Cina. Armi: più export e meno import

Una Sviluppato dalla statale Aviation industry corporation of China (Avic), il jet è un aereo monoposto, bimotore, per caratteristiche paragonabile – del colosso della difesa americana Lockheed Martin. Non solo la tecnologia stealth consente ai velivoli di individuare prima gli avversari e lanciare attacchi a sorpresa. Secondo Wei Dongxu, esperto militare citato dal South China morning post, gli FC-31 possono trasportare un’ampia selezione di munizioni, fino a due missili aria-superficie o tre missili aria-aria, oltre a diverse bombe a guida laser.

L’acquisto allunga la lista della spesa di Islamabad e consolida la posizione della Cina tra gli esportatori di armi globali. A confermarlo è l’ultimo rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), stando al quale, nel periodo 2019-23 la Cina ha venduto armi a 40 stati: con una quota dell’export globale del 5,8%, il gigante asiatico si è posizionato di nuovo al quarto posto nella classifica mondiale, sebbene il volume delle vendite sia leggermente inferiore al quinquennio precedente.

Il primo acquirente è proprio il Pakistan, che da solo ha assorbito il 61% delle esportazioni cinesi, seguito da Bangladesh (11%) e Thailandia (6%). Il dato è particolarmente visibile nell’Africa subsahariana. Qui, nel periodo preso in esame, la Cina ha ottenuto una quota del 19% delle importazioni di armi, superando – anche se di poco – la Russia, ferma al 17%. Numeri che rendono la Repubblica popolare il nuovo fornitore numero uno, sebbene Mosca detenga ancora il primato nel continente, se al conto si aggiunge il Nord Africa (24%). Tendenza che, oltre ad essere trainata dalla ricerca di profitti, sembra in parte guidata dalla necessità di armare e stabilizzare i paesi dove la Cina ha investito più massicciamente. Non a caso tra gli ultimi accordi spiccano forniture di attrezzature militari allo Zimbabwe, ricco di miniere di litio.

Contestualmente, secondo lo studio del Sipri, la «non c’è stata una spaccatura politica tra Ucraina e Cina in grado di impattare le relazioni militari». Il motivo, secondo l’organizzazione con base a Stoccolma, è che la Russia non può sostituire completamente l’Ucraina, paese da cui anche Mosca ha storicamente attinto per ottenere attrezzature navali e aeree. Ma il vero ostacolo resta la produzione di aerei: nonostante i progressi nel settore dei motori, Pechino dovrà continuare a importare aeromobili ad elica dalla Russia o a costruirli su licenza con la Francia.

La Repubblica popolare costituisce un po’ un’eccezione in Asia, la regione in assoluto dove lo shopping di armi è aumentato più drasticamente. Secondo il Sipri, negli ultimi cinque anni, India, Pakistan, Giappone, Australia, Corea del Sud si sono classificati tra i primi dieci importatori su scala globale. Il primato delle importazioni globali di armi lo detiene Nuova Delhi, che fronteggiando perennemente il rischio di un conflitto con Islamabad e Pechino, ha aumentato la spesa del 9,8% rispetto al 9,1% del lustro precedente. Almeno in parte, sempre il fattore Cina sembra giustificare la sostenuta crescita dell’arsenale di Giappone e Corea del Sud: i due paesi asiatici hanno incrementato la quota degli acquisti militari rispettivamente del +155% e +6,5%. Complice la minaccia nordcoreana.

Non serve troppa immaginazione per capire da chi si siano riforniti: gli Stati Uniti – che muovono i fili delle alleanze regionali – sono stati la principale fonte di armi per entrambi i paesi asiatici. Con una crescita del 17%, Washington ha raggiunto il 42% delle vendite mondiali: sono ben 107 gli stati ad aver ottenuto attrezzature americane tra il 2019 e il 2023. A gennaio il Tokyo si è impegnato ad acquistare 400 missili da crociera Tomahawk, con capacità di contrattacco in territorio nemico. Ai sensi dell’accordo, il Sol Levante sosterrà un esborso di circa 254 miliardi di yen (1,6 miliardi di dollari), per i missili e le attrezzature correlate, su un periodo di tre anni a partire dall’anno fiscale 2025.

Alessandra Colarizi




Europa armata. Negoziati invisibili

 

Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.

Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.

Perché queste prese di posizione?

È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?

Un messaggio a Putin

La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.

Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.

Un messaggio all’Europa

La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.

Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.

Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.

Un messaggio all’opinione pubblica

La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.

Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.

Il coraggio della trattativa

Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.

Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.

Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.

E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.

Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.

Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.

Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.

È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.

Paolo Candelari

Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.




Paesi Ue della Nato. Sempre più armati e insicuri

 

È aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022 la spesa pubblica per il comparto militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato. Complice (anche) la guerra in Ucraina che sta consumando gli arsenali dei paesi donatori.

Se prendiamo un arco temporale più ampio, la voce «Difesa» nei bilanci di questi stessi paesi tra il 2014 e il 2023 si è ingrossata del 46%: da 145 miliardi a 215. In media, ogni cittadino ha pagato per la spesa militare, tramite le imposte, 508 euro nel 2023 contro i 330 del 2013: il conto per ogni cittadino italiano è stato di 436 euro.

Nel medesimo periodo di dieci anni la spesa pubblica per l’istruzione è aumentata solo del 12%, quella per la protezione ambientale del 10%, quella per la sanità (che ha affrontato l’emergenza Covid) del 34%.

Insomma, mentre le economie dei paesi dell’Unione europea sono in grave affanno, le disuguaglianze sociali aumentano insieme alle difficoltà dei cittadini a curarsi, a progettare il proprio futuro, a vivere in un ambiente sano, il comparto militare fa festa: la sola spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della Nato ha raggiunto nel 2023 i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).

L’obiettivo di arrivare a una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, imposto dagli Usa ai suoi partner della Nato, è quasi realizzato. Quello di una maggiore sicurezza, sia interna ai singoli paesi, che internazionale, invece, sembra allontanarsi a grandi passi.

È interessante sottolineare che le importazioni di armi da parte dei paesi Ue sono triplicate tra il 2018 e il 2022, e che la metà di queste importazioni proviene proprio dagli Usa.

Il rapporto Arming Europe pubblicato di recente da Greenpeace, con un focus particolare sulle spese militari di Germania, Spagna e Italia, mette in fila questi dati e diversi altri.

La copertina della sintesi in lingua italiana di Arming Europe.

Tra le valutazioni centrali dello studio c’è quella che sottolinea l’irrazionalità dell’aumento delle spese militari: irragionevole sia dal punto di vista della sicurezza che da quello della crescita economica e sociale.

La corsa agli armamenti (in alternativa agli strumenti della cooperazione, della giustizia redistributiva, della diplomazia, della difesa civile), infatti, è da sempre uno dei fattori di inquinamento delle relazioni tra stati e, quindi, scatenanti delle guerre. Ed è anche una palla al piede per l’economia e, di conseguenza, per le politiche sociali dei singoli paesi.

La ricerca di Greenpeace ha il merito di confrontare le stime di crescita economica per diversi ambiti di spesa pubblica: cosa comporta – si chiede la ricerca – una spesa di 1.000 milioni in termini economici ed occupazionali? «In Germania – si legge nel report -, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. L’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna.
Invece, quando i 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore.

I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia, i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi».

Se non bastassero le considerazioni etiche contro il riarmo, almeno quelle economiche dovrebbero indurre i governanti a valutare con maggiore attenzione l’uso del denaro pubblico e orientarlo in direzione di una maggiore giustizia, sia sociale che ambientale, sia nazionale che internazionale. Purtroppo pare, invece, che al momento gli interessi siano altri.

Luca Lorusso




I costi degli eserciti


La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri. I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre due miliardi di persone non dispongono di servizi idrici sicuri, mentre quattro miliardi non dispongono di servizi igienici adeguati. La Banca mondiale stima che, per garantire questi servizi minimi a tutti, basterebbero 450 miliardi di dollari. Ma non si trovano, e così gli obiettivi sanitari dichiarati dall’Agenda 2030 rischiano di rimanere lettera morta. In realtà, i soldi ci sono, ma si preferisce spenderli per altri scopi, per obiettivi di morte.

la spesa militare

Il Sipri, l’istituto di Stoccolma per la ricerca sulla pace, ci informa che, nel 2021, la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.113 miliardi di dollari, lo 0,7% in più di quanto speso nel 2020 e il 12% in più di quanto speso nel 2012. In termini assoluti, il paese con la spesa militare più alta sono gli Stati Uniti che, nel 2021, hanno investito 801 miliardi di dollari, pari al 38% dell’intera spesa mondiale. Seguono Cina con 293 miliardi, India (76), Gran Bretagna (68), Russia (66). Vale la pena precisare che il 54% della spesa militare mondiale è sostenuta dalla Nato, l’alleanza di cui fanno parte ventisei paesi europei, oltre a Stati Uniti, Turchia e Canada. Non esistono sul pianeta altre alleanze così strutturate.

Oltre che in termini monetari, ci sono altri due modi per rappresentare la spesa militare: in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), ossia alla ricchezza complessiva prodotta nel paese, e in rapporto alla spesa pubblica. A livello globale, nel 2021 la spesa complessiva in rapporto al Pil è stata del 2,2%. Ma con profonde differenze fra singoli paesi. Da questo punto di vista, il primato tocca all’Oman col 12%, seguito da Arabia Saudita (7,7%), Israele (5,6%), Usa (4,5%), Russia (3,7%).

La spesa militare si valuta anche in rapporto alla spesa pubblica, perché è sui bilanci pubblici che essa va a gravare. Ci sono paesi che, pur avendo una bassa spesa militare in termini assoluti, dimostrano di avere una grande propensione per gli armamenti perché vi dedicano una parte cospicua delle proprie entrate pubbliche, pur molto magre. Un esempio è l’Eritrea che, secondo la Banca mondiale, nel 2020 ha destinato all’esercito il 31% del bilancio statale. Ma si può citare anche l’Armenia che ha speso in armi il 16% delle entrate fiscali, o il Ciad che si attesta al 15,6%, e l’Uganda al 13%. Tutti paesi molto poveri con gravi problemi, perché è dimostrato che più si spende in armi, meno soldi rimangono per sanità, istruzione, sicurezza sociale.

Se abbandoniamo i paesi minori e veniamo alle vere grandi potenze militari, troviamo che il paese che dedica alle armi la percentuale più alta di risorse pubbliche è la Russia per una percentuale pari all’11,4%. Seguono l’India (9,1%), gli Stati Uniti (7,9%), la Cina (4,7%), la Gran Bretagna (4,2%).

Le spese militari in Italia

Quanto all’Italia, reperire dati completi sulla spesa militare non è semplice perché alcune voci di costo sono inserite nei bilanci di ministeri diversi da quello della Difesa (da ottobre guidato da Guido Crosetto, consulente e imprenditore del settore militare, ndr). Ad esempio, le spese per le missioni militari all’estero sono inserite nel bilancio del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), mentre alcune somme utili ad acquistare nuove navi o nuovi aerei, prodotti da imprese italiane, sono inserite nel bilancio del ministero per lo Sviluppo economico (Mise). Mettendo insieme tutte le voci, lo stesso ministero della Difesa conferma che, per il 2022, la spesa militare complessiva è fissata in 28,875 miliardi di euro, per il 61% a favore del personale, per il 27% destinati all’ottenimento di nuovi sistemi d’arma, per il 12% per l’acquisto di materiale d’uso corrente.

In termini percentuali, attualmente la spesa militare italiana   rappresenta il 3,5% della spesa pubblica complessiva e l’1,6% del Pil nazionale. Ma il 16 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare la spesa militare fino al 2% del Pil, presumibilmente entro il 2028. Tradotto in moneta suonante dovremo aspettarci una crescita stimabile in 10 miliardi di euro realizzata, con tutta probabilità, a scapito di altri comparti, magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. La conclusione sarà che dedicheremo alla spesa militare il 4,5% dell’intero gettito fiscale solo perché «ce lo chiede la Nato».

Armi e inquinamento

Abbiamo l’abitudine di misurare il comparto militare solo in termini monetari, ma i soldi non danno la vera dimensione del danno che ci procura l’apparato militare. Lasciando da parte la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture che si verificano quando le armi parlano, non dobbiamo dimenticare che produrre armi e anche solo limitarsi a compiere esercitazioni, comporta un grande consumo di risorse e rilascio di inquinanti. Uno studio della Commissione europea del 2016 sull’industria bellica, sostiene che la produzione di aerei, navi, mezzi meccanici, necessita dell’apporto di trentanove diverse materie prime, fra cui primeggiano alluminio, titanio, rame, cromo, berillio, litio. Tutti materiali con un pesante zaino ecologico, in quanto lasciano dietro di loro grandi quantità di detriti e inquinanti. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio ci vogliono 4,8 tonnellate di bauxite, la quale, a sua volta, richiede l’estrazione di terra e rocce pari a una volta e mezzo il suo peso. E non è tutto perché il passaggio da bauxite ad alluminio richiede non solo una considerevole quantità di energia, ma anche l’apporto di numerosi materiali che però non rimangono nel prodotto finito. In conclusione, il Wuppertal Institute calcola che ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 8,6 tonnellate di materiale esausto. Se effettuassimo lo stesso tipo di calcolo per tutti i materiali utilizzati, scopriremmo che, dietro a ogni nave, ogni aereo, ogni carro armato, si celano montagne di scarti. Purtroppo, la produzione di armi è avvolta da una cortina di segretezza che rende difficile ogni tipo di indagine, per cui certe informazioni non le avremo mai. Ciò non di meno alcuni ricercatori hanno provato a valutare il contributo degli eserciti alle emissioni di anidride carbonica. Basandosi sui dati forniti dal Pentagono relativi ai consumi energetici, la professoressa Neta Crawford ha calcolato che l’esercito statunitense produce annualmente 59 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità pari a quella emessa da intere nazioni come Svezia o Svizzera. Ma l’ammontare si moltiplica per cinque se ci aggiungiamo le emissioni rilasciate dall’industria delle armi statunitense. La conclusione è che, a livello mondiale, eserciti e produttori di armi, messi assieme, contribuiscono al 6% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Integrità e valori

Di fronte a un simile dispiegamento di mezzi, consumo di risorse e produzione di rifiuti, la domanda che sorge spontanea è: «Perché lo facciamo?». La risposta è che gli eserciti servono per difendere la nostra integrità territoriale e i nostri valori, in particolare democrazia e libertà, valori a cui terremmo così tanto da sentirci perfino autorizzati a guerre di aggressione pur di vederli trionfare. Ma tutti sanno che si tratta di motivazioni parziali, se non di paraventi per ragioni ben più venali. Il dato da cui partire è che il sistema economico in cui viviamo, il capitalismo, è aggressivo per costituzione. Il capitalismo è il sistema dei mercanti che hanno come fine l’accrescimento continuo dei profitti, possibile solo se c’è una crescita costante delle vendite. Ma queste possono crescere solo se si produce sempre di più. In altre parole, i mercanti hanno sempre avuto due esigenze: disporre di quantità crescenti di materie prime a basso costo e sbocchi di mercato sempre più vasti. Per queste due ragioni, il capitalismo ha sempre avuto una forte tendenza a virare verso il nazionalismo. Identificandosi con le imprese di casa propria, i governi hanno spesso utilizzato i propri eserciti per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. L’Italia stessa fra le proprie missioni all’estero, ne annovera un paio che hanno come scopo la difesa delle attività estrattive di Eni: una in Libia, l’altra nel golfo di Guinea. E, mentre continuano le operazioni militari dal vecchio sapore colonialista, si è rafforzato il neocolonialismo che oggi si presenta con il volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri, la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua.

Globalizzazione e istinti nazionalistici

La storia coloniale ci ha insegnato che gli eserciti servono anche per spianare la strada alle imprese di casa propria affinché possano garantirsi nuovi sbocchi di mercato. Quando l’India venne conquistata dall’Inghilterra pullulava di artigiani che da tempo immemorabile producevano tessuti in cotone commercializzati in tutta l’area.  Con grave danno per l’industria tessile inglese che chiese al governo di adottare ogni misura doganale e fiscale utile a mettere fuori gioco i produttori indiani. E gli artigiani che continuavano a resistere venivano puniti con il taglio delle dita. La repressione fu così violenta che nel 1834 lo stesso governatore inglese dichiarò che «le ossa dei tessitori imbiancano le pianure indiane».

Ci avevano detto che con la globalizzazione i cannoni avrebbero taciuto per sempre. L’adagio era che, permettendo alle imprese di collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di spostare la produzione dove appariva più conveniente, di trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e, da febbraio 2022, la guerra in Ucraina, che si rivela sempre più un conflitto fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici dei governi i quali mostrano di voler fare di tutto per aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti bandiera di casa propria.

Vari analisti hanno dimostrato che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del contenzioso Russia-Ucraina è stato condizionato dall’obiettivo di rompere il rapporto privilegiato che l’Europa aveva con la Russia rispetto al gas, in modo da trasformare il nostro continente in un acquirente del gas liquefatto fornito dalle imprese statunitensi.

Industrie belliche e governi

Va da sé, in ogni caso, che le più interessate a spingere gli stati verso scelte militariste sono le imprese che producono armi. L’ammontare totale del loro giro d’affari è avvolto nel mistero, ma il Sipri valuta che, nel 2020, le prime cento imprese mondiali di armi abbiano avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio.

Fra le prime cento, compaiono anche le imprese italiane Leonardo e Fincantieri. Leonardo si colloca al 13esimo posto della graduatoria mondiale ed appartiene per il 30% al ministero dell’Economia. Fincantieri si colloca al 47esimo posto ed appartiene per il 71% alla Cassa depositi e prestiti.

Come tutte le imprese, anche quelle di armi hanno bisogno di uno sbocco di mercato che per loro è rappresentato dalle guerre e dalle scelte di riarmo da parte degli stati. Per cui fanno di tutto per ottenere questo doppio risultato.

Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della difesa e  spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo Open secrets, nei soli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni, le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime dieci imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di trentatré lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

Per vivere senza eserciti

È possibile avere un mondo senza eserciti? Qualche stato lo sta facendo. Un esempio è il Costa Rica che, guarda caso, si trova ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano. Segno che chi non spende in armi ha più soldi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Vivere senza esercito è possibile, ma servono almeno tre passaggi. Primo: bisogna mettere al bando le industrie di armamenti. Secondo: occorre perseguire un modello di economia basato sulle energie rinnovabili e sulla sobrietà in modo da ridurre la tentazione di sopraffare gli altri popoli per impossessarsi delle loro risorse. Terzo: bisogna ridurre il peso del mercato e ampliare quello dell’economia collettiva in modo da poter vivere anche senza dover conquistare i mercati altrui. La conclusione è che non può esserci pace senza un cambio di paradigma economico.

Francesco Gesualdi




Trump, il populista che governa con i tweet

Teto di Piergiorgio Pescali |


Sbruffone, superficiale, bugiardo, dai gusti kitsch. Donald Trump è tutto questo, ma tra un anno potrebbe vincere ancora. Siamo andati a vedere chi lo vota e perché. Nel frattempo, le sue guerre commerciali hanno conseguenze mondiali mentre in politica estera, dopo i disastri (taciuti) del premio Nobel Obama…

Il bus ha appena lasciato la stazione della University of California a San Francisco, quando un’anziana signora inizia a battibeccare con il nuovo viaggiatore che si è appena seduto vicino a lei. Ha la musica degli auricolari un po’ troppo alta. A un certo punto il passeggero, un giovane universitario – cappello da baseball sulle ventitré, skateboard e uno zaino a tracolla – risponde alla signora in tono scocciato invitandola a occupare un altro sedile. La donna s’inalbera e inizia a gridare terminando la sua invettiva con un: «Ecco dove ci ha portato la politica di Trump: ha diviso l’America portandoci a litigare tra noi. Siamo un paese diviso, l’esatto opposto dell’America che voleva Obama!».

La scena appena descritta illustra bene il quadro che un turista, anche distratto, può avere visitando gli Stati Uniti. Occorre rifarsi agli anni Settanta, durante la presidenza Nixon, per trovare le opinioni dei cittadini dei cinquanta stati della federazione così nettamente divise sull’amministrazione che governa il loro paese.

O lo ami o lo odi

© Roman Boed_Chicago

Trump lo ami o lo odi e quando pareri così nettamente contrapposti si fronteggiano, la faziosità prevale sull’equità e oggettività di giudizio.

Smargiasso dai gusti kitsch, origini tedesche da parte di padre (il cognome originario era Drumpf) e scozzesi da parte di madre, Donald Trump si è sempre contraddistinto per la sua imprevedibilità e impulsività, due qualità che hanno suscitato critiche sul suo modus operandi sino a creare un neologismo: la «trumpaggine», sinonimo di stupidità e superficialità politica.

Giocando sull’immediatezza e sulla sintesi fin troppo schematizzata di Twitter, il presidente ha rivoluzionato il modo di comunicare con il mondo intero. E sono oramai in tanti a imitarlo, a partire dall’italico (una volta si diceva padano) ed ex ministro Matteo Salvini.

La differenza con la precedente signorilità ed eleganza di un Barack Obama è lampante, ma è proprio l’espressione un po’ campagnola, sbruffona e meno snob a far preferire Trump rispetto ad altri politici più navigati.

«Trump è più sincero di chiunque lo abbia preceduto. Dice sempre quello che pensa infischiandosene del bon ton e della diplomazia. È uno di noi!», afferma Chloe che, assieme a suo marito Leon, possiede una fattoria vicino a Bryce, nello Utah, dove affitta stanze a gente di passaggio come me. Poco importa se la guerra commerciale con la Cina, verso i cui mercati sono diretti molti dei prodotti agricoli statunitensi, ha causato una contrazione delle vendite. La risposta che ottengo è sempre più o meno la stessa: «Trump sta rendendo di nuovo l’America grande; i cinesi ci hanno comandato troppo a lungo, è ora che ci riprendiamo il nostro paese». «Make America great again» (facciamo l’America di nuovo grande): il motto presidenziale ha fatto breccia.

Chloe e Leon se la passano discretamente bene, ma non sono ricchi, così come la maggior parte dei sessantuno milioni di statunitensi che ha votato Trump nelle elezioni presidenziali del 2016: «L’elettore medio che ha preferito Trump alla Clinton abita nelle campagne, dove la vita è più faticosa e si lavora duramente; abita nelle periferie delle città, dove povertà, violenza, disoccupazione sono sempre state i drammi esistenziali con cui convivere. È quello che non ha finito le scuole perché la sua famiglia non poteva permettersi di pagare libri e retta», mi spiega Ysabel Perez, sociologa che tiene un corso di Criminologia presso la Northern Arizona University di Flagstaff. Ysabel è di origine ispanica, ma cittadina statunitense. Spiega che, a differenza di quanto l’americano medio sia portato a pensare, sono i ceti meno abbienti, i lavoratori, gli sfruttati, «quelli che voi europei un tempo chiamavate proletari», a costituire ancora oggi, a tre anni di distanza dalle elezioni, lo zoccolo duro dell’elettorato dell’attuale presidente. «Sono gli emarginati, ma – questo è importante – emarginati bianchi», conclude.

© Piergiorgio Pescali

Il voto dell’America puritana

Nell’America puritana, colore della pelle e religione si mischiano in ogni aspetto della vita quotidiana, molto più che in Europa. Il Pew Research Center ha appurato che il 69% degli evangelici di etnia caucasica approva l’operato del presidente, assieme al 12% dei protestanti neri. Tra i cattolici il 36% appoggia la politica di Trump, ma la percentuale sale al 44% tra i cattolici caucasici (bianchi), e scende al 26% tra quelli non bianchi (ma rispetto al 2017 quest’ultima percentuale è raddoppiata).

Secondo un recente sondaggio della Gallup, al luglio 2019, il 44% degli americani approvava il lavoro fatto sino a oggi dal loro presidente (un altro istituto, lo Zogby Analytics, indica che la percentuale supererebbe il 50%). Il 44% sembra una quota bassa, ma è l’identica percentuale di consenso che aveva Obama nello stesso periodo del suo primo mandato.

Insomma, Trump continua a dividere gli Stati Uniti e una grossa fetta degli abitanti lo considera un buon presidente.

Nel quartiere dei giovani artisti di Flagstaff la contrarietà nei confronti di Trump è evidente: in un negozio di souvenirs si vende carta igienica con il faccione del presidente, mentre in un bar il caffè è servito in tazze in cui è riprodotta l’effigie stilizzata dell’Urlo di Munch circondata dalla dicitura «President Trump».

I giornali e i media internazionali fanno fatica a comprendere il fenomeno di questo bizzarro uomo d’affari votatosi alla politica. Divisi tra i successi mietuti in politica estera e le contraddizioni di una politica interna che raccoglie successi economici e critiche sulla politica immigratoria, i canali televisivi e i giornali divulgano continuamente notizie biforcute.

© Benjamin Kerensa

Politica estera: bugie, verità e conflitti d’interesse

«L’amministrazione Trump si è dimostrata molto più abile del previsto in politica estera. La disastrosa esperienza guerrafondaia della coppia Obama-Clinton è stata sostituita dal dialogo offerto da Trump che ha portato alle aperture con la Corea del Nord, la Russia e, seppur in modo altalenante, con la Cina», confida davanti a una birra gelata e a stento celando un profondo senso di disagio, Dacre, un fisico delle alte energie che fa parte della Federazione degli Scienziati Americani, un’organizzazione che si batte per il bando delle armi nucleari.

La delusione verso la politica estera messa in atto da Obama è evidente: persino il Nobel per la pace dato sulla fiducia nel 2009 «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli», oggi è oggetto di contestazione. «Durante l’amministrazione Obama abbiamo scatenato guerre in Libia, Siria, aumentato il numero di militari in Afghanistan, imposto sanzioni alla Russia scatenando il conflitto in Ucraina, deteriorato i rapporti con la Cina e sfiorato una guerra con la Corea del Nord. Eppure è stato premiato con un Nobel per la pace, a differenza di Trump che, nonostante i suoi buoni risultati, è stato snobbato», lamenta Austin Yee, attivista pacifista americana dell’Ong Mercy Corps. Il Nobel ad Obama, lungi dall’essere un premio eticamente neutro, era stato fortemente sponsorizzato e voluto dall’avvocatessa norvegese Berit Reiss-Andersen, allora membro e oggi presidente del Comitato per il Nobel nonché socia della Dla Piper, lo studio legale internazionale (con uffici anche in Italia, ndr) che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012. Insomma, un Nobel alla fiducia (mal riposta), ma con enormi interessi finanziari.

Anche Trump, come chi lo ha preceduto alla Casa Bianca, non è certo un pacifista: il suo disimpegno internazionale è dovuto principalmente al fatto che, a differenza delle passate amministrazioni, è direttamente interessato a proteggere il proprio impero economico all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Con la nuova presidenza i cittadini americani hanno scoperto quello che noi chiamiamo conflitto d’interessi. Secondo la Cnn, Trump avrebbe 144 compagnie in 25 paesi del mondo (principalmente India, Indonesia, Canada, Emirati Arabi, Scozia, Cina, Brasile, Arabia Saudita), ma nessuno sa esattamente a quanto ammonti il suo impero: le cifre variano tra i 3,1 (Forbes) e i 12 miliardi di dollari (Trump stesso).

© Robbie Wroblewski_2008

La politica del «meno»: tasse, sanità, ambiente

La politica del lavoro di Trump sta dando i suoi frutti con una disoccupazione scesa ai minimi storici (3,7% rispetto al 5% del 2016), ma è un trend in discesa dal 2014, cioè da prima del suo arrivo alla Casa Bianca, quando era disoccupato il 7% della forza lavoro. E se è vero che i salari sono aumentati in media del 3,2%, è altrettanto vero che la ricchezza si sta concentrando verso un numero sempre più ristretto di persone. La ricchezza accumulata si è creata principalmente con il taglio delle tasse, il che ha portato Trump a eliminare o diminuire sovvenzioni sociali. Il tipico esempio è la proposta di cancellare la «Legge sulla protezione dei pazienti e sull’assistenza economica» (Patient Protection and Affordable Care Act), il cosiddetto Obamacare, forse la più popolare e utile iniziativa promossa dall’ex presidente Barak Obama, che ha permesso a circa 30 milioni di cittadini, prima esclusi dall’assistenza sanitaria, di essere tutelati dal sistema nazionale. La crescita economica Usa è anche dovuta al polemico atteggiamento di Trump verso le politiche ambientaliste, che ha portato a negare il riscaldamento climatico con il plauso, tra gli altri, delle Chiese evangeliche creazioniste. Questo ha incanalato verso il presidente l’approvazione delle compagnie automobilistiche perché non più soggette alla tassa sull’emissione di CO2 e inquinanti. La politica di Trump rischia, dunque, di vanificare il duro lavoro di contenimento degli inquinanti fatto da Obama. Basta vedere il parco macchine circolante oggi negli Stati Uniti per rendersi conto di quanto positiva sia stata la politica di Obama: dal 2012 le compagnie automobilistiche hanno dovuto adeguare i nuovi motori a regole più severe sui consumi. Questo ha portato alla produzione di auto più piccole e performanti (entro il 2025 le auto di nuova immatricolazione avrebbero dovuto avere un consumo di 23 km con un litro di benzina). Nel 2015 Obama, inoltre, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ridotto, entro il 2025, le emissioni di gas serra del 26% rispetto al 2005. Il clamore dell’annuncio era stato salutato con ottimismo da numerose organizzazioni, ma «Obama ha giocato sporco», mi dice Cinthia, scienziata che lavora presso Worldwatch Institute. «Ha fatto promesse che sapeva di non dover mantenere, visto che pochi mesi dopo avrebbe lasciato il mandato. Nessuna economia mondiale può fare promesse del genere senza avere implicazioni insostenibili. In pratica Obama ha fatto la sua bella figura passando la patata bollente al suo successore, Clinton o Trump che fosse, sapendo che la sua sarebbe stata una scommessa persa in partenza».

Del resto, gli ambientalisti denunciano la politica di Barak Obama che ha limitato l’utilizzo di carbone come fonte di energia primaria, sostituendola non con fonti rinnovabili, ma con il petrolio, specialmente quello proveniente dal fracking per la gioia delle compagnie petrolifere, in particolare la Chevron, Exxon, ConocoPhillips. «Nonostante quello che si dice, durante l’intera amministrazione Obama gli Stati Uniti sono stati saldamente al comando per produzione di CO2 pro capite, superando abbondantemente anche la Cina», conclude, dati alla mano, Cinthia.

© Jaime C. Patias

Quel muro con il Messico

© Jaime C. patias

Tuttavia, il punto più controverso del programma presidenziale di Trump, quello su cui molti media internazionali e l’opinione pubblica hanno focalizzato la loro attenzione, è il famoso muro tra Stati Uniti e Messico.

La questione dei migranti ispanici – chiamati di volta in volta da Trump stupratori, corrieri della droga, criminali – è stata il cavallo di battaglia della politica interna ed ha preso il sopravvento nel programma presidenziale immediatamente dopo le restrizioni agli ingressi negli Usa per i cittadini di sette paesi musulmani.

L’architetto di questa politica è un giovanissimo politico di origini bielorusse: Stephen Miller, classe 1985 e ghost writer di numerosi discorsi del presidente, tra cui quello con cui inaugurò la sua presidenza nel gennaio 2017.

Ancora una volta l’opinione pubblica, imboccata dai media, è esplosa nel denunciare la politica razzista e intollerante di Trump, ma in verità il muro non è un’invenzione né un’iniziativa di quest’ultimo presidente e, a sua difesa sono scesi in campo personaggi insospettabili come Isaac Newton Farris Jr., Alveda King, nipoti di Martin Luther King e Malik Obama, fratellastro di Barack.

L’inizio della costruzione del muro Usa-Messico risale al 1990 a San Diego, con la presidenza repubblicana di George Bush Sr. Tre anni dopo, nel 1993 erano stati completati 22,5 km di barriera, ma altri pezzi iniziarono ad essere costruiti separatamente in Arizona e Texas. Nel 1994 il democratico Bill Clinton autorizzò l’operazione Gatekeeper, Hold the Line e Safeguard creando corpi di polizia che pattugliavano il confine al fine di prevenire varchi illegali. Nell’ottobre 2006 fu di nuovo un repubblicano, George Bush Jr. ad approvare, anche con i voti di un giovane Barack Obama e di una navigata Hillary Clinton, il Secure Fence Act che prevedeva la costruzione di barriere lungo 1.126 km di confine. Fu lo stesso Obama, il 10 maggio 2011 ad annunciare orgoglioso a El Paso il completamento della Secure Fence al confine con il Messico dotandolo di droni, telecamere e sensori e facendolo pattugliare da 20mila agenti.

Trump nella sua campagna presidenziale promise di completare l’erezione del muro lungo tutti i 3.169 km di confine. Fino a maggio 2019 erano stati approvati fondi per 6,1 miliardi Usd per il rimpiazzo di 364 km di barriere già esistenti e 177 km di nuove barriere, di cui 64 km completati ad oggi.

© Jaime C. Patias

Chi entra negli Usa

Ogni anno il confine è attraversato legalmente da 350 milioni di persone mentre «gli immigrati illegali sono diminuiti dal 2000, quando se ne contarono un milione e 600mila, fino all’arrivo di Trump nel 2016 quando erano 400mila; poi dal 2016 sono di nuovo aumentati», dichiara Anthony Rivera, ricercatore presso la facoltà di legge della University of Texas di Austin. Tutti segni che un muro non serve per contenere la massa di persone desiderose di migliorare il proprio stile di vita e di dare ai loro figli un futuro migliore. «È pur vero, però, che il 39% dei 7.979 kg di eroina sequestrati nel 2017 in tutti i posti di frontiera è stato preso lungo il confine Usa-Messico e la maggioranza lungo il corridoio San Diego», continua Rivera che sta facendo una ricerca sul campo sull’immigrazione ispanica negli Usa.

Insomma, la presidenza Trump continua ad essere amata o odiata senza mezze misure negli Stati Uniti e all’estero. E mentre Donald Trump vuole far tornare grande l’America con la sua politica di esclusione e tolleranza zero, altri politici come Bernie Sanders affermano che l’America diverrà più forte solo «quando neri e bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani saranno tutti uniti», perché – come diceva un conservatore di ferro come Ronald Reagan – «chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – concludeva Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni paese e da ogni angolo della Terra».

Piergiorgio Pescali

© Photo by Mackenzie Harris Faith in Public Life 7


Trump e i migranti: Meno ingressi per tutti

Sull’immigrazione illegale il presidente vuole «tolleranza zero». E vorrebbe cancellare anche il «birthright citizenship», quello che in Italia si chiama «ius soli».

Sin dalla campagna elettorale, Donald Trump ha messo la questione migratoria tra i punti più salienti della sua politica. E, pur tra mille difficoltà, sta mantenendo la parola data. Purtroppo, verrebbe da dire. A sua discolpa l’attuale presidente Usa ha più volte ribadito di aver ereditato una situazione già avviata dalle precedenti amministrazioni, e in parte è vero. La barriera che divide Messico e Usa è stata decisa, iniziata e ampliata da Bush, padre e figlio, Clinton e Obama, ancora prima che Trump decidesse di scendere in politica, e anche i centri di detenzione per immigrati illegali, compresi quelli destinati esclusivamente a bambini, sono eredità delle passate amministrazioni.
A differenza dei precedenti inquilini della Casa Bianca però Trump ha eliminato la discrezionalità che l’amministrazione Obama aveva concesso al Dipartimento di giustizia nel trattamento degli immigrati entrati illegalmente nel paese. Questo, e non la detenzione dei minori, è il punto di maggiore diversità specialmente con l’amministrazione Obama. La tolleranza zero più volte invocata da Trump e dal suo consigliere sull’immigrazione, Stephen Miller, ha portato a una situazione al limite del rispetto dei diritti umani, come più volte hanno giustamente fatto presente numerose organizzazioni che operano sul campo: chi viene catturato mentre attraversa illegalmente il confine è spedito immediatamente in prigione mentre i minori che lo accompagnano sono inviati nei centri di detenzione.
Oggi sono 1.700 i minori separati dalle loro famiglie che vivono nei centri appositi, mentre durante la passata amministrazione Obama le separazioni erano occasionali e limitate a un periodo di soli 20 giorni.
Le condizioni all’interno dei campi sono spesso disastrose: secondo il direttore dell’ufficio per l’applicazione delle leggi sulle dogane e immigrazione, Mark Morgan, i centri di detenzione per minori sono «assolutamente inadeguati» e sono in molti a paragonarli ai campi di concentramento per giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla politica della tolleranza zero, Trump (sempre imbeccato da Miller) ha chiesto la revisione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, che dal 1868 garantisce la cittadinanza statunitense a chiunque nasca sul territorio. Negli Usa si chiama «birthright citizenship», in Italia è noto come «ius soli». Trump ha chiesto la revoca del Quattordicesimo emendamento per i nati da immigrati illegali. Dato che il cambiamento di un articolo della Costituzione americana richiede il consenso dei due terzi del Congresso, Trump avrebbe insinuato l’ipotesi di emanare un «ordine esecutivo presidenziale» che avrebbe valore di legge. Non sarebbe la prima volta che un presidente Usa si avvarrebbe di questo potere: tutti i presidenti americani se ne sono valsi centinaia di volte durante i loro mandati (ad esempio, la famosa emancipazione degli schiavi voluta nel 1863 Abraham Lincoln fu proclamata con un ordine esecutivo, così come la partecipazione Usa nella guerra del Kosovo voluta da Bill Clinton nel 1999).

P.P.

Photo by Seth HERALD / AFP


Trump e la violenza: Più armi per tutti

Le stragi con armi da fuoco sono una triste consuetudine. Eppure, il presidente – legato alle lobbies dei produttori – continua a non voler limitare la libertà di detenerle, diritto sancito dal Secondo emendamento della Costituzione statunitense.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Questo è il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Introdotto nel 1791 per permettere alle milizie cittadine di difendersi contro le razzie e i raid degli eserciti inglesi e spagnoli, si è nel tempo trasformato in una dichiarazione liberista attorno alla quale si evolve il dibattito sulle libertà civili del singolo individuo statunitense. Ed è proprio sul significato e sull’applicazione di questo Secondo emendamento che si sta consumando una delle battaglie politiche ed economiche più virulente della società americana. L’organizzazione più potente che si batte affinché al cittadino statunitense venga permesso di detenere e usare armi a scopo di difesa personale è la National Rifle Association (Nra). Fondata nel 1871, conta oggi 5 milioni e mezzo di aderenti e proventi per 412 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori vi sono stati presidenti americani (tra cui anche John Fitzgerald Kennedy) e attori famosi come Charlton Heston, Chuck Norris, Tom Selleck.
Sul sito ufficiale, organizzazioni, giornalisti, politici, presidenti che hanno manifestato la volontà di eliminare il Secondo emendamento sono duramente criticati, mentre non viene celato l’appoggio verso l’attuale presidente Usa, Donald Trump che, in più occasioni, ha difeso il diritto degli statunitensi di essere armati elogiando la stessa Nra.

Tra i maggiori critici della Nra non vi è solo chi si batte contro la proliferazione di armi negli Stati Uniti, ma anche associazioni come la Gun Owners of America, un’altra potente organizzazione che conta due milioni di affiliati, anch’essa apertamente a favore della politica di Trump. A differenza della Nra, pesantemente compromessa con lobbies finanziarie, economiche e politiche, la Goa afferma orgogliosamente la sua indipendenza da ogni pressione. Il suo modesto budget ufficiale (appena due milioni di dollari) proverrebbe esclusivamente dalle sottoscrizioni dei suoi membri e questo avrebbe permesso all’associazione, fondata nel 1975 dal senatore repubblicano Bill Richardson, di battersi con più impegno e forza per il mantenimento più ampio del Secondo emendamento senza quelle restrizioni appoggiate anche dalla Nra. La Goa, ad esempio, vorrebbe l’eliminazione delle free-gun zones, delle barriere legali per la detenzione delle armi, l’applicazione del Secondo emendamento in tutti i 50 stati della federazione.

Nel frattempo, mentre questo articolo va in stampa, negli Stati Uniti le stragi con armi da fuoco proseguono senza soluzione di continuità.

P. P.

© Eric Purcell