L’invasione dei «coccodrilli» cinesi


Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.

Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).

Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.

Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.

I progressi cinesi

Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.

Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.

Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.

Un laboratoio del Guanglong high tech industry park a Guilin, Guangxi, Cina. Foto Glsun Mall – Unsplash.

Il peso delle sovvenzioni

Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.

A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.

Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.

I cambiamenti

Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.

Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).

Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore.  Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.

Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-

zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.

Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.

Un’auto della polizia cinese di marca Byd, produttore in crescita vertiginosa e ormai pronto a invadere i mercati occidentali. Foto James Young 8167.

Modulare l’offerta

Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.

L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.

Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.

Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».

Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.

Raccolta di dati sensibili

Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.

Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere  (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.

Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.

Il Partito e la concorrenza

Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.

Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.

Le auto di Pechino

Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.

Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.

Uno schermo mobile con le applicazioni più comuni dei quattro giganti tecnologici cinesi Baidu, Alibaba, QQ di Tencent e MI di Xiaomi.  Foto Riccardo Milani / Hans Lucas / AFP.

Restrizioni e nuovi mercati

Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.

Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.

L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.

Alessandra Colarizi

 




L’auto migliore è quella che non si ha


Dal 2035 nei paesi dell’Unione europea si potranno vendere soltanto auto elettriche. Si tratta di una vera rivoluzione?

Con 339 voti a favore e  24 astenuti, l’8 giugno 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione europea tesa a vietare la vendita di auto a motore a partire dal 2035. Per diventare operativo il provvedimento necessita di un’ulteriore ratifica da parte del Consiglio europeo, l’organo che rappresenta i capi di governo,  ma tutti la danno per certa dal momento che il 30 giugno è già stato dato un parere positivo di massima.

Cina, Stati Uniti e Ue

La decisione di mettere definitivamente al bando, seppur fra 13 anni, la vendita di auto a motore termico si iscrive nella più ampia battaglia contro le emissioni di anidride carbonica che l’Unione europea ha dichiarato di voler perseguire. Scelta che va ad aggiungersi alle misure già varate nel 2021 attraverso il provvedimento denominato «Fit for 55» che si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030.

Con emissioni annuali pari a 3,5 giga tonnellate, ossia il 7,5% del totale mondiale, l’Unione europea è il terzo produttore al mondo di gas a effetto serra. Prima di lei c’è la Cina che ne emette 12 giga tonnellate e gli Stati Uniti che ne emettono 5,7 giga tonnellate. Ma, pur risultando fra i primi tre inquinatori mondiali, l’Unione europea si ritiene la più impegnata nella lotta contro l’anidride carbonica. Tant’è che, nel 2020, aveva livelli di emissioni ridotti del 34%  rispetto a quelli del 1990, benché organizzazioni come
Climate works foundation sostengono che il dato è falsato dal fatto che il calcolo comprende solo le emissioni prodotte internamente, mentre esclude quelle incorporate nei prodotti che importiamo dall’estero. Non solo beni finali come smartphone, auto, elettrodomestici, ma anche semilavorati come metalli, semiconduttori, pellami. Dato di non poco conto considerato che, negli ultimi anni, molte produzioni nocive sono state esportate in altri paesi consentendoci di alleggerire la nostra impronta di carbonio. Con il risultato che gli inquinatori risultano altri, magari la Cina o l’India, ma i veri beneficiari siamo noi, potendoci pure spacciare per virtuosi. Climate works foundation calcola che, se tenessimo conto anche delle emissioni incorporate nelle importazioni, la nostra quota di anidride carbonica risulterebbe più alta dell’11%.

Un ambito nel quale le nostre emissioni sono decisamente cresciute è quello dei trasporti. L’aumento più marcato si è avuto nel settore aereo dove le emissioni sono più che raddoppiate fra il 1990 e il 2019. Ma anche le emissioni su strada hanno visto un aumento del 20% nello stesso periodo. La conclusione è che oggi auto e furgoni contribuiscono al 15% di tutta l’anidride carbonica emessa nell’Unione europea. Ammontare che le autorità europee vogliono eliminare mettendo al bando l’auto a motore. Ma con quale prospettiva futura di mobilità?

Un autobus a idrogeno a Bolzano. Foto Sasa – Provincia autonoma di Bolzano.

Auto (bus) a Idrogeno

Di risposte possibili ce ne sono varie, ma quella verso la quale il sistema sembra orientarsi è una sola: il cambio di tecnologia. L’idea, insomma, è di continuare a concepire la nostra mobilità basata sull’auto privata, la quale invece di funzionare a benzina, funzionerà a elettricità. Ma con quale tecnologia e a quale costo economico, sociale e ambientale?

Ci sono due modi per fare funzionare automobili dotate di motori elettrici: con celle a combustibile e con batterie. Le prime dispongono di un serbatoio di idrogeno che alimenta un dispositivo elettrochimico (la cella combustibile) capace di produrre energia elettrica grazie a una particolare interazione fra   idrogeno e ossigeno. Il secondo tipo di auto, invece, funziona con batterie a ioni di litio che si ricaricano collegandosi alla rete elettrica. Entrambi i sistemi presentano le loro problematiche.

Nel caso delle celle a combustibile, il primo problema è come procurarsi l’idrogeno, un elemento abbondante in natura, ma non allo stato libero. Per cui va estratto da altri composti, in particolare acqua o metano. E qui arrivano i primi nodi. Per cominciare, i processi di separazione richiedono una grande quantità di energia elettrica che, se dovesse essere ottenuta bruciando combustibili fossili, tanto varrebbe continuare a viaggiare nelle auto a benzina. A maggior ragione se l’idrogeno venisse estratto dal metano perché, durante il processo, si accumulerebbe altra anidride carbonica come prodotto di scarto. In conclusione, l’idrogeno potrebbe essere annoverato fra i combustibili senza impatto climatico, solo se fosse estratto dall’acqua con energia elettrica ottenuta da sole, vento o altra fonte rinnovabile. Ma quanti impianti eolici, solari, idroelettrici, servirebbero per alimentare a idrogeno il miliardo e passa di auto oggi in circolazione? Del resto, una volta prodotto, l’idrogeno andrebbe distribuito in maniera capillare e questo è un altro scoglio perché, essendo molto leggero, non può utilizzare le tubature di metano oggi esistenti. Se poi si pensasse di trasportarlo con autocisterne, bisognerebbe prima comprimerlo utilizzando ulteriore energia elettrica. Senza dimenticare che, per caricarlo sulle auto, va messo in bombole addirittura in forma liquida, ossia raffreddato a 253 gradi sotto lo zero. E poi c’è la questione dei materiali utilizzati per le celle a combustibile. Un elemento chiave è il platino che però non è così abbondante, per cui si potrebbero porre problemi di approvvigionamento qualora l’auto a idrogeno dovesse diventare di massa.

Stante i molti nodi ancora irrisolti, il mercato dell’auto a idrogeno è ancora molto ristretto. A oggi, le uniche grandi case automobilistiche che ne producono sono Toyota e Bmw. Un certo sviluppo, invece, si registra nel settore dei grandi veicoli: camion, furgoni, autobus. In Italia, la Provincia autonoma di Bolzano già dal 2013 dispone di una flotta di autobus a idrogeno (in foto) che, nel maggio 2021, è stata arricchita di altri dodici esemplari. Quanto all’idrogeno, il rifornimento è  garantito grazie a un progetto di produzione locale cofinanziato con fondi europei.

Auto a batteria

Mentre l’auto a idrogeno stenta a partire, l’auto a batteria ricaricabile alla presa elettrica ha invece ingranato la marcia ed oggi occupa già l’1% del mercato mondiale. Ma, visti i costi di produzione, al momento i modelli in circolazione sono quasi solo di fascia alta. Tuttavia, l’industria confida di riuscire ad abbattere i costi e di potersi inserire, in tempi brevi, anche nei modelli più popolari. E basandosi sulla rapidità con la quale ai primi del Novecento scomparvero carrozze e cavalli, molti analisti scommettono che, nel 2040, a livello mondiale ci saranno due auto elettriche ogni tre nuove auto vendute. Oggi, il paese con il maggior numero di vendite di auto elettriche è la Cina. Nel 2021 ben 3,3 milioni, su un totale mondiale di 6 milioni di nuovi esemplari, sono stati venduti in questo paese. Ma non si sa con quali benefici reali per il clima dal momento che la Cina, in media perfetta col resto del mondo, ottiene solo il 30% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. Da questo si evince che, se il superamento delle auto a scoppio non va di pari passo con il superamento delle centrali elettriche funzionanti con combustibili fossili, forse ci guadagna l’industria automobilistica (che per vendere ha bisogno di continue novità), ma non il clima.

Fame di energia elettrica

Del resto, la questione climatica è solo uno dei problemi ambientali che stiamo vivendo, e per evitare di risolvere un problema creandone di nuovi, dovremmo affrontare il tema dell’auto elettrica in una prospettiva più ampia. Un tema centrale è quello del limite delle risorse, a sua volta intimamente connesso con quello dell’equità. La transizione elettrica, ossia il passaggio dalle centrali a combustibili fossili a tecniche di produzione di tipo rinnovabile, richiede apparecchiature costruite con minerali non così abbondanti sulla crosta terrestre. Due esempi sono il rame e il molibdeno. La loro richiesta futura è prevista in rapida crescita, ma non la loro estrazione. Il rischio è un collasso da scarsità che potrebbe essere evitato solo con una programmazione a livello mondiale. Attribuendo, cioè, a ogni nazione un massimale di assorbimento possibile tenendo conto dei bisogni di tutti. Ma da questo orecchio nessuno ci sente, meno che mai il Nord del mondo che continua ad avere livelli stratosferici di consumo di energia elettrica come se a questo mondo esistessimo solo noi.

In realtà, il pianeta è popolato da oltre otto miliardi di persone, molte delle quali in condizioni di vita subumana. Ad esempio, in Africa 700 milioni di persone non dispongono ancora di energia elettrica. Avrebbero diritto almeno a un pannello solare, ma rischiano di non poterlo avere finché noi non accetteremo di mettere un freno alla nostra insaziabile sete di energia elettrica per elettrodomestici, condizionatori, attività industriali e ora anche auto elettriche. Semplicemente perché c’è competizione per le risorse scarse.

In altre parole, bisogna scegliere se le risorse limitate esistenti sul pianeta le vogliamo utilizzare per i diritti di tutti o per i privilegi di pochi. Per entrambe le opzioni ormai non c’è più posto.

I costi delle batterie

Per trasportare cinque persone per un paio di ore su un’auto che viaggia a 150 chilometri all’ora, serve una batteria di quattro quintali, piena zeppa di grafite, alluminio, nichel, rame, manganese, cobalto, litio. Minerali presenti in maniera limitata sul pianeta, che per essere estratti e raffinati richiedono grandi quantità di energia e non solo. In Argentina, dove si estrae il 7% del litio mondiale, le comunità locali sono in lotta contro le imprese minerarie per il loro esagerato prelievo di acqua che mette a rischio le riserve di tutta la zona. In Congo, intanto, l’estrazione di cobalto è diventato tristemente famoso per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori.

Le ondate di calore, la siccità, gli incendi, la perdita di raccolti agricoli, i mari pieni di plastiche, la perdita di biodiversità, l’esplodere di malattie virali inedite, le migrazioni massicce, dovrebbero farci capire che non possiamo proseguire lungo la strada della crescita infinita di produzione e consumi.

Come rispettare ambiente e diritto alla mobilità

Dobbiamo ritrovare il senso del limite che, applicato al tema della mobilità, significa adattare il mezzo alla distanza, usare per quanto possibile strumenti che potenziano la nostra muscolatura, usare mezzi condivisi sulle lunghe distanze, accettare di spostarci di meno e a velocità contenuta. L’invito, insomma, è a coprire a piedi i piccoli percorsi, a usare la bici per i medi tragitti, a usare mezzi pubblici e condivisi sulle lunghe percorrenze, a concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita. Cambiamenti possibili che, pur non compromettendo il nostro diritto alla mobilità, possono garantire a tutti spazi di dignità nel rispetto del pianeta.

Francesco Gesualdi