Ascoltare con il cuore nell’orecchio


A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.

Succede anche nel campo più specifico dell’informazione: stampa, radio, Tv, siti web e social, fino a ieri erano dominati dal Covid-19, da fine febbraio, invece, dalla tragedia dell’Ucraina. Un tale diluvio di notizie ha una conseguenza: l’assuefazione al peggio e il disinteresse verso altri drammi, altrettanto e, a volte, più gravi.

Ecco allora perché è importante – come scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata – porre l’attenzione sul verbo «“ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Senza un vero ascolto rischiamo di perdere la visione globale e di concentrarci solo su quanto ci tocca «hic et nunc», qui e ora, facendo diventare quel problema l’unico e il più importante. Senza un vero ascolto, sentiamo solo quello che ci tocca da vicino, disinteressandoci del resto del mondo, come se non fosse il «nostro mondo».

Questo «disinteresse» si può quantificare. Ricordo un esercizio semplice di quando feci la scuola di giornalismo: cronometrare per una settimana il tempo dato alle singole notizie nei telegiornali. Lo facessi oggi, a parte l’Ucraina, raccontata con un pathos che tende a spingere l’opinione pubblica a non vedere alternative al riarmo, e qualche necessaria coda sul Covid-19, probabilmente non registrerei quasi niente riguardo alla Siria, con i suoi milioni di profughi (resi quasi invisibili), le drammatiche distruzioni di città e gli eccidi. Pochi minuti andrebbero al Libano, e niente allo Yemen di cui parlano solo i ripetuti appelli di Amnesty international, Amref o Medici senza frontiere. È sparito anche l’Afghanistan che pure l’estate scorsa per qualche settimana è stato al centro di tutti i notiziari. Poi, chi parla di Somalia, Mozambico, Sudan, Etiopia, Centrafrica, Congo Rd, Nigeria, Burkina Faso, Niger? Mai sentito parlare di ciò che succede in Venezuela, Colombia, Messico, Nicaragua? Quanti secondi sono stati dati al terremoto di Haiti dello scorso agosto? Qualcuno dedica tempo alla siccità che attanaglia molti paesi del Sud del mondo e alla fame che ne consegue? E questi sono solo alcuni degli esempi possibili.

Il recente viaggio di papa Francesco a Malta, ha messo in rilievo un’altra difficoltà di ascolto del nostro mondo, e non solo quello dei media: quella verso i migranti che attraversano il Mare nostrum, affogati, respinti o mal accolti.

Di fronte a tutto questo, ecco l’importanza di un ascolto vero. Un ascolto che non sia un semplice origliare, che sia antidoto al parlarsi addosso, che non si preoccupi degli «indici di ascolto», che non cerchi conferma di quanto già si sa, ma impari a discernere la verità, sia rispettoso della persona, favorisca l’incontro e la comprensione reciproca, diventi vero dialogo, trovi l’intuizione di strade diverse da proporre.

«L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza». E non solo per il buon giornalismo, ma per la vita di tutti i giorni.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


La sofferenza dei bambini

Leggo sempre con interesse il vostro giornale, uno dei pochi che spaziano su tutto il mondo. Congratulandomi per il vostro lavoro vi invio queste poche riflessioni. Tutti noi abbiamo grande venerazione per il Santo Padre, un po’ di tristezza però domenica sera in Tv quando, alla domanda di Fazio sulla sofferenza dei bambini innocenti, il papa non ha puntato il dito contro la cattiveria degli adulti ma si è limitato a dire che non ne sapeva la causa, non aveva una spiegazione. Non è per fare i saccenti ma tantissime volte la sofferenza dei bimbi è causata dalla cattiveria di noi adulti. Bimbi che si ammalano per l’inquinamento causato dai grandi con la loro sete di guadagno eccessivo. Il denaro, i privilegi, il successo ai primi posti per cui cibo avariato venduto ugualmente con la conseguenza che mangiamo sovente alimenti dannosi per la salute specie dei piccoli indifesi. Aria inquinata, rifiuti tossici sversati ovunque, radioattività eccessiva. Tantissime altre volte i bimbi soffrono sempre per colpa dei grandi, per la loro cattiveria sotto forma di ingiustizie sociali o per violenze fisiche subite. Come si fa a dare la colpa a Dio se siamo noi adulti a causare più o meno indirettamente tali sofferenze? Un mafioso che, sparando a un altro mafioso, uccide per sbaglio un bimbo di passaggio è forse colpa del cielo o non piuttosto della cattiveria del mafioso che voleva uccidere? Come si fa a dare la colpa al cielo se un bimbo nasce malato quando siamo noi che inquiniamo e trattiamo male, con egoismo e cattiveria una mamma incinta? Si sente pure parlare di ragazze obbligate a prostituirsi anche durante la gravidanza senza rispetto né per la mamma né tantomeno per il nascituro. Poi ci si scandalizza della sofferenza degli innocenti, quando siamo noi adulti a causare tale dolore con sopraffazioni tra noi, cattiverie che si riversano sui bimbi, gelosie, invidie in famiglie. Bimbi che vivono con genitori che litigano in continuazione per i loro capricci e volontà di supremazia. Tantissime volte la cattiveria dei grandi ricade più o meno indirettamente sui bimbi innocenti. Siamo noi adulti che ci comportiamo male con orgoglio e presunzione di poter fare a meno degli insegnamenti del Vangelo e poi ci lamentiamo. Cordiali saluti

E. B.
email del 23/02/2022

Gentile E.,
pubblico volentieri la sua sul dolore dei bambini, senza però condividere la sua amarezza per la mancata risposta del papa. In realtà molte situazioni di sofferenza dei bambini non hanno una spiegazione e, probabilmente, come per la sofferenza degli adulti e degli anziani, dobbiamo accettare la finitezza, il limite insito nella nostra natura di uomini.

Non so lei, ma con questa realtà ho avuto a che fare fin dalla mia infanzia, andando con i miei genitori alla tomba della mia prima sorella, morta in 12 ore a sette mesi, mentre io ero ancora nella pancia di mia madre. Credo che il dolore provato da mia madre in quel momento abbia segnato la mia vita senza una spiegazione.

Ma tutto quello che dice circa la nostra responsabilità nel moltiplicare le sofferenze dei bambini – e non solo a loro -, è vero. Quanto sta succedendo in questi giorni in Ucraina ne è una prova evidente, così come l’incredibile numero di aborti fatti ogni anno nel mondo. Sono già oltre 7 milioni nei soli mesi di gennaio e febbraio 2022. Non sono pulci, ma bambini. Senza contare la sofferenza delle madri che non viene cancellata anche se – come qualcuno propone – l’aborto diventa un diritto.

Oggettivamente non ho risposte esaustive da dare sulle cause della sofferenza dei bambini «innocenti» – ce ne sono di colpevoli? -. Cerco anche di capire e approfondire le cause di tanto male, senza però farmi schiacciare dell’enormità dei problemi o diventare maestro nel blame game (il «gioco del biasimare», dare la colpa). È vero, sono urgenti anche prese di posizione a livello internazionale, ma, come fanno tanti miei confratelli nei paesi dove sono missionari, la prima cosa è che ciascuno faccia la sua parte facendosi carico di quei bambini che incontra con la vicinanza, la cura, l’attenzione, la tenerezza. In fondo solo l’amore può essere una risposta vera al dolore.

Sta a noi, con i nostri atteggiamenti, diventare alternativa d’amore alla cattiveria, senza aspettare grandi soluzioni, ma diventando prossimi per le persone, piccole e grandi, che incontriamo sulla nostra strada.

 


L’amico di Tura ci ha lasciato

Domenica 6 febbraio, puntuale come ogni settimana, da Tura, nella diocesi di Singida in Tanzania, padre Remo Villa ha mandato il suo solito cocktail di notizie e foto agli amici.

«Buona sera a tutti voi, Tura Friends. Oggi c’è questa barca che ci aspetta. Anche se quasi piena, il barcaiolo si è reso disponibile a fare la spola fino a che tutti i Tura Friends non siano arrivati a destinazione. Quindi mettiamoci in fila pazientemente.

Oggi, domenica, partenza alle otto e ritorno alle sei e mezzo, con il buio in arrivo, per la messa alla comunità di Loya, la più lontana ma senz’altro la più vivace.

Con la strada che comincia ad avere problemi, anche se siamo solo all’inizio delle piogge. Ma inserendo le 4 ruote motrici, diventa quasi una strada asfaltata.

Chiesa piena con tanti bambini, e la gente attenta dall’inizio alla fine della celebrazione.

Alex, il giovane catechista, è l’anima della comunità, con iniziative che spronano tutti a guardare sempre avanti. Ed in questo è affiancato da un vivace comitato di leader.

I preparativi per la costruzione della chiesa continuano: ogni domenica parte dei mattoni vengono avvicinati alla zona dove verrà edificata la nuova chiesa. Ci sono già cinque camionate di sabbia sul posto. L’ultima colletta ha fruttato più di una tonnellata di cemento. E oggi ho suggerito di far partecipare a questo sforzo anche i molti cristiani originari di Loya, ma che ora vivono – e molti di loro hanno fatto fortuna – in varie città del Tanzania. Proposta accettata e che verrà realizzata al più presto.

“Mattone su mattone”, cantavamo, quando una quarantina di anni fa mi trovavo a Santa Maria a Mare, in quel di Fermo (Ap).

Haba na haba hujaza kibaba, diciamo in swahili. Una goccia dopo l’altra riempiono il bicchiere.

Dopo un buon pranzo a casa di un maestro, una visita veloce al fiume il cui greto, in una delle ultime visite, avevo attraversato con la macchina.

Oggi almeno un metro e mezzo di acqua, dalla corrente veloce, solcata solo da qualche piccola barca per il trasporto di persone e di cose.

Tre settimane fa, come vi avevo accennato, hanno riaperto le scuole e, quindi, anche la nostra St. Raphael Primary school.

Ogni giorno vi è qualche nuovo arrivo, e anche oggi, domenica, due ragazzi si sono aggiunti. In totale, fino ad oggi, sono una settantina, una trentina dei quali vivono nel collegio provvisorio in attesa di poter iniziare la costruzione, ampia e funzionale come si deve, all’interno del terreno della scuola non appena saranno risolti i problemi di occupazione abusiva di gran parte dell’area».

Domenica 13 febbraio non arriva il solito messaggio. Allarme tra gli amici. Il 14, ne arriva uno breve breve:

«Ciao Tura Friends.
Alcuni amici mi chiedono se va tutto bene, dal momento che ieri il nostro appuntamento è saltato.
Causa di una forte malaria che mi ha preso ieri durante la seconda messa. Solo ora mi sento un po’ meglio.
Buon pomeriggio».

È stato l’ultimo messaggio. Domenica 20, alle 21.45, infatti, è arrivata una email dalla nostra segreteria generale di Roma: «Morte di padre Remo Villa».

Ho pianto. Se potete, tornate a vedere la foto in bianco e nero di pagina 68 del numero scorso. Remo è il primo a destra. Era il terzo giorno del nostro anno di noviziato. Compagno, amico, fratello di una vita. Liceo insieme, noviziato, divisi per teologia, lui a Roma e io a Torino, gli ho fatto da fotografo per la sua ordinazione al paese, Mori (Tn).
Uniti poi nel progetto di animazione missionaria e nel creare la rivista Amico, che nasceva dalla collaborazione tra noi (allora) giovani animatori. Quanta passione, quanti sogni. Per lui è stata fondamentale l’esperienza nel casale di Santa Maria a Mare e il contatto con la chiesa di Fermo.

Poi, nel 1981, parte, prima per Londra e poi per il Tanzania, dove arriva nel 1982 e rimane fino alla morte, 40 anni. Nel 2019 ha fatto la scelta che ha pagato con la vita. Una scelta difficile e dolorosa. Il Signore l’ha portato a Tura, dove non c’era niente ed è andato a vivere in una casetta in affitto. Tura è una missione nuova in uno dei territori più poveri di tutto il Tanzania. Qui ha cominciato con coraggio e creatività, senza risparmiarsi. Neppure il Covid lo ha fermato. L’ha fermato invece la malaria.
Ora è sepolto a Tosamaganga, nel cimitero di tanti Missionari della Consolata. Riposa in pace, Remo, e dal cielo continua a proteggere la tua gente di Tura.

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Acqua in bocca

Dopo un lungo lavoro, ha visto la luce Acqua in bocca. Storia di fratel Peppino Argese, libro di 320 pagine di testo e 48 di foto. Il testo è di Annalisa Vandelli che si è digerita una grande mole di appunti e documenti editi e inediti, ha ascoltato testimonianze, ha visitato i luoghi, ha avuto accesso ai diari del «protagonista».

Le foto sono state selezionate, tra migliaia, da padre Gigi Anataloni che ha avuto la grazia di conoscere (e fotografare, una volta in Kenya) il Silenzioso, «Mukiri», fin dai primi anni ’70.

«Acqua in bocca» è un libro intenso come una vita, eloquente come una storia d’amore, appassionante come la scalata di un monte che fa scoprire un nuovo mondo, appagante come un’opera d’arte, vero come può esserlo solo una vita vissuta nella gioia e nel dolore, tra sorrisi e lacrime, tra fatica e amicizia, nella povertà che diventa donare tutto. Il libro realizza il sogno di padre Adolfo De Col, un 94enne dal cuore giovane e innamorato del suo Meru, dove ha trascorso gli anni più belli della sua vita.

Se per caso qualcuno non sapesse chi è Mukiri, qui ha la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il suo impegno nel fare bene il bene e soprattutto nel dare acqua a migliaia di assetati andandola a cercare nelle viscere del monte Nyambene e nel cuore della foresta pluviale che lo ricopre, con il massimo rispetto dell’ambiente e l’utilizzo di tecniche non invasive.

L’opera di fratel Argese è stata possibile sia grazie all’impegno nella continua ricerca e studio di tecnologie e soluzioni innovative, sia grazie all’aiuto di tanti amici per i quali i fatti sono stati più importanti delle parole, ma soprattutto grazie a una fede incrollabile nel Figlio di Dio, al servizio del quale Mukiri ha dato la sua vita.

Potete richiedere il libro al nostro indirizzo spedizioni@missioniconsolataonlus.it Gradita un’offerta di € 20 tramite il nostro ccp o Pay Pal.


Padre Giovanni Dutto

La mattina del 10 febbraio 2022, nel pieno della notte, padre Giovanni ha ricevuto l’ultima chiamata. Il tempo di una richiesta d’aiuto ai confratelli e di un’ultima benedizione, ed era nella casa di Colui per cui ha vissuto la sua vita e la sua passione missionaria. Padre Giovanni, classe 1930, ha formato generazioni di missionari e gente comune all’amore per la preghiera, l’Eucarestia, la Parola di Dio e la missione. Due volte missionario in Kenya (1968-1970 e 2007-2011), dieci anni a Dublino (1976-1986), quindici come visitatore missionario dei seminari italiani (1986-2001), cinque come animatore a Torino e Rivoli. Dal 2011 era Fossano (Cn), da dove, in collaborazione con la diocesi di Alba, ha lavorato molto per far conoscere la figura di padre Paolo Tablino..


 




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Venuta da lontano

testo di Marco Bello |


Nel cuore di Taipei opera, da 60 anni un centro che assiste bambini in difficoltà e famiglie in crisi. Il gruppo di cristiani che lo gestisce ha deciso di rilanciarlo, con una nuova struttura e una nuova visione. E ha chiamato una direttrice particolare.

La missionaria inglese Gladys Aylward (abbiamo raccontato la sua storia su MC ottobre 2021), dopo aver lasciato la Cina continentale nel 1949, avrebbe voluto tornarci nel 1957, ma si era vista rifiutare l’ingresso, nonostante fosse naturalizzata cinese. Si era quindi recata a Hong Kong, dove aveva lavorato per assistere i rifugiati cinesi, che in gran numero fuggivano dalla guerra civile, fondando con altri la Hope Mission.

Gladys si spostò poi a Taiwan (Formosa), dove nel 1949 il leader nazionalista Chang Kai-shek, in guerra con i comunisti di Mao, aveva ripiegato con le sue truppe, per quella che pensava sarebbe stata una ritirata temporanea. E invece sarebbe diventata la Repubblica di Cina, ancora oggi contestata dalla Repubblica popolare cinese.

«Non rimasi ad Hong Kong. Ancora una volta credevo di dover fare un passo successivo, e andai a Formosa. Ancora una volta, non sapevo perché vi stavo andando. Ma sapevo che era quello che dovevo fare», scrisse in seguito Gladys Aylward.

A Taipei (la capitale), dopo aver iniziato ad accogliere bambini orfani in un hotel che aveva preso in affitto nella zona di Beitou, Gladys Aylward venne aiutata dalla Ong statunitense World Vision ad acquisire un terreno nella zona di Muzha (1959). Lì iniziò la costruzione di un centro per bambini, chiamato Bethany nursey school.

Galdys morì il 3 gennaio 1970, ma i suoi collaboratori portarono avanti il progetto. Così, quello che dal 2010 venne rinominato Bethany children’s home (Bch), ha festeggiato i suoi primi 60 anni nel 2019 e continua a operare.

La chiamata

Ma sono tempi di grandi novità per l’opera fondata da Gladys Aylward. Da qualche anno erano iniziati i lavori per un nuovo edificio che corrisponde anche a una nuova «vision». Inoltre, nei primi mesi del 2020 da Taipei parte una telefonata, per l’altra parte del pianeta, che raggiunge Sharon Chiang a Seattle, negli Stati Uniti.

«Attraversavo un periodo di riflessione. Avevo passato la cinquantina e da venti anni lavoravo nella pastorale delle famiglie e dei bambini, per la Evangelical chinese church di Seattle (Ecc). Non avrei avuto altri vent’anni per lo stesso servizio, e volevo fare chiarezza sulla mia personale missione, per non avere rimpianti alla fine della vita». Ci racconta Sharon Chiang. La incontriamo tramite una piattaforma online: un viso solare, nel quale anche gli occhi sembrano sorridere dietro gli spessi occhiali.

«Avevo sempre cercato di mettere insieme i concetti di benessere dei bambini e relazioni famigliari, molto legati tra loro, ma non sempre presi in considerazione in modo olistico. Mi era chiaro che, per il resto della mia vita, le mie priorità erano tre: la formazione degli insegnanti dei bambini, le relazioni famigliari e il recupero delle coppie di genitori che entrano in conflitto. Perché i divorzi nel mondo sono sempre più frequenti, e i bambini sono le principali vittime delle separazioni».

Sharon è originaria di Taiwan, e dopo la laurea in educazione infantile, nel 1991, ha avuto la possibilità di trasferirsi a Seattle per continuare la sua formazione in «educazione e relazioni famigliari». Ha poi fatto un master sugli stessi temi e ha iniziato a lavorare per la Ecc. Infine, anni dopo, ha conseguito un dottorato sulle stesse tematiche: «Non avrei mai pensato di fare un dottorato, pensavo fossero studi per gente intelligente. L’ho fatto per approfondire con una ricerca il mio lavoro sul campo», ci confida con modestia.

Poi arriva la telefonata di un suo ex capo da Taipei: le chiede di prendere la direzione del Bethany children’s home, che sta passando un periodo complicato.

Dopo trent’anni di vita a Seattle, un marito violinista nella filarmonica locale, la scelta non è facile: «Ho pensato alle mie capacità, le mie conoscenze, e valutato se sarei stata all’altezza. Non conoscevo nulla sulla direzione di organizzazioni. Inoltre il Bethany (così chiama famigliarmente il centro, ndr) aveva un nuovo palazzo, molto bello, che avrebbe potuto portare la gente a pensare “siete molto ricchi”, mentre invece era indebitato. E come si poteva fare raccolta fondi in quella situazione? Queste erano le sfide maggiori che mi hanno fatto esitare. Infine, penso che Dio mi abbia toccato: Lui sarebbe stato con me, mi avrebbe aiutato. Quindi, anche se sarebbe stata una grande sfida, una grande responsabilità, un grande cambiamento, dentro di me mi sentivo davvero in pace. Ho pensato di andare avanti, e siamo partiti per Taiwan».

E continua: «Poi ho imparato di più su Bethany, ho letto sulla fondatrice, Gladys Aylward. Ho pensato di essere privilegiata di avere questo incarico, perché, posso immaginare, per lei la missione fu molto difficile. Passò attraverso esperienze molto dure, nella Cina continentale. Ma anche a Taiwan, quando arrivò, era un momento storico complesso, c’era molta povertà, la gente non aveva risorse né servizi, c’erano molti orfani, e nessun fondo per aiutarli».

Famiglie in accoglienza

La direttrice ci spiega quali sono le attività che attualmente si svolgono al Bethany.

L’attività principale è l’assistenza famigliare dei bambini svantaggiati utilizzando un modello casa-famiglia residenziale. Questo avviene con coppie, che sono residenti nella struttura (il nuovo palazzo ha una serie di alloggi, ndr) e accolgono dai quattro ai sei bambini in difficoltà. Alcune coppie hanno i propri figli, per cui ne prendono di meno in accudimento, altre no e quindi ne accolgono anche sei. Uno dei membri della coppia è salariato e fa parte dello staff di Bethany.

«Nel modello di cura famigliare facciamo venire una coppia cristiana e le affidiamo alcuni bambini. Sono piccoli che magari non hanno mai avuto una famiglia o genitori che si occupano di loro. Più conosco questo modello, più mi sembra un sistema perfetto. Con esso ogni famiglia vive nella struttura, per cui ogni membro del nostro team può andare in loro appoggio rapidamente. Abbiamo professionisti dei diversi settori per seguire i casi uno per uno, e in maniera costante e ravvicinata».

Alcuni bimbi hanno gravi disabilità: «Sono bambini abbandonati e abusati, fisicamente, emotivamente. Ci sono anche orfani, cosa molto triste, ma il peggio sono quelli abbandonati. E dobbiamo fare attenzione quando c’è combinazione multipla di disabilità. Visiva, motoria, di apprendimento. Altri sembrano stare bene, ma hanno subito dei traumi, quindi sono emozionalmente complessi. Il 75% dei nostri bambini hanno bisogni speciali, il che vuol dire anche problemi mentali, emotivi, ecc. È una grande sfida».

La struttura attualmente accoglie 25 bambini, ospitati da sei nuclei famigliari, ma la capienza massima è di settanta minori.

«Siamo pronti a ospitare più bambini, perché con la nuova struttura abbiamo gli spazi, ma dobbiamo comprare i mobili per sistemare gli alloggi». Inoltre ci sono problemi di costi, perché più famiglie vuol dire più staff da pagare, oltre al cibo e le normali spese di funzionamento.

Viene da pensare a Gladys Aylward, quando negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, nel Nord della Cina, accoglieva bambini abbandonati, e faceva praticamente da mamma a tutti, senza disponibilità di fondi. Arrivò fino a un centinaio. Ma ovviamente erano altri tempi.

Formazione e recupero

Un secondo aspetto delle attività del Bethany è il counseling per bambini e giovani. Gli esperti dello staff seguono bimbi e ragazzi esterni al centro, sia di persona che tramite piattaforme online.

Inoltre, fondamentale per Sharon, c’è la formazione di insegnanti, soprattutto della scuola primaria, sulla pastorale dei bambini: «Occorre parlare loro di Gesù fin da piccoli, questo può influire molto sulla crescita». Il Bethany è anche un centro di formazione, con spazi per incontri in presenza, anche residenziali, ma oggi realizza una serie di corsi online. «Molti hanno chiuso le loro formazioni a causa della pandemia, ma c’è necessità di questo servizio. Noi abbiamo aperto una classe con 300 partecipanti a distanza, servendo diverse aree del paese e anche l’estero. Si tratta di una piattaforma per la formazione di insegnanti. È in cinese, ma che potremo farlo anche in inglese.

Un’altra attività è la sensibilizzazione di bambini, giovani e famiglie marginali.

Poi c’è il cosiddetto recupero di coppie in crisi: «Abbiamo inoltre spazi per accogliere coppie che vogliono fare un ritiro, nell’ottica di migliorare le relazioni famigliari. Lo scorso maggio era previsto un incontro per famiglie, ma a causa della pandemia, abbiamo dovuto rinviarlo».

Infine, c’è una parte di pastorale. «Vogliamo essere un centro missionario per bambini e famiglie. Abbiamo un settore specifico su questo, e una zona della struttura che si chiama “vieni”, come Gesù ci ha detto “venite a me, seguitemi”».

Organizzazione

Il Bethany è organizzato in settori, quelli operativi relativi a ciascuna attività (assistenza famigliare, formazione, counseling, ecc.), e quelli di servizio: amministrazione e comunicazione.

«Siamo attualmente 32 nello staff, comprese una persona per ogni coppia affidataria. Al di sopra di questa struttura c’è un consiglio di amministrazione (board), presieduto dal presidente e rinnovato ogni tre anni. Si tratta di 14 persone con diverso background, leader di organizzazioni cristiane, professori, tutte con ottima reputazione».

Sharon porta avanti un’altra attività legata alla sua personale missione. Quando viveva a
Seattle organizzava incontri per raccontare la Bibbia ai bambini. «Poi è iniziata la pandemia e, seppure tra mille difficoltà, ho iniziato a incontrare i bambini su piattaforme online. Quando sono partita, ho pensato di lasciare questo impegno. Ma i genitori e i bambini mi hanno chiesto di continuare, perché sentivano questi incontri molto preziosi. Ho dunque continuato anche da Taipei, e ho associato ai bambini di Seattle quelli del Bethany. I bimbi leggono la Bibbia insieme, gli uni in inglese, gli altri in cinese. Ma questo ha dato loro un’apertura particolare. Il mio sogno è che questi bambini possano un giorno incontrarsi fisicamente».

Tutto questo fa parte della cosiddetta «Piattaforma missionaria per bambini e famiglie»: «Oggi possiamo essere più globali, siamo di fronte a una e-generation, è diventato facile incontrarsi a distanza e la gente si è abituata. Il modello è facilmente replicabile».

Fondi e sfide

Il Bethany si finanzia con donazioni di molti piccoli donatori e beneficia di una piccola sovvenzione dello stato. «Ma i costi sono notevolmente aumentati a causa del nuovo edificio e del personale».

Tra le nuove sfide che attendono Sharon c’è l’aumento del numero di bambini accolti, obiettivo che prevede, oltre all’acquisto di mobili e attrezzature, il pagamento di nuove persone incaricate dell’accoglienza. «Vorrei che Bethany potesse accogliere sulla base della massima capienza, ci sono molti bambini nel bisogno.

Ma la sfida principale è questa pandemia – dice la direttrice – che ci limita molto. Potremo ospitare molti meeting ma, per ora non possiamo. Voglio poi far partire i “gruppi di recupero” per adulti, ma anche bambini, fratelli, sorelle. Eventualmente li faremo online».

La missione continua

«Sono molto onorata di continuare la missione di Gladys Aylward, perché è stata una donna che ha dedicato la sua vita intera ai bambini meno fortunati. Con risorse limitatissime e in condizioni difficili. Ho constatato che ha lasciato un’eredità bellissima e forte, come Bethany. Sono qui da un anno, ma spesso parlo di lei con lo staff, racconto la sua storia per far loro coraggio. Quando eravamo in difficoltà, l’anno scorso, dicevo che in passato non avevano aria condizionata, né una struttura come questa. Per ricordare loro che Dio ci penserà, lo ha fatto per 60 anni, durante i quali abbiamo aiutato un migliaio di bambini, e continuerà ad aiutarci».

Marco Bello


La Consolata a Taiwan

Anche la Consolata ha una giovane, ma solida, presenza a Taiwan. Il 12 settembre 2014 sbarcarono sull’isola i primi tre missionari, i padri Eugenio Boatella, Mathews Odhiambo Owuor e Piero de Maria. Si stabilirono a Hsinchu, nell’omonima diocesi, a meno di un centinaio di chilometri a Sud Ovest della capitale Taipei. Qui iniziarono a studiare la lingua (che non è cosa da poco) e apprendere la cultura, mettendosi a disposizione del vescovo con il quale fu firmato un accordo. Nel 2017 arrivò il secondo gruppo, con i padri Jasper Kirimi e Gilberto Rodriguez da Silva. Allo stesso tempo, i missionari presero in consegna la prima parrocchia, il Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu.
Nel novembre del 2019 arrivarono i padri Bernardo Kim e Emanuel Barnabas Temu, e circa un anno dopo la Consolata prese in consegna la seconda parrocchia, San Giuseppe, sempre nella contea di Hsinchu.
I due pilastri della presenza della Consolata in Taiwan, scrive padre Mathews Odhiambo, attuale superiore, sono: «Proclamazione del Vangelo, preferibilmente a non cristiani. Questo giustifica la nostra presenza in Taiwan, dove i cristiani sono poco meno del 4% della popolazione. Questa missione è realizzata attraverso vari metodi: animazione missionaria, dialogo interreligioso, lavoro in parrocchia, con i giovani, con i migranti, ecc».
Il secondo pilastro è la promozione umana, «per tutte quelle situazioni umane di dolore e sofferenza, come povertà, ingiustizie sociali, malattie, ecc. Per questo la congregazione è impegnata in tutte le attività e i progetti che possono migliorare lo standard di vita della gente e alleviare i loro dolori e sofferenze».
Oggi, a sette anni dal loro arrivo, i missionari presenti sono cinque (i padri Eugenio e Piero sono partiti per altre destinazioni) e aspettano rinforzi. Intanto i progetti di lavoro con le comunità indigene (popoli originari dell’isola) e con i migranti (latini di lingua ispanica e anglofoni) sono nel cuore dei missionari. Torneremo a parlare di loro.

Marco Bello




Bambini ai margini:

nella trappola della povertà

testo e foto di Dan Romeo |


Conosciuta come il «Tibet delle Americhe», a causa della sua posizione ad alta quota, la Bolivia vive un forte contrasto tra i celebri e prevedibili paesaggi immortalati sui social e la realtà vissuta dalla gente, soprattutto i più giovani e i bambini.

Quasi la metà della popolazione boliviana ha meno di 18 anni, la maggioranza della quale vive al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Onu. Circa due milioni di bambini vivono in condizioni di estrema povertà. Si calcola che di questi più di 700mila siano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, e che oltre 300mila trascorrano le loro esistenze per strada.

Nell’ottobre del 2019 sono andato a Cochabamba, una delle principali città della Bolivia, per documentare l’impegno della Ong Bolivia Digna, una Ong locale che lavora con l’obiettivo di promuovere e difendere i diritti dei bambini, degli adolescenti e di altri gruppi sociali vulnerabili che vivono nell’esclusione e nella povertà. L’organizzazione offre loro la possibilità di essere e sentirsi semplicemente bambini, alleviando la pressione del lavoro infantile per alcune ore durante l’arco della giornata.

Il lavoro della Ong è reso possibile grazie al supporto di volontari locali e internazionali che si uniscono per offrire ai piccoli la possibilità di giocare, imparare e sviluppare abilità che altrimenti non sarebbero a loro disposizione. L’Organizzazione opera principalmente in alcune aree situate nei sobborghi di Cochabamba e in particolare in alcune comunità rurali del Mercado Campesino e di Arocagua.

Mercado Campesino

Cochabamba si mostra agli occhi dei turisti di passaggio come una città dalla vitalità esuberante. E in rapida crescita a causa della migrazione di migliaia di persone che vi si trasferiscono dalle aree rurali. Questi flussi migratori interni hanno causato il fiorire di una miriade di agglomerati fatiscenti nelle aree di periferia, i barrios, baraccopoli prive delle infrastrutture e servizi di base come acqua, elettricità e fognature.

Mercado Campesino è uno di questi barrios nella zona Nord della città, abitati da persone povere e spesso senza un lavoro che garantisca loro il sostentamento. Molti adulti sono analfabeti e lavorano con orari massacranti per paghe insufficienti ai bisogni della famiglia. Così i bambini soffrono di una mancanza cronica di attenzioni e cure da parte dei genitori che non sono in grado di provvedere alla loro crescita. Bambini e adolescenti sono spesso abbandonati a se stessi, impegnati a prendersi cura dei fratelli più piccoli, e a rischio di diventare vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali e di tratta di esseri umani. Mancano del sostegno necessario per poter sfuggire alla trappola della povertà.

Arocagua, situato a Est, è un altro di quei barrios. Là ho trascorso la maggior parte delle giornate con le macchine fotografiche riposte nello zaino, dedicandomi a interagire e giocare con i bambini. Le mie buffe battute e i racconti improvvisati con uno spagnolo molto elementare e spesso sgrammaticato hanno fatto il resto, rompendo gli indugi e mettendo i bambini a proprio agio. Due settimane sono trascorse veloci alla scoperta delle vite di quei piccoli bambini e delle loro famiglie. Qui ho incontrato Ester. Abbandonata appena nata dai suoi genitori, ha avuto la fortuna di essere affidata alle cure della nonna, una anziana di etnia quechua che non ha mai imparato lo spagnolo e che si prende cura di sua nipote tra le lamiere della loro «casa». Grazie al supporto di Bolivia Digna, Ester è stata adottata a distanza.

Ester con la nonna

Ester

Il Parco Nazionale di Torotoro

Cochabamba è anche la base per avventure ed escursioni ad alta quota, comprese le gite al Parco nazionale di Torotoro. Uno dei parchi più piccoli della Bolivia, Torotoro è rimasto fuori dai percorsi turistici, il che ne rende la scoperta ancora più meravigliosa. I suoi tesori sono geologici, archeologici e storici, con oltre 2.500 impronte di dinosauri incise nelle rocce del periodo paleozoico e cretaceo, canyon e gole profonde dalla vegetazione lussureggiante e grotte calcaree a decine di metri di profondità, grandi abbastanza da ospitare laghi e cascate. Tutto questo accompagnato dalla calda ospitalità, dall’umorismo e dalla curiosità del mosaico culturale e linguistico della gente di qua.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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Casa comune, problemi comuni

Testo di Chiara Giovetti | foto di padre Andrés Fernández da Bayenga RD Congo


Nel mondo i popoli indigeni contano circa 370 milioni di persone: il 5% della popolazione mondiale ma il 15% dei poveri del pianeta. Quanto ai migranti, sono circa 300 milioni e uno su dieci è un rifugiato o richiedente asilo.

L’equazione è piuttosto semplice: i popoli indigeni proteggono con la loro stessa presenza l’ambiente naturale in cui vivono, a cominciare dalla foresta. Se i popoli indigeni scompaiono, anche le foreste scompaiono e i disastri ambientali aumentano. Su tutto il pianeta. Anche nel cortile di casa nostra. Quindi, a ben guardare, casa nostra è tutto il mondo.

Questo breve ragionamento è probabilmente la risposta più lineare alla domanda: «Perché mai dovrebbe interessarmi l’Amazzonia?», quesito che ha fatto da sottofondo a tutto il Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica, celebrato lo scorso ottobre a Roma. Non è difficile trovare esempi di questo ruolo di custodi che i popoli indigeni hanno nei confronti dell’ambiente nel quale vivono: la nostra rivista ne ha illustrati diversi in un dossier dell’agosto 2017 che riportava analisi di Survival International. Da quelle analisi emergeva chiaramente che i popoli indigeni – non solo quelli dell’Amazzonia, ma anche quelli del resto delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia – «sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni» e che la loro presenza incrementa la biodiversità, controlla gli incendi e il bracconaggio, ferma la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo. Il loro sostentamento, viceversa, deriva da attività come la caccia svolte in modo del tutto non dannoso per l’ambiente@.

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Un’emergenza silenziosa

Difficile è piuttosto far capire l’urgenza di proteggere questi gruppi umani e i biomi in cui vivono. Perché l’ipotesi che i popoli indigeni scompaiano appare lontana a chi, specialmente da questo lato del mondo, non è addentro alle questioni ambientali o a quelle della solidarietà internazionale.

Eppure il rapporto 2018 del Consiglio indigenista missionario (Cimi)@, ente legato alla Conferenza episcopale brasiliana, racconta una storia che ha tutti i caratteri dell’urgenza. Presentato dal Cimi l’11 ottobre presso la casa generalizia dei missionari della Consolata a Roma, il documento sottolinea che nel 2018 in Brasile i casi di invasioni a scopo di accaparramento delle terre indigene, esplorazione illegale delle risorse naturali e danni vari al patrimonio sono stati 109: 13 in più dell’anno precedente. Ancora più preoccupante è il fatto che i dati preliminari del 2019 – cioè quelli relativi ai primi nove mesi – riportano 160 casi, testimoniando per il triennio una tendenza al rialzo.

Il rapporto raccoglie e racconta con grande precisione i singoli episodi. Vediamone uno, relativo al popolo indigeno dei Waimiri Atroari di Roraima, a titolo esemplificativo: «La deforestazione nella terra indigena ha raggiunto i 1.372 ettari. In un’area che ospita diverse specie di fauna e flora ancora sconosciute, sono stati sequestrati 7.387 tronchi, volume sufficiente per caricare un migliaio di camion […]. Dopo 37 giorni dal sequestro, il Fronte di protezione etno-ambientale dei Waimiri Atroari della Funai (ente pubblico che si occupa della protezione degli indigeni) ha riferito che i tronchi venivano rubati dentro la sede della polizia federale. È stata aperta un’inchiesta per indagare sul caso».

Il rapporto segnala anche diverse situazioni che contraddicono l’affermazione di grandi agricoltori e politici «complici» secondo la quale c’è «troppa terra per troppi pochi indigeni». Al contrario, si legge nel rapporto, nello stato del Mato Grosso do Sul, per fare solo un esempio, «ciò che è troppo è il numero di aree degradate», cioè aree le cui caratteristiche sono state modificate oltre il limite del naturale recupero del suolo.

Nel 2019, prosegue il rapporto, il numero di pascoli degradati raggiunge i 14 milioni di ettari (pari alla superficie di tutte le regioni del Nord Italia più la Toscana) su un totale di 28 milioni esistenti. Nel frattempo, migliaia di indigeni vivono in una situazione di isolamento e, nella riserva indigena di Dourados, circa 13mila indigeni abitano su meno di 3.500 ettari: per numero di abitanti la riserva si colloca più in alto nella lista rispetto a 32 città dello stato. A detta di diversi esperti, questa situazione è la causa principale degli alti tassi di suicidio tra gli indigeni Guaraní e Kaiowá. Secondo il distretto sanitario indigeno locale, negli ultimi 13 anni circa 611 indigeni di questa popolazione si sono suicidati: 1 ogni 7,7 giorni.

Alfabetizzazione di bambini pigmei

Non solo Amazzonia

Ma non è solo l’area amazzonica a destare preoccupazione. Nella Rift Valley del Kenya è in atto l’ennesimo braccio di ferro per l’occupazione di intere aree della Mau Forest. Non si tratta di una foresta qualsiasi: è un complesso di 400 mila ettari che custodisce la più grande delle cinque maggiori riserve idriche del Kenya, per questo ribattezzate water towers (serbatoi d’acqua). È la fonte di 12 corsi d’acqua che sfociano in tre laghi, fra cui il Lago Vittoria, e si calcola che circa 10 milioni di persone dipendano da questo complesso idrogeologico. Human Rights Watch segnalava lo scorso settembre@ che nel 2018 il governo del Kenya nel tentativo, anche lodevole, di preservare la Mau Forest ha effettuato sfratti forzati, violenti e senza compensazione di chiunque avesse occupato il territorio della foresta. Inclusi gli Ogiek, popolo indigeno locale che ha nella foresta il proprio territorio ancestrale, nel quale ha sempre vissuto sostenendosi grazie alla caccia e all’apicoltura. I tentavi di rimuovere gli Ogiek dalla foresta si sono succeduti sin dall’epoca coloniale, precisa Survival International@, con il pretesto che la loro presenza degrada la foresta. In realtà succede esattamente il contrario: «Quando gli Ogiek vengono rimossi, la loro foresta non viene protetta ma piuttosto sfruttata dal disboscamento e dalle piantagioni di tè, alcune di proprietà di funzionari governativi».

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Via da casa, per non morire

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

A volte, anche la decisione di restare nella propria terra è un suicidio. È il caso degli indigeni Warao che, insieme ad altri connazionali venezuelani, hanno abbandonato le loro case e stanno emigrando in massa verso Colombia, Perù, Brasile e altri paesi latino americani. Secondo la Bbc@, che cita dati dell’Organizzazione internazionale per migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) lo scorso giugno le persone che avevano lasciato il Venezuela avevano raggiunto i 4 milioni, facendo di quella venezuelana la seconda crisi a livello mondiale dopo la Siria, che ha visto quasi 6 milioni di sfollati@.

Secondo l’Acnur, ad oggi sono quasi 71 milioni le persone sul pianeta che sono state costrette a lasciare il luogo dove vivevano a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Di questi, quasi 26 milioni sono rifugiati, 41 milioni sono sfollati interni e 3 milioni e mezzo sono richiedenti asilo, cioè sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale. Nel 2018 ci sono stati 37mila di questi spostamenti forzati ogni giorno, uno ogni 2 secondi.

In 4 casi su 5 i rifugiati vivono in paesi confinanti; a ospitare più rifugiati è stata per il quinto anno consecutivo la Turchia, con 3,7 milioni di persone accolte. Seguono il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda (1,2 milioni), il Sudan e la Germania (entrambi 1,1 milioni di rifugiati ospitati).

Chiara Giovetti

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei


Il nostro lavoro per le terre ancestrali e i popoli che le abitano

IN RD CONGO

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Da decenni lavoriamo con i pigmei bambuti, tradizionali custodi della foresta pluviale dell’Ituri, nel Nord Est paese.

Minacciati da Mobutu Sese Seko, che già negli anni Ottanta li forzò a lasciare la foresta e a sedentarizzarsi, emarginati dalla maggioranza bantu che li considera esseri subumani, oggi vedono la loro foresta e se stessi minacciati anche dalle attività estrattive condotte da grandi imprese e da minatori artigianali.

Il nostro lavoro con loro consiste nel proteggerne la cultura e lo stile di vita e, al tempo stesso, di sostenere il loro tentativo di relazionarsi con gli altri popoli, ad esempio attraverso l’istruzione, e di garantire loro l’assistenza sanitaria essenziale.

(vedi Marco Bello, Sempre nomadi, ma fino a quando, MC 10/2019 e anche Chiara Giovetti, Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile, MC 6/2017)

NELL’AMAZZONIA

Visita al rifugio dei Warao in Pacaraima (Roraima – Brasile

Il nostro impegno per i popoli indigeni e la salvaguardia delle terre ancestrali giunge anche all’Amazzonia, sia quella brasiliana che quella colombiana ed ecuadoregna.

Nell’Amazzonia del Brasile sosteniamo la lotta per i diritti del popolo yanomami insediati nella foresta attorno al rio Catrimani e quelli dei popoli (Macuxi, Wapichana, Taurepang e altri) della terra indigena Raposa Serra do Sol nello stato di Roraima.

In Colombia siamo attivi nel Caquetá, dove, con i gruppi di giovani delle nostre parrocchie e delle scuole secondarie, sosteniamo le iniziative locali di formazione alla cura dell’ambiente sia nei quartieri dei centri abitati della zona che nelle zone del fiume vicine a questi centri, e progetti alternativi alla produzione della coca.

Aiutaci a coprire i costi per l’iscrizione di un bambino pigmeo alla scuola primaria nella foresta del Congo o a realizzare corsi di formazione e iniziative di salvaguardia dell’ambiente in Amazzonia.


Il nostro lavoro accanto ai migranti e ai warao

Dal maggio 2018 un’équipe itinerante dei missionari della Consolata è attiva a Boa Vista (Brasile)  nell’accoglienza dei rifugiati venezuelani, in particolare del popolo warao.

Boa Vista sta affrontando un’emergenza senza precedenti: quella di assistere migliaia di migranti e richiedenti asilo venezuelani, 40mila secondo le fonti ufficiali e oltre il doppio secondo conteggi informali. Per ora sono disponibili solo 13 centri di accoglienza che ospitano 6.500 persone, mentre tutti gli altri vivono in 16 occupazioni se non addirittura per strada.

Gli sforzi dei missionari della Consolata si concentrano sulle persone più vulnerabili che vivono nello spazio di Ka Ubanoko, un complesso sportivo abbandonato occupato la scorsa estate. Lì vivono circa 650 venezuelani, la maggior parte Warao, alcuni indigeni E’ñepa e oltre un centinaio di persone che non hanno avuto la possibilità di essere assistiti da un centro di accoglienza e vivevano all’ombra degli anacardi nel quartiere di Pintolândia.

Fra questi rifugiati i bambini sono circa 250 e i missionari cercano di fornire loro cibo e un minimo di istruzione, visto che nella loro condizione frequentare la scuola è impossibile.

Aiutaci a coprire i costi per l’istruzione dei bambini venezuelani rifugiati.


Natale di solidarietà 2019

UNA CASA PER TUTTTI

Per aiutare tramite MC
vai al sito della Onlus

oppure vai alla nostra pagina «aiutaci-donazioni»




I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera

 




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.