l’Allamano, questo cammino di ordinaria santità: suor Irene, «madre tutta misericordia», e suor Leonella, «donna del dono e del perdono», raggiungendo ambedue la stessa «beatitudine» del Padre Fondatore, straordinarie nell’ordinario.
Ma accanto a loro, non possiamo dimenticare tanti nostri fratelli e sorelle che, senza titoli particolari o fama diffusa, hanno servito il Vangelo e la Missione in semplicità di cuore, operosità di vita, amore concreto ai poveri, diventando così portatori di consolazione e di pace. Forse con alcuni/e di loro abbiamo condiviso le fatiche e le gioie dell’apostolato missionario; ricordandoli ora, ci accorgiamo che sono stati «i santi/e della porta accanto – come ama ripetere papa Francesco – che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio». Tra di essi, anche il nostro «confondatore», Giacomo Camisassa, che ricorderemo particolarmente nell’anno 2022, nel centenario della sua morte.
Associamo, allora, ai nostri «tre beati» anche loro, conservandone nel cuore una grata memoria, facendo tesoro del loro esempio e della loro fraterna intercessione, contenti di averli avuti come compagni di strada, fratelli/sorelle nella stessa «vocazione missionaria consolatina».
Ricordando e celebrando la prima tappa del cammino verso la santità del nostro Fondatore, vogliamo condividere con tutta la nostra famiglia missionaria la gioia di un percorso verso la canonizzazione arrivato ormai molto avanti. Si tratta dell’inchiesta diocesana sul «presunto miracolo» della guarigione inspiegabile di Sorino Yanomami, un indigeno del Catrimani (Roraima, Brasile), per l’intercessione del beato Giuseppe Allamano.
Se l’esito della commissione medica e dei censori teologi sarà positivo, «il miracolo», a quel punto non più presunto, ma certo, verrà presentato a papa Francesco perché, con la sua autorità apostolica, vi riconosca «il dito di Dio» e stabilisca, così, la data della canonizzazione: giorno in cui anche noi, missionari e missionarie della Consolata, potremo cantare l’alleluia di ringraziamento al Signore.
Celebriamo, dunque, fratelli e sorelle, nella gioia e nella lode, questa data del 7 ottobre, e intensifichiamo ancora di più la nostra preghiera perché, con l’aiuto e l’intercessione della Consolata, nostra madre e fondatrice, e delle nostre «due sorelle beate», l’attesa e il desiderio di tutti noi vengano esauditi.
In comunione,
suor Simona Brambilla, superiora generale Mc, padre Stefano Camerlengo, superiore generale Imc
Novena e festa del beato Allamano
In preparazione al processo diocesano per il riconoscimento della guarigione miracolosa di Sorino Yanomami attribuita all’intercessione del beato Allamano, i missionari della comunità di Boa Vista (Brasile) e di alcune altre comunità Imc di Roraima, hanno celebrato in modo particolare la novena del Fondatore.
Novena del beato Allamano
Il 7 febbraio, primo giorno della novena, sull’altare per la messa, è posto un piccolo busto dell’Allamano assieme ai documenti finora raccolti (testimonianze, referti medici, disegni) riguardanti il processo.
Come parte integrante dell’équipe della postulazione, presiedo l’Eucarestia e ricordo come esattamente 25 anni fa (il 7 febbraio 1996), Sorino Yanomami fu aggredito da un giaguaro mentre era a caccia e venne trasportato nello stesso giorno a Boa Vista per salvargli la vita. Fatto che si risolse con una piena guarigione di Sorino da ritenersi miracolosa.
«Iniziamo questa novena “particolare” in comunione con tutto l’Istituto nella speranza di poter realizzare in breve il processo che aprirebbe la strada alla canonizzazione del nostro fondatore».
Grazie per il cammino fatto
Il Vangelo del giorno racconta che Gesù, a Cafarnao, prende per mano e cura dalla febbre la suocera di Pietro, mentre Paolo, nella prima lettera ai Corinti, dice: «Guai a me se non annuncio il Vangelo», e più avanti: «Mi sono fatto tutto a tutti».
«Come non leggere nel gesto di Gesù e nelle parole appassionate di Paolo la nostra chiamata alla vita missionaria nel carisma del beato Allamano? Curare, educare, annunciare, farsi prossimo degli altri, è lo stile tutto nostro, riassunto nel nome che portiamo e che dice “consolazione”».
Trovandomi in questi giorni con i confratelli che lavorano in Brasile, e in particolare a Roraima, terra indigena, mi viene spontaneo ringraziare il Signore per essere qui, come Istituto, da più di 70 anni, per il cammino fatto, per le battaglie affrontate e i successi ottenuti. Tra gli altri ricordiamo: la nostra presenza nelle comunità indigene, la demarcazione della terra, il progetto della Buona Notizia (Boa Nova) che porta ad un maggior impegno in favore della vita, della comunità e della condivisione, la formazione di nuove comunità cristiane e i primi frutti anche in campo vocazionale e missionario.
Nella stessa messa, infatti, abbiamo salutato Aparecido, un giovane indigeno macuxi in partenza per Curitiba dove continuerà il suo cammino formativo nel seminario filosofico.
Di fronte a queste grazie di Dio, viene da pensare che il presunto miracolo di Sorino Yanomami non sia altro che l’espressione più alta di un miracolo continuo del nostro fondatore e padre in questa terra mediante la vita e la dedizione dei suoi missionari e missionarie.
A Cantagalo fra i Macuxi
Continuando la novena, i missionari si sono alternati ogni giorno nella celebrazione eucaristica, aiutando i confratelli a leggere e meditare la Parola incarnata nella vita della missione e nella propria esperienza personale.
Merita ricordare l’ottavo giorno della novena che si è svolta nella missione di Cantagalo, una comunità indigena macuxi. Abbiamo celebrato l’Eucarestia all’aperto in un luogo molto ventilato onde evitare contagi a causa della pandemia. Vi hanno partecipato molti bambini, ragazzi e giovani. Il coro dei giovani, animato dal catechista, ha eseguito bei canti in lingua macuxi. Il Vangelo parlava di Gesù che, preso da compassione, ha curato un lebbroso.
È sempre la compassione che spinge Gesù ad agire, a fare il bene, a curare, a perdonare. Il Signore ancora oggi agisce e dimostra questa compassione anche attraverso grazie e miracoli. Così, ho invitato il nostro seminarista macuxi, Damasio, a raccontare la storia della cura miracolosa di Sorino Yanomami e come il Signore abbia avuto compassione della sua vita guarendolo grazie all’intercessione del beato Allamano. Il fatto miracoloso ha suscitato grande curiosità e interesse. Alla fine ho distribuito l’immaginetta del fondatore e abbiamo concluso con la supplica alla Consolata in tempo di pandemia.
Festa del beato Allamano
Il 16 febbraio abbiamo celebrato la festa del beato Allamano a Boa Vista. All’omelia ho detto che «il mandato missionario di Marco ascoltato nel Vangelo “dice” il nostro carisma e dice l’Allamano con la sua vocazione missionaria trasmessa a noi suoi figli. È il più bel dono che abbiamo ricevuto in vita dal Signore tramite il fondatore. “La più bella vocazione”, come soleva dire ai missionari in partenza per l’Africa».
Nel mese di marzo, qui a Boa Vista, si svolgerà il processo per la sua canonizzazione.
A 95 anni dalla sua nascita al cielo chiederemo che venga riconosciuto un miracolo che è segno di amore e cura dei più piccoli e che ci aiuti a comprendere come lo «straordinario» nella missione avviene anche mediante tanti piccoli gesti d’amore, di compassione e di consolazione nella quotidianità della vita. È da qui, infatti, che parte sempre l’annuncio del Vangelo.
padre Michelangelo Piovano
L’amicizia che rende santi
Nell’Algeria del decennio nero (1991-2002) della guerra civile, 19 religiose e religiosi vengono uccisi. Avevano deciso di rimanere al fianco degli amici algerini, per condividere con loro quel momento buio e animare la chiesa locale. Una presenza discreta ma efficace, nel quotidiano. Abbiamo chiesto al postulatore della causa di beatificazione l’attualità del messaggio dei martiri.
Nel decennio degli anni ‘90 in Algeria divampa la guerra civile. Gruppi islamisti, tra i quali il più feroce è il Gia (Gruppo islamico armato), compiono assalti e attentati a civili inermi, in un paese nel quale l’esercito ha preso il potere. Il conflitto causa 150mila morti. Tra loro vi sono 19 tra religiose, religiosi, monaci e un vescovo, uccisi tra il ’94 e il ‘96. I più noti sono i sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e poi uccisi in circostanze non ancora totalmente chiarite.
Tutti i 19, uomini e donne, pur sapendo di rischiare la vita, invece di andarsene, preferiscono rimanere a fianco degli amici algerini, nel momento più buio della loro storia. Una scelta dunque, di donare la propria vita, già nel quotidiano, di non essere padroni della propria morte, come ricorda Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione, nel libro scritto con il giornalista Christophe Henning, e pubblicato per la Emi, «La nostra morte non ci appartiene. La storia dei 19 martiri d’Algeria». La causa di beatificazione, iniziata nel 2007, ha avuto un’accelerazione quando papa Francesco, il 26 gennaio 2018, ha indicato che sarebbero stati beatificati entro l’anno. E così l’8 dicembre scorso nel Santuario Notre-Dame de Santa Cruz di Oran sono stati proclamati beati. Incontriamo padre Thomas Georgeon, monaco trappista, durante la sua tournée in Italia, per parlare dei martiri.
Una storia che interessa
«Sto trovando molto interesse su questa vicenda nel vostro paese. La gente viene ad ascoltare. E poi ci sono tante domande in giro che si fanno sull’islam. È importante poter provare a spiegare qual era, e qual è, lo spirito della chiesa algerina. Nel libro parliamo di 19 martiri, però tanti altri membri della chiesa algerina hanno attraversato questo periodo drammatico che è stato il decennio nero in Algeria. Non sono stati uccisi, ma hanno vissuto la stessa esperienza interiore, con la scelta di rimanere quando molti spingevano affinché lasciassero il paese, compresa la Santa Sede. A un certo punto è infatti stato chiaro che la chiesa era nel mirino dei fanatici».
Padre Georgeon, come spiega questo interesse?
«Uno dei motivi dell’interesse è il film “Uomini di Dio” (del regista Xavier Beauvois, sui monaci di
Tibhrine, ndr), che è stato un successo. Devo ammettere che sia il nostro ordine, sia le famiglie dei monaci, non abbiamo voluto aiutare quest’opera, perché ci siamo detti: “Cosa uscirà da un film?”. La loro vita non era un romanzo. Il regista non è una persona di fede. Alla fine, però, al contrario, come ha detto il regista, anche gli attori sono stati toccati dalla grazia per realizzare questa pellicola, che ha permesso una diffusione importante del messaggio e della vita dei martiri. Qui in Italia si conoscono soprattutto i monaci di Tibhirine. Abbiamo scritto il libro per ricordare che la beatificazione riguarda 19 persone, tra cui ci sono suore sconosciute che hanno fatto un lavoro splendido di convivenza e amicizia con il popolo algerino».
I giovani tendono ad allontanarsi dalla chiesa e dalla fede in generale, mentre si è appena svolto il sinodo per loro. Secondo lei quale può essere il messaggio dei martiri?
«I messaggi sono due. Il primo è il dono dell’alterità. In un mondo in cui l’individualismo sfrenato ci penetra da tutte le parti, i martiri hanno vissuto l’opposto, rimanendo sempre aperti sulla differenza dell’altro. Cerchiamo di arricchirci della differenza. Spesso la differenza ci fa paura. L’altro la pensa diversamente da me, questo a volte ci fa costruire delle barriere tra di noi. Mentre i martiri ci spingono a uscire dai nostri circoli. È facile rimanere in amicizia con chi mi assomiglia. Più difficile fare amicizia con chi vive una diversità di vita, di fede. Loro ci sono riusciti, hanno vissuto un legame di amicizia profonda con credenti di un’altra religione.
Un secondo insegnamento è il dono della la propria vita. Non tutti siamo chiamati a essere missionari, religiosi o cose del genere, però tutti siamo chiamati alla santità. E dobbiamo porci la domanda: vogliamo diventare santi? E non si tratta di una santità da eroi o grandi personaggi, con fenomeni mistici, o da gente che ha scritto cose importanti. È una santità ordinaria, come dice l’esortazione apostolica di papa Francesco sulla santità (Gaudete et Exsultate). Questi martiri ci mostrano la santità della porta accanto alla nostra, molto vicina, nella mitezza, in una vita semplice, umile. E penso che per i giovani il messaggio possa essere: “Come vivere la propria vita come un dono”. Per vivere il mio dono, qualunque sia, devo andare fino in fondo. Nel mondo di oggi i valori cristiani non sono molto di moda e ci vuole una bella perseveranza, una fedeltà molto forte in un contesto in cui tutto va in un’altra direzione.
Il messaggio è quindi di rimanere forti nella fede e non essere ignoranti dell’altro quando egli è diverso. C’è una grande ignoranza tra cristiani e musulmani: non conosciamo bene la loro fede e loro non ci conoscono. In un’epoca in cui siamo tutti in comunicazione con i social, non basta.
Prendo l’esempio di Facebook: scelgo i miei amici e posso buttare via chi non mi piace più. Ma nella vita non è così. Se vivessi così, mi mancherebbe qualcosa. Rimango in un piccolo giro, con persone che mi assomigliano, ma è un cammino di crescita? Piuttosto l’alterità è un cammino di crescita. Guardiamo l’atteggiamento di Gesù nei Vangeli, penso a quello di Giovanni, il modo in cui Gesù va incontro alle persone, non è un messaggio che s’impone, ma c’è, innanzi tutto una relazione che bisogna tessere piano piano, nel quotidiano. Una cosa abbastanza semplice».
I messaggi che si stanno veicolando in Europa e in Usa sono piuttosto quelli della xenofobia, della costruzione di muri per paura dell’altro, dello straniero. Come ci possono aiutare le storie dei 19 martiri?
«Essendo ignoranti di quello che l’altro è, cadiamo facilmente nella paura, quindi ci fermiamo e ci rinchiudiamo e vogliamo costruire delle mura per essere circondati e protetti.
Nella storia dell’umanità, quando i paesi hanno provato a vivere così, a un certo momento sono crollati. L’altro, nella sua diversità, mi aiuta a capire qual è la mia identità, chi sono io, e mi aiuta anche a crescere nella mia fede, a radicarmi. Quando s’incontra qualcuno che ha una fede diversa non si tratta di diventare un altro, si tratta di vedere nell’altro ciò che mi può arricchire nella mia identità e nella mia fede cristiana. È una chiamata a conoscere bene e integrare bene cos’è la fede cristiana, e qual è il messaggio che Gesù ci ha lasciato. Questo è un cammino che ci porta a non costruire barriere tra di noi perché Gesù ci ha chiamati ad amarci gli uni gli altri e ci ha chiesto di amare i nostri nemici. Oggi viviamo in un mondo in cui i politici provano a chiudere le frontiere. Anche nella realtà cattolica avviene questo: alcuni credenti preferiscono rimanere tra di loro. Al contrario, cosa ci chiede il papa dall’inizio del suo pontificato? Di uscire dalle nostre chiese e andare incontro agli altri, andare nelle periferie. Questi martiri hanno vissuto il pontificato di papa Francesco con 20 anni di anticipo».
Guardando all’Africa, vediamo alcuni paesi a maggioranza islamica nei quali la chiesa sta soffrendo. Penso a Niger, Mali, Burkina Faso. Che paragone si può fare con l’Algeria di quegli anni?
«In Algeria era una guerra civile. La chiesa non è mai stata perseguitata, ha sempre fatto parte della società algerina. C’è stato un cambiamento notevole dopo la guerra d’indipendenza (1954-1962, ndr), perché molti cristiani andarono via, lasciando chiese, centri diocesani, opere di carità.
Poi, sotto l’impulso del cardinale Léon-Etienne Duval, la chiesa cattolica decise di diventare una chiesa algerina. L’intuizione del cardinale Duval è stata quella di dire: «Dobbiamo diventare una chiesa dell’amicizia, dell’incontro». I cattolici erano presenti in ambiti che andavano incontro ai bisogni degli algerini, come quello educativo, sociale, sanitario. Anche negli anni ’90 la posizione della chiesa è stata bella, perché durante quel periodo tragico sarebbe stato più facile andarsene, ma molti hanno fatto la scelta di restare, facendo questo cammino interiore, un discernimento per decidere di rimanere fedeli a Cristo, al Vangelo, ma anche all’amato popolo algerino. La chiesa in tanti paesi oggi è una presenza ospite, non più trionfale: una realtà piccola, umile, però sempre aperta. Ma per dialogare bisogna essere in due: o ci troviamo di fronte a persone che hanno il desiderio della condivisione e della costruzione di una fraternità universale, come diceva il padre Charles de Foucauld, oppure ci troviamo di fronte a persone che non vogliono vederci, sentirci, amarci, e che fanno di tutto per farci andare via».
Qual è oggi il senso di vivere come cristiani in terra islamica?
«Può essere diverso a seconda dei paesi. È diverso in Iraq, Siria, dove c’è una persecuzione. C’è gente che vuole azzerare le differenze e tutto deve sparire. Lo abbiamo visto con le statue giganti e le chiese distrutte. Un azzeramento delle diversità.
Inoltre è difficile parlare di un islam, in quanto ci sono tante correnti diverse. Ci sono correnti che non vogliono sentire parlare di violenza e provano a vivere un legame di amicizia con chi è diverso. E ci sono anche i fanatici.
Ammazzano in nome di Dio, ma che Dio portano dentro? Lo fanno davvero in nome della religione o ci sono altri motivi? Nell’islam spesso c’è un misto tra potere temporale e spirituale. In Europa adesso questa commistione non c’è più, ma in passato non è stato così, come ai tempi dei crociati.
Ha un senso essere missionari in questi paesi e portare le presenza di Gesù Cristo in mezzo a popoli diversi, per essere portatori di speranza, in un mondo che non vive nella speranza, ma fa fatica a vedere una via d’uscita. Poi c’è il senso dell’accoglienza che fa parte della fede cristiana, entrare nel volto dell’altro che è un pezzo del volto di Cristo; il prendersi cura delle persone. Tanti missionari hanno dato la loro vita fino in fondo, per rimanere fedeli al popolo a cui erano stati inviati».
Il processo di beatificazione dei 19 martiri è stato piuttosto rapido.
«La rapidità della procedura è significativa. Da parte della Santa Sede c’era il desiderio di mandare avanti la cosa, perché queste storie ci portano su una via diversa da quello che è il dialogo interreligioso. Piuttosto una condivisione di vita, non grandi discorsi teologici. Esperienze semplici e legami di amicizia che si possono tessere nel quotidiano. La causa di beatificazione è stata voluta anche da papa Francesco, ma fin dall’inizio i papi hanno contribuito non poco a diffondere il messaggio. In prima linea c’è stato papa Giovanni Paolo II, che ne ha parlato a lungo durante il suo pontificato e ha fatto rappresentare il priore dei monaci, padre Christian De Chergé su un mosaico nella cappella Redemptoris Mater che è quella del papa in Vaticano. Lo ha fatto fare nel 2000, meno di quattro anni dalla loro morte. Poteva essere rischioso, essere intesa come provocazione. Lui ha deciso di rappresentare questa presenza della chiesa nel mondo musulmano».
Padre Thomas Georgeon è monaco trappista dal 1994. Ha fatto parte del gruppo di trappisti che nel 1998 è tornato in Algeria a quattro anni dal martirio dei sette confratelli, per verificare se c’erano le condizioni per riprendere la vita monastica nel paese. Ma i tempi non erano ancora maturi e l’esperienza si è chiusa nel 2000.
Intanto padre Georgeon ha avuto altri incarichi per il suo ordine, compresa una permanenza di otto anni in Italia. Nel 2013 è diventato postulatore per la causa di beatificazione dei 19 martiri. «Quando mi è stato chiesto dall’arcivescovo di Algeri di essere postulatore mi sono ricordato le parole dell’abate che aveva seguito il tentativo di reinserimento in Algeria. Al mio ritiro, per vari motivi, mi aveva detto: “Vedrai che il tuo dono per l’Algeria e la chiesa algerina un giorno prenderà un’altra forma, che oggi non conosci”».
Marco Bello
I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría
Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.
La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.
Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».
Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.
María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.
In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.
Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?
Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.
Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.
Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.
Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.
Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.
In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.
Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.
Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.
In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.
Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.
È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.
Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.
Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.
Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.
Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.
In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.
Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.
La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.
Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».
Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.
Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».
Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.
E cosa avvenne dopo?
Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.
Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.
Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.
E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.
Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.
Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.
Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.
Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.
La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.
Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.
Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».
Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.
Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.
Don Mario Bandera
Suor Leonella Sgorbati beatificata il 26 maggio 2018 a Piacenza
BEATIFICAZIONE DI SR LEONELLA, MC
Carissime Missionarie e carissimi Missionari,
con profonda gioia vi annunciamo che:
il Santo Padre Francesco ha autorizzato la Beatificazione di Sr. Leonella Sgorbati, MC per il sabato 26 maggio 2018 a Piacenza – Italia!
Ringraziamo il Signore, la Consolata e il Fondatore per questo bellissimo dono alla nostra Famiglia!
Per l’organizzazione di questo importante evento è stata costituita una Commissione di Sorelle in Italia, che insieme a sr Renata Conti MC, postulatrice, porterà avanti le diverse attività e percorsi relativi alla Beatificazione. La Diocesi di Piacenza, Diocesi di origine di sr Leonella, ha dato la sua piena e gioiosa disponibilità a collaborare in tutto e a costituire in loco apposite commissioni per la logistica e le iniziative opportune.
Durante l’Udienza privata del 5 giugno 2017, Papa Francesco così si rivolgeva alle Capitolari MC e ai Capitolari IMC: «La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare i vostri Confratelli e le vostre Consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti e tutte a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa».
Alla luce delle parole del Papa, appare ancor più chiaro che il martirio di suor Leonella è un dono prezioso alla nostra Famiglia e alla Chiesa. Le sue ultime parole sono il testamento di una vita donata fino alla fine. Suor Leonella ha saputo ascoltare lo Spirito, cogliere il “Dono Pasquale” che le veniva offerto e viverlo con intensità e passione, personalmente e comunitariamente fino alla fine, per l’avvento del Regno di Dio, Regno di pace, giustizia e fraternità. Lei stessa scriveva ne l suo diario: «Il mio andare in Somalia è la risposta a una chiamata: tu Padre hai tanto amato la Somalia da donare il Tuo Figlio… e io dico con Lui: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue donato per la salvezza di tutti». E continua: «La missione Somalia è ciò che Tu mi chiedi ora. Ti dono la mia vita in Tutto e per Tutto come Tu desideri… Mi chiami ad amare Te, ad amare le Sorelle, ad amare la gente, i Fratelli dell’Islam… Possiedimi Signore e ama in me… che io sia una cosa sola in te e Tu possa donare la gioia di sentirsi amati da Te».
Viviamo questo tempo di preparazione alla Beatificazione come un “tempo favorevole” per riscoprire la bellezza e la bontà del nostro carisma e rilanciarci con entusiasmo sulle vie della missione, oggi!
In comunione fraterna,
Sr Simona Brambilla, Superiora Generale MC e Stefano Camerlengo, Superiore Generale IMC