Haiti. Lo Stato «bandito»


Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.

«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.

«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».

Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.

«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».

In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».

Trenta mesi disastrosi

Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.

Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).

Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.

Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.

Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.

La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.

Accelerazione

Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.

La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.

Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.

Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.

In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.

Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.

Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.

Chi tira le fila

Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.

Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.

Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».

I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.

«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».

Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».

L’ultima speranza

Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.

«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».

Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».

L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.

Marco Bello


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Persone e famiglie in fuga dalla trovano rifugio nel cortile della scuola dei Vincenziani a violenza  Port-au-Prince, Haiti, 30 agosto 2023. (Photo by Richard PIERRIN / AFP)

Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana

Il «pane» della guerra

Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.

Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.

I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.

I fattori ambientali

Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.

Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.

La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.

In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.

Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.

Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.

Armi e munizioni

Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).

La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.

Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.

Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.

Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.

Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.

Droga

Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.

La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.

La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.

L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.

L’anello debole

La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.

È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.

Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.

Ma.Bel.

(Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

 




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014