Spese militari nel mondo. Mai così alte


Gli eserciti e l’industria delle armi festeggiano il 2023 come l’anno più positivo di sempre.
Nel mondo, infatti, la spesa militare non era mai stata tanto alta: 2.443 miliardi di dollari secondo un recente rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Stoccolma.

Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.

L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.

Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.

È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.

Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).

Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.

In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.

Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.

Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).

I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.

Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».

I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.

Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.

Luca Lorusso




Nord Corea. Anche Kim tiene famiglia


Il leader nordcoreano rafforza i legami con Russia e Cina. E fa la voce grossa con Corea del Sud e Stati Uniti. Accanto a lui sono cresciuti il ruolo e la visibilità della sorella Kim Yo Jong.

Pyongyang. La tensione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud torna a essere elevata dopo che Kim Jong Un (il Grande Leader) ha annunciato di non voler proseguire il dialogo con Seoul dissipando le illusioni di una unificazione della penisola coreana.

La dichiarazione del leader nord-coreano, a cui si è aggiunta la richiesta di eliminare dalla Costituzione l’articolo che impegna Pyongyang a prodigarsi per la riunificazione, è giunta al termine di una lunga serie di provocazioni iniziate subito dopo il fallimento dell’incontro con l’allora presidente statunitense Donald Trump ad Hanoi (Vietnam), nel 2019.

Da allora, mentre Kim Jong Un continuava a mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale verso l’esterno, la sorella Kim Yo Jong si è lanciata in crociate oratorie contro il presidente sudcoreano Moon Jae-in culminate con la distruzione dell’ufficio di collegamento intercoreano nel 2020. L’intento della famiglia Kim era chiaro: attendere che l’incertezza della situazione mondiale si chiarisse un po’ così da poter prendere posizioni più nette e vantaggiose per rafforzare un potere interno che si dimostrava essere meno saldo di quanto si pensasse. Nel frattempo, si dovevano percorrere entrambe le strade: quella della fermezza (Kim Yo Jong) e quella della diplomazia (Kim Jong Un).

Le vicende del 2022 e del 2023 – l’invasione della Russia in Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza della Corea del Sud (da maggio 2022), le tensioni su Taiwan, le difficoltà di Biden e il prepotente ritorno di Donald Trump nella scena politica statunitense – hanno indotto Kim Jong Un a rompere gli indugi e adottare una politica frontale nei confronti dell’Occidente.

Una stazione della metro nella capitale nordcoreana, Pyongyang. Foto Micha Brandli – Unsplash.

L’escalation militare tra le due Coree

Pyongyang cerca oggi di inserirsi nell’asse anti Usa schierandosi accanto a Cina e Russia, suoi alleati storici. I Kim hanno estremo bisogno di protettori in un momento in cui il potere della famiglia nel Paese è debole come mai prima: la pandemia ha costretto a sigillare i confini invertendo una rotta che, almeno fino al 2019, aveva visto una loro maggiore permeabilità. L’economia, florida e vivace come non lo era mai stata in tutta la sua storia, tra il 2020 e il 2023 ha subito una flessione che si è ripercossa sulla vita dei cittadini. Il primo decennio di leadership di Kim Jong Un era stato caratterizzato da un progressivo allontanamento dai circoli di potere delle personalità più conservatrici nel Paese, quelle legate alla politica tradizionalista del padre Kim Jong Il e, al tempo stesso, del trasferimento di molti centri decisionali dall’ambito militare a quello civile e tecnocratico.

La crisi ha consentito agli oppositori interni di rialzare la testa e, per evitare il tracollo e vanificare le riforme varate, Kim Jong Un ha dovuto cercare, suo malgrado, sostegno tra i generali intensificando i test missilistici, riattivando il programma nucleare, rimpolpando l’arsenale delle forze armate. Al tempo stesso, il suo omologo sudcoreano ha stretto le relazioni con Tokyo e Washington potenziando la cooperazione militare. Si è così innescato un circolo vizioso che ha alimentato l’escalation: più Pyongyang perfezionava i suoi armamenti, più Seoul si sentiva minacciata aumentando perciò le esercitazioni militari con l’alleato statunitense. Questo forniva ai generali nordcoreani l’opportunità per chiedere ancora maggiori finanziamenti.

Il tutto ha portato alla situazione attuale che molti analisti giudicano simile a quella del 2017, quando i media ritenevano inevitabile e imminente lo scoppio di una guerra nucleare. Allora la guerra non ci fu e, anzi, Kim Jong Un saldò ancora più fortemente il suo controllo sulla nazione, ma oggi la situazione è leggermente diversa. Pur restando ancora lontani da un confronto militare che coinvolga testate nucleari, la contrapposizione tra Nord e Sud si è fatta sicuramente più complicata. Le forze armate di Pyongyang, da sempre tecnologicamente inferiori (tanto da sapere di non poter iniziare una guerra con la speranza di vincerla), oggi hanno diminuito (anche se non colmato) questo divario permettendo ai militari nordcoreani di guardare con più ottimismo un eventuale conflitto.

Questa situazione si innesta in un contesto internazionale nel quale gli scontri e le tensioni, dal fronte ucraino e quelli mediorientali fino a Taiwan, hanno creato un’atmosfera nettamente più favorevole per Pyongyang.

A Pyongyang si rende omaggio alle enormi statue in bronzo di Kim Il Sung e Kim Jong Il. Foto Alexander – Pixabay.

Lontani da Seoul

Kim cerca di ritagliarsi un ruolo tutto suo nello scacchiere asiatico nordorientale per eliminare Seoul da ogni futuro negoziato. Non per nulla il Grande Leader ha definito, non senza compiacimento, l’attuale situazione come una nuova guerra fredda, una condizione che non è difficile ricondurre alla famosa frase di Mao Zedong «Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».

Se prima la Corea del Sud rappresentava un intermediario valente, efficace e affidabile, oggi non lo è più. Nei quattro anni di amministrazione Biden, gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcun passo per riaprire quei negoziati che Trump aveva inaugurato contribuendo a una distensione delle relazioni nella regione.

A questo punto, Seoul non serve più a Pyongyang che spera in un ritorno di Trump alla Casa Bianca per riaprire i colloqui senza l’intermediazione del Sud. In attesa dei risultati delle urne statunitensi a novembre, Kim Jong Un continua ad alzare il tiro consapevole che, oggi, ha dalla sua un esercito più forte, competente e tecnologicamente più avanzato di quanto fosse sette anni fa.

La politica è comunque sempre la stessa: tendere la corda testando sino a quando questa può resistere senza tuttavia giungere al punto di rottura. E, a quel punto, iniziare le trattative da una posizione di forza.

La famiglia Kim ha bisogno di questa trazione per allontanare il pericolo di un rientro in grande stile degli oppositori, così faticosamente allontanati dal leader e dalla sorella.

Kim Jong Un e Vladimir Putin a Vostochny (Amur, Russia) lo scorso 13 settembre. Foto Korean Central News Agency – AFP.

L’Ucraina e le armi a Mosca

La guerra ucraina è stata un toccasana in questo senso: la pandemia aveva intossicato l’economia nordcoreana più di quanto avesse infettato la popolazione. La chiusura dei confini, ordinata sin dall’inizio del 2020, aveva messo in enorme difficoltà le riforme implementate: le merci provenienti dalla Cina dovevano restare in quarantena per diverse settimane prima di poter essere messe sul mercato e i prezzi dei prodotti avevano subito impennate verticali. Ciò che ha impedito alla popolazione di non ripiombare nell’incubo dell’«Ardua marcia» (la carestia del periodo 1994-1998) con malnutrizione, malattie, inedia, sono state proprio le riforme economiche volute da Kim Jong Un durante i primi anni della sua salita al potere.

Tuttavia, per mantenere viva la ristrutturazione sociale e politica serviva anche una crescita economica che, negli anni del Covid, è stata invece azzerata. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’alleato russo ha, almeno in parte, aiutato l’economia nordcoreana a risollevarsi. Kim ha inviato equipaggiamenti militari a Putin e i campi di battaglia sono serviti anche per testare nuovi prototipi di armamenti prodotti dalle fabbriche militari nordcoreane. In cambio, Mosca ha corrisposto il favore spedendo a Pyongyang considerevoli quantità di petrolio, carbone, gas naturale, pezzi di ricambio per mezzi agricoli e militari.

L’aumento delle disparità

Vigilessa nordcoreana nella capitale. Foto Peter Anta – Pixabay.

Tutto questo ha aiutato, da una parte, la famiglia Kim a mantenersi alla guida del governo, dall’altra ai nordcoreani di avere una ventata di ossigeno per i loro commerci privati.

Non dobbiamo però pensare che questi aiuti siano indolori: le disparità tra campagna e città, ma soprattutto tra chi ha collegamenti con il Partito dei lavoratori e chi, invece, ne è escluso, in questi tre anni sono aumentate.

La superficie delle terre abbandonate è incrementata, soprattutto nelle zone montuose dove la mancanza di macchinari agricoli rende il lavoro estremamente faticoso, mentre gli appezzamenti di terreno privati hanno registrato un aumento di produttività.

Le cooperative hanno quasi smesso di rifornire i negozi statali della merce più richiesta, visto che questa è ormai reperibile nei mercatini privati senza limiti di quantità, anche se a prezzi ben superiori a quelli stabiliti dallo Stato. Ma il denaro è un problema secondario: la nuova economia, introducendo attività private, ha permesso a molte famiglie di incamerarne una discreta quantità, tanto che oggi si calcola che almeno l’80% delle entrate finanziarie dei nordcoreani arrivi da nuovi mestieri e occupazioni private.

Il contrabbando con la Cina e, recentemente, anche con la Russia, ha immesso sul mercato prodotti che altrimenti sarebbero reperibili solo nei grandi centri commerciali delle principali città. Oltre a elettrodomestici, telefonini, computer, liquori, snack, cosmetici di varie marche (anche sudcoreane, giapponesi, europee, statunitensi), i pannelli solari sono tra gli oggetti più richiesti. L’ormai endemica penuria di elettricità con frequenti blackout, hanno costretto le famiglie a dotarsi di impianti di produzione elettrica autonomi per evitare gli sbalzi di tensione.

Chi soffre meno questa situazione sono gli alti dirigenti del Partito, i manager delle industrie, nonché scienziati e tecnici impegnati nelle attività considerate più vitali e importanti per il Paese.

L’esperienza personale mi offre una conferma di questa situazione.

Chi sono i privilegiati

Kim Yo Jong, sorella del leader e in prepotente ascesa, durante un evento per celebrare la vittoria sul Covid, nell’agosto 2022. Foto Korean Central News Agency – AFP.

Approfittando del (raro) invito fattomi da un ricercatore scientifico e professore universitario per assaporare la cucina locale, ho modo di vedere da vicino l’appartamento di una famiglia privilegiata. Ben riscaldato (a differenza delle case di campagna che devono centellinare il carbone per la stufa) e ben tenuto, è fornito di un grande televisore a schermo piatto che trasmette una serie cinese. I mobili sono pieni di suppellettili e souvenir dei numerosi viaggi all’estero fatti con l’intera famiglia: Cina, Russia, Thailandia, Mongolia, India, Europa e persino Stati Uniti (una Statua della Libertà e un pupazzo in pezza di Topolino). La cena che mi viene offerta è abbondante e innaffiata da vino francese e birra nipponica. Sia la figlia che il figlio parlano un buon inglese, ma anche cinese e giapponese. Entrambi studiano materie scientifiche, la prima alla Kim Il Sung University mentre il secondo sta terminando il corso di medicina nell’unica università privata esistente in Corea del Nord (il che indica l’alto livello sociale occupato dalla famiglia).

Sognano di studiare in Europa, Giappone o negli Stati Uniti, «ma per tornare poi in Corea per dare il nostro contributo alla crescita della nazione», si premurano di aggiungere di fronte allo sguardo severo del padre. Sia lui che la moglie sono accaniti sostenitori del Partito e della famiglia Kim e non accetterebbero con facilità che la loro prole abbandonasse il Paese. Del resto, dal governo hanno sempre avuto il meglio che potevano ricevere (istruzione, assistenza sanitaria, benefit, sicurezza economica, carriera).

Come pensare di tradire chi ti ha concesso il miglior tenore di vita che si possa avere nella nazione?

In altre situazioni, meno privilegiate, le critiche a membri del Partito sono invece più comuni. Una delle grandi rivoluzioni introdotte da Kim Jong Un è proprio quella di aver invitato il popolo a biasimare gli amministra- tori più negligenti.

I Kim non sbagliano mai

Il Grande Leader è stato il primo a dare il buon esempio già pochi mesi dopo la sua salita al potere. In una mossa assolutamente nuova nel mondo politico nord-coreano, Kim ha più volte attaccato pubblicamente dirigenti del Partito, fino ad allora ritenuti intoccabili.

Resta comunque sottinteso che nessuno della famiglia Kim può essere soggetto a giudizio.

La mia guida (in Corea del Nord si è sempre accompagnati da una guida) s’infuria quando le faccio notare gli errori compiuti dai diversi membri, Kim Il Sung compreso, durante i loro settantacinque anni di potere ininterrotto. Il mantra di assoluzione è sempre lo stesso: gli sbagli sono stati fatti dai collaboratori, dagli approfittatori, dai controrivoluzionari che hanno ingannato i vari leader i quali, anzi, grazie alla loro lungimiranza, hanno allontanato questi traditori appena hanno avuto modo di accorgersi delle loro azioni ai danni del popolo e della nazione. Questo tabù è uno dei motivi per cui la dirigenza nordcoreana, dopo aver espresso l’intenzione di invitare papa Francesco a Pyongyang, non si sente ancora pronta ad accoglierlo. Un papa che parla di diritti umani e che bastona tutti può essere sicuramente comodo fuori dalla Corea del Nord, ma parlare di questo tema a Pyongyang, di fronte a migliaia di cittadini, rischierebbe di essere una mina vagante.

Piergiorgio Pescali

La chiesa protestante di Bongsu, a Pyongyang; nel paese, classificato come il meno libero del mondo per le confessioni religiose, le chiese sono pochissime. Foto korea.travel.art.


La condizione religiosa: Un triste primato

Nonostante la Costituzione non lo vieti, in Corea del Nord professare una fede religiosa è complicato e spesso pericoloso.

«Open doors», l’organizzazione olandese fondata nel 1955 da Andrew van der Bijl che stila rapporti annuali sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo, ha affermato che il Paese dove la religione è più perseguitata nel pianeta è la Corea del Nord. Secondo quanto si legge nella relazione, se «scoperti, i cristiani sono deportati assieme alle loro famiglie in campi di lavoro come criminali politici o uccisi sul posto».

Più generico, invece, il rapporto di Human Rights Watch, che cita violazioni di «libertà fondamentali inclusa la libertà di espressione, associazione e di religione».

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana afferma che «i cittadini godono libertà di culto» e che nel Paese viene garantita la «costruzione di edifici religiosi nonché la possibilità di celebrare cerimonie religiose». Aggiunge, altresì, un paragrafo che è determinante nelle analisi che si dovrebbero fare su come le pratiche di culto vengono viste da Pyongyang: si afferma, infatti, che «la religione non deve essere usata come pretesto per favorire la presenza di forze esterne e per mettere in pericolo lo Stato o l’ordine sociale».

Per questo le associazioni religiose presenti nella nazione non possono essere indipendenti dal governo, sono tutte guidate da membri dell’esecutivo e nel loro statuto devono avere chiari riferimenti patriottici. A parte le persone che ne sono a capo, chi fa parte di un culto, sia essa cristiana, buddista o ceondanista (seguaci del ceondoismo, religione coreana che mescola elementi di sciamanesimo, taoismo e buddismo, ndr), non può essere membro del Partito dei lavoratori.

In Corea del Nord esistono chiese protestanti, templi buddisti, almeno una chiesa cattolica, una ortodossa e anche una moschea nell’ambasciata iraniana. Si hanno notizie anche di luoghi di culto (pure cattolici, ma non solo) sparsi in diverse province del Paese in cui si svolgono incontri di studi biblici.

Tra timide aperture e improvvise chiusure

Negli anni Novanta e sino all’inizio dell’attuale secolo, diverse organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, come la Caritas, hanno condotto programmi di aiuto medico, alimentare e sociale. Erano attività attentamente sorvegliate dalle autorità del governo che non lasciavano molti spazi decisionali sulla destinazione di questi aiuti. Quando l’emergenza della carestia iniziò a terminare, molte di queste Ong lasciarono il Paese criticando l’ingombrante presenza dei funzionari locali.

La presenza religiosa comunque non scomparì mai del tutto, tanto che, nel 2008, un’associazione che faceva capo alle Chiese evangeliche della Corea del Sud riuscì ad aprire quella che ancora oggi è l’unica università privata esistente nel Nord.

Tra il 2017 e il 2018, con la distensione tra Pyongyang e Washington e l’intermediazione del presidente sudcoreano Moon Jae-in, ci fu anche la concreta possibilità che papa Francesco potesse decidere di accogliere l’invito fatto in almeno due occasioni da Kim Jong Un di visitare la Corea del Nord. Quando le trattative sembravano a buon punto, la pandemia e l’elezione di Biden alla Casa Bianca interruppero ogni ulteriore sforzo per concludere un accordo di un viaggio che sarebbe sicuramente passato alla storia come uno dei più importanti segnali di distensione mondiale.

La chiusura dei confini (che oggi solo in parte si stanno riaprendo), l’interruzione del dialogo con gli Usa e l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza sudcoreana hanno portato Kim Jong Un a rivedere la politica di parziale intesa che aveva fatto sperare in una nuova era per la penisola.

Chiese evangeliche e Chiesa cattolica

A farne le spese sono state anche le Chiese presenti sul territorio, in particolare quelle cristiane evangeliche e protestanti i cui fedeli, a differenza dei cattolici, sono molto più legati ai movimenti politici anti comunisti e anti nordcoreani.

È in questo senso, dunque, che va vista la seconda parte dell’articolo 68 della Costituzione, nella quale si ammonisce ogni credo religioso a non sovvertire l’ordine costituito. In realtà, la persecuzione cristiana da parte del regime di Pyongyang, è idealmente rivolta più verso le comunità protestanti che a quelle cattoliche, anche se i funzionari di partito, poco edotti sui principi dogmatici che differenziano le due fedi, non sempre riescono a distinguere la diversità. La Chiesa cattolica è sempre stata vista dal regime di Pyongyang come un’entità molto meno pericolosa rispetto alle sorelle protestanti. I cattolici, al pari del regime, hanno una struttura verticale molto pronunciata al cui culmine risiede il papa. Questo ordine gerarchico viene visto dai funzionari nordcoreani come qualcosa di rassicurante perché limita l’anarchia ideologica e interpretativa.  Inoltre, la Chiesa cattolica, proprio per i rapporti diplomatici (non ufficiali) che intrattiene con Pyongyang, ha sempre dimostrato di voler accettare le regole dello Stato limitando la diffusione di concetti che non siano religiosi.

Le Chiese evangeliche e protestanti sono invece spesso legate a organizzazioni politiche che fanno capo a centrali statunitensi con ramificazioni in Sud Corea e, in forma più o meno clandestina, in Cina. Dai confini di questi due Stati i missionari fanno entrare illegalmente in Corea del Nord oggetti di culto, Bibbie ma anche libri non religiosi, testi che inneggiano alla formazione di una rete di opposizione religiosa con risvolti politici.

Spegnere i possibili «focolai»

Per esempio, dal territorio sudcoreano, a ridosso del 38° parallelo, capita spesso che fedeli di comunità evangeliche si riuniscano per lanciare palloni aerostatici che, con l’aiuto delle correnti atmosferiche, trasportano pacchi di aiuti contenenti anche testi considerati sovversivi al Nord.

Il tentativo da parte delle autorità nordcoreane di smantellare questa rete di potenziali oppositori al regime, si estende quindi anche alle comunità cristiane. Poco importa se cattoliche, evangeliche o protestanti: la presenza di una Bibbia, di un crocifisso o di un’immagine sacra è comunque intesa come indicazione che in quel luogo esiste un «focolaio» destabilizzatore che, come tale, deve essere soffocato.

Pi.Pes.

 




Contro l’economia di guerra


Un’opera collaborativa che evidenzia la violenza del modello economico dominante ed esplora alternative virtuose. In nome del rispetto degli esseri umani e della natura. Alla ricerca di una economia di pace.

Cittadella editrice ha il merito di aver pubblicato un agile libro che raccoglie i contributi di diversi attivisti e studiosi per mettere a fuoco le dinamiche dell’economia di guerra nella quale siamo immersi, e individuare percorsi virtuosi verso un’alternativa di pace.

La prima parte del testo è dedicata all’analisi delle drammatiche crisi in atto: il clima, le guerre, l’eclissi della democrazia, dell’uguaglianza e della giustizia. Esse sono prodotte dal modello neoliberista dominante nel quale sono riconoscibili almeno tre tendenze generali.

Tendenze del capitalismo

La prima è la tendenza alla concentrazione del potere economico in poche mani, frutto della lotta per la conquista dei mercati che ha alimentato una polarizzazione tra paesi creditori, come Cina, Russia, Arabia Saudita, e paesi debitori, come gli Stati Uniti. Relazioni internazionali più tese stanno portando allo sviluppo di politiche protezionistiche e alla creazione di aree amiche o nemiche, in un pericoloso «equilibrio di guerra» che rischia di saltare in ogni momento, anche a causa delle crescenti spese militari, le quali, ad esempio nei paesi Nato dell’Unione europea, sono aumentate di quasi il 50% in 10 anni: da 145 miliardi nel 2014 a 215 nel 2023.

Una seconda tendenza è la corsa al controllo delle fonti di energia fossile. I conflitti armati del secondo dopoguerra sono scoppiati per quasi la metà a causa degli idrocarburi: o per conquistare i territori che ne sono ricchi, o per impedire che un paese produttore acquisisse una posizione dominante nel mercato internazionale, o per controllare le rotte di trasporto di petrolio e gas.

È utile sapere che il 64% della spesa italiana per missioni militari all’estero è assorbita da operazioni connesse alla difesa delle fonti fossili. Non si può, poi, evitare di considerare che, nella guerra russo-ucraina, le zone contese del Donbass sono ricche di carbone e petrolio.

Una terza tendenza è l’impossibilità di mettere in atto una seria transizione ecologica, necessaria per affrontare la crisi climatica. Risulta infatti evidente che il cambiamento dovrebbe essere fondato su una conversione economica che sappia rinunciare a un modello di sviluppo centrato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Oggi invece «l’inquinamento ambientale è causato dalla difesa armata dell’unica ideologia esistente, il capitalismo» (pag. 145).

Dunque, la «radice della guerra […] va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti […]. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.

Per ripudiare la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde ed inventare un’economia di pace» (pag. 97).

Alternative concrete

Nella seconda parte del testo, «Appunti per un’economia di pace», sono presentati alcuni contributi che propongono alternative possibili allo scenario descritto in precedenza.

Un cambiamento di paradigma è rappresentato dal modello dell’economia gandhiana, fondato su sei concetti chiave: nonviolenza, non sfruttamento, autolimitazione e sobrietà, lavoro autodiretto al servizio dello sviluppo proprio e della comunità di appartenenza, sviluppo locale autocentrato, amministrazione fiduciaria per gestire le attività economiche.

In questa prospettiva si collocano le esperienze di decentramento, autogestione e cittadinanza attiva come i Gas (Gruppi di acquisto solidale), le comunità energetiche per l’autoproduzione di energia a livello locale, le forme di boicottaggio nei confronti di prodotti insostenibili a livello sociale e ambientale. Queste iniziative rappresentano l’esercizio del potere del consumatore che diventa consum-attore contribuendo a indirizzare l’economia con le sue scelte di acquisto anche attraverso campagne collettive e organizzate (quelle, ad esempio, contro le banche armate).

Se le fonti fossili sono strettamente legate a un’economia di guerra, le fonti rinnovabili, decentrate e controllabili dal basso, rappresentano un diverso modello di società e di economia, un’economia di pace.

Oltre a queste sono presentate nel libro una molteplicità di esperienze e mobilitazioni civili che si battono per rendere i territori, le società e perfino le scuole sempre meno legate all’industria e alla mentalità bellica: dal comitato che ha creato il marchio etico «war free» alla mobilitazione della società civile della valle Sacco, a sud di Roma, contro l’industria bellica e chimica che inquina, dal movimento No base a Pisa Rossore contro la base militare Usa di Camp Darby, all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole (vedi MC ottobre 2023).

Un nuovo paradigma

Il testo si chiude con alcune proposte che invitano il lettore a ripensare i paradigmi economici della società nella direzione del rispetto e della convivenza con il resto dell’umanità e con la Terra.

Si parla quindi di decolonizzare la mente e il pianeta (sviluppare il senso del limite e della cura al posto della paura del nemico e della precarietà), di decostruire la retorica della sicurezza (riumanizzare l’altro, perseguire la giustizia economica), di porre la pace disarmata alla base della politica (obiezione fiscale per la conversione delle spese militari; costruzione dei Corpi civili di pace; riconversione industriale; disarmo e ripudio della guerra; difesa popolare nonviolenta), di mobilitarsi in reti e movimenti territoriali per costruire la pace dal basso, rifondare l’economia passando dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione.

Un libro ricco di spunti da conoscere, sviluppare, promuovere, e tradurre in azioni concrete.

Angela Dogliotti




Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




Proibire le armi nucleari


Un forte appello a Governo e Parlamento
dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di:

Acli, Azione Cattolica italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, Agesci, Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, Mcl (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Amici di Raoul Follerau, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario),Centro Internazionale Hélder Câmara, Centro Italiano Femminile, Csi (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Movimento Cattolico Mondiale per il Clima, Federazione Stampa Missionaria Italiana (a cui è associata MC), Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Fraternità francescana frate Jacopa, Comunità Cristiane di Base, Associazione delle Famiglie Italiane


Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021,
viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan
Per una Repubblica libera dalle armi nucleari”


L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari

Il 22 gennaio 2021, al termine dei 90 giorni previsti dopo la 50esima ratifica, il «Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari» è diventato giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno firmato.
Questo Trattato, che era stato votato dall’Onu nel luglio 2017 da 122 Paesi, rende ora illegale, negli Stati che l’hanno sottoscritto, l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.
Il nostro Paese non ha né firmato il Trattato in occasione della sua adozione da parte delle Nazioni Unite, né l’ha successivamente ratificato. Tra i primi firmatari di questo Trattato vi è invece la Santa Sede.
In Italia, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia), sono presenti una quarantina di ordigni nucleari (B61). E nella base di Ghedi si stanno ampliando le strutture per poter ospitare i nuovi cacciabombardieri F35, ognuno dal costo di almeno 155 milioni di euro, in grado di trasportare nuovi ordigni atomici ancora più potenti (B61-12).
Il nostro Paese si è impegnato ad acquistare 90 cacciabombardieri F35 per una spesa complessiva di oltre 14 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i costi di manutenzione e quelli relativi alla loro operatività.
Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, dunque, in quanto tali, eticamente inaccettabili, come ci ha ricordato anche papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone domenica 24 novembre 2019, a Hiroshima:
«Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra».
Il 22 gennaio 2021 autorevoli esponenti della Chiesa cattolica di tutto il mondo, tra i quali il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e mons. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, hanno sottoscritto a loro volta un appello in cui «esortano i Governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari», sostenendo in questo «la leadership che papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare». Altri vescovi italiani si sono espressi pubblicamente in questa direzione e anche numerose sedi locali delle nostre associazioni e dei nostri movimenti hanno fatto altrettanto.
A tutti questi appelli, unendoci convintamente alla Campagna nazionale “Italia ripensaci”, che ha registrato una vasta e forte mobilitazione su questo argomento, aggiungiamo ora il nostro e chiediamo a voce alta al Governo e al Parlamento che il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu di Proibizione delle Armi Nucleari.
La pace non può essere raggiunta attraverso la minaccia dell’annientamento totale, bensì attraverso il dialogo e la cooperazione internazionale.
«La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi»

  • Emiliano Manfredonia
    Presidente nazionale delle Acli
  • Matteo Truffelli
    Presidente nazionale di Azione Cattolica
  • Giovanni Paolo Ramonda
    Responsabile nazionale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
  • Rosalba Poli e Andrea Goller
    Responsabili nazionali del Movimento dei Focolari Italia
  • Don Renato Sacco
    Coordinatore nazionale di Pax Christi
  • Don Julián Carrón
    Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
  • Adriano Roccucci
    Responsabile nazionale per l’Italia della Comunità di Sant’Egidio
  • Don Luigi Ciotti
    Presidente del Gruppo Abele e di Libera
  • Ernesto Preziosi
    Presidente di Argomenti 2000
  • Ernesto Olivero
    Fondatore del Sermig (Servizio Missionario Giovani)
  • Beppe Elia
    Presidente nazionale del MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale)
  • Martina Occhipinti e Lorenzo Cattaneo
    Presidenti nazionali della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana)
  • Barbara Battilana, Vincenzo Piccolo
    Presidenti del Comitato Nazionale dell’Agesci
  • Franco Vaccari
    Presidente di Rondine, Cittadella della Pace
  • Antonio Di Matteo
    Presidente nazionale MCL (Movimento Cristiano Lavoratori)
  • Antonio Gianfico
    Presidente della Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli
  • Luciano Caimi
    Presidente di Città dell’Uomo – associazione fondata da Giuseppe Lazzati
  • Ivana Borsotto
    Presidente della Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)
  • Antonio Lissoni
    Presidente nazionale dell’Associazione Italiana Amici di Raoul Follerau
  • Luciano Corradini
    Presidente emerito dell’UCIIM (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi)
  • Don Riccardo Battocchio
    Presidente nazionale dell’ATI (Associazione Teologica Italiana)
  • Cristina Simonelli
    Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane
  • Renata Natili Micheli
    Presidente nazionale del CIF (Centro Italiano Femminile)
  • Vittorio Bosio
    Presidente nazionale del CSI (Centro Sportivo Italiano)
  • Massimiliano Costa
    Presidente nazionale del MASCI (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani)
  • Mario Primicerio
    Presidente della Fondazione Giorgio La Pira (Firenze)
  • Andrea Cecconi
    Presidente della Fondazione Ernesto Balducci (Fiesole)
  • Paola Bignardi
    Presidente della Fondazione Don Primo Mazzolari (Bozzolo)
  • Agostino Burberi
    Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani (Barbiana)
  • Rosanna Tommasi
    Presidente del Centro Internazionale Hélder Câmara di Milano
  • Fabio Caneri
    Presidente dell’associazione La Rosa Bianca
  • Giuseppe Rotunno
    Presidente del Comitato per una Civiltà dell’Amore
  • Antonio Caschetto
    Coordinatore dei programmi italiani del Movimento Cattolico Mondiale per il Clima
  • Suor Paola Moggi
    Per la segreteria della FESMI (Federazione Stampa Missionaria Italiana)
  • Franco Ferrari
    Presidente dell’associazione Viandanti e della Rete dei Viandanti (costituita da 19 gruppi e 12 riviste di varie città)
  • Vittorio Bellavite
    Coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa
  • Lisa Clark
    Presidente di Beati i costruttori di pace
  • Argia Passoni
    Responsabile nazionale della Fraternità Francescana frate Jacopa
  • Paolo Sales
    Per la Segreteria nazionale delle Comunità Cristiane di Base Italiane
  • Diego Bellardone
    Presidente AFI (Associazione delle Famiglie – Confederazione Italiana)

Altre adesioni

  • Fra Fabio Scarsato
    Direttore editoriale Messaggero di Sant’Antonio
  • Aurora Nicosia
    Direttrice della rivista “Città Nuova”
  • Padre Enzo Fortunato
    Direttore della rivista “San Francesco Patrono d’Italia” (Assisi)
  • Alessio Zamboni
    Per la Direzione e la Redazione della rivista “Sempre”
  • Pasquale Colella
    Direttore della rivista “Il Tetto” (Napoli)
  • Diego Piovani
    Direttore della rivista “Missionari Saveriani”
  • Alessandro Cortesi
    Direttore Centro Espaces “Giorgio La Pira” (Pistoia)
  • Pierangelo Monti
    Coordinatore del gruppo Amici di Gino Pistoni (Ivrea)
  • Antonio Francesco Beltrami
    Associazione Famiglie Nuove della Lombardia APS
  • Martino Troncatti
    Presidente di Acli Lombardia
  • Corrado Maffia
    Scuola di pace ODV” di Napoli
  • Ettore Cannavera
    Presidente di “Cooperazione e Confronto” e responsabile della comunità “La Collina” di Serdiana (Cagliari)
  • Maria Gabriella Esposito
    Presidente Uciim (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi) della diocesi di Teramo-Atri
  • Gennaro Scialò
    Presidente del Centro Giorgio La Pira di Pomigliano d’Arco
  • Roberto Marcelli
    Presidente di Raphaël, cooperativa sociale onlus di Clusane d’Iseo (BS)
  • Carla Biavati
    Presidente dell’Associazione per la nonviolenza attiva
  • Maurizio Certini
    Responsabile del Centro internazionale studenti “G. La Pira” di Firenze
  • Giorgio Grillini
    Presidente della cooperativa sociale “frate Jacopa”
  • Davide Bertok
    Responsabile dell’associazione Mondo senza guerre e senza violenza (Trieste)
  • Maria Pierina Peano
    Responsabile dell’associazione Comunità di Mambre (Busca, Cuneo)
  • Mario Metti
    Presidente dell’associazione Mamre di Borgomanero (Novara)
  • Irene Larcan
    Presidente della Fraternità di laici domenicani “Annunciazione del Signore” di Agognate (Novara)
  • Maria Laura Tortorella
    Presidente di “Patto Civico” di Reggio Calabria
  • Luciano Ferluga
    Presidente Comitato Pace Convivenza e Solidarietà Danilo Dolci di Trieste
  • Fernanda Castellani
    Presidente CIF provinciale Lecco
  • Giuseppina Odobez
    Presidente C.I.F. Comunale Lecco
  • Giuseppe Licordari
    Referente di “Reggio Non Tace” e della Comunità di Vita Cristiana di Reggio Calabria
  • Andrea Zucchini
    Presidente dell’associazione Igino Giordani di Montecatini Terme
  • Antonella Lombardo
    Presidente di “Dancelab Armonia” di Montecatini Terme, attiva nello sviluppo della collaborazione interculturale
  • Paolo Magnolfi
    Presidente di Nuova Camaldoli APS
  • Fratel Antonio Soffientini
    Responsabile della Comunità Comboniana di Venegono Superiore (Varese)
  • Franco Meloni
    Per Il Patto per la Sardegna
  • Davide Penna
    Referente Rete Genova Città aperta alla pace

Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021,
viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan
Per una Repubblica libera dalle armi nucleari”




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Collettivismo vs individualismo

Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.

La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).

Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.

Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.

Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?

Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,

Lorenzo Bragagnolo
22/05/2020

 

Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.

Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).

Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).

È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.

 

Il capestro del debito

Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.

Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.

Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.

È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente

Valerio Liberati
22/05/2020

Caro Valerio,
grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.

Francesco Gesualdi
02/06/2020

Suggerimenti

Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.

Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.

D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.

Claudio Bellavita
13/05/2020

Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.

Soldi per armare terroristi

Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.

Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]

Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.

Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.

Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.

Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.

Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.

Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.

Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.

Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!

Alberto Zorloni
02/06/2020

Caro Alberto,
condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.

L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.

Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).

Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in
Italia e nel mondo.

Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.


Speciale Covid e missionari

Padre Remo Villa celebra l’eucarestia con mascherina a Tura mission

Da Tura mission, Tanzania

15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…

Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?

Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…

23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.

Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.

I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.

29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua

26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.

03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.

24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.

padre Remo Villa,
Tura mission, TZ

Padre Giampaolo davanti alal casa Imc a Yokkok

Yokkok, Corea del Sud

La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.

Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.

Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.

Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.

Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.

padre Lamberto Giampaolo
Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020

Duecento pacchi di cibo pronti per la distribuzione

San Antonio Juanacaxtle, Messico

19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.

Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.

Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.

21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.

24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.

Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.

06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.

12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.

17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.

Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.

21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.

Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.

25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.

30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.

padre Ramon Lazaro,
Guadalajara, Messico


Dall’Eswatini, disinfezione




Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era


Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.

Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.

il presidente della Corea del Nord (a sinistra) con quello della Corea del Sud durante il loro secondo incontro (26 maggio 2018) nella zona demilitarizzata che divide le due Coree. Foto: The Blue House / AFP.

Il contributo di Moon Jae-in

La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal  2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.

Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.

Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.

Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.

La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.

È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.

Giovani nordcoreane si esercitano per la parata sulle rive del Taedong, a Pyongyang. Foto: Tobias Nordhausen.

Come fare per accontentare tutti gli attori

Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.

Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.

Kim Jong Un e Donald Trump nel porticato del Capella Hotel di?Singapore. Foto: Kevin Lim / The Straits Times /Handout/Getty Images.

Lo scoglio nucleare e missilistico

Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.

Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.

Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.

Kim Jong Un al centro tra Vivian Balakrishnan (autore del selfie) e Ong Ye Kung, ministri di Singapore. Foto: Vivian Balakrishnan.

Sanzioni e sviluppo economico

Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.

È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.

La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.

Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.

Piergiorgio Pescali


Il presidente nordcoreano a Singapore

Un selfie con Kim

Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.

Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.

Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.

La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.

Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.

Piergiorgio Pescali

 

 




Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

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P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi