«Il tuo amore vale più della vita»


Con la gola secca e lo stomaco contratto ti cerco. In una terra sterile, sporcata dal sangue. La menzogna sulla bocca del nemico ti descrive lontano, mi giudica indegno, pronuncia una condanna di separazione irreparabile tra te e me.

Ma nelle notti abitate da rabbia e angosce, mi ricordo della tua promessa, di te e della tua destra che mi sostiene.

Chiudo le orecchie alle parole dell’accusatore, le apro a quelle del tuo amore.

E così precedo l’aurora stringendomi a te. E l’anima assetata trova acqua che zampilla, ristoro la carne che desidera guarigione.

Il tuo amore vale più della vita (cfr. Sal 63).

Per questo le mie labbra canteranno la tua lode fino agli estremi confini della terra.

Pur morendo, è possibile vivere in eterno all’ombra delle tue ali.

Per questo esulto di gioia tra le nazioni.

Ho sentito il calore del tuo fiato sul mio volto fuori dal sepolcro.

Per questo sarò nel mondo testimone di te vivo.

Perché il tuo amore vale più della vita.

Perché tu, oh Dio, sei il mio Dio, dall’aurora mi cerchi.

In ascolto della sete e della fame dei popoli,
buon mese missionario da amico.

Luca Lorusso

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Il Padre mio è differente


Photo by Jason Leung on Unsplash

Non manda al massacro i suoi figli contro l’aggressore perché difendano la sua casa.
Si presenta egli stesso, inerme, di fronte all’uomo imbestialito. Per riportarlo a umanità. Ben sapendo che il suo intento, in gran parte, fallirà. In gran parte, ma non in tutto.
Perché, se la sua casa è assaltata e devastata, la vera casa dei suoi figli è l’umanità stessa. E non c’è umanità che possa rimanere tale mentre organizza e mette in atto la morte dell’avversario, sia pure egli l’aggressore.

La Madre mia è differente. Non usa mai la parola vittoria, a meno che non sia vittoria sulla morte. Accoglie anche chi vuole toglierle la vita e i figli dal grembo. D’altro canto, se togliesse lei stessa la vita a chi la minaccia, toglierebbe anche il respiro ai propri figli.

Lei suggerisce che il prezzo della sua vita non può essere la vita di nessun altro. Di nessun altro. Che la vita è abbondanza traboccante, non tesoro da chiudere in un forziere in fondo a un bunker. Quel bunker, dopo la battaglia, facilmente rimarrebbe seppellito sotto le macerie e il suo fragile contenuto verrebbe scordato.

Mio fratello è differente. Non mi mostra tecniche per eliminare il nemico, mi mostra come disarmarlo a mani nude, aprendole, offrendo ciò di cui l’altro ha bisogno, donando la sua vita per farselo fratello.

Mio fratello sa che, facendo così, finirà in croce, ma sa anche che è l’unico modo per salvare l’altro, per salvare tutti, perché non sia la morte a mangiarsi la vita, ma la vita a digerire la morte. Perché se vuoi conservare la tua vita, la perderai, ma se perderai la tua vita per amore, allora non morirai in eterno.
Morirai. Ma non in eterno.

Quanta vita, quante vite, salva ogni fratello che rifiuta la logica della mors tua vita mea, quella del vinca il più forte, il più grosso, il più scaltro, il più ricco, il più armato.

Ogni atto di disarmo è un atto di libertà, è una porta che si apre in un vicolo che pare cieco.

Buoni esercizi di umanità anche durante l’estate, da amico
Luca Lorusso

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  • Preghiera
  • Biabbia on the road
  • Amico progetto
  • Amico mondo




Basta versare sangue


Fermatevi. Basta versare sangue. Fermatevi. Guardate: l’ho versato io per voi. L’ho già versato io. Al posto vostro. In vostro favore. «Il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24): quel patto nuovo che non prevede più la morte di chi lo trasgredisce, ma la vita rinnovata nella riconciliazione.

Fermatevi, voi che avete violato il patto: io mi dò a voi per legarvi a me.

Non lasciate più che la paura vi abiti. La vostra vita è custodita dalle mani premurose del Padre, radunata dal Figlio, sollevata dalla brezza mattutina dello Spirito.

Se tutto vi è dato, non c’è niente che dobbiate difendere.

Se la vita è tanto sovrabbondante da essere eterna, che bisogno avete di conquistarvi anche solo un minuto in più?

Smettete di lottare allo scopo di non morire. Lottate invece per vivere. Perché la vita piena che vi è data sia rivelata al mondo.

Fermatevi, voi, che per inganno o costrizione spezzate i vostri corpi mentre spezzate i corpi altrui. Fermatevi, voi, che mandate al massacro gli altri per i vostri interessi, o forse per vincere il terrore dell’abisso sul quale state in equilibrio.

Basta spezzare corpi. Mi sono spezzato io per voi.

Le vostre mani, piuttosto, siano telai che tessono fraternità con i fili divini dell’umanità.

Amico

Luca Lorusso


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  • Bibbia on the road: Magnificat, inno alla nuova alleanza
  • Parole di corsa: Non temere di osare
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  • Missione e Missioni: In Certosa arriva l’estate
  • Progetto: A scuola sotto un tetto




Taita Agustín


Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.

Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.

«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.

All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.

All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.

Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».

E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.

17 settembre 1971, sulla cima del Margureis in Val Pesio, Cuneo

Bogotá ottobre 1999

I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».

«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».

«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».

Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.

E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.

Licto, anni ’90

La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».

Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.

Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».

E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.

Davanti al Santuario di Manizales

I mille e un orto di tutta una vita

«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».

Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.

A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).

L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.

Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.

E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.

L’ultima barella

Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.

Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.

E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.

Gianantonio Sozzi

  1. Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
  2. Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».

Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.

Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.

Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.

Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.

Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.

Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.

Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.


Slideshow  di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima

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IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC




Seminare nel mare, pescare sulla terra

Si può seminare nel mare e pescare sulla terra? Gettare i semi negli abissi, e le reti al suolo, aspettandosi frutti?
Ho sentito di un uomo che spargeva semi seduto sull’acqua. Spinto in una barca dalla folla che lo cercava in riva al mare (cfr. Mc 4,1-9), si è messo a seminare. E la folla che bramava quel seme lo dava per matto: perché tanto spreco? Cosa può nascere dal fondale sabbioso del nostro mare?

Non avevano capito che il seme era la sua parola e l’abisso il cuore dell’uomo. Molti si sarebbero spaventati al sentir parlare delle profondità delle loro vite, abitate com’erano da mostri marini che agitavano le acque e li atterrivano.

Ho sentito anche di pescatori che gettavano reti sulle strade, tra le case. Erano quelli dai fondali fertili, quelli che si erano fidati del seminatore e lo avevano seguito in cerca di altri, in attesa come loro (cfr. Mt 4,18-22). Gettavano le reti nella polvere, seguendo le orme confuse del cammino degli uomini, facendo attenzione a non calpestarle, a non cancellarle per non perderne la traccia.

Credo di averne pure incontrati. Appaiono come cercatori zoppi che camminano con cautela. Un tempo sono stati colti dalla rete di altri. Oggi pescano per i mari e per le terre del mondo perché tutti possano scoprirsi seminati e fecondi.

In attesa, in ascolto, in uscita,
buon mese missionario da amico.

Luca Lorusso

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Consolata mission centre: Si aprono i cancelli

testo di Francesco Bernardi |


Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.

Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».

È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.

Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.

Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.

Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.

Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.

Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.

Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».

Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.

È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.

 

Il centro di Bunju. Foto Ema Maglioli

Arrivano i cardinali

Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».

Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.

E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».

Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.

Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.

L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.

Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».

Catechisti e giovani

I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.

I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.

Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.

I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.

I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.

Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.

I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.

Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.

Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».

La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).

Diritti umani e Radio Maria

Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.

La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).

La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.

Protestanti in arrivo

«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».

Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.

Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?

«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».

Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.

Il ministro dell’Interno

Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.

Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».

«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».

«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.

Bimbi che fanno pipì

Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.

Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.

In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.

Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».

Elevare l’ambiente

Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.

È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.

La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.

L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.

Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!

Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.

Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.

Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.

Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.

Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.

I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».

Presidente, attenzione

Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.

«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?

Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.

Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».

Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.

Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.

Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.

Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».

Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».

Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.

E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.

Che cosa stiamo centrando oggi in Tanzania?

Francesco Bernardi

Entrata al centro di Bunju; foto Ema Maglioli.




Vita trasmessa da chi vive

testo di Luca Lorusso |


Sei partito di buon mattino con il tuo carico di rabbia e aspettative frustrate nel cuore, e con le sue parole di riconciliazione nelle orecchie. Sei salito sul monte con il peso di una vita morente tra le braccia, due tavole di pietra inerte da sgrezzare, e con una preghiera per i tuoi tra le labbra. Sei arrivato al luogo dell’incontro con la certezza di stare di nuovo alla sua presenza e di vedere rinnovato il patto dal dito dell’alleanza.

E Lui era lì, come ti aveva promesso. Nascosto nella nube, ti ha nascosto nella rupe, proteggendoti con la sua mano per non farti perire davanti alla sua indicibile trascendenza. Ti è passato davanti e si è fermato presso di te rivelandoti il suo nome: misericordia, amore, fedeltà.

E tu lo hai supplicato, come ti eri ripromesso. Hai riconosciuto la dura cervice dei tuoi, del tuo popolo, della tua umanità, e hai domandato l’impensabile: non solo il suo passo presente in mezzo ai passi degli uomini sulle loro strade tortuose, ma il suo assenso a fare degli uomini la sua eredità (Es 34,4-9): eredità che Lui riceve, eredità che Lui trasmette.

Eredità non è un oggetto lasciato agli eredi da chi muore, ma la vita trasmessa da chi vive. È la testimonianza di una fedeltà all’amore, al desiderio profondo di vita. Tu hai chiesto per i tuoi, e per tutti, che Lui si facesse erede della nostra vita, e che si facesse tramite presso altri della nostra fedeltà all’amore. Perché la nostra fedeltà sia segno della sua.

Hai chiesto a Dio di fare di noi, suoi traditori e amanti, l’eredità di cui Lui gode. Gli hai chiesto di renderci segno del suo dono di sé al mondo. Una preghiera vertiginosa: che Lui faccia di noi una testimonianza visibile della sua fedeltà e del suo amore.

E sei stato ascoltato, Mosè. Diventati figli nel Figlio (Rm 8,16-17; Ef 1,5.11; Gal 4,4.7), siamo eredi del Padre anche noi, come Lui, e testimoni nello Spirito. E non
veniamo perduti (Gv 3,16-18), ma ricapitolati in Cristo,
ereditati e conservati nelle sue mani.

In questo tempo di fatica, buon cammino di fedeltà alla vita, da amico

Luca Lorusso

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Manda già cattivo odore

testo di Luca Lorusso |


Ricordi le tue ultime parole prima di rivedere tuo fratello vivo, Marta? Quando Gesù ha chiesto di togliere la pietra dal sepolcro e tu ti sei opposta: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni» (Gv 11, 1-45).

Avevi appena detto di credere in Lui, risurrezione e vita, eppure hai cercato di fermarlo.

Forse volevi proteggere l’unica certezza che ti era rimasta: la morte?

Forse avevi paura di perdere le tue coordinate, e ti aggrappavi a ciò che sapevi e che, fino a quel momento, era la tua esperienza?

Provavi un dolore indicibile, e forse ti pareva giusto perderti in esso, partecipare, da viva, della stessa sorte toccata a tuo fratello.

Cos’hai pensato quando abbiamo tolto la pietra e hai sentito Gesù ringraziare il Padre perché l’aveva ascoltato? Cos’hai provato?

E quando l’hai sentito pronunciare a gran voce il nome di Lazzaro, e hai visto emergere dall’oscurità del sepolcro quei piedi e quelle mani amate che con cura avevi avvolto in bende?

Noi eravamo increduli, come te, eppure abbiamo creduto.

«Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno», aveva detto Gesù poco prima. Benché la morte non sia evitabile, non è per sempre. Anche quando uno la sperimenta mentre è in vita, come stava accadendo a te, Marta, la morte è attraversabile.

Da quel momento anche noi abbiamo liberato le nostre mani e i nostri piedi dalle bende nelle quali eravamo stretti, e ci siamo svelati, rivelati, togliendo i sudari con i quali coprivamo i nostri volti.

Da schiavi per timore della morte (cfr. Eb 2, 14-15), ci siamo ritrovati liberi e vivi.

Buon attraversamento, buona Quaresima,

da amico
Luca Lorusso

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Ucraina: La Missione chiama a Est

Testo e foto di Luca Bovio |


Dal 25 al 27 gennaio ho fatto una breve visita nella città di Leopoli in Ucraina, paese confinante a Est con la Polonia. Ho viaggiato con un sacerdote polacco della diocesi di Cracovia, don Dario, che una volta al mese si reca nel seminario di quella città per insegnare teologia. Il servizio che presto da qualche anno per le Pontificie opere missionarie in Polonia, mi porta a incontrare i seminaristi nelle diverse diocesi per parlare loro della missione come dimensione naturale della vita sacerdotale.

Luca Bovio

Partiamo da Cracovia al mattino presto di una giornata che, per essere nel cuore dell’inverno, si presenta assai mite. Dopo tre ore di viaggio a Est, ci troviamo sul confine con l’Ucraina, presso Medyca. Lasciamo la macchina in un parcheggio in territorio polacco e attraversiamo a piedi il confine. Questo è infatti il metodo più veloce per evitare i lunghi controlli alle autovetture, perché lasciando la Polonia si lascia anche l’Unione europea e l’area Shengen e quindi i controlli sono minuziosi e lunghi.

Prima di presentare i passaporti entriamo in un bar e la signora ci chiede dove siamo diretti e cosa andiamo a fare. Le spieghiamo che andiamo a Leopoli per motivi di lavoro. Lei ride dicendoci che «tutti escono dall’Ucraina per venire in Polonia e cercare lavoro e voi fate esattamente il contrario». Il controllo è veloce e dopo pochi minuti siamo in territorio ucraino. Ad attenderci c’è un autista mandato dal seminario. Dopo un’ora di viaggio arriviamo nel seminario dell’arcidiocesi di Leopoli. Il tempo di lasciare le borse e fare colazione e andiamo a visitare la città.

«Turisti» a Leopoli

Il monumento dedicato al poeta e pittore Taras Hryhorovy? Šev?enko a Leopoli

Non abbiamo alcun piano prestabilito, lasciamo che gli incontri stessi con le persone e la Provvidenza ci guidino. Iniziamo a visitare il palazzo vescovile in centro città. Appena apriamo la porta troviamo davanti a noi inaspettatamente l’arcivescovo che sta salutando alcuni ospiti. Appena ci vede ci dà il benvenuto e ci invita nel suo ufficio. Si chiama Mieczyslaw Mokrzycki, ed è di origine polacca. Prima di essere pastore di questa diocesi fu segretario di Giovanni Paolo II e per due anni di Papa Benedetto XVI, poi ricevette la nomina di arcivescovo di Leopoli. Con lui abbiamo un breve dialogo interessante. Dopo esserci presentati ci racconta della sua diocesi e dell’Ucraina in generale. Ci spiega che la situazione non è facile. Il paese cerca ancora degli equilibri che portino sviluppo. La mancanza in questo momento di personalità politiche autorevoli e la persistente guerra sul confine con la Russia, sono alcuni tra i motivi che rallentano la crescita del paese. La geografia delle chiese cristiane si presenta molto ricca e variegata. Qui infatti ortodossi, greco cattolici, armeni e protestanti vivono gli uni a fianco degli altri. A Leopoli ci sono ben tre cattedrali di tre chiese cristiane diverse.

Una Chiesa «polacca»

Nella cattedrale di Leopoli, ai piedi dell’ icone ci sono proiettili e pezzi di razzi dalla guerra combattuta ad est sul confine con le Russia.

È il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, ultimo giorno della settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e nel pomeriggio si tiene una preghiera ecumenica nella cattedrale cattolica. Vi partecipiamo. Per moltissimo tempo la presenza cattolica in questa parte dell’Ucraina è stata assicurata solo dai polacchi, perché queste terre di Leopoli facevano parte della Polonia (dal 1340 al 1772, quando la città fu conquistata dagli Asburgo, ndr). Per questo la lingua polacca è qui capita e parlata da molti. Un esempio: pur trovandoci in Ucraina, in cattedrale, delle 8 messe domenicali celebrate, ben 5 sono in polacco, 1 in latino, 1 in inglese e 1 in ucraino. La lingua ucraina come il polacco è una lingua slava che si scrive però con l’alfabeto cirillico. Un sacerdote ci spiega che la gente locale per indicare la cattedrale cattolica la chiama la «chiesa polacca», a motivo della forte identificazione costruitasi nel tempo tra il cattolicesimo e i polacchi. Ascoltando queste parole mi convinco sempre di più di quanto sto maturando in questi anni di lavoro missionario in Polonia: l’importanza di dare una testimonianza a questi popoli che la chiesa cattolica, per sua stessa definizione universale, è più grande della identità polacca. Riconosco con gratitudine i meriti, e sono anche debitore, della ricchezza che questa espressione «polacca» del cristianesimo riesce a dare. Tuttavia, il cattolicesimo è molto di più. Ed è un dovere per me essere testimone della sua universalità ogni volta che è possibile.

La città, anche se trasandata, conserva ancora il fascino di un tempo. Molto rinomate sono le università dalle quali nei secoli sono usciti intellettuali prestigiosi.

In una chiesa greco cattolica troviamo testimonianze della guerra che ancora oggi, in modo meno mediatico, si combatte a Est del paese vicino alla Crimea sul confine con la Russia. Vi sono residui di bombe e di cartucce vicino a fotografie di molti soldati uccisi. Su tutti una grande icona di Gesù benedicente.

Con i seminaristi

La seconda giornata la trascorro interamente nel seminario che si trova a circa 10 km dalla città. È una struttura accogliente e moderna di recente costruzione. Qui vivono poco più di 20 seminaristi che, secondo il programma, incontrerò domani. Con loro partecipo solo alla messa al mattino. All’interno del seminario si trova anche l’Istituto di teologia per laici. Conosco il direttore don Jacek, polacco che parla bene anche italiano poiché ha studiato a Roma. Mi propone nel pomeriggio di tenere una lezione di missiologia («la disciplina teologica cristiana che studia l’Evangelizzazione e riflette sul compito missionario della Chiesa universale», da Wikipedia) a tutte le classi riunite. Accetto volentieri, poiché qui questa materia non è insegnata e il termine «missione» rimane alquanto astratto. Lo scopo che mi propongo, senza sapere se riuscirò a raggiungerlo, è quello di destare interesse e curiosità intorno all’argomento con l’aiuto dei documenti della Chiesa. Spiego brevemente anche cosa sono le Pontificie opere missionarie che io rappresento e spendo anche qualche parola sul nostro Istituto e sulla nostra comunità in Polonia. Lascio a tutti un abbondante materiale informativo.

Terzo giorno

Nella cattedrale di Leopoli, foto dei soldati uccisi nel conflitto del Donbass.

L’ultima giornata inizia con l’Eucarestia celebrata per gli studenti dell’Istituto di teologia. Dopo una veloce colazione incontro tutti i seminaristi, con il loro padre spirituale. Ho così l’occasione di presentare alcuni temi missionari ed esperienze personali. Ho l’impressione che mi ascoltino con interesse e curiosità, perché il tema è per loro nuovo. Ripresento la struttura delle Pontificie opere missionarie che non sono presenti in Ucraina, così come le origini del nostro Istituto missionario e la realtà in cui oggi opera. Il tempo passa veloce.

Ricevo anche domande sulla storia della mia vocazione e della mia esperienza in questi anni in Polonia. Uno dei punti che più colpisce è la natura internazionale della nostra comunità in Polonia: siamo infatti 4 missionari provenienti da 3 continenti e 4 paesi diversi, e questo è un vero inedito per queste chiese.

Terminato l’incontro mi raggiunge un sacerdote giornalista della società di San Paolo, padre Mario, polacco, che da alcuni anni vive a Leopoli e lavora per la Radio vaticana. Desidera farmi un’intervista sul tema delle missioni nel contesto del mio viaggio. Dopo l’intervista mi accompagna in città per mostrarmi la sua comunità. Ne approfitto per fare qualche foto al centro e comprare alcuni ricordi. Ho poco tempo perché già nel primo pomeriggio ritorniamo in Polonia per lo stesso tragitto per il quale siamo entrati.

Viaggio con don Jacek, direttore dell’Istituto di teologia della diocesi di Sandomierz. Ci scambiamo i contatti per organizzare in futuro altre visite e collaborazioni con l’Istituto di teologia che guida. Al termine di questo breve e intenso viaggio, dopo aver visitato negli anni precedenti altri paesi confinanti come Bielorussia, Lituania, Lettonia e Estonia, nasce in me la convinzione che l’Ucraina è il paese che offre più opportunità per approfondire meglio la conoscenza dell’Est del nostro continente e allacciare nuovi contatti.

Luca Bovio
missionario della Consolata a Cracovia, Polonia.