Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)




Tondo Manila,

la porta dell’inferno sulla terra

testo e foto di Daniele Romeo |


«Vivere in una discarica, nelle Filippine, è più divertente». Sembra lo slogan di una pubblicità. In realtà è una frase sarcastica popolare tra le migliaia di persone che vivono a Manila in mezzo alla spazzatura. Vivere all’aperto, allevare animali, bambini che giocano e corrono a piedi nudi. Un sogno per molte famiglie. La gente a Tondo Manila ha tutto questo, ma non nel modo in cui lo possiamo immaginare noi nel nostro mondo.

Manila conta 14 milioni di abitanti ed è apparentemente sicura. La polizia presidia tutti i punti nevralgici di una città dove le disuguaglianze sono tangibili ad ogni angolo. Quartieri ricchi e protetti nel perfetto stile delle grandi metropoli asiatiche. Periferie poverissime fatte di baraccopoli, come Tondo Manila, dove vivono gli oltre 4 milioni di squatters della città nella quale oltre il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Privi delle minime condizioni igieniche, di acqua potabile e spesso anche di energia elettrica. In luoghi come Tondo anche il semplice rumore di una motocicletta fa scappare i bambini perché temono l’arrivo della polizia per arrestare o uccidere qualcuno che conoscono.

Qui decine di organizzazioni umanitarie cercano in tutti modi di salvare il crescente numero di bambini di strada che patiscono la fame quotidianamente. Tondo è il più grande distretto di Manila. Una delle aree più densamente popolate del mondo con circa 70mila abitanti per chilometro quadrato. È diventato tristemente famoso per una discarica chiamata Smokey Mountain.

È qui che operano i Missionari Canossiani nella parrocchia di San Paolo Apostolo. Padre Giovanni Gentilin e padre Allan Dizon sono le mie guide nel documentare le condizioni delle persone che vivono in questi luoghi che solo le immagini possono raccontare. Senza il supporto di padre Allan sarebbe impossibile accedere e addentrarsi in quello che sembra essere ancora oggi, nonostante il lavoro di bonifica da parte delle istituzioni, quanto di più vicino all’inferno sulla terra.

The Smokey Mountain

Smokey Mountain, fino a qualche tempo fa, era un mondo al di là di ogni nostra immaginazione. Era una gigantesca montagna di immondizia di circa 50 metri di altezza creata da oltre due milioni di tonnellate di rifiuti.

L’ambiente era proibitivo e inadatto alla vita degli esseri umani. Eppure, tra cumuli di spazzatura e sentieri fangosi che si facevano largo tra le baracche e le fognature a cielo aperto, c’erano scavengers, spazzini, uomini, donne e bambini, scavavano senza sosta con la speranza di trovare tesori da vendere. Aprivano uno a uno i sacchi di rifiuti provenienti dai fast food della città alla disperata ricerca di residui alimentari «integri», da pulire e bollire per essere rivenduti come pagpag alla stessa comunità.

Pagpag significa «scrollare di dosso» e si riferisce all’arte di rimuovere lo sporco e i vermi dal cibo raccolto prima di renderlo nuovamente presentabile per rivenderlo.

Smokey Mountain era diventato lo stigma di Manila tanto da costringere le autorità a spostare la popolazione in altre aree intorno. Il sito è stato ufficialmente chiuso e la discarica, oggi coperta di terra, sembra essere una collina verde, un’oasi in un contesto di cemento. L’area è stata ribattezzata Paradise Heights e vi sono state costruite molte unità abitative. Sulla collina, alcune famiglie vivono e coltivano frutta e verdure e allevano animali. Quasi idilliaco se non fosse per le pessime condizioni in cui versano.

Happyland

Chiusa la discarica di Smokey Mountain, gli scavengers sono finiti a «colonizzare» le discariche vicino al porto, costruite su terra strappata al mare e riempita di spazzatura compattata.

La baraccopoli più grande di Tondo si chiama Happyland, dalla parola locale hapilan che significa spazzatura puzzolente. Happyland è diventata la fotocopia di quello che era la Montagna fumante. Non si sa con certezza quante persone vivano in quest’area, riciclando rifiuti per 2 o 3 dollari al giorno.

Varie Ong private e internazionali lavorano nell’area e anche missionari. Mirano a migliorare le condizioni delle persone nei bassifondi di Happyland. Ma, come mi racconta padre Allan, essendoci migliaia di persone, il loro intervento sembra uno sforzo senza fine. Nonostante questo, i bambini in quelle strade sembrano felici. Corrono scalzi sul «morbido pavimento» fatto di rifiuti, cibo decomposto e persino ratti morti; giocano a nascondino e cercano di godersi l’infanzia. Hanno cani come animali domestici e guardiani, galline per la produzione di uova e carne, e galli da impegnare nei combattimenti (una passione nazionale). Questi bambini sono dei combattenti sin dalla nascita.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it

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Sudafrica: Città di «serie B»

testo e foto di  Alessio Cassaro |


L’eredità dell’apartheid è la segregazione di classe. Nelle township vive confinato il 70% della popolazione di Cape Town. Uno dei problemi sono i bambini in stato di abbandono. A Marikana, Leonard cerca di recuperarne alcuni.

La bellezza di Cape Town e la sua popolosità sono un biglietto da visita importante per quella che, nel 2018, è stata eletta come la città da visitare più interessante al mondo. Numerose sono le attrazioni che portano milioni di visitatori ogni anno: dalle istituzioni accademiche al fermento artistico, passando per le Winelands («Terre dei vini») famose in tutto il mondo, alle immense bellezze naturalistiche, la città è diventata un punto nevralgico del continente.

La gigantesca metropoli di Western Cape, la più grande della sua provincia, non si sottrae però a contraddizioni vive e spesso esasperanti.

L’altro lato della facciata patinata, fatta di cocktail bar e di uno stile di vita glamour, è infatti rappresentato dalle township (baraccopoli) che circondano la città in cui milioni di persone (in tutto il Sudafrica complessivamente sono più di 47 milioni) vivono ancora in un stato di segregazione socio economica totale, a dispetto della fine dell’apartheid.

Classismo e razzismo

Fu proprio l’apartheid che deportò intere comunità di «non white» (non bianchi) ai margini della città (per favorire l’installazione dei bianchi) e della società stessa. Oggi si è passati dal razzismo al classismo mantenendo le pratiche discriminatorie di prima. Il costo proibitivo delle abitazioni e l’alto tasso di disoccupazione (50% nelle township, 27% nel Sudafrica) non sono però gli unici fattori che determinano questo confinamento. I legami/obblighi con la comunità sono talmente vincolanti che anche i più abbienti si preoccupano di non lasciare nessuno indietro, occupandosi gli uni degli altri per far fronte al totale disinteresse del governo e per evitare il diffondersi di droga e criminalità.

Le township (chiamate anche The zones) distano circa 30 minuti dalla parte moderna di Cape Town. Passando da un’area all’altra si percepisce un netto contrasto con la zona dei grattacieli e dei quartieri post coloniali. Si attraversano strade ad alta percorrenza dove il panorama assume gradualmente i contorni metallici di baracche fatiscenti immerse in una giungla di cavi, travi e materiali di fortuna che si estende a perdita d’occhio.

Le zones sono più di 30 e ospitano circa il 70% dei residenti di Cape Town (4,5 milioni in totale). Sono collegate con la città, non tramite mezzi pubblici, ma con shuttle privati, che si occupano di trasportare masse enormi di persone ogni giorno. Furgoncini da circa 20 posti sfrecciano pericolosamente per le strade. Hanno punti di fermata precisi, ma essendo gestiti molto alla buona, sono soliti fare deviazioni su richiesta o caricare passeggeri, quando non sono già pieni, direttamente in strada. Il prezzo medio va dai 15 ai 25 rand (da 0,80 a 1,50 cent di euro circa) e i soldi vengono solitamente raccolti da un passeggero volontario che si occupa di contarli e consegnarli al conducente mentre questi passa da una corsia all’altra per velocizzare il percorso.

Township di «serie A» e «serie B»

Negli anni, il sistema chiuso e autoreferenziale delle township ha fatto sì che, anche all’interno della rete di baraccopoli, si sviluppasse una sorta di gerarchia e prestigio che ha portato al riconoscimento governativo solo di alcuni insediamenti. Si tratta in particolare di zone che hanno ricevuto l’attenzione del turismo di massa e per le quali oggi lo stato garantisce servizi sociali di base. Se la situazione di tutte le township è drammatica, per le comunità che non hanno richiamato l’interesse dei turisti è ancora più critica. Il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni implica infatti un completo stato di abbandono e oblio. Sono luoghi in cui il futuro è difficile da immaginare e la popolazione vive una lotta estenuante per sopravvivere al presente.

Questi cittadini di serie B sono completamente ignorati dallo stato e dai connazionali nonostante i quartieri che loro abitano sorgano in zone cruciali per la vita del paese.

Marikana

La township «Marikana Informal Settlement» è un agglomerato urbano che si espande in prossimità dell’aeroporto di Città del Capo e che rappresenta una delle zone più povere di Philippi East.

Nella zona di Marikana abitano 60mila persone tra cui moltissimi bambini in «stato di abbandono». Non esistono scuole nel raggio di 7 km e l’unico supporto è dato da organizzazioni locali che cercano di fornire una scolarizzazione di base per sottrarre i bambini all’arruolamento da parte della criminalità organizzata.

Leonard, abitante di Marikana, che gestisce una delle poche organizzazioni, spiega: «Quello che provo a fare è gettare le basi dell’educazione e istruzione, in modo che un giorno possano trovare un lavoro dignitoso, comprare una casa alla madre e forse un giorno lasciare questa comunità. L’anno scorso siamo riusciti a preparare 23 bambini per fare iniziare loro la scuola. Queste vogliono certificati dei genitori, certificati di salute dei bambini. È molto importante anche sviluppare abilità manuali, con le quali puoi trovare un lavoro, o comunque arrangiarti. A volte è anche più utile, perché spesso le persone studiano, ma poi non trovano lavoro, allora tornano a studiare, ma poi rischiano di essere troppo qualificate».

La vita della popolazione si svolge all’interno di baracche chiamate shack: qualsiasi tipo di esercizio o abitazione ha questa tipologia di «architettura», costituita per lo più da lamiere, un materiale pregiato rispetto ad altri di fortuna, quali cartoni, plastica, tronchi. Questi edifici arrangiati sono particolarmente vulnerabili alle inondazioni e non rappresentano una soluzione abitativa stabile, mettendo continuamente a rischio la vita e la salute degli abitanti. È singolare, a tal proposito, riscontrare come l’utilizzo di questo materiale venga oggi assimilato alla tradizione e pertanto si possa ritrovare, ad esempio, come elemento decorativo dei bar alla moda cittadini.

Attraversando queste baraccopoli notiamo che le case di lamiera si arrampicano l’una sull’altra, mentre l’acciaio dà un riflesso particolare alle strade polverose. I sentieri di terra battuta e i percorsi non asfaltati si estendono per chilometri in un labirinto di vie sempre a rischio di allagamenti alle prime piogge. Quando ciò accade, qualcuno si preoccupa di scaricare massi enormi in mezzo la strada che a loro volta vengono picconati per riempire le pozze, nel tentativo di rimediare ai danni creati dalla pioggia.

Acqua e fognature

La mancanza di un sistema idrico adeguato obbliga le famiglie a utilizzare i rubinetti in comune, in quanto le zone sono poco servite. Donne e bambine, adempiendo a parte del proprio compito all’interno della comunità, si occupano di reperire l’acqua. Questo significa percorrere un tragitto giornaliero di diversi chilometri ed essere obbligate a lunghe code davanti alle poche fonti nonché al carico di grossi pesi.

Connessa alla problematica dell’approvvigionamento idrico è la questione del sistema fognario: le township, infatti, mancano quasi totalmente di servizi igienici e questa mancanza costringe i residenti a raccogliere le proprie evacuazioni in secchi depositati in strada che verranno raccolti e svuotati in un secondo momento nel sistema fognario più vicino il quale, solitamente, dista chilometri. Questi secchi vengono poi puliti e riconsegnati nel punto dove sono stati prelevati.

Inutile specificare come tale pratica esponga la popolazione al rischio di contaminazione e malattie.

Ma, oltre che dal rischio infettivo, la vita dei cittadini sudafricani è messa in pericolo anche da una moltitudine di incidenti che avvengono continuamente per la mancanza di sicurezza sia in strada che nelle case.

Camminando nella township si notano infatti impianti «fai da te» e sistemi illegali per sottrarre l’elettricità che lo stato non concede a un prezzo sostenibile e che pochi possono permettersi. L’alto rischio elettrico in un sistema abitativo fatto di materiali infiammabili e potenzialmente tossici, ha generato nel tempo diversi incendi – complice anche il vento – in cui in molti hanno perso la vita.

Township, Città del Capo. Foto Alessio Cassaro

L’unica casa

Nonostante le condizioni di vita al limite però, le township rappresentano l’unico luogo da poter chiamare casa, in cui si è riconosciuti dal prossimo.

Leonard: «Ho iniziato questo in un piccolo shack. Poteva starci solo la cucina, ma poi con il supporto della gente siamo cresciuti, non prendiamo nessun aiuto dal governo, nessun sussidio, dobbiamo spendere tutti i soldi dei nostri portafogli, voi siete venuti a darci una mano e avete nutrito 120 bambini, vi siamo grati del vostro aiuto».

L’interesse mediatico per queste zone ha leggermente migliorato le condizioni di alcune aree, ma ancora una volta sono le organizzazioni umanitarie ad aver fatto maggiormente la differenza in un territorio dove i segni dell’apartheid sono ancora visibili, ma che è in cerca di un riscatto per le generazioni future e sogna il superamento delle differenze razziali radicate nell’antropologia urbanistica del paese.

Alessio Cassaro

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Alessio Cassaro, nato a Genova nel 1987, graphic designer con passione per la fotografia e i viaggi

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Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Quando si sgomberano i poveri invece della povertà


Capita spesso di sentire parlare di Rom, quasi sempre con toni violenti e, non a caso, in modo più marcato durante le campagne elettorali. Capita raramente, invece, di imbattersi in informazioni ragionate sui Rom, ancora più raramente di sentire parlare i Rom stessi.

Se ne parla, ma non se ne sa quasi nulla. Si spendono milioni di euro ogni anno (almeno 15 nel 2017) per risolvere l’emergenza abitativa in cui molti di loro vivono, ma il problema rimane. Si firmano strategie nazionali (quella del 2012 stabiliva l’obiettivo di «superare – non abbattere senza altro criterio se non quello punitivo e propagandistico – i campi Rom» entro il 2020 avviando processi d’inclusione sociale) e si prosegue con pratiche sbrigative e irrispettose della dignità delle persone.

In Italia si stima ci siano tra i 120mila e i 180mila rom, sinti e camminanti: la maggior parte di loro sono bambini, quasi la metà hanno cittadinanza italiana. Sul numero complessivo di rom presenti nel paese, quelli che vivono nei cosiddetti «campi» sono 26mila, e di questi, quelli effettivamente «nomadi» sono solo il 3%. È da sottolineare che i campi sono stati creati dalle stesse istituzioni che oggi effettuano gli sgomberi, non dai rom i quali si trovano spesso a vivere in essi in condizioni degradanti, di segregazione e senza alternative.

Secondo Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, inoltre, si deve tenere conto che i rom non sono costretti a vivere solo nelle baraccopoli formali, ma anche in quelle informali, ancora più insicure: «Le prime, abitate da circa 16.400 individui, sono 148, disseminate in 87 Comuni. Il 55% dei rom in emergenza abitativa ha meno di 18 anni e la loro aspettativa di vita è di dieci anni inferiore a quella della popolazione italiana. Centinaia sono invece i micro insediamenti (300 nella sola Capitale) abitati da meno di diecimila persone residenti principalmente nelle periferie delle grandi città». I micro insediamenti, come sottolinea la Caritas Ambrosiana riferendosi alla realtà lombarda, nascono spesso per evitare il trauma periodico dello sgombero: «Per evitare gli sgomberi, i rom hanno imparato a nascondersi. Abbandonati i grandi campi, si sono distribuiti sul territorio, occupando le aree marginali. Li si trova sotto i ponti, lungo le autostrade, sulle alzaie dei navigli, accanto ai binari della ferrovia, ai bordi di un campo agricolo, accanto a una discarica. Si riuniscono in piccoli gruppi di 15 massimo 30 persone, appartenenti alla stessa famiglia o a famiglie imparentate tra loro».

L’8 aprile si celebra la «giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti». Come ogni anno, l’auspicio è quello che il nostro paese trovi finalmente il coraggio di sgomberare la povertà piuttosto che i poveri.

Luca Lorusso