A Brescia, conto alla rovescia per il Festival della Missione


È il titolo della prima edizione del Festival della Missione, in programma a Brescia dal 13 al 15 ottobre 2017. Promosso dalla Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), da Fondazione Missio (organismo della Conferenza episcopale italiana) e dall’Ufficio missionario della diocesi, il Festival della missione avrà come scenario le piazze e gli spazi del centro città.

L’idea del Festival nasce come risposta a una sensazione diffusa, quella di una insufficiente incisività del mondo missionario nel panorama sociale, culturale e mediatico odierno.

Il mondo missionario, non c’è dubbio, nonostante le fatiche di un mondo editoriale complesso, produce riviste di qualità, che svolgono un ruolo informativo prezioso. Va ricordato pure che gli istituti, la Cei, tramite Fondazione Missio, e tante altre realtà della «galassia missionaria», promuovono una marea di interessanti iniziative culturali, vocazionali e di sensibilizzazione alla missione, dai viaggi per giovani, ai campi di lavoro.

Tuttavia, non v’è chi non pensi che – sebbene i missionari continuino a godere di «buona stampa» – il messaggio di cui sono portatori e che testimoniano con la vita, ossia l’annuncio del Vangelo «agli estremi confini», sembra non scalfire le coscienze, non tradursi in scelte coraggiose, non mettere in discussione un sistema e stili di vita che risentono del consumismo e della secolarizzazione.

Purtroppo, quello missionario non pare più un ideale capace di contagiare i giovani. In sintesi: oggi la missione ad gentes forse è sentita come qualcosa di anacronistico.

Se fosse così, sarebbe grave! Certo, la missione è cambiata e continua a cambiare. Ma l’imperativo della missione ad gentes, seppure da rivisitare costantemente, non può essere archiviato: è un comando di Cristo ai suoi apostoli, non la fissa di alcuni. Si tratta, semmai, di riformulare l’idea (e la prassi) di missione. In altri termini: il mondo missionario italiano è chiamato a trovare nuove vie per comunicare il Vangelo, evitando di cedere all’autoreferenzialità, ma anche alla tentazione di diluire la propria identità per rendersi più accettabili per la mentalità comune.

Il Festival della Missione vuol essere innanzitutto un’occasione con la quale il mondo missionario si propone positivamente, per quello che già è. E lo fa in piazza, nei luoghi della vita quotidiana di una città. Non si tratta di esibizionismo né di trionfalismo, ma di servizio.

Anche oggi in giro per il mondo ci sono bellissime e provocatorie esperienze di vita missionaria: sarebbe un peccato di omissione non provare a renderle eloquenti per l’uomo di oggi. Inoltre, vorremmo condividere le buone pratiche, ovvero tutte quelle proposte culturali e di animazione, iniziative, campagne di sensibilizzazione, libri (e non solo) che le varie componenti del mondo missionario hanno realizzato. E che spesso non si conoscono adeguatamente dentro il mondo missionario stesso, figuriamoci fuori!

Il titolo/slogan della prima edizione «Mission is possible» potrebbe sembrare un po’ ad effetto quasi goliardico. In realtà, è stato scelto perché così il mondo missionario è costretto a mettersi allo specchio, ma non – come spesso capita – per farsi un selfie impietoso e sconfortante («Siamo sempre meno, con i capelli più grigi e la gente ci dà meno ascolto di un tempo…»), bensì per riacquistare la consapevolezza che (per fortuna!) la missione non è cosa nostra, ma opera Sua.

Per quanto in difficoltà, quindi, i missionari rappresentano una realtà paradigmatica: senza di loro il volto della Chiesa perderebbe un tratto essenziale. «Mission is possible», quindi, perché «senza di me non potete far nulla», ma con Lui… possiamo tutto, anche oggi che i numeri sembrerebbero condannare i missionari e le missionarie all’estinzione. Per tali motivi il Festival sarà ancorato a quanto Papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium, il documento che egli stesso ha additato come bussola alla Chiesa italiana per i prossimi anni perché essa diventi davvero una Chiesa in uscita.

Stefano Femminis


Gerolamo Fazzini, giornalista e scrittore, è il direttore artistico del Festival.
A lui alcune domande per capire l’evento.

Perché un Festival e non un convegno?

«Perché il contesto in cui ci racconteremo – come mondo missionario – dev’essere laico, per evitare di parlarci addosso. Non si farà quindi l’ennesimo convegno dove, a porte chiuse, si parla in ecclesialese, ma si andrà in piazza. Abbiamo pensato alla formula del festival perché permette di sperimentare linguaggi diversi (e in parte anche nuovi) grazie ai quali provare a intercettare il maggior numero di persone, in special modo i giovani. Per questo motivo nei giorni del Festival sarà proposto un ampio ventaglio di eventi: testimonianze missionarie, mostre fotografiche, concerti, incontri con l’autore, tavole rotonde, spettacoli, momenti di preghiera, iniziative ad hoc per bambini, famiglie e scuole…».

Non c’è il rischio di scimmiottare quanto avviene altrove? L’Italia è già piena di festival.

«Il rischio c’è ma ne siamo consapevoli: stiamo cercando in vari modi di “fare la differenza”. Mi spiego. In primo luogo vigileremo sia sull’entità dei costi finali che sul tipo di contributi (e di donatori) a sostegno dell’iniziativa. Sappiamo bene che con la stessa quantità di denaro che occorre per un festival (diverse decine di migliaia di euro) nei paesi del Sud del mondo si possono realizzare iniziative solidali persino più importanti, a livello sanitario, educativo o altro; proprio per questo ci è chiesto un supplemento di lungimiranza. Stiamo attivando una serie di sinergie con diversi partner che, in misura diversa, hanno contribuito anche economicamente, o si apprestano a farlo, per la buona riuscita dell’impresa.

In secondo luogo, daremo al festival il colore di una «festa»: una parte degli ospiti che verranno da fuori Brescia (missionari, delegati dei centri missionari diocesani, ecc.) saranno ospiti di famiglie e oratori, perché il Festival non sia una semplice kermesse, ma il più possibile un’esperienza che lascia il segno.

In terzo luogo, vorremmo che – alla fine dei tre giorni – rimanesse un segno concreto, al di là della girandola di parole, musica, incontri… Da ultimo, ma non è la cosa meno importante, durante tutti i giorni del Festival (e questo non accade altrove!) in una chiesa del centro cittadino ci sarà l’adorazione eucaristica permanente: un segno forte, per richiamarci al Protagonista della missione».

Uno degli obiettivi dichiarati del Festival è proporre il mondo missionario come realtà corale, sinfonica e unita. Una sfida non facile, ma entusiasmante…

«Sì: vogliamo provare a fare un Festival insieme, vivendo questa opportunità come una palestra di comunione, dove le differenze vengono esaltate in quanto ricchezza da condividere a beneficio di tutti. Da molti istituti missionari sono arrivati segnali di apertura, collaborazione e disponibilità. Se l’evento-festival e la sua comunicazione saranno frutto di un lavoro di squadra dove ogni carisma è valorizzato – e stiamo lavorando perché sia così – potrà diventare una testimonianza significativa e già missionaria in sé».

Che risultati vi attendete dal Festival?

«Nessuno, promotori compresi, è così ingenuo da immaginare che un Festival di tre giorni possa essere una bacchetta magica in grado di risolvere questioni annose e crisi di lunga data. Diciamo che, per usare parole di Papa Francesco, più che occupare spazi, con questa iniziativa vorremmo innescare processi. Detto ciò, l’auspicio dei promotori è che ogni realtà coinvolta si impegni per mettere in gioco le sue forze migliori a servizio del Festival».

Ormai la macchina organizzativa è in moto da tempo. Che sensazioni avete raccolto?

«Quando – nell’estate 2014, a Pesaro – per la prima volta ho presentato alla Cimi (Conferenza istituti missionari italiani) l’idea del Festival della Missione, maturata insieme ad alcuni amici, non potevo immaginare che quella palla di neve sarebbe diventata una valanga. A distanza di oltre due anni, devo dire che la sensazione è di un notevole dinamismo: all’interno del mondo missionario, il progetto Festival pare abbia risvegliato un po’ di entusiasmo sopito e messo in circolo energie nuove».

E Brescia? Come stanno rispondendo la città e la diocesi?

«La risposta di Brescia, intesa sia come comunità ecclesiale che come istituzioni civili, è stata a dir poco positiva. C’era da aspettarselo, da una città vivace e multiculturale com’è la Leonessa. C’era da immaginare, inoltre, che una Chiesa dinamica come quella bresciana, segnata da figure importanti (il gesuita Giulio Aleni, primo biografo di Ricci, san Daniele Comboni, la beata Irene Stefani, per finire col Papa missionario Paolo VI), reagisse con entusiasmo all’appello. Ma, ripeto, sin qui le risposte sono state persino superiori alle attese. 

Aggiungo che, a dar man forte ai missionari e a Brescia, è scesa in campo la Cei, grazie alla Fondazione Missio. Il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, bresciano di origine e presidente della Commissione episcopale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, ha dato il suo convinto appoggio e lo ha ribadito negli incontri del Comitato scientifico, svoltisi negli ultimi mesi, nei quali si è discusso il programma del Festival. Tutte ottime premesse, insomma, per la riuscita dell’iniziativa».

Trattandosi di una «prima volta», il Festival avrà bisogno di farsi conoscere nel panorama mediatico. Come state lavorando su questo fronte?

«Cercando, in primis, di costruire una serie di alleanze con vari interlocutori, che vanno dalle riviste della Federazione della stampa missionaria alle testate della Cei: su entrambi i fronti abbiamo avuto riscontri positivi. Ma – ovviamente – chi segue la comunicazione punterà a coprire l’evento a 360 gradi, coinvolgendo (o almeno provando a farlo) anche il mondo laico. In caso contrario, ancora una volta cadremmo nell’autoreferenzialità». 

Quanto al programma che notizie ci sono?

«Il programma del Festival è a buon punto: siamo in attesa di risposte da parte di alcuni relatori (ma diversi altri ci hanno già assicurato la loro presenza) e di una serie di conferme sul versante artistico. Ci vorrà ancora un po’ di pazienza prima di vedere il cartellone definito nei dettagli. Dopo di che sarà nostra cura segnalare gli aggiornamenti tramite il sito e i social network».

www.festivaldellamissione.it

Aperti al Dono di Dio

Come Istituti missionari promuoviamo e appoggiamo in pieno l’iniziativa del Festival della Missione! Siamo più che mai convinti che il Vangelo di Gesù Cristo abbia bisogno di essere detto, cantato, condiviso, proclamato, testimoniato non solo all’interno delle nostre chiese e delle nostre comunità, ma «uscendo per le piazze e per le vie della città» (Lc 14,21): perché non possiamo tacere questa Vita che è in noi! Riteniamo che il Festival possa essere, oggi, uno strumento privilegiato per condividere questo Dono, in comunione tra di noi e in piena sintonia con quella «Chiesa in uscita» alla quale Papa Francesco fa sovente riferimento. Crediamo fermamente che «La fede si rafforza donandola»!

Oggi più che mai Mission is possible, nella misura in cui sapremo aprirci al Dono che saremo disposti a offrire, ma anche a ricevere, nella diversità e varietà delle nostre provenienze e culture di appartenenza!

Suor Marta Pettenazzo
Superiora provinciale per l’Italia delle missionarie di Nostra Signora degli apostoli e presidente della Cimi (Conferenza Istituti Missionari Italiani).

Nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa

Il primo Festival della Missione – che la Fondazione Missio promuove insieme alla Conferenza degli Istituti Missionari Italiani e alla diocesi di Brescia vuole rilanciare il mandato del Vangelo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Come scrive Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale missionaria 2016 esso «non si è esaurito, anzi ci impegna tutti, nei presenti scenari e nelle attuali sfide, a sentirci chiamati a una rinnovata uscita missionaria».

Nell’Evangelii Gaudium (73) si legge: «Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane». Andiamo, allora, in città e nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa per la perenne buona notizia per ogni uomo e per ogni donna del Vangelo di Gesù. Nelle piazze, come in quel giorno di Pentecoste, inizio della missione dei discepoli. Perché la Chiesa non dimentichi  che è nata in uscita e solo in uscita sarà fedele al suo Maestro.

Don Michele Autuoro
Direttore Ufficio nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese e della Fondazione Missio.

Un’occasione per rinnovare lo slancio per l’annuncio

La Diocesi di Brescia accoglie con gioia l’invito ad ospitare il Festival della Missione. La Chiesa bresciana è grata al Signore per i missionari e le missionarie che con la loro vita ogni giorno rendono testimonianza al mandato di Gesù ai discepoli «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura».

Il Festival sarà un’occasione significativa per rinnovare la passione e lo slancio per l’annuncio del Regno di Dio: quella passione che ha animato la vita del Beato Paolo VI, di San Daniele Comboni, della Beata Irene Stefani e di tanti figli e figlie di questa terra.

Monsignor Luciano Monari
Vescovo di Brescia




Cantare la bellezza dell’amore del Padre


L’incontro con l’Africa, i suoi ritmi e le sue musiche; amici con esperienze di volontariato missionario; giovani missionari italiani, latinoamericani e africani; un cuore aperto al mondo; l’amore del Padre di tutti; la passione per la musica: questi gli ingredienti che hanno dato origine al coro TataNzambe, al suo decimo anniversario.

«Dio ci ha chiamati per andare nel mondo, siamo partiti con un cuore profondo, colmo di amore per la missione, siamo tornati più ricchi con una nuova canzone, e per non rendere vano questo grande tesoro, un gruppo di amici è diventato un coro…». In questa strofa dell’inno del coro TataNzambe si racchiude l’inizio della nostra breve storia nelle case dei missionari della Consolata di Vittorio Veneto e Nervesa della Battaglia (Tv). Dieci anni fa alcuni di noi, di ritorno da un campo di conoscenza nella missione di Loyangalani in Kenya, si sono chiesti: come possiamo annunciare la bellezza dell’essere una missione su questa terra?

Comunicare con la musica

L’esperienza nel Nord del Kenya è stata determinante. Con baba (padre, in kiswahili) Godfrey Msumange, tanzaniano allora impegnato come animatore missionario nella nostra zona, abbiamo vissuto per quasi tre settimane a Loyangalani, in riva al lago Turkana, mettendoci a disposizione delle necessità della missione: abbiamo imbiancato la chiesa, fatto alcune giornate di animazione stile «grest» con i moltissimi bambini e i giovani, distribuito il cibo ai poveri, visitato gli ammalati, incontrato le varie comunità disperse su quel vasto territorio semidesertico.

In un’area con diversi gruppi etnici, Turkana, Samburu, El Molo e anche Gabbra, ciascuno con la sua lingua e non sempre fluenti in kiswahili e tantomeno in inglese, non era semplice comunicare. Abbiamo allora scoperto che con il violino di Elena e la chitarra di Marco le distanze si accorciavano. I bambini hanno imparato subito l’«Alleluia delle lampadine», tradotto in kiswahili dal nostro «baba», e quando ci vedevano in giro con il fuoristrada (da quelle parti i Suv non sono certo un lusso, ma una dura necessità), subito portavano le mani alle spalle e cantavano.

Volevamo mettere a disposizione i talenti che Dio ci aveva donato, però la «lingua» ce lo impediva: la musica e il canto sono stati la risposta. La musica arriva al cuore delle persone; la melodia, il ritmo, i colori, ci portano in un istante in altri mondi: le percussioni ci trasportano nei villaggi dell’Africa, le melodie in minore nelle grandi periferie dell’America Latina, i suoni meditativi all’Asia.

La nostra idea quindi è stata di portare anche in Italia, nella zona in cui viviamo, la bellezza e la gioia del Vangelo con lo strumento della musica e del canto, usando melodie e testi religiosi provenienti da diverse culture. Abbiamo costituito un coro, al quale però occorreva dare un nome. «Tata Nzambe» vuol dire Dio (Nzambe) Padre (Tata) in lingua lingala. Due parole ricorrenti nel ritornello di una delle prime canzoni che abbiamo imparato: perché non chiamare così il nostro coro?

Il mondo in musica

La maggior parte dei coristi, chi prima, chi poi, è stata in qualche missione della Consolata per un campo di lavoro e conoscenza e ha portato a casa il fuoco della missione e le musiche sentite, partecipate e danzate laggiù. Proprio quelle musiche sono il repertorio che ci caratterizza.

Come tutto ciò che diventa un po’ nostro, prendendo le nostre sembianze, anche i canti hanno avuto un’inculturazione europea. L’aggiunta di strumenti nuovi (violino e arpa) alle musiche di altri paesi e culture ha permesso di esplorare nuove potenzialità racchiuse in quelle melodie.

Al coro, in questi 10 anni hanno partecipato tante persone: chi è ancora presente dalla fondazione, chi ha lasciato per impegni familiari, chi ha lasciato perché cercava altro, chi (come i missionari) per obbedienza. Altri si sono aggiunti. Siamo felici di aver fatto un pezzo di strada con ciascuno. Dopotutto, come dice un nostro caro amico, la missione è condividere la vita, là dove ci si trova. L’amicizia, e ciò che è stato costruito insieme, rimane nel cuore.

Il nostro esordio come coro è stato nel Natale del 2006, nella chiesetta della Consolata a Vittorio Veneto. Nessuno ancora ci conosceva e allora abbiamo giocato in casa. Quella sera, Mwokozi Bwana (lett. «Salvatore Signore», un canto in kiswahili che si adatta al Natale – amezaliwa = è nato – o alla Pasqua – amefufuka = è risorto -), Junto a ti Maria e Los peces en el Rio («Unito a te, Maria» e «I pesci nel fiume», due canti tipici del Natale latinoamericano) furono alcuni dei brani che cantammo e che tuttora fanno parte dei nostri concerti natalizi.

Alcuni anni dopo, è nato anche l’inno del coro TataNzambe: musiche e testo dei nostri bravissimi musicisti e parolieri. È stato un lavoro a più mani in cui, chi aveva le competenze, ha dato il suo prezioso apporto, e così ora, nei nostri concerti, il primo brano è sempre l’inno, che racconta chi siamo. Anche se non siamo un coro di professionisti, cerchiamo di fare del nostro meglio, perché come l’Allamano ci insegna, bisogna «fare bene il bene».

Eventi, eventi, eventi

Diversi eventi importanti hanno segnato il nostro percorso. Abbiamo partecipato a due Consolata Festival, uno in Veneto e l’altro nel Salento. I Consolata Festival sono stati appuntamenti, o meglio «campi» estivi canori e musicali con concerti serali nelle piazze. Che gioia incontrare gli altri cori della Consolata in Italia, e cantare tutti insieme.

Ci siamo arricchiti di musica, ma specialmente di relazioni, che tuttora manteniamo con tutti gli amici coristi e musicisti di Torino e Martina Franca, senza dimenticare i tanti missionari che sono stati con noi, e i seminaristi del seminario di Bravetta che ci hanno accompagnati e sono stati parte integrante degli spettacoli che andavamo a fare.

Il TataNzambe poi è stato anche in televisione, invitato da Tv2000. È stato un bel momento di coesione, ed è stato significativo soprattutto il fatto che nonostante fossimo in una trasmissione che selezionava i cori per un concorso («La canzone di noi»), abbiamo mantenuto la nostra specificità parlando di missione con la musica. E l’ultimo evento particolare è stato il capodanno del 2016, quando con una parte del coro, siamo stati in Portogallo, e abbiamo condiviso una serata in musica con i Laici Missionari della Consolata a Lisbona e poi, il 31 dicembre, a Fatima, abbiamo fatto un concerto e animato la messa all’interno dell’Hotel Consolata.

Nel corso di questo decennio abbiamo incontrato, durante le animazioni delle messe e dopo i concerti, moltissime persone, e tutti sono stati concordi nel dirci che il nostro coro trasmette gioia. La gioia, la felicità che al mondo d’oggi è ricercata dappertutto, la troviamo nel messaggio evangelico, come ci suggerisce l’Evangelii Gaudium.

Avanti in Domino

Nonostante il nostro impegno ad attingere dal Vangelo l’acqua viva che rende piena la nostra gioia, il nostro cammino non è stato esente da difficoltà ed è segnato da luci e ombre. Non è sempre facile essere presenti alle prove e ai concerti; sono sempre dolorosi i distacchi di chi se ne va; si fa fatica a non giudicare l’impegno degli altri; alcune volte il fuoco della missione si spegne… Cosa fare quindi? Rimboccarci le maniche e ripartire sempre con la speranza che nel cammino qualcosa ci sconvolga positivamente e ci faccia vedere nuovi orizzonti.

Per il futuro stiamo cercando di mettere in cantiere uno spettacolo – concerto ispirato all’Evangelii Gaudium, e poi magari… cantare a una messa con il Papa. Chissà. Intanto «Avanti in Domino», avanti nel Signore, come diceva il beato Allamano.

Roberta Biz*
* Partecipante al primo campo a Loyangalani, tra i fondatori del coro e direttrice dello stesso.

www.tatanzambe.com
Canale Youtube: thetatanzambe

Note in cammino

Inno di TataNzambe

Dio ci ha chiamati
Per andare nel mondo
Siamo partiti
Con un cuore profondo
Colmo di amore
Per la missione
Siamo tornati più ricchi
Con una nuova canzone
E per non rendere vano
Questo grande tesoro
Un gruppo di amici
È diventato un coro

Rit: Siamo note in cammino
Verso nostro Signore
Abbiamo il cuore nel mondo
Ed il mondo nel cuor,
Siamo note in viaggio
Verso una nuova missione
Che è portare un messaggio
Nei cuori delle persone

Mano con mano
Preghiamo cantando
Parliamo di Cristo
Al prossimo e al mondo
Senza timore
Di lingue o confini
Perché musica e note
Ci fanno vicini
Serviamo il signore
Con la testimonianza
E se vi tocchiamo nel cuore
Unitevi alla danza (Rit.)




2 Istituti, 1 Missione


Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.

Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.

Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.

Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?

SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!

PADRE STEFANO –  La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.

Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.

SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.

PADRE STEFANO –  In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.

Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.

Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?

SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.

Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze.  Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.

Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».

PADRE STEFANO –  Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».

Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…

Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?

SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.

PADRE STEFANO –  Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.

Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?

SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.

PADRE STEFANO –  Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.

La formazione:

oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.

Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.

La vita comunitaria:

è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.

L’economia:

la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.

Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?

SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.

PADRE STEFANO –  Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.

Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?

SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.

Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».

PADRE STEFANO –  Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.

Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.

Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!

Romina Remigio