Costa d’Avorio. Una Chiesa inculturata. Bellezza che evangelizza


Sommario:

Costruire una chiesa per dire la bellezza della fede. La missione prende casa

Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné, Nord della Costa d’Avorio, in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano la crescita della Chiesa locale. Annunciano il Vangelo con opere di promozione umana. Nel 2019 hanno inaugurato la nuova chiesa: umile, ma bella come una basilica. Una costruzione che parla della missione con la M maiuscola.

Dianra Village si trova nel Nord della Costa d’Avorio, nella regione del Béré, diocesi di Odienné. La parrocchia, dedicata a san Joseph Mukasa, catechista ugandese nato nel 1860, martirizzato nel 1885, proclamato santo nel 1964, è sorta nel 2012 ed è stata affidata ai Missionari della Consolata che sono presenti nell’area dal 2002. Il vescovo locale ha affidato loro l’intero dipartimento di Dianra che si estende su un territorio di tremila chilometri quadrati e conta attualmente duemila cattolici su una popolazione di circa centoventimila abitanti, prevalentemente musulmani e animisti.

In questo contesto la missione percorre i sentieri dell’annuncio, della consolazione e del dialogo attraverso un impegno di evangelizzazione dai molteplici volti, che incarnano il desiderio di manifestare a tutti la tenerezza di Dio.

Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia.

Segno del Regno nel cuore del mondo

Qui, su un piccolo poggetto di pietra rossa, nel 2019 è stata inaugurata la nuova chiesa, costruita con la più umile delle architetture, ma capace di stupire chi arriva come fosse una basilica.

Il progetto della chiesa parrocchiale è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore e nel desiderio dei fedeli della comunità.

Successivamente condiviso con i missionari della Consolata e da loro accolto, ha visto l’approvazione del vescovo diocesano e ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che lo hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente.

Questa storia ci parla di un cammino lungo, bello e faticoso, fatto di piccoli passi e di sorprese, di incontri inaspettati e di provvidenza, di vita donata e gratuita offerta di sé… in una parola del mistero della Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo.

Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.

«Voi siete tempio di Dio» (2 Cor 6,16)

Nel quinto anniversario della dedicazione della chiesa, abbiamo pensato di raccontare in un dossier la sfida missionaria del cantiere. La costruzione della Chiesa, infatti, va ben oltre i mattoni e gli affreschi: è occasione per rivelare a ogni uomo che egli stesso è tempio di Dio, a ogni comunità che è chiamata a essere popolo di Dio. La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo.

Matteo Pettinari


Dare forma visibile al mistero della salvezza.

Una chiesa per Dianra Village

Una consacrata di Senigallia, architetto, viene coinvolta nella progettazione di uno spazio liturgico in un territorio di prima evangelizzazione. Il suo racconto degli elementi architettonici della chiesa è lo spunto per una riflessione, quasi un canto di lode, sulla bellezza come strumento di annuncio.

La chiesa parrocchiale San Joseph Mukasa di Dianra Village nasce dalla fede grande del catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, sia locali che italiani, e dalla follia del mio amico padre Matteo Pettinari, che nel 2012 mi ha chiesto di dar forma al loro sogno di celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi.

Quello di Dianra era il mio primo cantiere. Io abito nella diocesi di Senigallia (An), ed ero a 7.186 km da lì, ma fortunatamente padre Matteo mi ha accolta diverse volte nella missione e mi ha insegnato ad ascoltare e amare la terra e la gente, perché, se uno spazio deve parlare di Dio, allora deve parlare il suo linguaggio, che è la comunione.

La nuova chiesa di Dianra Village ha sostituito la piccola cappella costruita dai primi catechisti nel 1986 e ormai incapace di contenere la comunità.

Nel terreno della parrocchia sorge un poggetto da cui si apre la vista sul villaggio. Qui vi sono la casa parrocchiale, con stanze per l’ospitalità e gli incontri, le aule per il catechismo e l’alfabetizzazione e il centro sanitario della missione. Ma il cuore spirituale della comunità è il boschetto accanto alla chiesa: sotto questi alberi secolari, padre Marcel Dussud, della Società delle missioni africane, celebrò la prima messa nel 1985. Qui, ancora oggi, c’è la grande pietra usata come altare.

La chiesa di Dianra è costruita attorno al fonte battesimale nel quale, durante la notte di Pasqua, scendono i catecumeni che si spogliano dell’abito vecchio per indossare quello di luce. Una volta battezzati, i nuovi cristiani «salgono» nella «stanza al piano superiore», nel corpo centrale della chiesa, nel quale tutto viene dato in dono dalla mano aperta del Padre che è rappresentata nel punto più alto sopra l’altare.

Tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside: lì tutto ciò che oggi è fatica e sudore diventa oro pieno di luce.

Ogni volta che lavoravo in cantiere, mi tornavano alla mente le parole di Gesù: «Perché abbiano la vita in abbondanza». Ecco, questo desidero e di questo credo parli la nostra piccola grande chiesa.

La stanza al piano superiore

Alla samaritana che gli chiede quale sia il luogo adatto per adorare Dio, il Signore risponde: «È giunto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4).

La nostra non è la religione del tempio e, per capire come edificare un luogo per la liturgia, è stato necessario comprendere dove e come ogni liturgia si svolge, perché l’edificio di mattoni potesse essere vero ponte del mistero di salvezza.

Nell’Ascensione, Cristo sale in cielo portando la natura umana nella dimora dell’Altissimo. Nella Pentecoste lo Spirito scende sulla terra e si nasconde nell’uomo per renderlo simile a Dio.

La liturgia della Chiesa è un dare forma, voce, spazio, materia, a questa azione della Trinità: ovvero è un accogliere lo Spirito che scende in noi e che ci rende Corpo di Cristo; ed è un salire in cielo, alla Casa del Padre, in Cristo.

Il brano che narra la Pentecoste ci dice che gli apostoli si riuniscono in una stanza al piano superiore. Progettando uno spazio nel quale celebrare il mistero della divina liturgia, abbiamo scelto di approfondire la Parola proprio su questo: la stanza al piano superiore è, ad esempio, la stanza del Re (Gdc 3,20; 2 Sam 19,1; Ger 22,14), ed è anche una stanza nuziale (CdC 1,4).

I fedeli di tutti i tempi hanno voluto edificare chiese che cantassero con la loro bellezza le lodi di Dio. Le case dei re, quelle del capo villaggio o del prefetto, anche a Dianra, si distinguono dalle altre per i colori della facciata e alcuni semplici elementi decorativi. E così anche la chiesa. Però, mentre le case dei potenti sono private e inaccessibili, la casa del nostro Re è aperta a tutti, è una bellezza a cui possono prendere parte tutti.

La chiesa è anche luogo di intimità con lo Sposo. Può sembrare fuori luogo far riferimento all’intimità coniugale in un contesto culturale poligamo come quello del Nord della Costa d’Avorio. Ma proprio per questo il messaggio cristiano è salvifico: Cristo ti ama, ti chiama, ti cerca personalmente, non come uno tra tanti, ma come persona unica e speciale.

La stanza al piano superiore, poi, per la Scrittura è anche il luogo della vita eterna (1Re 17,19; 2Re 4,10; At 9,36-43) e dell’Eucarestia (Mc 14,15; Lc 22,12; At 1,13; At 20,8).

Ogni chiesa è luogo di resurrezione e di festa: questa pienezza di vita che ci attende in paradiso, già ora ci è donata mediante i sacramenti. L’asse principale dello spazio liturgico parte dal fonte battesimale, posto all’ingresso, e culmina nell’abside, nella piazza d’oro dell’Apocalisse.

La centralità dell’altare richiama il banchetto a cui il Signore ci invita. E questa comunione con Lui rende anche noi Corpo di Cristo, sue membra. La pianta a croce latina è dall’antichità simbolo della Chiesa-Corpo di Cristo.

La stanza al piano superiore, infine, è nei cieli (Ap 4,1), ed è, al tempo stesso, nel cuore della città (At 1,13; At 9,37; At 20,8): la liturgia per noi cristiani non è un rito, ma partecipazione alla festa che i santi celebrano in cielo. Lo spazio liturgico è luminoso, colorato, più bello possibile, nell’intento di accendere nei fedeli il desiderio del paradiso. Allo stesso tempo la chiesa è fontana del villaggio, luogo da cui sgorgano pace, mitezza, gioia, bellezza, amicizia, riconciliazione per tutti. Ecco perché lo spazio attorno alla chiesa diventa una piazza, il luogo della danza e della festa.

Via Crucis quaresimale

Venite a me voi tutti

Quando arrivi sul poggetto dove è costruita la chiesa, ti accoglie un portico.

Come accadeva già nelle prime chiese cristiane, vi è uno spazio dedicato al catecumenato, all’iniziazione cristiana, esperienza e tempo di grazia in cui la persona che si sente attirata dalla testimonianza e dall’annuncio comincia a leggere la propria vita con lo sguardo della rivelazione cristiana.

Il portico mette in dialogo alcuni simboli cristiani con l’arte tradizionale senufo (etnia maggioritaria nella zona, ndr). Le persone che arrivano, infatti, non vedono come prima cosa una iconografia cristiana che non saprebbero decifrare, ma simboli che, da un lato richiamano la loro esperienza quotidiana e, dall’altro, attirano a qualcosa di nuovo (inframezzati ai simboli senufo vi sono, ad esempio, alcuni simboli paleocristiani come il pesce).

Sotto il portico si svolgono le catechesi e le settimane di formazione residenziale. È un luogo che prepara, quindi, all’ingresso in chiesa e all’ingresso nella Chiesa, ma è anche luogo e spazio di relazione. Concretamente, così come c’è stato bisogno che alcuni padri traducessero il Vangelo in lingua senari (una delle lingue parlate dai Senufo, ndr), così anche l’architettura dice la necessità di mettersi in dialogo con la cultura specifica del popolo che abita questo luogo.

Il portico è lo spazio del dialogo tra il Vangelo e la realtà, di incarnazione e di inculturazione. Non a caso è verde: perché ci ricorda che già tutta la creazione e tutte le culture, e i popoli, portano i semi del Verbo e gemono nell’attesa di poter celebrare il creatore (Rm 8,19-24).

Nel portico c’è tutto il verde della foresta, della savana, e la cultura di questo popolo che attende Cristo, così come ogni uomo. L’uomo in ricerca è simboleggiato dalle cerve che sono disegnate con l’arte senufo, perché la cerva ci ricorda l’anelito dell’uomo a Dio: la tradizione dice che la cerva che mangia il serpente nell’arsura cerca l’acqua come noi cerchiamo il Signore dopo il peccato.

Sotto il portico è raccontato questo incontro attraverso tre icone dipinte sopra le porte, raffiguranti i vangeli che la chiesa utilizza come testi di riferimento nel tempo quaresimale per il cammino dei catecumeni.

Io sono la porta, dice Gesù (Gv 10), e noi abbiamo costruito una porta enorme, da cui tutti posso entrare: nel portale è inciso il simbolo di Cristo (P) ed è raffigurato il Buon pastore che attira a sé le pecore: «Venite tutti a me», Ye myé yaa maa mì mà, in senari. È Cristo che ci attende, ci attira a sé, viene a chiamarci fuori dalle tenebre, per salvarci dalla morte.

Chi arriva in questo luogo santo non può che alzare lo sguardo e incontrare il suo.

Attorno al Cristo, sul portale c’è un arco dipinto con i simboli tradizionali senufo: il Cristo viene a chiamare tutte le culture e tutti i popoli, nessuno escluso. Non ci sono più persone o gruppi maledetti esclusi dalla grazia. Ogni cosa è chiamata a ricapitolarsi in Cristo, a ritornare a Lui.

Daniela Giuliani

La materia trasfigurata dall’amore

È il Natale del 2012 quando in tantissimi rimangono fuori dalla piccola cappella perché non c’è più posto. A sorpresa, padre Matteo mi presenta alla comunità: l’amica architetto che progetterà la nuova chiesa. Il mio stupore e timore sono grandi. Gli abbracci della gente dicono: «Dio si è ricordato di noi».

Seguono tre anni di ascolto dei missionari, della tradizione del popolo senoufo, di Maxime e dei catechisti, di amici artisti e tecnici. Poi tre anni di cantiere. È un lavoro che ci insegna tanto: sulla cultura locale, sulla fede della gente semplice, sui materiali del posto, sul cammino dei nuovi cristiani che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, sulle architetture copte e siriache che sono le più vicine alla terra ivoriana.

Procediamo spesso a tentoni, senza pretendere di capire tutto. Viviamo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano arrivano.

E con stupore i mattoni impastati uno a uno diventano muri, archi, volte. Cose mai viste a Dianra, realizzate da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni dapprima frammentano, e poi ricompongono, con l’aiuto di giovani italiani arrivati a Dianra per un’esperienza di missione.

E poi c’è Soro, un uomo piccolo di statura che si arrampica su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti usando tre barattoli di colori da carrozzeria con un’abilità degna dei migliori artisti.

In chiesa lavorano differenti abilità, lingue, etnie e religioni. Potrebbe essere una Babele, ma non lo è. Chi fa i mosaici a terra, chi dipinge le pareti, chi costruisce la volta a botte. Ciascuno è qui non per essere il primo, ma per servire nell’unità.

Lo spazio liturgico è abitato, è spazio di incontro. La Liturgia che vi si celebra mette in relazione la vita della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade) con quella del cielo (dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio illumina tutto).

Ciascuno si ripete: «Quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: ad esempio sta nel fatto di non poter usare i materiali che vorresti, di non poter decidere tu, di fidarti dell’altro. Allora ciò che edifichi non parla più solo di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio.

Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio», come amano definirla le persone del luogo, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, possono essere i più belli della Costa d’Avorio!

D.G.

Catecumeni nella notte di Pasqua

Celebrare la vita nuova

Il racconto meditato di una veglia pasquale nella quale 27 catecumeni ricevono il battesimo. Ogni elemento architettonico e iconografico della chiesa di Dianra accompagna la celebrazione e il senso della vita cristiana che i battezzati vivranno.

Questa è la notte delle notti, la notte di Pasqua: i catecumeni della missione di Dianra Village sono ventisette e oggi, vestiti di bianco, celebrano la vita nuova che è data loro in dono. Nessuno può trattenere la gioia e la commozione, che si fanno danza, canto, rendimento di grazie.

Tutta la chiesa è costruita per celebrare questa notte, nella quale Cristo con la sua morte e resurrezione ci dona la Vita nuova, che non muore più.

Quando si entra in chiesa attraverso il portale si fa memoria della vita nuova che abbiamo ricevuto, o ci si prepara a riceverla. Sul portale è dipinto il Buon Pastore che chiama le pecore a uscire dalle tenebre, dalla morte, per trovare vita in lui.

Come nell’arte paleocristiana, anche qui il Pastore che prende la pecora sulle spalle è figura di Cristo che vuole donarci vita in abbondanza. Cristo nel battesimo ci innesta in sé. Lui è la Porta e, attraverso di lui, entriamo in una nuova vita, nella Chiesa, suo Corpo (Eb 9,24-28).

Entrando dal portale ci si ritrova sotto una volta a botte dipinta di azzurro che ci avvolge come un grembo materno, un grembo di cielo, al cui centro è collocato il fonte battesimale: è la Chiesa che genera i suoi figli portandoli a Cristo nel sacramento del battesimo. Lo Spirito santo è dipinto sul portale come una colomba, e a terra, nel mosaico, come una fiamma e come un uovo fecondo, perché è nello Spirito e da esso che riceviamo la Vita (Gen 1,2; Gv 3,1-8).

Al centro c’è il fonte battesimale a forma di croce, con tre gradini che scendono e tre che salgono: rinasciamo immersi nella morte di Cristo, nella sua Pasqua (Rm 6,1-14)

Ed eccoli i catecumeni di Dianra, che nella notte di Pasqua, al buio e vestiti di bianco, scendono i tre gradini del fonte, morendo alla vita vecchia con Cristo. Chinano il capo, i padrini tengono una mano sulla spalla, padre Matteo li battezza versando l’acqua sul capo che scende e bagna le vesti. Poi sollevano il capo e risalgono i gradini verso la comunità. Risorti con Cristo. Il volto è raggiante.

Le pareti interne del fonte sono rivestite di mattonelle azzurre che rimandano all’acqua viva del battesimo a cui sempre possiamo attingere: la porta e il fonte posti all’ingresso della chiesa permetteranno in futuro a questi nuovi cristiani di fare memoria del dono ricevuto questa notte.

E chi questo dono non può riceverlo o lo ha dimenticato? Di fronte agli uomini e alle donne di Dianra, in un contesto di primissima evangelizzazione, nel quale i cristiani sono minoranza, di forte presenza dell’islam e dell’animismo, le domande sulla salvezza diventano urgenti.

Per questo nella chiesa abbiamo aperto altre due porte ai lati del portale: quella del battesimo delle lacrime, per ricordare che Cristo accoglie tutti coloro che sono nel pianto, e quella del battesimo del sangue, per ricordare che la partecipazione al sacrificio di Cristo può avvenire anche «fuori» della Chiesa, come i piccoli santi della strage degli innocenti (Mt 2).

Nel pentimento e nel dono di sé tutti possono entrare nello spazio della salvezza che è Cristo.

Vivere da figli, imparando ad amare

I neofiti escono dal fonte, e si apre per loro la vita cristiana. Il primo passo poggia su una croce. E anche quello dopo e quello dopo ancora, su croci colore rosso che guidano il cammino fin sotto l’altare. Cantano percorrendo la navata. Sanno di non essere più soli nel cammino.

La forma della vita nuova, della vita cristiana, è la croce, è l’amore. Questa via crucis è in realtà una via amoris, un cammino di amore che ci fa diventare sempre più conformi a Cristo.

Il percorso della vita cristiana va dalla vita ricevuta alla vita donata, è un percorso che inizia dal battesimo che abbiamo ricevuto gratuitamente e termina sull’altare, laddove offriamo con Cristo, per Cristo, in Cristo, la vita al Padre.

Questo percorso non si fa da soli, ma dentro un popolo: la navata, infatti, ricorda una barca, simbolo della Chiesa, e alle sue pareti ritroviamo volti e storie di questo popolo che cammina, da un lato quello di Israele nell’Antico testamento, dall’altro quello di Cristo nel Nuovo testamento.

I neobattezzati arrivano così davanti all’altare. Lì, a terra, un mosaico pieno di colori con una croce al centro segna il punto in cui per la prima volta si ciberanno del Corpo di Cristo.

Si inchinano. Qui la terra tocca il cielo. La loro umile vita tocca l’infinito di Dio.

Questo luogo, nelle chiese antiche si chiama onphalos (ombelico in lingua greca), ed è collocato spesso sotto la cupola, il punto in cui la costruzione dell’uomo arriva a toccare il cielo, e si apre facendo entrare un raggio della luce di Dio che ci raggiunge. L’ombelico è il baricentro dell’uomo ed è il punto tramite il quale, quando si trova nel gremo materno, riceve il nutrimento. Nell’onphalos noi riceviamo il nutrimento per il cammino, il corpo e il sangue di Cristo.

Attorno all’onphalos, quattro pilastri ricordano i pinnacoli che reggono la cupola: in essi sono raffigurati gli evangelisti, perché è l’ascolto della Parola che sorregge il nostro cammino e ci rende amici di Dio.

Dopo l’inchino, ora i nuovi cristiani alzano il capo e il loro sguardo si fa raggiante: dopo essere morti e risorti nel fonte, dopo aver percorso nella navata il cammino in una via crucis d’amore, dopo aver ricevuto il nutrimento del Pane di vita e della Parola, ora non sono più schiavi, ma figli amati e amici del Signore e, alzando lo sguardo, incrociano lo sguardo del Cristo Risorto, in Gloria.

Chi entra in chiesa nota subito l’assenza del crocifisso al centro dell’abside, tipico di molte chiese degli ultimi secoli. Qui a Dianra abbiamo ripreso la tradizione del primo millennio nella quale al centro dell’abside vi era sempre il Risorto, il Veniente, il Pantocrator, a ricordarci che la croce non è punto di arrivo, il compimento della vita cristiana, ma il cammino, la forma pasquale della vita cristiana e dell’amore che si dona, che trova pienezza e compimento nella gloria, nella Gerusalemme celeste.

Il culmine della vita nuova ricevuta nel Battesimo e del cammino cristiano è la Vita Eterna, il Paradiso.

Ora non è più notte. La luce ha vinto le tenebre. Non dobbiamo più temere la morte. Esplode tra i neofiti il canto dell’Alleluja.

Daniela Giuliani

Rappresentare un Dio accessibile

La parola si fa carne e volto

In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente.

La fede nasce dall’ascolto. Mi commuovo ogni volta che sento annunciare il Vangelo in senari, la lingua locale del popolo senufo. Perché Dio Padre non potrebbe parlare a questa gente se alcuni missionari innamorati di Dio e degli uomini non avessero fatto la fatica di imparare questo idioma e di tradurre la Buona Novella.

Allo stesso modo, a questa Parola urge un volto. Perché la nostra non è la fede del libro, ma è la fede in Cristo Gesù che si è fatto uomo ed è venuto a rivelarci il volto di Dio.

In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale animista è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente. È il volto di un Dio che non è inaccessibile e ci vuole incontrare, è il volto dell’amore. È il nostro volto, di noi che siamo creati a sua immagine e somiglianza.

Gli affreschi della chiesa mostrano volti, rendono presenti coloro che sono raffigurati, chiedono un incontro. E sono accessibili a tutti, non occorre saper leggere o conoscere chissà quali dottrine: basta lasciarsi incontrare dal suo sguardo.

Si è incarnato

Nella navata che rappresenta il cammino del popolo di Dio, le pareti sono affrescate con la storia della salvezza. Avendo l’altare di fronte, sulla sinistra sono rappresentati episodi dell’antico testamento, sulla destra del nuovo.

Una storia della salvezza che comincia dal principio, con Adamo ed Eva, e trova compimento nell’incarnazione, fino alla morte e resurrezione di Cristo. Il Risorto spalanca le porte degli inferi e libera Adamo ed Eva dalla morte. E con loro ciascuno di noi, raggiunti dall’annuncio.

A chiunque entra nella chiesa, missionario o neofita che sia, illetterato o teologo, le scene della salvezza pongono una domanda: la luce viene nel mondo, sei pronto ad accoglierla e a riconoscerti figlio di Dio? O sceglierai di restare nelle tenebre?

I quattro pannelli dell’Antico testamento riprendono le grandi tappe della liturgia della Parola della notte di Pasqua.

Adamo ed Eva nel giardino (Gen 3,1-13): qui contempliamo l’origine di ogni peccato. Eva si mette in ascolto del serpente, anziché dialogare con Dio, e sceglie di disobbedire, di dar credito alle menzogne della tentazione, di non fidarsi del Signore che ha dato loro la vita. L’uomo sceglie qui di rompere la sua relazione con Dio.

Caino e Abele (Gen 4,1-16): nella seconda icona contempliamo le conseguenze della rottura con Dio, che porta alla rottura della relazione con il fratello. Dall’albero da cui Eva coglie il frutto della disobbedienza, simbolicamente è presa anche la pietra con cui Caino uccide Abele. Il non ascolto di Dio ci rende sordi al fratello.

Abramo e il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19): nella terza immagine troviamo Abramo, padre nella fede, primo dei credenti. In lui, che torna a dialogare con Dio e a fidarsi della sua Parola, si compie la prima alleanza. Qui è raffigurato nell’atto di sacrificare Isacco (figura di Cristo, il quale si offrirà allargando le braccia sulla croce).

Mosè e il passaggio del Mar Rosso (Es 15,1-21): l’ultima scena dall’Antico testamento raffigura Mosè che, nella notte della Pasqua ebraica, apre le acque del Mar Rosso, e porta in salvo gli israeliti. Vittoria di Dio sul faraone d’Egitto, notte di liberazione dalla schiavitù, che accende anche in noi la speranza di una salvezza possibile, di una vita nuova in cui non essere più schiavi, che troverà compimento nel battesimo.

Specularmente, le icone raffigurate sulla parete di destra narrano il mistero di Cristo instaurando un dialogo di rimandi tra antico e nuovo testamento.

L’annunciazione (Lc 1,26-38): nella prima scena contempliamo il sì di Maria, la nuova Eva, che rivolge l’orecchio e il cuore alla Parola. Si mette in ascolto di Dio che in Lei compie le sue promesse. E il rotolo della Parola, che Maria abbraccia, diventa il cammino verso l’altro, verso Elisabetta.

La visitazione, l’incontro con Elisabetta (Lc 1,39-56): se in Caino abbiamo visto che la disobbedienza rompe la relazione con Dio e con il fratello, in Maria vediamo invece che l’obbedienza e l’ascolto ci rendono capaci di andare verso l’altro, di portare la novità che è Cristo nelle relazioni.

La natività (Lc 2,1-20; Mt 2,1-12): la terza scena raffigura la natività del Signore, ed è posta in dialogo con il sacrificio di Abramo. Lì Abramo è pronto a offrire il figlio per non rompere l’alleanza con Dio, qui è Dio Padre che offre il Figlio per l’umanità. Nessun sacrificio è più necessario, Cristo si fa uomo, Dio-con-noi, e viene a salvarci.

Il battesimo di Cristo nel Giordano (Lc 3,21-22): l’ultima scena, di fronte a quella di Mosè che apre il Mar Rosso, raffigura il battesimo di Cristo. Gesù scende nel Giordano come dentro una tomba, si immerge nella morte dei nostri peccati, per darci vita. Il suo battesimo santifica le acque del Giordano e quelle di ogni fonte battesimale: immersi in Lui, anche noi possiamo partecipare alla liberazione dalla schiavitù della morte e del peccato, come gli israeliti che attraversano il Mar Rosso.

Il compimento della storia dell’alleanza

Completa il ciclo del Nuovo testamento, ormai giunti dinanzi all’abside, l’icona della passione e morte di Cristo: è Cristo che dà la vita per noi, in una kenosis (svuotamento) che comincia con l’incarnazione, trova prefigurazione nel battesimo, e arriva fino alla morte in croce (Gv 19,16-30). È lui il Figlio mandato dal Padre per salvarci. È lui che ci mostra l’Amore del Padre, che avevamo perduto.

E dalla parte opposta, il compimento della storia dell’umanità, la resurrezione di Cristo raffigurato nella discesa agli inferi (At 2,22-31; Ap 1,17-18). Qui ritroviamo Adamo ed Eva, quindi tutta la storia, tutta l’umanità, ogni popolo che sta nello sheol (il regno dei morti). Cristo vi entra e dona vita nuova all’umanità, aprendo per sempre le porte degli inferi. Cristo è davvero risorto!

Per la salvezza del mondo

Tra lo spazio della navata, che è quello del popolo in cammino, dell’ascolto e della catechesi, e lo spazio dell’abside, è collocato un arco. Questo introduce all’altare e al mistero eucaristico, come per l’iconostasi delle chiese ortodosse.

Nella sommità dell’arco troviamo la mano del Padre aperta che ci ricorda che Dio è amore che dona tutto, dona se stesso nel sacrificio del Figlio per la salvezza e la vita del mondo. Tutta la liturgia ha origine in questa mano sempre aperta.

Accanto alla mano del Creatore, fonte e sorgente della liturgia che si celebra sulla Terra, troviamo due angeli che ci ricordano la liturgia che si celebra nei cieli, speculari a due altri pannelli in stile batik tradizionale che si trovano in basso e riproducono alcune donne che portano doni danzando, e due ballafonisti che suonano.

La liturgia terrena, che vede il popolo lodare il Signore con la danza e l’offerta dei doni, è speculare a quella celeste nella quale gli angeli portano anch’essi doni all’Altissimo e suonano cimbali e sistri: segno della comunione tra cielo e terra.

Nelle liturgie di Dianra, le offerte, in monete o in natura, non sono raccolte tra i banchi, ma vengono deposte ai piedi dell’altare dai fedeli che, danzando in processione, compiono un percorso di offerta di sé all’altare di Cristo, un’offerta importante per la vita della Chiesa.

L’altare

L’altare è il cuore dell’azione liturgica dell’eucarestia, la mensa nella quale Cristo ci ha resi partecipi del suo dono d’amore.

L’altare della chiesa è di forma quadrata: ricorda i quattro punti cardinali, e quindi l’universalità della salvezza. È un’offerta per la vita del mondo, per tutti, per ogni continente, ogni popolo.

L’altare è costruito su delle pietre prelevate dalla comunità dal poggio sul quale sorge la chiesa.

Qui, sotto gli alberi, ci sono delle grandi pietre usate come altare dai primi missionari arrivati negli anni 80: l’altare di oggi si fonda sulla fede di chi ci ha preceduti e ha dato la vita perché giungesse a noi il Vangelo. Incastonata nell’altare si trova anche la reliquia di santa Maria Goretti, dono della diocesi di Senigallia, a significare anche il legame di fede tra la Chiesa locale italiana e quella di Dianra.

L’abside

Il compimento dell’azione liturgica che parte dalla mano aperta del Padre e ci invita a offrire la nostra vita, è rappresentato nell’Apocalisse, ai capitoli 21 e 22, e raffigurato nell’abside della chiesa.

Il Cristo seduto sul trono, la piazza d’oro, la Gerusalemme celeste adorna come una sposa, la comunione dei santi.

Fiumi d’acqua viva sgorgano dal trono di Cristo, e non avremo più sete, e anche le nostre capanne diventeranno d’oro, perché ciò che noi costruiamo nell’amore è partecipazione del regno e lo ritroveremo trasfigurato ed eterno in paradiso.

Accanto ai fiumi di acqua viva che danno vita e agli alberi i cui frutti guariscono le nazioni, troviamo il popolo di Dio in cammino: una famiglia che raccoglie il cotone, altri che raccolgono il riso, accanto a un operatore sanitario, un maestro, un catechista.

L’abside rivela l’orizzonte e il compimento della vita cristiana: alla sera della vita torneremo al Padre, con i suoi doni e il frutto del nostro lavoro, e celebreremo insieme a tutti i santi la misericordia e la bontà del Signore.

Nella liturgia che celebriamo tra noi e con tutti i santi e i defunti che ci hanno preceduto nella fede e, allo stesso tempo, nella «liturgia» quotidiana del lavoro, dell’attività pastorale, ciascuno è parte della trasformazione del mondo dove ogni cosa partecipa dell’amore e loda il Creatore.

La liturgia domenicale diventa sorgente e maestra dell’arte della vita.

Il granaio

La cappella feriale, luogo della custodia del Santissimo, è realizzata come un grande granaio: un volume rotondo, alto, che riprende le architetture rurali dei villaggi nei quali ogni nucleo ha uno spazio per custodire il riso o il cotone, ciò che dà sostentamento alla famiglia.

Chi vede un granaio sa che lì si custodisce ciò che dà nutrimento ed è fonte di vita.

Il granaio è la cappella dove ci si ritrova in fraternità attorno alla mensa della Parola e del Pane.

Il granaio è luogo di intimità, di adorazione silenziosa, ma ricorda anche che la liturgia è per la salvezza del mondo che attende quel pane di vita, e che noi discepoli siamo chiamati a farci pane per il villaggio, a farci missionari.

A indicare questa missione è il mosaico composto sul pavimento del granaio: raffigura un pane nel quale riconosciamo Cristo con il costato trafitto da cui sgorga la grazia dei sacramenti. Questo pane genera altri dodici pani che ricordano che anche noi siamo chiamati a farci pane. «Noi diventiamo ciò che riceviamo», diceva san Gregorio Magno: nutrendoci di Cristo diveniamo pane di vita per chi ha fame, cibo per la salvezza del mondo.

Dietro l’altare abbiamo posto una croce in legno composta da una pala verticale che raffigura Cristo mentre offre il pane e il vino, e da due pale orizzontali che presentano i dodici apostoli chiamati a nutrirsi di quel pane per portarlo al mondo.

È significativo farci Corpo di Cristo proprio qui, dove si riuniscono in special modo i catechisti e i responsabili della comunità. Da qui attingono la grazia di divenire uno, un solo corpo e un solo spirito, per poi tornare al villaggio tra la gente.

Sotto il tuo manto

Nell’incrocio del transetto, andando verso il granaio, troviamo uno spazio dedicato alla statua della Consolata e alla devozione a Maria.

Maria è cammino della Chiesa. È lei che indica la via: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5).

Maria è la via dell’incarnazione. Grazie a lei, Dio ha posto la sua tenda tra gli uomini: per questo abbiamo decorato questo spazio come una tenda.

La preghiera dell’angelus, che i Missionari della Consolata recitano prima di ogni azione liturgica, ci ricorda il mistero dell’incarnazione: senza Maria il Verbo non avrebbe preso carne.

Maria ci insegna a confidare in Dio. La preghiera del Magnificat, che i fedeli recitano ogni mattino qui in chiesa, è anch’essa una chiave di lettura per la liturgia: la nostra piccolezza può aprirsi alle grandi opere di Dio se gli affidiamo ogni cosa.

Maria Consolata, dona a noi il Consolatore. Questo spazio, questo angolo mariano, è visibile e accessibile anche dall’esterno, e chi passa può fermarsi a pregare. È a lei che per prima chiediamo conforto e consolazione e spesso è proprio con Maria che avviene il primo incontro del fedele.

Maria è raffigurata con il manto aperto, è il manto di misericordia, di accoglienza, di protezione, di intercessione. Nel suo grembo è dipinto il volto di Cristo, perché in lei Dio si incarna e si dona a noi.

E Maria, raffigurata con le mani alzate nell’atto di imitare il Cristo, è anche la «somigliantissima», colei che, primizia tra i credenti, si fa simile al figlio, la tutta santa, ci insegna la via della santità.

Daniela Giuliani

Il giorno della dedicazione

Dianra Village, 3 marzo 2019. Dal centro sanitario parte la processione composta dal vescovo di Senigallia, monsignor Franco Manenti, con l’emerito monsignor Giuseppe Orlandoni, dal vicario di monsignor Antoine Koné, il vescovo di Odienné, dai padri missionari giunti da tutta la Costa d’Avorio, e dalla comunità di Dianra. Arriva davanti alla porta della chiesa dove il rito di dedicazione prevede che l’architetto, i muratori, gli artisti e i donatori consegnino simbolicamente la nuova chiesa al vescovo.

In un istante rivivo tutti i sei anni di lavoro.

Ricordo la notte di Natale del 2012, i dubbi, i racconti di Maxime, le visite ai villaggi per trovare terracotte e ispirazioni. E poi Konaté e i suoi tecnici e muratori
Silue, Noel, Fofana. Ricordo Gioele, Martina, Francesco, e i tanti catecumeni. Il paziente Abou chino sui mosaici, Riccardo e Carla.

E poi i siti copti e l’aiuto di Stella che aprono al lavoro sui dipinti. E Soro: grazie al lavoro di questo giovane, piccolo di statura e silenzioso, e ai suoi tre barattoli di colori da carrozzeria, ogni uomo e ogni donna oggi possono incontrare il tuo sguardo d’Amore, Signore.

Ecco, la processione è arrivata a noi, padre Matteo illustra l’impostazione della chiesa, come già tante volte gli è capitato di fare perché la comunità crescesse insieme al cantiere in questi anni, e noi consegniamo le chiavi. Per la Gloria di Dio e la Salvezza del Mondo, ci ricorda la liturgia.

Il vescovo bussa tre volte e si spalanca la porta. E in uno sguardo pieno di stupore ci appare la chiesa adorna come una sposa pronta per il suo sposo.

È gioia grande. Percorriamo la navata: dal fonte battesimale, grembo di vita nuova, alla Gerusalemme celeste, dove un giorno ci ritroveremo tutti nell’Amore che non ha fine.

Tutti gli occhi ora sono rivolti verso Te, Signore.

Noi artigiani e artisti ci facciamo piccoli da una parte: sappiamo bene che il vero Architetto sei tu. Che tutto hai disposto per avere una dimora in cui lasciarti incontrare dagli uomini e dalle donne di Dianra.

Magnificat anima mea!

D.G.

Hanno firmato il dossier:

  • Daniela Giuliani
    Consacrata dell’Ordo Virginum della diocesi di Senigallia, architetto.
  • Matteo Pettinari
    Missionario della Consolata, in Costa d’Avorio dal 17 gennaio 2007. Dal 17 dicembre 2011 vive e lavora nella missione di Dianra. Da luglio 2022 è il superiore della delegazione dei Missionari della Consolata nel Paese. È parroco a Dianra Village.

Per ulteriori immagini e video: Canale youtube «Consolataivoire».

 

 




Dalla schiavitù al Cristo negro


I conquistatori portarono nelle Americhe gli africani e il cattolicesimo. Che tipo di relazione s’instaurò tra gli schiavi neri e la religione? Come si arrivò alle effigi nere venerate in molti paesi latinoamericani?

La storia degli schiavi africani a Panama, le loro lotte e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Nel XVI secolo gli schiavi insorti Felipillo e Bayano liberarono centinaia di loro compagni dal giogo spagnolo trasformando l’istmo panamense in un territorio della resistenza contro l’oppressione degli uomini su altri uomini. Una geografia articolata che passa dal Corridoio del Darien, la selva che oggi unisce Panama con la Colombia (dove appunto operarono Bayano e Felipillo), a quella che viene chiamata «Costa Arriba» (nell’attuale provincia di Colón), dove successivamente si svilupparono i principali insediamenti di afrodiscendenti.  Proprio nella zona di Costa Arriba, nel 1502, arrive Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio in quelle che ancora non si chiamavano Americhe. La città di Nombre de Dios venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è considerata il più antico insediamento, ancora abitato, costituito nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 ad opera del corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella vicina Portobelo, in una zona più salubre e fortificabile, un luogo nel quale si sarebbe concentrata la storia e la tradizione afrodiscendente. In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi, ma senza dubbio Portobelo rappresenta il loro centro identitario più forte. All’epoca non era un luogo di permanenza della popolazione nera, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità afrodiscendenti stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica.

È proprio in questa cittadina affacciata sui Caraibi che si trova un simbolo di pellegrinaggio e ragione identitaria del cattolicesimo nero (e non solo) a Panama: il Cristo negro di Portobelo. Un’effige che ci offre la possibilità di esplorare una pagina importante del passato e del presente afrodiscendente della regione latinoamericana e caraibica. Si tratta, infatti, di una storia che affonda le radici nel tempo della colonia spagnola e che, se da un lato è avvolta dal mito, dall’altro rispecchia una relazione controversa delle comunità afrolatine e afrocaraibiche con il credo cattolico.

Fortezza spagnola con cannoni a Portobelo, porto naturale che fu di grande rilevanza durante l’epoca della Conquista. Foto Jefe LeGran.

21 ottobre 1658: l’arrivo

Non c’è una verità certa sull’orgine di questa effige sacra. Esistono, infatti, almeno tre versioni diverse su come e perché il Cristo negro sia arrivato a Portobelo: ad ogni modo tutte coincidono sulla data, cioè il 21 di ottobre del 1658.

La prima versione, conosciuta come «la cassa e la tempesta»,  parla di una nave spagnola che sulla rotta per Cartagena de Indias (Colombia) fece scalo a Portobelo. Ogni volta che l’equipaggio si preparava a salpare per raggiungere la destinazione finale si alzava un forte vento e la tempesta li obbligava a ritornare al porto. Al quinto tentativo la nave subì notevoli danni e sfiorò per poco un drammatico naufragio. Fu a quel punto che per rendere la nave meno pesante e quindi più maneggevole, l’equipaggio gettò in mare parte del carico riuscendo a riprendere la navigazione. Tra gli oggetti che vennero lanciati fuori bordo c’era una cassa che venne ritrovata poco dopo da alcuni pescatori del posto. Quando questi la aprirono, con grande sorpresa videro che conteneva l’immagine del Nazareno: un Cristo negro che venne subito portato al villaggio e collocato nella chiesa.

La seconda versione, conosciuta come «la cassa e l’epidemia» parte dal punto nel quale dei pescatori incontrarono una cassa sulla spiaggia. Aprendola, scoprirono al suo interno il Cristo negro. Interpretarono il fatto come un segno, giacché la zona era afflitta in quel momento da una terribile epidemia di colera (o di vaiolo, secondo le versioni). L’effige venne collocata nella chiesa di Portobelo e – come narra la leggenda – quasi immediatamente l’epidemia cessò e i malati furono miracolosamente sanati.

La terza versione parla di un errore, ed è infatti conosciuta come «lo scambio di effigi». Secondo questo racconto, il Cristo negro arrivato a Portobelo era inizialmente destinato alla chiesa di Taboga, una piccola isola nel pacifico di fronte alla costa della città di Panama. Quella comunità aveva infatti commissionato a un artigiano spagnolo un’immagine di Gesù Nazareno. Allo stesso artigiano era stata però commissionata anche una statua di San Pietro proprio da parte della comunità di Portobelo. Durante il viaggio dalla Spagna ci fu un errore di consegna e così, mentre la chiesa di Taboga ricevette l’effige di San Pietro, quella di Portobelo ricevette il Gesù Nazareno. La leggenda racconta che tutti gli sforzi fatti per rimediare all’errore furono infruttuosi: infatti tutte le volte che si pianificava lo spostamento del Cristo negro da Portobelo succedeva qualcosa che lo impediva. A quel punto la comunità afrodiscendente del luogo interpretò gli eventi come un segnale divino, decidendo che Portobelo sarebbe stata la nuova casa del Cristo negro. Parte di questo racconto è fortemente radicato nella tradizione orale, tanto che nel mese di ottobre, quando si canta e si balla di fronte al simbolo della città, le persone recitano: «En Portobelo te quedaste, como signo de tu amor» (A Portobelo sei rimasto, come segno del tuo amore).

Ogni anno a partire dal 15 di ottobre si assiste a una manifestazione di fede e devozione che supera di molto i confini di Portobelo e della provincia di Colón. Sono infatti migliaia le persone che da tutta Panama fanno lunghi pellegrinaggi per andare a incontrare il Cristo nero nella settimana della sua celebrazione che ha il suo culmine il 21 di ottobre. Processioni fatte a piedi o in ginocchio, rituali sincretici e celebrazioni festose che vedono nel colore viola il protagonista delle cerimonie. Ma la devozione del Cristo negro di Portobelo ha superato anche le frontiere di Panama, tanto che pure Ismael Rivera, l’indimenticato cantante portoricano, ha scritto una canzone in suo onore: «El Nazareno».

Il volto del Cristo nero nella chiesa di San Felipe a Portobelo, Panama. Foto Adam Jones.

La Chiesa cattolica e la schiavitù

Nel periodo della schiavitù in America Latina e nei Caraibi, la Chiesa cattolica ha difeso il potere delle persone bianche, usando modi formali (le leggi) e informali per garantire in primis agli europei cattolici le migliori posizioni, titoli e altri privilegi. Ai neri, ai meticci e agli indigeni è stato impedito di occupare incarichi di responsabilità all’interno delle società, con la motivazione che non avevano tradizione cattolica o titoli nobiliari che garantissero la loro capacità ad adempiere a tali funzioni. Gli argomenti utilizzati erano di natura teologica e sociale. Si affermava che questi gruppi appartenessero a una razza impura e che il loro sangue fosse macchiato e irredimibile. È da qui che prende origine l’espressione della «razza infetta», che appare in molti documenti dell’epoca coloniale. Non si trattava però solo di idee, ma di qualcosa di strutturale nella pratica quotidiana. Per ricoprire incarichi ufficiali il candidato doveva dimostrare di avere il «sangue pulito», cioè di non avere ascendenti appartenenti alle «razze» impure. Solo in quel caso sarebbe stato considerato una persona degna di fiducia, buona, virtuosa, timorota di Dio e onorata. La tradizione cattolica occupava uno dei posti più alti nella scala valoriale della società dominante. Pertanto, l’afrodiscendete poteva scegliere tra due sole alternative: o adattarsi ai valori della cultura bianca ed europea di impronta cattolica (assimilando usi e costumi di una cultura che non gli apparteneva) o recuperare le proprie radici religiose afro, che mantenevano le tradizioni nei culti e nelle celebrazioni principalmente animiste. Adeguandosi al modello europeo, il nero, divenuto cattolico, cessava dunque di vivere tutta la ricchezza culturale ereditata dall’Africa, dimenticando le questioni razziali e sposando una narrazione che promuoveva e giustificava la schiavitù. Tutto questo basato sul silenzio complice e interessato della Chiesa nella questione razziale e sociale. L’evangelizzazione ha necessariamente attraversato un processo di occidentalizzazione, promuovendo, per diventare più praticabile, il deterioramento delle tradizioni ancestrali nella popolazione afrodiscendente. Da qui dobbiamo partire se vogliamo capire come il cristianesimo si è rapportato con le comunità di schiavi africani e afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi.

Il sistema coloniale operava l’evangelizzazione forzata delle comunità, proibiva i riti tradizionali animisti (satanizzandoli) e usava la punizione corporale per quelle pratiche che venivano etichettate come eretiche. In questo contesto, la popolazione afrodiscendente, per la maggior parte schiavi, ha dovuto adattare la propria religiosità. L’ha fatto nascondendo la ritualità del suo credo sotto immagini di santi cristiani creando in tal modo una forma di religiosità sincretista.

Tra i santi neri venerati nella regione ricordiamo San Benedetto da Palermo, Santa Efigenia de Etiopia e San Martín de Porres (peruviano e unico caso di santo afrodiscendente autoctono). Caso particolare è poi quello di San Baltasar o Santo Cambá, molto amato in Argentina e Uruguay, ma il cui culto è praticato in modo paraliturgico, poiché per la Chiesa cattolica, San Baltasar non è canonizzato.

Una bella panoramica del porto naturale di Portobelo. Foto Ben Beiske.

Sincretismo e praticità

Oltre al culto dei santi, esistono culti legati al Cristo nero e alla Vergine nera. Se, da un lato, nel caso della Vergine, non possiamo escludere elementi sincretici di identificazione di Maria con divinità femminili amerinde o africane come Pacha mama o Yemayá, dall’altro la spiegazione comunemente accettata riguarda semplicemente il metodo di produzione delle immagini sacre. Il motivo di questa tonalità scura, infatti, è molto semplice: nel mondo medievale la maggior parte delle immagini di culto erano realizzate in legno, un materiale igroscopico che subiva notevoli variazioni con l’umidità ed era anche facile preda di funghi e tarli o termiti. Per questo gli scultori cercavano un modo per renderle il più possibile resistenti e inalterabili. Nella maggior parte dei casi lo fecero con uno strato di bitume che le proteggesse da umidità e insetti. Gli artigiani, quindi, dopo aver intagliato l’effige sacra in un legno comune (noce, pioppo, o cipresso), la ricoprivano con bitume o altre sostanze protettive di colore scuro. A quel punto, si dipingeva l’immagine conferendo il colore appropriato alla pelle e ai vestiti. Più tardi, nel corso dei secoli, quel colore è andato via via scomparendo, portando in superficie il colore del bitume.

La Vergine nera

Il Cristo nero di Portobelo è dunque in buona compagnia giacché sono decine le immagini della Vergine nera venerate in America Latina e nei Caraibi: Virgen del Valle, a Catamarca, Argentina; Nuestra Señora Aparecida, in Brasile; Nuestra Señora de los Ángeles (la Negrita), a Cartago, Costa Rica; Nuestra Señora de la Monserrate, a Hormigueros, Porto Rico; Virgen de Regla, a L’Avana, Cuba; Nuestra Señora de Itati, a Corrientes, Argentina; la Virgen Negra de los Ángeles de Atocha, a Montalbán, Venezuela.

La Virgen de Guadalupe in Messico è colei che ha originato il culto mariano più diffuso nelle Americhe. È riconosciuta dalla Chiesa cattolica come la «patrona d’America» ed è chiamata colloquialmente La Morenita. In realtà questo aggettivo che dovrebbe far riferimento al tono della sua pelle, non riguarda l’immagine che si trova in Messico, ma deve la sua origine alla somiglianza di questa Vergine con quella del Monastero reale di Santa Maria di Guadalupe, nella provincia di Cáceres (Extremadura, Spagna), conosciuta in questo caso come la Vergine Nera o Nostra Signora di Guadalupe.

Diego Battistessa

Dipinto dell’epoca mostra una scena di schiavitù ad opera dei conquistatori spagnoli


Secolo XVI / Gli schiavi africani fuggiaschi

La lotta dei «cimarrones»

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje («darsi alla macchia», da «cimarra», boscaglia) iniziò fin dai primi decenni del 1500, proprio con l’arrivo dall’Africa dei primi «carichi» di forza lavoro schiavizzata. Gli schiavi vennero portati nell’istmo per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine, infatti, furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca (o squalo azzurro). A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, cominciarono a diffondersi notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (villaggio autogestito di schiavi fuggiaschi, come i quilombos in Brasile, ndr) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano (1551), gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza psicofisica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, lui sì erede dello spirito di Felipillo.

D.Ba.

Copertina de America Latina afrodiscendente (2021) di Diego Battistessa, collaboratore di MC.




Trascendenza e culto dei morti

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


È una regione della Francia, ma la penisola della Bretagna ha origini e caratteristiche tutte sue. Ne sono testimonianza concreta la lingua (appartenente al gruppo celtico), ma anche i suoi monumenti religiosi: dai «dolmen» ai «menhir» fino ai «calvaires» dell’epoca cristiana.

Il «Cristo verde» di Paul Gauguin, famoso pittore francese.

Paul Gauguin (1848-1903) è conosciuto dal grande pubblico per i quadri dipinti durante i suoi due soggiorni a Tahiti, negli ultimi anni della sua vita.

Prima di quel periodo, però, vi fu un’intensa preparazione artistica e tecnica sviluppatasi durante la sua permanenza in Bretagna, a Pont-Aven e a Le Pouldou. Lì, in una breve quanto tormentata fase della sua vita, l’artista francese inaugurò quella forma pittorica denominata a volte «sintetismo», altre volte «ideismo», che lo portò a produrre quadri che troveranno la loro definitiva completezza in Polinesia. Tra di essi ve n’è uno, considerato opera minore e oggi conservato al Museo reale di belle arti di Bruxelles. Dipinta nel 1889, subito dopo la più famosa Il Cristo giallo, la tela è intitolata Il Cristo verde e ritrae una donna bretone seduta sulla base di una scultura in pietra che raffigura la deposizione di Gesù dalla croce.

Il «Cristo giallo» del famoso pittore francese Paul Gauguin.

È, quella scultura, un «calvario», una rappresentazione tipica delle terre bretoni che testimonia la religiosità di una terra aspra e dura, francese de jure, ma indipendente per tradizione e vanto. Coluche, l’attore comico italo-francese (1944-1986), disse una volta che «la Bretagna è bella e poi non è lontana dalla Francia».

Sviluppatisi in quei «recinti parrocchiali» (enclos paroissiaux in francese) nati tra il IX e l’XI secolo e continuamente arricchiti di elementi artistici e architettonici, i calvari della Bretagna rappresentano l’ultima fase di completamento spirituale che ha avuto inizio ben prima dell’avvento del cristianesimo.

«Dolmen» e «menhir»

Per capire l’importanza e la peculiarità di queste realtà religiose occorre individuare il profondo legame che connette il popolo bretone con la trascendenza. Un rapporto che affonda le radici nella preistoria, qui ben rappresentata dai numerosi dolmen e soprattutto menhir che costellano a centinaia le colline della regione.

Del resto, dolmen e menhir sono due parole bretoni che significano rispettivamente «tavola di pietra» (dol, tavola e men, pietra) e «pietra lunga» (da men e hir, lunga). Innalzati cinque-seimila anni fa da civiltà pressoché sconosciute (i più famosi druidi arrivarono ben dopo), i menhir vennero trasformati dal cristianesimo in una sorta di protocalvari con la sola aggiunta di croci sulla loro cuspide.

Il complesso megalitico di Carnac, In Bretagna. Foto Deborah Bates – Pixabay.

 

Dai Galli ai Celti: il cristianesimo bretone

Furono popolazioni celtiche, provenienti per lo più dal Galles e dalla Cornovaglia, a introdurre il cristianesimo e a sostituirsi ai galli. L’Armorica romana divenne la «Piccola Bretagna» per differenziarsi dalla «Grande Bretagna», ma i legami con le terre d’origine vennero mantenuti.

Tutti i sette santi ritenuti fondatori della Bretagna erano nati e avevano studiato in Galles, avevano predicato chi in Irlanda, chi in Scozia per approdare poi sulle coste del continente europeo tra il V e il VI secolo d.C. dando vita a una fede tra le più incrollabili di Francia. Un pellegrinaggio, il Tro Breizh («Il giro della Bretagna», noto anche come Pèlerinage des Sept-Saints de Bretagne), collega attraverso seicento chilometri le sette cattedrali dedicate ai padri del cristianesimo bretone.

«Terra di vecchi santi e di bardi» recita il Bro Gozh ma Zadoù (Vecchia terra dei miei padri), l’inno della Bretagna che, oltre a spartire con le regioni britanniche una cultura ancestrale, ne condivide anche la lingua. Per secoli il mare è stato fonte di unione, mentre le foreste che dividevano la regione dal regno franco occultavano l’orizzonte e le luci di Parigi. Un proverbio afferma che quando Parigi sarà inghiottita dalle acque, riemergerà la città di Ys, la leggendaria capitale bretone situata nella baia di Douarnenez distrutta per i peccati di Dahut, la figlia del re Gradlon. Il mito, che ricorda quello di Sodoma, rimane vivo ancora oggi tra le famiglie della Bretagna a testimonianza di una dicotomia franco-bretone non ancora completamente sanata.

La cattedrale di Tréguier ospita le tombe di due dei sette santi fondatori della Bretagna: San Tugdual e Sant’Ivo. Foto Piergiorgio Pescali.

Lontani da Parigi

Dopo l’allontanamento dei normanni (939), il ducato di Bretagna si mantenne virtualmente autonomo dal regno di Francia fino al 1547. Durante questo periodo i duchi di Montfort, che amministrarono gran parte della regione, svilupparono un fiorente commercio di lino e tessuti con le isole britanniche, orientando l’economia della regione al di là della Manica piuttosto che verso l’esecrata Parigi.

La ricchezza che ne seguì favorì sia le classi più povere che i feudatari ripercuotendosi sulle parrocchie. Il clero locale vide le entrate finanziarie aumentare enormemente in pochi decenni: i meno abbienti davano parte dei loro magri introiti come ringraziamento, mentre le famiglie più ricche «si sdebitavano» della loro agiatezza su questa terra comprando indulgenze per la vita dopo la morte.

Il calvario di Guimiliau è tra i più famosi della Bretagna; la caratteristica principale sono i personaggi, tutti rappresentati con vestiti dell’epoca in cui è stato realizzato (1581-1588). Foto Piergiorgio Pescali.

Recinti parrocchiali, peste e processioni

È da queste premesse che, a partire dal IX secolo, iniziarono a sorgere i «recinti parrocchiali», complessi architettonici cristiani (chiesa, cappella, cimitero, ossario) chiusi. Il primo fu quello di La Martyre, nel dipartimento di Finistère, ma ben presto ne seguirono altri scatenando una competizione che si prolungò nei successivi sei secoli. Le parrocchie chiamavano i migliori architetti e scultori per avere le enclos più belle e prestigiose in grado di richiamare fedeli da tutta la Bretagna.

 

In un’epoca in cui la manipolazione del denaro era vista con sospetto, le enclos paroissiaux servivano anche a separare fisicamente le attività commerciali (le fiere, i mercati, le compravendite) dalla vita religiosa. Le barriere così create impedivano la mescolanza tra il mondo sacro e quello mondano e, non ultimo, ostacolavano l’accesso agli animali.

I primi recinti comprendevano solo la chiesa e il cimitero. Non dimentichiamo che i villaggi erano formati al massimo da poche decine di famiglie e quindi, almeno nei primi decenni, il terreno occupato dal camposanto non aveva necessità di grandi estensioni.

Nel settembre 1347, dalle navi in porto a Marsiglia cominciò a diffondersi anche in Francia la peste nera che raggiunse la Bretagna alla fine dell’anno successivo. Le guerre di successione in atto tra i conti di Blois e i duchi di Montfort favorirono la propagazione della pandemia che continuò a falciare vite fino alla fine del secolo. La pestilenza non cessò del tutto, ma rispetto al resto dell’Europa, alla Bretagna venne in parte risparmiata l’ecatombe: il batterio Yersinia pecstis riuscì a essere confinato in alcune città grazie ad una severa politica di segregazione che salvò le campagne dal morbus pestiferus. Fu in questo periodo che iniziarono a divenire popolari i pardons, pellegrinaggi penitenziali (ancora oggi in uso), dedicati a un particolare santo a cui chiedere una grazia, un favore o a cui semplicemente rendere grazie.

Il collegamento alla peste di queste processioni è chiaro se si pensa che i santi più acclamati erano San Rocco e San Sebastiano e i pardons partivano o arrivavano non presso le chiese, ma più spesso nei pressi di una fontana da dove sgorgava acqua pura di sorgente. Le fontane erano spesso considerate, assieme ai santi, dispensatrici di poteri purificatori capaci di allontanare le epidemie e di mondare dai peccati alla stregua del battesimo cristiano.

L’ossario del Calvario di Guehenno con il «Santo sepolcro» e il Cristo deposto sulla tomba. Foto Piergiorgio Pescali.

L’«Ankou», la morte

Fu invece la successiva ondata epidemica a colpire, con più ferocia della precedente, la Bretagna dopo la metà del XVI secolo ravvivando la fede delle comunità. I lazzaretti vennero presto riempiti e le autorità obbligarono i contagiati a rintanarsi in casa segnando le porte con calce bianca. Era loro concesso di uscire all’aperto per pochi minuti al giorno, ma in tal caso dovevano indossare una tunica con una croce bianca avvisando del loro passaggio con il rumore di un bastone picchiato sul selciato.

I morti divennero talmente numerosi che i cimiteri non bastavano più a contenere tutti i cadaveri che, già a partire dal XIV secolo, venivano riesumati con maggior frequenza. La seconda peste obbligò ad accelerare il disseppellimento e a partire dal XVI-XVII secolo i resti vennero conservati negli ossari, garnal in lingua bretone. Come le tombe, anche gli ossari erano rivolti verso Est e come le lapidi cimiteriali anche su questi ossari difficilmente si trovano le croci. I fedeli potevano osservare le ossa dei defunti, spesso ammonticchiate le une sopra le altre, da finestrelle. La porta, chiamata Porz a maro, «Porta della morte», che consentiva l’accesso all’interno della struttura era ornata da rilievi che mostravano riti di passaggio verso l’immortalità mutuati dal mondo celtico la cui figura più comune è l’Ankou, la morte, spesso raffigurata come uno scheletro avvolto in un mantello e con una falce o un’ascia tra le mani e accompagnata da frasi ammonitrici. Nel recinto parrocchiale di La Roche-Maurice accanto a una delle rappresentazioni più famose dell’Ankou si legge la scritta «Vi uccido tutti» e «Uomo, ricorda che sei polvere», mentre a La Martyre l’ossario accoglie i fedeli con un «Morte, giudizio, gelido inferno: quando l’uomo pensa a tutto questo deve tremare».

Dal XVIII secolo le famiglie più ricche iniziarono a mettere i teschi dei loro defunti nelle boîte à chef (cassette dei teschi) identificate per nome ed età del morto accompagnando la traslazione con canti e litanie che ricordavano che sulla terra «non c’è più nobiltà, né ricchezza, né bellezza! La terra e i morti si sono confusi e uniti!».

Il calvario di Guehenno, eretto nel XVI secolo; il gallo di fronte ricorda il triplice diniego di Pietro: fu aggiunto alla scultura originale solo nel 1863 dall’abate Jacuot. Foto Piergiorgio Pescali.

I calvari

Ciò che caratterizza maggiormente le enclos sono sicuramente i calvari, che iniziarono ad apparire dopo il 1450 a Tronoën ed ebbero il loro epilogo a Saint-Thegonnec nel 1610. A volte sono solo semplici croci in pietra su cui è raffigurata la deposizione o Maria Vergine e Maria Maddalena. Altre volte sono vere e proprie storie animate da decine di personaggi. Sono questi i calvari più ammirati e famosi, che si trovano a Gumiliau, Plugastel-Daoulas, Pleyben, Saint-Jean-Trolimon, Guehenno, Plougonven. Artisticamente sono il risultato di un lungo processo di trasformazione che ha rimodellato i menhir preistorici in strutture più elaborate, ma rivolte, fisicamente e spiritualmente, sempre verso il Cielo. La cuspide smussata delle «lunghe pietre» viene sostituita dalla croce e la parte più massiccia che affonda nel suolo si trasforma nelle scene evangeliche più rappresentative e note. Dal punto di vista strettamente religioso i calvari sono le biblia pauperam destinate ai fedeli. I parroci li utilizzavano per insegnare catechismo, i devoti riconoscevano le fasi della vita di Cristo e la sua Passione.

La certezza della Resurrezione, identificabile nei cimiteri dove le tombe sono rivolte verso Est, si ripercuote nelle scene dei calvari, privi di qualsiasi accenno ai miracoli di Cristo. La Salvezza non è un miracolo, ma una certezza. Tutto si sviluppa attorno alla croce, simbolo di salvezza, e le scene non seguono mai uno schema e una cronologia ben definita lasciando all’artista la scelta di ciò che vuole rappresentare e la posizione all’interno dell’opera. Vi sono calvari in cui i personaggi sono vestiti con abiti bretoni del tempo, altri in cui indossano abbigliamenti più ligi agli eventi descritti nei Vangeli. In comune tra loro hanno la divisione in due parti: la vita di Gesù prima dell’entrata a Gerusalemme (annunciazione, visitazione, natività, epifania, fuga in Egitto, presentazione, battesimo, tentazioni) e le ultime fasi della vita di Cristo dopo la domenica delle palme (entrata a Gerusalemme, ultima cena, lavanda dei piedi, Getsemani, processo, via crucis, la Veronica, crocifissione, morte, deposizione, tumulazione, resurrezione).

Diavolo e inferno

Non tutti i calvari sono monumentali: questo è a Callac. Foto Piergiorgio Pescali.

L’unica libertà mondana che si prendono alcuni scultori è la rievocazione di Katell Kollet («Caterina la perduta») che si trova nei calvari di Guilimiau e Plougastel-Daoulas. Caterina, nipote del Conte Morris signore di La Roche-Maurice era una bella sedicenne il cui unico scopo nella vita era il divertimento e il ballo. Per questa sua «leggerezza» venne rinchiusa sino a quando non avesse deciso di maritarsi. Liberata da un servo compiacente si rifugiò a La Martyre dove la coppia ballò sino allo sfinimento. Il servo morì, ma Katell, desiderosa di continuare la danza, invocò il diavolo che, presa la palla al balzo, la rapì portandola all’inferno. Caterina Kotell divenne quindi Caterina Kollet. La leggenda è molto popolare in Bretagna, tanto da dare il nome a una band musicale che continua la tradizione dei gwerz, i canti popolari.

 

Come scrisse Anatole Le Braz (1859-1926) ne La leggenda della morte, «tra tutti i popoli celtici, i bretoni sono forse quello che ha conservato più intatta l’antica curiosità della razza per i problemi della morte».

Piergiorgio Pescali