Il «game» infinito dei respingimenti

testo e foto di Simona Carnino |


Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.

Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.

Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.

Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.

Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.

Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.

La vita in Afghanistan

Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».

Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».

E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.

«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.

Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.

I Balcani

Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.

Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.

«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».

Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.

Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.

Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.

«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.

Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.

I sopravvissuti alla rotta balcanica

A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.

Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.

Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.

Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.

La frontiera tra la neve

Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.

Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.

«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».

Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.

Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.

«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».

Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.

Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.

Il game infinito

Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».

Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.

Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.

«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».

Verso la Germania

Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.

«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».

A molti, invece, è andata peggio.

Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.

«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».

Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.

«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.

A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.

«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».

L’umanità del confine

Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.

Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.

Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.

La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.

Simona Carnino




Ai confini dell’Europa / 13:

Il Montenegro


Con una popolazione di soli settecentomila abitanti, indipendente dal 2006, il piccolo paese affacciato sull’Adriatico vive momenti importanti. Dopo le bombe della Nato del 1999, da giugno è divenuto membro di quella stessa organizzazione. La Russia, storico alleato, è sempre presente con i suoi investimenti e i suoi turisti, ma il suo ruolo è stato ridimensionato.

Venticinque maggio 2017, quartier generale della Nato a Bruxelles. Alla fine del summit, i leader dei paesi dell’Alleanza atlantica si preparano alla foto finale di rito. Il neopresidente americano Donald Trump, rimasto indietro, viene sorpreso dalle telecamere mentre sembra spintonare uno dei colleghi, per farsi strada, impettito, verso la prima fila.

Sui social-media si scatena per giorni un dibattito infuocato sul «presidente-cowboy», accusato dagli oppositori di arroganza e scarso spirito diplomatico. L’incidente, reale o gonfiato dai megafoni dell’informazione, ha regalato però un po’ di inaspettata visibilità anche alla presunta «vittima», il premier montenegrino Duško Markovi?, sicuramente poco noto al pubblico internazionale. Markovi?, in realtà, aveva altri motivi, ben più solidi della sua disavventura con Trump, per essere considerato a pieno titolo come uno dei protagonisti dell’incontro. Il suo paese, il Montenegro, era infatti appena stato ammesso nella più potente alleanza militare al mondo come suo ventinovesimo membro, un passo ratificato definitivamente alcuni giorni dopo, il 5 giugno.

Con la membership nella Nato si è chiuso – almeno dal punto di vista formale – un percorso politico e diplomatico durato quasi un decennio, che negli ultimi anni ha dominato il dibattito e le emozioni nella piccola repubblica adriatica, provocando non pochi scossoni anche a livello internazionale.

Dusko Markovic alla NATO, gennaio 26, 2017. Dursun Aydemir / Anadolu Agency

I bombardamenti e Belgrado

Nel 1999, diciotto anni fa, il Montenegro, allora parte della «piccola Jugoslavia» di Slobodan Miloševi?, della quale erano rimasti parte solo la Serbia e lo stesso Montenegro, era stato bombardato dagli aerei dell’Alleanza atlantica durante la guerra in Kosovo.

Il conflitto, durato 78 giorni e terminato con la sconfitta jugoslava, ha portato all’indipendenza di Pristina (dichiarata ufficialmente nel 2008), minando però al tempo stesso in modo irrimediabile le basi della federazione. Sotto la guida di Milo ?ukanovi? , in origine fedelissimo di Miloševi?, il Montenegro si è allontanato in maniera sempre più evidente dalla Serbia: nel 2003 la Jugoslavia si è trasformata in una blanda confederazione sotto il nome di «Unione di Serbia e Montenegro», primo passo verso la definitiva indipendenza di Podgorica arrivata nel 2006.

A decretare la nascita del nuovo stato indipendente montenegrino è stato un combattuto referendum popolare, con i «sì» che hanno superato di poche migliaia di voti il quorum del 55% precedentemente stabilito in accordo con l’Unione europea.

Da allora l’élite politica montenegrina, sempre saldamente controllata da ?ukanovi? e dal suo «Partito democratico dei socialisti», ha spinto sempre più apertamente verso l’integrazione sia nell’Ue (ottenendo lo status di candidato nel 2010) che nella Nato. Se l’adesione all’Unione europea ha goduto e gode di una solida maggioranza nel paese, quella all’Alleanza atlantica è stata invece caratterizzata da una fortissima polarizzazione, ancora viva nonostante l’avvenuta adesione.

Sulla Nato, senza troppi eufemismi, il paese è letteralmente spaccato. A livello interno, a dividere gli animi c’è la ferita ancora non rimarginata dei bombardamenti del 1999, insieme alla strenua resistenza dell’opposizione politica, coagulata in gran parte intorno alla comunità serba del Montenegro (che secondo l’ultimo censimento, tenuto nel 2011, rappresenta il 28,7% della popolazione). Divisioni confermate dagli ultimi sondaggi tenuti prima dell’adesione, che hanno disegnato un paese praticamente spezzato in due sulla questione, con un leggero vantaggio per il fronte del «no».

Anche a livello internazionale non mancano i problemi. Primo fra tutti, le reiterate obiezioni della Russia, paese ritenuto un alleato storico di Podgorica ed impegnato con tutte le sue forze a contenere ogni ulteriore allargamento della Nato in Europa orientale e nei Balcani.

Mosca c’è ancora

Il «rapporto speciale» tra Mosca e il Montenegro va ben oltre i tradizionali legami dovuti all’eredità storica e religiosa (in entrambi i paesi la confessione dominante è quella cristiana ortodossa, vedi box).

Dagli anni ‘90 la Russia si è imposta come uno dei principali investitori in Montenegro, con una forte predilezione per il settore degli immobili (secondo la stampa di Mosca, il 40% delle proprietà nel paese, soprattutto nella fascia costiera, è di cittadini e compagnie russe).

Oligarchi russi hanno partecipato attivamente al processo – spesso poco trasparente – delle privatizzazioni: il caso più noto è l’acquisto del «kombinat» per la lavorazione dell’alluminio di Podgoriza (Kap) da parte di Oleg Deripaska, operazione poi sfociata in un lungo contenzioso legale tra l’oligarca vicino a Vladimir Putin e lo stato montenegrino. Centrale infine anche il settore turistico, che porta ogni anno migliaia di russi nelle località più rinomate della costa, come Budva e Kotor.

Ottobre 2016: fu «golpe», o forse no?

Lo scontro tra la volontà di ingresso nella Nato e l’opposizione russa e lo scontro politico interno è esploso in modo drammatico e inaspettato durante le ultime consultazioni parlamentari, tenute il 16 ottobre 2016. Elezioni che rappresentavano l’ultima spiaggia per le forze contrarie all’Alleanza atlantica.

In circostanze mai del tutto chiarite, un gruppo di venti cittadini serbi e montenegrini è stato arrestato nel giorno del voto, con l’accusa di aver ordito un colpo di stato e di aver tramato per occupare il parlamento di Podgorica e uccidere lo stesso ?ukanovi?. Tra gli arrestati c’è anche Branislav Diki?, ex-comandante delle unità speciali della gendarmeria serba.

Secondo il procuratore speciale montenegrino Milivoje Katni?, lo scopo principale del tentato golpe sarebbe stato proprio bloccare l’ingresso del Montenegro nella Nato, e dietro al complotto ci sarebbero stati agenti russi, in combutta con i leader del «Fronte democratico», principale partito di opposizione in Montenegro.

Per la procura di Podgorica, due cittadini russi sarebbero le menti dietro all’azione, tra questi Eduard Sismakov alias «Shirakov», ufficiale dei servizi segreti militari russi. Al tempo stesso, sul banco degli imputati sono saliti anche i due leader del Fronte democratico, Andrija Mandi? e Milan Kneževi?, privati dell’immunità lo scorso febbraio tra feroci proteste dentro e fuori il parlamento di Podgorica, e oggi in attesa di processo.

Se le teorie sul complotto sono state sostanzialmente accettate dai principali alleati occidentali, Stati Uniti in testa, i dubbi su cosa sia effettivamente successo quel 16 ottobre non sono stati ancora del tutto sciolti. In un clima di tensione palpabile e confusione generalizzata il partito di ?ukanovi?, seppur in calo di consensi, è riuscito a mantenere una stretta maggioranza in coalizione con parte dei socialdemocratici e i partiti delle minoranze bosgnacca, albanese e croata (con 42 seggi su 81). Per l’opposizione, ferma a 39 deputati, il tentato golpe non è stato altro che una machiavellica macchinazione, orchestrata dallo stesso governo per spaventare gli elettori e falsare il risultato finale. I partiti anti ?ukanovi? hanno quindi rifiutato il verdetto delle urne, e da allora boicottano i lavori del parlamento.

Anche i rapporti con la Russia si sono fatti visibilmente tesi: Mosca nega con vigore ogni coinvolgimento, e ultimamente ha vietato l’ingresso in Russia ad alcuni politici di spicco montenegrini. La diatriba non sembra però aver spaventato i turisti russi che, almeno per ora, continuano ad arrivare numerosi sul litorale adriatico.

Montenegro e Ue, un amore non privo di lati oscuri

Lo scontro sulla Nato, monopolizzando il dibattito politico e l’attenzione internazionale, ha lasciato in ombra aspetti importanti della vita politica, economica e sociale di un paese in lenta ma visibile trasformazione, spinta soprattutto dagli sforzi fatti per avvicinarsi all’Unione europea.

Il Montenegro è oggi, forse insieme alla Serbia, l’unico paese dei Balcani che gode di una reale possibilità di entrare a far parte dell’Ue in tempi relativamente brevi. I negoziati, partiti nel 2012, hanno visto l’apertura di 26 capitoli su 33 (altri due dovrebbero essere aperti entro il 2017) e la chiusura di due, quelli «leggeri» su scienza e cultura.

Gli ostacoli principali restano però il consolidamento della democrazia, lo stato di diritto, la libertà di informazione e la lotta alla corruzione. Il Montenegro vede infatti una situazione di democrazia formale che, però, non ha mai dato spazio ad una reale alternanza di potere.

Dal 1991, il governo è saldamente in mano a ?ukanovi?, che alternando la carica di primo ministro con quella di presidente ha sempre tenuto in mano le redini del paese, sopravvivendo ad ogni trasformazione istituzionale e a forti e reiterate accuse di essere personalmente implicato in attività criminali. Per quella più pesante, cioè di essere direttamente implicato nel contrabbando internazionale di sigarette, è stato indagato dalla giustizia italiana, con inchieste arenatesi però definitivamente nel 2009 grazie alla sua immunità diplomatica.

Per l’opposizione ed ampi settori della società civile, la svolta pro-occidentale di ?ukanovi? è soprattutto una mossa tattica, che non significa una reale accettazione dei principi di trasparenza, pluralità e divisione dei poteri. Critiche vengono spesso portate alla stessa Unione europea, che chiuderebbe troppo spesso un occhio, e talvolta anche due, sul reale stato delle cose nel paese pur di mantenere viva l’immagine del Montenegro come una delle rare «success story» a livello balcanico.

Anche il settore dei media vive una situazione di feroce polarizzazione, che si sovrappone a quella politica e di poca trasparenza, dovuta alle normative inadeguate sulla pubblicità della proprietà di quotidiani, tv e portali internet.

Alle visibili interferenze politiche ed economiche sul lavoro dei giornalisti, si aggiunge poi una lunga casistica di minacce ed attacchi personali. Il caso più noto, mai risolto dalla giustizia montenegrina, riguarda l’omicidio del caporedattore di «Dan», Duško Jovanovic?, ucciso nel 2004 davanti alla redazione del giornale, ma anche i casi più recenti come il pestaggio all’editore di «Vijesti» Željko Ivanovi? nel 2007 e i ripetuti attacchi al giornalista dello stesso quotidiano Mihailo Jovovic nel 2009 e nel 2014.

Altro tasto dolente è quello della corruzione, riconosciuto e sottolineato ripetutamente anche dai «progress report» della Commissione di Bruxelles. Estremamente cauto e burocratico, anche il report del 2016 ribadisce che «nonostante qualche passo in avanti, la corruzione rimane prevalente in molte aree dell’amministrazione pubblica, e continua a rappresentare un serio problema [per il Montenegro]». Nonostante le promesse del governo, i casi di malaffare nei piani alti del potere arrivati di fronte ai giudici restano l’eccezione più che la regola.

Con l’adesione alla Nato e la reale, se non immediata prospettiva di adesione nell’Ue, il Montenegro sembra essersi garantito una posizione di relativa stabilità, soprattutto se confrontato con la situazione incerta dei paesi vicini.

Stabilità resa possibile anche dalla mancanza di significative rivendicazioni e diatribe nei confronti degli stati confinanti.

 

Con gli ex fratelli iugoslavi

Podgorica mantiene buone relazioni con l’Albania, anche grazie alla minoranza albanese nel Sud del paese, ma anche col Kosovo – che ha riconosciuto – nonostante la questione irrisolta della definizione dei confini tra i due giovani stati. Con la Croazia resta da definire lo status della contesa penisola di Prevlaka, ma la questione non sembra suscitare al momento particolari preoccupazioni, nonostante il burrascoso passato recente (forze montenegrine parteciparono al bombardamento di Dubrovnik durante le guerre di disfacimento della Jugoslavia).

Il rapporto più delicato riguarda le relazioni con la Serbia, paese «amico-nemico», legato al Montenegro da fortissimi rapporti storici, culturali ed economici. La separazione consensuale ha permesso ai due stati di prendere strade diverse senza sfociare in conflitti aperti, ma ha lasciato in molti – soprattutto in Serbia – un sapore amaro in bocca. Nonostante le recriminazioni sulla questione Nato, e con la Serbia che rimane l’alleato principale di Mosca nell’area, i due vicini potrebbero però ritrovarsi di nuovo insieme in un futuro non troppo lontano, all’interno della cornice dell’Unione europea.

Francesco Martino
 Giornalista, per questa nostra serie ha già scritto l’articolo sul Kosovo, uscito a maggio 2016.


Montenegro – scheda

I 700mila abitanti del Montenegro usano l’euro come moneta de facto. L’agricoltura produce olive, limoni, uva e tabacco (il paese è il primo consumatore al mondo di sigarette). Diffuso è l’allevamento di ovini e caprini. Le privatizzazioni degli ultimi anni hanno dato una scossa alla piccola industria locale, ma la vera ricchezza è il turismo, in continua espansione, soprattutto lungo la costa. Nonostante la costante crescita economica (oltre il 3,5 per cento annuo), il livello della disoccupazione rimane attorno al 17 per cento.


Milo Ðukanovi?: Ventisei anni al potere

«Padre della patria» o «piccolo dittatore criminale», il potente e molto discusso
politico non ricopre più cariche ufficiali.

Nella storia contemporanea del Montenegro, una figura spicca solitaria su tutte le altre: quella di Milo ?ukanovi?, «padre della patria» per alcuni e «piccolo dittatore criminale» per altri, uomo politico in grado di restare alla guida del paese dal 1991 e considerato ancora il reale dominatore politico del Montenegro, nonostante il passo indietro seguito alle elezioni del 2016, con la nomina di Duško Markovi? a nuovo premier. Nato a Nikši? nel 1962, ?ukanovi? si è fatto presto strada nella Lega dei comunisti del Montenegro. Nel 1989, insieme a Momir Bulatovi? e Svetozar Marovi? diventa la «longa manus» di Slobodan Miloševi?  in Montenegro, per poi essere eletto giovanissimo (a 29 anni) a primo ministro, mentre la «Lega dei comunisti» si trasforma nel «Partito democratico dei socialisti» del Montenegro (DPS). Con lo scoppio della guerra con la Croazia, ?ukanovi? si schiera decisamente col partito dei «falchi»: truppe montenegrine partecipano all’assedio e al bombardamento di Dubrovnik dall’autunno 1991 alla primavera 1992. Nel referendum sull’indipendenza del 1992 spinge perché il Montenegro resti unito alla Serbia nella nuova (e ridotta) Repubblica federale di Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di Dayton (1995), che mette fine alla guerra in Bosnia, ?ukanovi? inizia a prendere le distanze da Miloševi?, una mossa che gli permette di marginalizzare Bulatovi? e prendere il pieno controllo del paese.

Con la fine della guerra in Kosovo (1999), ?ukanovi? cambia drasticamente ed inizia a spingere per la causa indipendentista, che trionfa nel referendum del 2006, trasformandosi in sostenitore convinto dell’ingresso nella Nato e nell’Unione europea. Criticato in patria dalle opposizioni per il controllo su media e servizi segreti, e accusato di essersi appropriato dell’economia montenegrina e aver truccato a proprio favore varie tornate elettorali, a livello internazionale ?ukanovi? è stato sotto i riflettori per i sospetti di aver intrattenuto rapporti amichevoli con esponenti della criminalità organizzata, e di aver partecipato attivamente al business del contrabbando di sigarette. La procura di Bari lo ha indagato ufficialmente, ma grazie all’immunità diplomatica il caso è stato archiviato. Nel 2015 l’«Organized crime and corruption reporting project» lo ha nominato «Persona dell’anno per corruzione e crimine organizzato», citando insieme alla questione del contrabbando i presunti rapporti con esponenti di spicco del crimine organizzato come Darko Šari?, Stanko Suboti? e Naser Kelmendi, ma anche l’appropriazione di ingenti risorse pubbliche attraverso il controllo della «Prva Banka» e numerose privatizzazioni poco trasparenti realizzate dal suo governo. Dopo 26 lunghissimi anni al governo, dall’ottobre 2016 ?ukanovi? non ricopre più cariche ufficiali. Tuttavia, l’attuale premier Markovi?, già direttore dei servizi segreti, è uomo di fiducia dello stesso ?ukanovi? e dunque parte integrante del sistema di potere dominante.

Francesco Martino


 

La situazione religiosa:
Ortodossi, primi ma divisi

In Montenegro la confessione dominante è quella cristiana ortodossa. Seguita dall’islam.

Storicamente, la confessione dominante in Montenegro è quella cristiana ortodossa, che secondo gli ultimi censimenti raccoglie circa il 70% della popolazione. Oggi la maggior parte dei fedeli ortodossi aderisce alla Chiesa ortodossa serba, mentre un terzo degli ortodossi si riconosce nella Chiesa ortodossa montenegrina, nata nel 1993 in seguito all’allontanamento del paese dalla Serbia, e riconosciuta dal governo di Podgorica, ma non dalle restanti chiese ortodosse. Dal XVII secolo al 1852 il potere temporale e quello religioso, nell’allora regno semi-indipendente del Montenegro, hanno coinciso nella figura del re-vescovo della dinastia Petrovi? Njegoš, noto col titolo di «vladika». La seconda religione del Montenegro è l’islam, con quasi il 20% della popolazione: oltre che dalle diverse comunità di slavi musulmani, come i bosgnacchi e i gorani, la religione musulmana viene praticata anche dalla maggior parte della comunità albanese. I cattolici rappresentano invece poco più del 3% dei credenti: concentrati sul litorale, fanno soprattutto parte della piccola minoranza croata. Poco più del 3% della popolazione si è dichiarato ateo o agnostico.

Fra.Ma.