Ci hai chiesto di andare davanti a te, a due a due (Lc 10,1-20), come nomadi che hanno la propria casa sempre con sé. Ci hai chiesto di non portare nulla, solo la nostra piccolezza e il tuo nome, per essere noi casa per altri.
Ci hai mandati privi di ogni bene, affamati e indifesi, come agnelli in mezzo ai lupi, armati solo della nostra pace, poiché la nostra pace è leva di altra pace.
Ci hai inviati come operai della cura nelle dimore di chi ci avrebbe accolti. Ci hai assicurato che il loro stesso cibo e le loro bevande, la loro vita e storia, offerti a noi, ci avrebbero fornito gli ingredienti per i farmaci da offrire loro a nostra volta.
Ci hai esortati ad andare per annunciare la prossimità del Regno, e per annunciarlo a tutti. A chi ci avrebbe aperto la porta, a chi ci avrebbe respinti. Per questi ultimi sarà più facile distrarsi dalla salvezza che lambisce la loro esistenza.
Quando siamo tornati a te, eravamo pieni di stupore e di gioia: anche i demoni si erano sottomessi a noi nel tuo nome. E tu hai gioito con noi, e ci hai narrato una visione avuta durante il nostro peregrinare. Mentre noi spingevamo i confini del Regno, tu vedevi Satana cadere dal cielo come una folgore.
Tu ci hai dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni, di tramutare il veleno delle nostre vite e di quelle degli altri in antidoti contro la morte. Tu ci hai resi capaci di vincere ogni potenza del nemico riempiendo di te il nostro nulla.
Non però per i demoni che si sottomettono a noi ci rallegriamo – ci saranno momenti nei quali, infatti, non saremo poveri abbastanza per sconfiggerli -, ma piuttosto perché, a prescindere da ogni cosa, abbiamo intravisto i nostri nomi scritti nei cieli.
Al di là delle opere che compirete,
da amico, buon mese missionario,
trascorso scrutando nei cieli i vostri nomi.
Luca Lorusso
Leggi tutto: Mangiare la Parola – Eccomi manda me – Progetto Dispensario di Manda – Quesrida Amazonia: Un sogno ecologico
Vita trasmessa da chi vive
testo di Luca Lorusso |
Sei partito di buon mattino con il tuo carico di rabbia e aspettative frustrate nel cuore, e con le sue parole di riconciliazione nelle orecchie. Sei salito sul monte con il peso di una vita morente tra le braccia, due tavole di pietra inerte da sgrezzare, e con una preghiera per i tuoi tra le labbra. Sei arrivato al luogo dell’incontro con la certezza di stare di nuovo alla sua presenza e di vedere rinnovato il patto dal dito dell’alleanza.
E Lui era lì, come ti aveva promesso. Nascosto nella nube, ti ha nascosto nella rupe, proteggendoti con la sua mano per non farti perire davanti alla sua indicibile trascendenza. Ti è passato davanti e si è fermato presso di te rivelandoti il suo nome: misericordia, amore, fedeltà.
E tu lo hai supplicato, come ti eri ripromesso. Hai riconosciuto la dura cervice dei tuoi, del tuo popolo, della tua umanità, e hai domandato l’impensabile: non solo il suo passo presente in mezzo ai passi degli uomini sulle loro strade tortuose, ma il suo assenso a fare degli uomini la sua eredità (Es 34,4-9): eredità che Lui riceve, eredità che Lui trasmette.
Eredità non è un oggetto lasciato agli eredi da chi muore, ma la vita trasmessa da chi vive. È la testimonianza di una fedeltà all’amore, al desiderio profondo di vita. Tu hai chiesto per i tuoi, e per tutti, che Lui si facesse erede della nostra vita, e che si facesse tramite presso altri della nostra fedeltà all’amore. Perché la nostra fedeltà sia segno della sua.
Hai chiesto a Dio di fare di noi, suoi traditori e amanti, l’eredità di cui Lui gode. Gli hai chiesto di renderci segno del suo dono di sé al mondo. Una preghiera vertiginosa: che Lui faccia di noi una testimonianza visibile della sua fedeltà e del suo amore.
E sei stato ascoltato, Mosè. Diventati figli nel Figlio (Rm 8,16-17; Ef 1,5.11; Gal 4,4.7), siamo eredi del Padre anche noi, come Lui, e testimoni nello Spirito. E non
veniamo perduti (Gv 3,16-18), ma ricapitolati in Cristo,
ereditati e conservati nelle sue mani.
In questo tempo di fatica, buon cammino di fedeltà alla vita, da amico
Luca Lorusso
Leggi tutto: Per la preghiera – Bibbia on the road – Progetto Tanzania – Amico mondo
Promessa di presenza
Ti sei mostrato a noi vivo. Dopo la tua passione e morte, ci sei apparso per quaranta giorni (At 1,1-11). Ci hai visitati mentre eravamo in quarantena, per debellare insieme a noi il virus dell’angoscia della morte. E ci parlavi delle cose del Regno. Non del regno che noi speravamo, un regno giusto e sapiente, ma umano, e quindi effimero, instabile. Ci parlavi del Regno di Dio. Quello della vita eccedente, dell’acqua che zampilla in eterno, della luce che disperde le tenebre, dell’amore che è più forte della morte.
L’ultimo giorno, quando noi ci sentivamo di nuovo in forze, pronti a riprendere la strada con te, come prima, tu ti sei seduto a tavola, come avevi fatto nell’ultima cena prima del tuo arresto, e ci hai chiesto di non muoverci da Gerusalemme. Almeno finché non fossimo stati battezzati in Spirito Santo. Solo allora, infatti, la tua presenza in corpo, legata a un luogo, si sarebbe tramutata in presenza in spirito, legata alle nostre vite capaci di spargersi nel mondo. Solo allora la nostra forza riacquistata sarebbe stata di aiuto, e non di ostacolo, alla nostra debolezza, vero veicolo della tua salvezza per tutti «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Mentre ci parlavi così, sei stato elevato in alto, e una nube ti ha sottratto ai nostri occhi. Ed ecco che due uomini in bianche vesti ci hanno scossi: «Perché state a guardare il cielo? Gesù tornerà e troverà la fede sulla terra grazie a voi».
Ci siamo messi in attesa, pronti a lasciarci riempire di Spirito, e a realizzare con Lui, in ogni luogo e in ogni tempo, la Tua promessa di presenza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Buon tempo di Pasqua, da amico
Luca Lorusso
Titoli dei pezzi in Amico
Chi è il missionario (Biabbia on the road)
La Parola, unica speranza (Parole di corsa)
Querida amazonia. Un sogno sociale (Amico mondo)
Comunità missionaria di Villaregia (Amico mondo)
Modjo per chi ha bisogno (Progetto Etiopia)
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Manda già cattivo odore
testo di Luca Lorusso |
Ricordi le tue ultime parole prima di rivedere tuo fratello vivo, Marta? Quando Gesù ha chiesto di togliere la pietra dal sepolcro e tu ti sei opposta: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni» (Gv 11, 1-45).
Avevi appena detto di credere in Lui, risurrezione e vita, eppure hai cercato di fermarlo.
Forse volevi proteggere l’unica certezza che ti era rimasta: la morte?
Forse avevi paura di perdere le tue coordinate, e ti aggrappavi a ciò che sapevi e che, fino a quel momento, era la tua esperienza?
Provavi un dolore indicibile, e forse ti pareva giusto perderti in esso, partecipare, da viva, della stessa sorte toccata a tuo fratello.
Cos’hai pensato quando abbiamo tolto la pietra e hai sentito Gesù ringraziare il Padre perché l’aveva ascoltato? Cos’hai provato?
E quando l’hai sentito pronunciare a gran voce il nome di Lazzaro, e hai visto emergere dall’oscurità del sepolcro quei piedi e quelle mani amate che con cura avevi avvolto in bende?
Noi eravamo increduli, come te, eppure abbiamo creduto.
«Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno», aveva detto Gesù poco prima. Benché la morte non sia evitabile, non è per sempre. Anche quando uno la sperimenta mentre è in vita, come stava accadendo a te, Marta, la morte è attraversabile.
Da quel momento anche noi abbiamo liberato le nostre mani e i nostri piedi dalle bende nelle quali eravamo stretti, e ci siamo svelati, rivelati, togliendo i sudari con i quali coprivamo i nostri volti.
Da schiavi per timore della morte (cfr. Eb 2, 14-15), ci siamo ritrovati liberi e vivi.
Buon attraversamento, buona Quaresima,
da amico Luca Lorusso
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Tu, l’Eterno, in un tempo e in un luogo
Testo di Luca Lorusso
Si narra che sei venuto nella carne. Poco più di duemila anni fa. Proprio tu. Il Signore della vita. Il Creatore. Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e di tutti i viventi.
Si narra che sei nato come tutti noi e sei stato allevato secondo la cultura e sensibilità del tempo. Tu, l’eterno, in un anno preciso, in un luogo, una lingua, una religione, un contesto irripetibile, come irripetibile è ogni contesto e ogni vita.
Si narra che sei nato da una giovane donna capace di dire un sì limitato che ha aperto orizzonti illimitati. Una ragazza capace di cantare la gioia per lo sguardo d’amore che ha sentito su di sé, per i troni rovesciati e gli umili innalzati, per la promessa ad Abramo realizzata, e non ancora, nel suo grembo.
Si narra che sei stato accolto e accudito da un falegname sognatore che ti ha salvato dal tiranno portandoti profugo in un paese straniero. Un uomo semplice e giusto, capace di leggere e affrontare la storia con occhi resi limpidi dallo Spirito.
Si narra che il cosmo intero si era predisposto a darti il benvenuto e che tu hai ricambiato l’attesa squarciando le tenebre con la tua luce.
Da quel giorno sono accaduti diversi prodigi straordinari, e molti altri ordinari, al culmine dei quali sei morto e poi risorto. Tu, Amato dell’Amante, hai riposto la morte e la vita nell’Amore. Amante a tua volta di ciascuno di noi, ci immergi nel tuo Amore perché anche noi vi immergiamo qualunque creatura incontriamo.
Buon Avvento e buon Natale da amico.
Luca Lorusso
Sulle strade del mondo e della vita
Giovani in viaggio verso l’altro e verso se stessi
È sabato in sinagoga. Ci sei tu tra i fedeli, ci sono erodiani e farisei, e c’è un uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,1-6). La scena è chiara: tu da una parte, con l’uomo, i tuoi nemici dall’altra.
Per te quell’uomo è al centro. Tuo intento è risanare la sua vita.
Per gli erodiani e i farisei, quell’uomo è strumento. Loro intento è conservare se stessi cercando un pretesto per metterti a morte.
E appena lo guarisci, si accordano per condannarti.
Tu lo sai che il tuo gesto di vita costeggia la morte.
Ma se ti lasciassi guidare dalla paura, non ci sarebbe risurrezione.
Il morire, con tutti i suoi terrori, è attraversabile. Lo prendi in carico.
È con questa certezza, forse, che dalla sinagoga ti dirigi verso il mare. Le acque profonde sono simbolo del morire, di quel limite e dei
demoni che lo popolano, e tu vuoi offrire un segno a chi ti segue.
C’è una grande folla adesso attorno a te. Ti ferma in cerca dei tuoi prodigi. Spaventata dalla sofferenza, ti si getta addosso e ti schiaccia
(Mc 3,7-12). Suo intento è conservare se stessa. Fare di tutto per non morire. Trattenerti a riva per eludere il travaglio della condizione umana.
La tua strada, però, non rende immuni dalla sofferenza, l’attraversa.
E allora dici a chi è disposto a venire con te di preparare la barca.
Tuo discepolo è chi sale con te nella barca della sua esistenza. Insieme ai tuoi prendi il largo. Solchi gli abissi sostenuto dalla precarietà di un legno. Tuo intento è mostrare loro che è possibile vivere.
Dal mare, poi, passi al monte. Sono proprio gli abissi navigabili la porta che introduce all’altura.
Da lì, da quella posizione che avvicina al cielo e
riporta agli uomini, osservi il mondo intero paralizzato – come la mano dell’uomo nella sinagoga – sul bordo del mare, con la sua sete di vita e la sua paura della morte.
È lì sul monte che ora scegli i tuoi apostoli tra i discepoli,
e li costituisci missionari perché stiano con te e perché
vadano a predicare la buona notizia (Mc 3,13-19).
Il tuo intento è dare loro la vita e darla in abbondanza,
perché loro stessi, a loro volta, la ridonino con eccedenza.
Li costituisci e li mandi a mani vuote perché ricordino sempre che sei tu a scacciare i demoni tramite la loro fragilità, e non loro tramite le loro forze.
Loro forza e loro canto è rimanere in te – che li custodisci – e nel tuo amore – che li sospinge – di generazione in generazione, fino agli estremi confini della terra.
In questo mese missionario straordinario
amico ti augura di lasciarti risanare da Lui,
di attraversare i tuoi abissi con Lui,
e di stare alla sua presenza portandolo al mondo.
Luca Lorusso
Per leggere tutto il testo di Amico:
La parabola del Malcapitato
Quando mi sono alzato per metterti alla prova, non pensavo che la prova sarebbe stata più mia che tua. «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?», ti ho chiesto (cfr Lc 10,25-37). Tu hai girato la domanda a me, e io ho sfoggiato la mia sapienza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto te stesso, e il tuo prossimo».
Volevo mostrare a tutti chi fosse il vero maestro tra me e te, ma tu non ti sei difeso dal mio attacco e, anzi, mi hai elogiato.
Hai ribaltato i nostri ruoli con la tua mitezza. Mi hai disarmato con la tua accoglienza.
Quando poi ti ho chiesto, per giustificarmi, «e chi è mio prossimo?», e tu hai iniziato a raccontare la storia del
Samaritano che aiuta l’uomo malmenato dai briganti,
sapevo già dove volevi arrivare: il mio prossimo è il malcapitato.
Per ereditare la vita eterna, quindi, devo amare il Signore Dio mio e aiutare i malcapitati, gli ultimi, le vedove, gli oppressi, i malati.
Niente di nuovo sotto il sole. Lo faccio già.
Ma quando sei arrivato alla fine del racconto, mi hai spiazzato: mi hai chiesto di mettermi nei panni dell’uomo malcapitato e di dirti chi fosse, secondo me, il suo prossimo. Non chi fosse il prossimo del Samaritano, ma dell’aggredito. Hai ribaltato di nuovo i ruoli, hai messo sotto sopra le prospettive.
Ed ecco la vertigine: per ereditare la vita eterna amerò il Signore e il mio prossimo mettendomi nella prospettiva del malcapitato, dell’uomo insufficiente, non del benefattore, di quello che basta a se stesso. In questa prospettiva amare l’altro e amare Dio non è mia iniziativa, ma risposta alla loro presenza. Da malcapitato posso riconoscere che non nasco da me stesso e non mi curo da solo, ma è l’altro che mi fa essere e mi fa vivere; che non vengo da me stesso e non mi salvo da solo, ma posso accogliere e vivere un amore che mi precede e che forma il mio orizzonte.
In questi mesi estivi di incontri, campi missionari, vacanze, immersione nel creato, preghiera, mettiamoci nella prospettiva giusta.
Buon cammino, da amico
Luca Lorusso
Leggi tutti i testi di Amico qui:
Mi hai vinto, non ho perso
L’editoriale di Amico
La morte e il lutto sono il nostro pane quotidiano. Il lamento, il pianto e l’affanno, una postura consolidata. La fame e la sete non si smorzano mai. Nessun riparo dall’arsura, nessuna tenda da abitare (cfr Ap 7, 9-17), nessuno sguardo al quale affidare la nostra vita. Tantomeno un Dio che elimina la sofferenza.
«È triste, ma è così», dicevo.
Allora, quando ti ho visto passare tra la folla che t’insultava, anch’io ti ho sputato. E quando eri in croce, anche io ti ho detto di scendere, di salvare te stesso (e me) dalla morte, se veramente eri Dio (cfr Lc 23, 35-39). Quando hanno chiuso il sepolcro con la pietra, ho dato una mano a sigillarla, e ho portato cibo e bevande alle guardie perché tenessero la tua morte, la tua speranza morta, sotto controllo (cfr Mt 27,66).
La speranza, quand’è illusione, fa male, bisogna tagliarla via e togliere le radici dal terreno. E io ce l’ho messa tutta per farlo.
Poi è successo l’imprevedibile. Un terremoto, la pietra ribaltata, i guardiani stesi a terra, la tomba vuota. Quei codardi dei tuoi amici che ti dicevano risorto.
«Davvero quella speranza era un’illusione?», mi sono chiesto.
E alla fine ho ceduto. Ce l’ho messa tutta per tenerti a bada, ma tu sei più forte e mi hai vinto. Senza lasciarmi sconfitto. Mi hai mostrato che il male non è la sofferenza, ma l’assenza di amore, e che ogni assenza d’amore può essere colmata con la tua presenza, amore eccedente. Hai beffato la morte passandoci dentro, hai restituito alla vita la pienezza desiderata da Dio fin dal principio.
Quella che credevo illusione si è rivelata speranza. Bisogna coltivarla perché porti frutto e lo porti per tutti.
Buon tempo di Pasqua, da amico Luca Lorusso
Bibbia on the road
Quando Gesù prega
La spiritualità missionaria si fonda sulla preghiera.
E la preghiera del missionario si fonda sulla preghiera di Gesù descritta nel Vangelo di Luca.
Ecco la quarta puntata sulla spiritualità missionaria.
Le comunità cui si rivolge Luca sono ormai convinte che il ritorno in gloria del Risorto non è imminente. Per questo motivo esse sentono vivo il compito di continuare a dare testimonianza a Cristo. E per Luca il compito missionario richiede preghiera assidua e meditazione quotidiana sugli insegnamenti del Maestro. Ecco perché presenta diverse volte Gesù in preghiera, molto più che non Matteo e Marco.
Gesù prega durante la vita pubblica
Nella descrizione che Luca fa della Chiesa delle origini negli Atti degli apostoli, viene messo in rilievo come i fratelli di Gerusalemme (Atti 1,4), Pietro (Atti 10,9; 11,5), Giovanni (Atti 3,1), Paolo (Atti 9,11) si ritirino in solitudine per pregare.
Una simile esigenza ha il suo modello nel Gesù storico che lo stesso Luca descrive nel suo Vangelo. Gesù, inviato del Padre, descritto in preghiera in alcuni momenti decisivi della sua missione, è origine e fonte della preghiera delle comunità.
A differenza di Matteo e Marco, Luca presenta Gesù «in preghiera» (3,21) nel momento del battesimo al Giordano, quando riceve lo Spirito e ascolta la voce del Padre che lo chiama «figlio amato». In un’atmosfera di preghiera, il battesimo di Gesù diventa il luogo teologico della rivelazione.
Luca riprende l’episodio di Marco 1,35 nel quale Gesù «si ritirò in un luogo deserto, e là pregava», e lo colloca in un momento diverso: dopo la guarigione del lebbroso (5,16). Questo spostamento rende la preghiera di Gesù non più un evento come tanti altri, ma uno schema che guida la sua missione: la preghiera è sorgente delle sue parole e dei suoi gesti. Nel terzo Vangelo, Gesù si ferma a pregare anche in altri due eventi importanti: prima della scelta dei Dodici (6,12) e in occasione della trasfigurazione (9,28-29). La preghiera prima di designare i suoi accompagnatori sottolinea l’importanza della scelta. I Dodici sono persone per le quali anche in seguito egli pregherà (9,18; 17,5; 22,32). La preghiera prima della trasfigurazione prepara Gesù a rivelarsi come il Servo sofferente.
Nel racconto dell’attività pubblica di Gesù prima della passione, Luca riferisce le parole di una sola preghiera: l’atto di ringraziamento per la diffusione del Regno attraverso la predicazione ai «piccoli». Con un acume letterario di rilievo Luca fa coincidere l’esultanza di Gesù con il ritorno dei 72 discepoli dalla missione, e dice: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (10,21). Quindi Gesù esulta di gioia nello Spirito nel momento in cui i discepoli lo ragguagliano sul successo della loro missione, durante la quale la misteriosa azione del Padre diventa visibile.
La spiritualità missionaria lucana scaturisce dalla centralità della preghiera: la proclamazione della parola e il dono del battesimo devono di necessità essere preceduti da essa. Ancora oggi il missionario è chiamato a proclamare l’evento Cristo e a operare l’elezione dei catecumeni durante la Quaresima accompagnandoli verso la grande notte della salvezza, la notte di Pasqua, lasciandosi guidare da criteri spirituali. Nella scelta dei battezzandi deve seguire la sapienza del cuore che si ottiene solo attraverso un’assidua e costante vita di preghiera. Il missionario che non prega è un «cembalo che tintinna».
Gesù prega durante la sua passione
Durante la celebrazione della Pasqua nel cenacolo, Gesù rivela a Pietro che Satana è in cerca di loro per vagliarli come si fa con il grano (cf.
23,31) e, ancor prima di predire che Pietro lo tradirà, dice: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22:32).
Il Signore conosce coloro che ha scelto e coloro che hanno creduto in lui, e sa anche che la loro fede può soccombere se si lasciano ingannare da Satana. Essi devono, quindi, essere accompagnati e confermati dalla preghiera.
Alla stessa maniera il missionario deve far crescere e confermare la fede delle giovani chiese con la sua preghiera. Essa otterrà certamente l’effetto desiderato se il missionario s’ispira all’esempio del Maestro, il quale ha dimostrato che la preghiera provvede la forza necessaria per superare ogni tipo di tentazione.
Un altro momento importante della preghiera di Gesù è quello dell’orto degli ulivi. Similmente a Marco e Matteo, Luca presenta la filiale preghiera di Gesù, la sua tensione tra il rifiuto e l’accettazione della volontà del Padre, la sua solitudine nella notte, e la decisione finale di rimanere fedele.
Tuttavia Luca ha alcuni tratti che sono solo suoi. Solo Luca sottolinea il fatto che la preghiera di Gesù è difficile e sofferta al punto che un angelo viene a consolarlo (cf. 22,43-44). Si tratta di una lotta, un momento di angoscia, una prostrazione psicologica. Nell’orto degli ulivi Gesù suda sangue. Questo episodio è preceduto e seguito dal racconto dell’esortazione del Mastro ai discepoli, «pregate, per non entrare in tentazione» (22,40), che richiama l’esortazione che si trova in Marco: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Nella versione lucana l’espressione assume un valore di rilievo poiché sottolinea quanto è stato affermato nei versetti 43-44 tramite la scena dell’angelo che consola Gesù: è difficile e doloroso pregare quando ci si sente deboli e soli.
L’evento della croce segna un altro momento significativo della preghiera di Gesù. Sulla croce egli prega per coloro che lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,23). Il Signore ha speso tutta la sua vita per portare la salvezza a tutti. Per questo le sue ultime parole sono una preghiera: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (23,46). Nel Vangelo di Luca le prime (cf. 2,49) e le ultime parole di Gesù sono rivolte al Padre. Tutta la sua vita è stata vissuta in perfetta unione con il Padre e in totale dipendenza da lui fino al momento supremo della croce. Anche in questo frangente Gesù offre le linee portanti di una spiritualità missionaria.
Il missionario è inviato dalla Chiesa a impiantare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra (1,8), e, seguendo l’esempio del Maestro, egli deve essere in totale dipendenza dal Padre e in perfetta comunione con Lui. Questo è possibile solo se la vita del missionario è segnata da un costante e assiduo ritmo di preghiera. Senza preghiera nessun campo, per quanto arato, produce frutto.
Antonio Magnante
Parole di corsa
Gesù ha bisogno di noi
Padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953 ha vissuto la sua chiamata alla missione tra Italia, Portogallo, Inghilterra e Sudafrica. Una vita spesa a dire sì al Signore e ai fratelli.
Ciao amico. Mi presento: sono padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953. Da ragazzino frequentavo la parrocchia come ministrante e membro del coro. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto professionale di Casarano, è nato in me il desiderio di diventare missionario per portare il Vangelo ai popoli che non lo conoscevano, così ho deciso di entrare in seminario.
Ho scelto l’istituto dei missionari della Consolata quando ho capito che era una congregazione dedicata alle missioni tra i popoli più poveri e ancora non cristiani. Ma anche per la mia forte devozione a Maria: mi piaceva che l’istituto si chiamasse «missionari della Consolata».
Tra Veneto, Piemonte e Londra
Così sono andato in provincia di Treviso, nel seminario di Biadene, e ho frequentato le scuole superiori di Montebelluna. Subito dopo gli esami di maturità ho fatto l’anno di noviziato in Certosa di Pesio (Cuneo). Per gli studi di filosofia e teologia, invece, sono stato al seminario internazionale di Londra per cinque anni.
La prima sfida a Londra è stata quella di imparare la lingua inglese per poter affrontare gli studi teologici.
È stato un periodo bello, ricco di esperienze arricchenti umanamente, spiritualmente e culturalmente. A Londra, oltre alla cultura inglese, si viveva anche un’atmosfera mondiale.
Tappa in Portogallo
Dopo essere stato ordinato diacono a Londra ero pronto per la missione in Africa o in America Latina, ma i superiori mi hanno destinato in Portogallo. Così ho imparato un’altra lingua facendo una bellissima esperienza nella parrocchia della Serafina nella periferia di Lisbona nel Bairro da Liberdade.
Il 27 giugno del 1981 sono stato ordinato sacerdote a Specchia. Sarei ritornato volentieri nella parrocchia della Serafina per continuare il servizio pastorale tra la gente della quale ormai ero innamorato. Invece mi è stato chiesto di andare a Ermesinde, sempre in Portogallo, nel seminario di Aguas Santas con i ragazzi delle scuole medie.
Dopo due anni sono passato al seminario di Fatima. Essere responsabile della formazione dei giovani, inizialmente mi ha preoccupato, ma ho trovato dei bravi confratelli che mi hanno aiutato a inserirmi in quel ruolo delicato. Era bello pensare che tra quei ragazzi c’erano alcuni futuri missionari della Consolata.
Nel Sudafrica dell’apartheid
Dopo tre anni a Fatima è giunta per me l’ora di cambiare continente. Sono stato destinato in Sudafrica. Finalmente la tanto desiderata Africa!
Quando sono arrivato in Sudafrica nell’agosto del 1987, Nelson Mandela era in prigione, il paese era ancora in pieno regime dell’apartheid: i popoli delle varie tribù africane erano vittime del regime razzista. Questa era la sfida che si affrontava con sofferenza ma anche con determinazione annunciando il Vangelo di Cristo. Era un periodo di intense lotte per l’uguaglianza, la libertà, la giustizia e la pace tra tutti i popoli.
Quotidianamente eravamo testimoni di episodi di insurrezione da parte degli oppressi e di repressione da parte degli oppressori.
L’apartheid non solo divideva le varie etnie, ma era una ferita profonda che ci tagliava dentro l’anima. Come Cristo è il Cristo di tutti, così il missionario è missionario di tutti: lo sforzo quotidiano era quello di combattere le divisioni, spegnere il fuoco dell’odio per accendere quello dell’amore fraterno. Per contrastare la lotta armata dei vari gruppi, portavamo avanti la lotta spirituale della preghiera.
E il Signore ha ascoltato il grido del suo popolo ed è venuto in suo aiuto. Ho avuto la gioia di votare «sì» nel primo referendum che chiedeva il cambiamento del regime.
Ero ancora in Sudafrica quando Nelson Mandela è stato liberato nel 1991. Nel 1994 ho potuto partecipare alle prime votazioni democratiche e universali, quelle nelle quali Nelson Mandela è stato eletto presidente della Repubblica. Abbiamo vissuto momenti di grande trepidazione, commozione e gioia. Un grande senso di gratitudine a Dio Padre di tutti e commossa gratitudine ai fratelli e sorelle che avevano sacrificato la loro vita nella lotta per la libertà, la giustizia, la pace e l’uguaglianza.
Mandela è stato un grande dono di Dio, non solo per il Sudafrica, ma per tutta l’umanità.
Ritorno in Italia
Dopo dieci anni di Sudafrica sono stato richiamato in Italia, nella parrocchia Maria Regina delle Missioni a Torino. Dopo 21 anni, ci ho messo un po’ per «rientrare» in un paese cambiato.
A Torino ho trovato una calorosa accoglienza. Gli otto anni trascorsi in parrocchia sono stati belli, di intenso lavoro pastorale tra i giovani e gli adulti. Anche lì, come in Sudafrica, la fatica principale è stata quella di creare comunione nella comunità.
Nel 2005, per obbedienza, ho lasciato Maria Regina delle Missioni e, prima di andare in una nuova missione, ho frequentato dei corsi di aggiornamento presso l’Università urbaniana a Roma. Poi sono stato destinato al Centro di animazione di Martina Franca (Ta) dove ho lavorato molto con i giovani e per i giovani.
Questa bella esperienza è terminata dopo due anni, quando mi è stato chiesto di tornare a Roma per fare il segretario generale dell’Istituto.
Dopo aver svolto per quattro anni questo importante servizio, ho continuato la mia missione a Galatina, in provincia di Lecce, dove mi trovo ancora attualmente.
Viviamo la pastorale parrocchiale come animazione missionaria e vocazionale. Lavoriamo per evangelizzare e costruire una comunità cristiana nella quale il Signore possa chiamare giovani che sappiano accogliere l’invito a seguire Cristo e mettersi al Suo servizio per portare il Vangelo a tutti i popoli.
L’umanità ha bisogno di Gesù Cristo.
Gesù Cristo ha bisogno di noi, uomini e donne che abbiano il coraggio, la generosità di lasciare da parte il resto e dedicarsi a seguire Cristo per conoscerlo e farlo conoscere a tutti.
Osvaldo Coppola
Progetto Colombia
Giovani di Solano costruttori di pace
Un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano violenza fin dalla nascita e sono corteggiati dai gruppi armati in cerca di nuove leve.
Educare alla pace i giovani di Solano, villaggio nel Sud della Colombia, in un territorio per decenni dominato dalla guerriglia e oggi da gruppi armati che non hanno accettato gli accordi tra Farc e governo del 2016.
Tentare di sottrarre i ragazzi poveri e privi di strumenti culturali e di rete sociale ai gruppi armati sempre in cerca di nuove leve.
Mettere in sinergia questo lavoro di prevenzione della violenza con l’educazione ambientale, perché in quelle terre una buona relazione con la natura è parte del cammino di pace.
Ecco gli obiettivi del nuovo progetto di amico per il 2019, anno del sinodo panamazzonico.
Un territorio immenso e ricco
I padri Angelo Casadei e Rino Dellaidotti, missionari della Consolata impegnati nella parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes di Solano, propongno ai lettori di amico un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano la violenza fin dalla nascita.
Solano si trova nel dipartimento del Caquetá, in piena foresta Amazzonica, nella Colombia del Sud. Nel villaggio vivono 2mila abitanti, mentre il territorio municipale, che è uno dei più estesi della Colombia (43mila km2, come Lombardia e Veneto messi insieme), conta in tutto 24mila abitanti, distribuiti in circa 100 villaggi raggiungibili solo a piedi, via fiume o a cavallo. Questi sono organizzati in nove «nucleos», raggruppamenti di 8-12 villaggi che fanno capo a quello più facile da raggiungere nel quale vi è di solito la scuola media e superiore e un collegio che alloggia i ragazzi dei villaggi vicini.
Nella giurisdizione della parrocchia sono presenti anche sedici comunità indigene.
La città più vicina è Florencia, la capitale del Caquetá a 170 km via fiume.
Nell’immenso territorio di Solano è presente uno dei più bei parchi amazzonici della Colombia, la «Serrania del Chiribiquete», nel quale vivono popolazioni indigene isolate e specie di flora e fauna ancora non catalogate.
Una storia in movimento
A Solano i missionari della Consolata sono presenti dal 1952. Nella sua storia, questo territorio è stato meta di varie ondate di colonizzazione dovute allo sfruttamento della foresta, delle pelli pregiate, dei suoi animali, del caucciù, del legname e alla coltivazione della pianta di coca. Esso è anche rifugio di banditi. Per lungo tempo è stato dominato dalla guerriglia: prima la M19, poi le Farc-Ep. Oggi, dopo l’accordo di pace del 2016, gruppi «dissidenti» continuano la lotta armata, imponendo la loro legge, e arruolando giovani nelle loro fila.
Le attività economiche
Tra la popolazione locale è diffuso l’allevamento del bestiame e la produzione di latte e formaggio per l’industria, nonostante il trasporto verso Florencia e le altre comunità della zona sia molto costoso perché avviene solo via fiume.
Le altre attività sono tutte finalizzate all’autoconsumo e al commercio locale: si coltivano yuca, banane, canna da zucchero, mais, riso; vengono allevati galline, polli, tacchini, capre, maiali e viene praticata la pescicoltura su piccola scala.
A 2 km da Solano vi è una base aerea militare che effettua voli di appoggio per la popolazione civile in caso di emergenza.
Il rischio per i giovani
«La Colombia dopo 60 anni di guerra ha firmato un accordo di pace con la Farc-Ep, una delle guerriglie più forti in questo paese», afferma padre Angelo. «Stiamo vivendo una tappa storica e allo stesso tempo delicata. Soprattutto nel nostro territorio dove la guerriglia era molto forte: come ricostruire una società che per decenni è stata governata dalle armi? Chi occuperà gli spazi di potere lasciati vacanti dalla Farc in un territorio dove lo stato si fa presente a fatica?». In questo periodo di post conflitto stanno emergendo gruppi di «dissidenti» composti da guerriglieri che non hanno aderito al processo di pace e che vogliono continuare a governare il territorio con la forza, in modo autonomo.
«Pensiamo che le future generazioni siano quelle più a rischio – prosegue padre Angelo -: sia perché manca una formazione umana e religiosa che li possa orientare verso i valori della vita, sia perché, per sete di potere, ambizione, ignoranza, i giovani si lasciano convincere ad arruolarsi nei gruppi armati illegali. È importante formare giovani leader che diventino capaci di attirare e animare altri giovani. Inoltre altro punto importante è un lavoro sulle coscienze: perdono e riconciliazione con se stessi, gli altri e verso la creazione».
Padre Angelo accenna al tema della creazione. Il progetto infatti prevede, tra gli obiettivi, anche quello di educare all’ambiente: «Viviamo nella conca Amazzonica, uno dei territori che dobbiamo conservare per il bene dell’umanità. È importante educare le nuove generazioni nell’amore per il luogo privilegiato nel quale vivono».
Luca Lorusso
Deserto, il test della finitezza
La prima coppia umana è lì, in quel giardino colmo di vita da gustare. Tutto è promessa di pienezza, predisposto per il bene dell’uomo e della donna. Dio plasma il creato e lo dona loro. E li istruisce per distinguere gli alberi commestibili dagli altri, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male, che coltiveranno senza cibarsene.
Si fonda lì la loro libertà: sulla distinzione tra ciò che è disponibile al loro appetito e ciò che non lo è, sull’esperienza del limite, sulla presenza nella sazietà di un buco che rimanda ad altro, che fa sorgere il desiderio, che è il luogo nel quale si manifesta la promessa. E sull’amicizia con Dio.
La prima coppia umana è lì. Anche il serpente è lì: il più astuto tra gli animali. Egli non genera il dubbio, che è parte del desiderio, ma insinua il sospetto, che è anzitutto un taglio di fiducia, un tarlo di relazione che trasforma il desiderio in brama. Basta un attimo, e la conoscenza del bene e del male è divorata. Il limite rimane tale, ma è rifiutato. La libertà è compromessa.
L’uomo e la donna si nascondono, ora. Si vergognano di ciò che sono, della loro nudità. E il Signore inizia lì la sua ricerca. Come uno sposo che cerca la sua innamorata nella notte per coprirla con una veste tessuta dalle sue mani e riportarla nel suo amore.
Gesù è nel deserto. Sta al di là del Giordano, come Israele sotto la guida di Mosè prima di entrare nella terra promessa per dare vita al suo regno. Regno di uomini costruito sul sangue, quello d’Israele, Regno di Dio sotto il segno della debolezza, quello che Gesù realizzerà.
Sta nel deserto quaranta giorni Gesù. Sospinto dallo Spirito santo, vi sperimenta il limite dell’uomo, ciò che gli è indisponibile, la sua finitezza. Prova fame, ma pur essendo figlio di Dio non trasforma la pietra in pane, prova rabbia per il sangue sparso dalle guerre e dalle ingiustizie, ma non trasforma il mondo in un paradiso terrestre, prova pena per gli uomini persi dietro chimere inconsistenti, ma rifiuta di attirarli a sé tramite uno spettacolo di potenza divina.
Gesù sta lì. Abita il limite, non lo divora. Lo ama. Ama la libertà giocata nella condizione umana. Ama l’uomo, la finitezza dell’uomo che è la dimora dell’infinita possibilità d’affidarsi.
Non di solo pane vive l’umanità, ma di una promessa già realizzata e non ancora, e rinnovata da Lui, il crocifisso risorto.
Buon cammino nel deserto, buona Quaresima,
da amico.
Luca Lorusso
Pennellate di Kenya
Padre Nicholas Muthoka ci manda dal suo Kenya una foto del paese e della Chiesa locale. Come in ogni foto, le ombre mettono in risalto le forme e i colori.
Sono in modalità vacanza, tranquillo, senza pensieri e, onestamente, alla ricerca di un po’ di svago.
È l’imbrunire ed esco dalla nostra tranquilla casa regionale dei missionari della Consolata a Westlands, Nairobi, per fare una passeggiata.
La capitale del Kenya è una città caotica, popolatissima e inquinata all’ennesima potenza. La gola si irrita quando esci di casa.
Cammino per strada. Ci sono macchine che corrono e gente che attraversa in modo disordinato e spesso pericoloso. Noto un ragazzino sui 13 anni che gioca, da solo, sul bordo della strada. Fa le capriole e altra ginnastica. Si diverte. È sporco e nessuno lo guarda, e neanche lui si lascia guardare.
Ragazzi di strada
È uno dei tanti ragazzi di Nairobi cresciuti in strada, duri e pericolosi, almeno all’apparenza. Ho paura, perché ho con me un nuovo cellulare che un parrocchiano mi ha regalato a Natale e non vorrei che questo qui me lo rubasse, ma mi si stringe il cuore. Che un bambino di quell’età viva in quelle condizioni mi sembra disumano. Poi mi viene in mente la parabola del buon samaritano, di quel malcapitato sulla strada verso Gerico, dei tre personaggi che gli passano accanto, e mi interrogo.
Ho paura, ma vorrei anche aiutarlo, e non so cosa decidere. «D’altronde – mi giustifico -, ci sono migliaia e migliaia di altri ragazzi di strada così per la città, posso mica aiutarli tutti». Alla fine, vado in un fast food lì vicino, compro delle patatine fritte e gliele porto.
Mi guarda incuriosito e le prende. Mentre mangia, facciamo due parole. Gli chiedo il nome: James.
Ricchi e poveri nella stessa chiesa
Mi sono riproposto di andarlo a trovare altre volte e mettermi in contatto con qualche organizzazione o casa di accoglienza per ragazzi di strada. Come missionari ne abbiamo una proprio qui a Nairobi, «Familia ya ufariji».
Accanto a questo ragazzo, passavano macchine grosse, attorno a lui grattacieli modernissimi, tanta gente, ogni persona con i suoi pensieri e la propria vita. Il Kenya è un paese in forte crescita economica e anagrafica. Sono molte le persone che fanno grande fortuna con il commercio, gli investimenti e la corruzione, mentre altri giacciono nella povertà, nelle malattie e nell’ignoranza. La classe media stenta a crescere mentre la forbice tra ricchi e poveri aumenta. La cosa assurda è che questi ricchi e poveri si trovano spesso negli stessi banchi della chiesa.
Comunità vive e accoglienti
Le comunità qui in Kenya sono spesso osannanti ed esuberanti. La domenica è bella, anzi bellissima. Trovi comunità vivaci che celebrano l’eucarestia in modo gioioso e convinto.
Non ho le statistiche sottomano, ma ho l’impressione che negli ultimi anni i numeri siano aumentati. Le chiese sono piene e si sono moltiplicate le realtà ecclesiali.
Ho l’occasione di partecipare alla messa nella parrocchia di Tassia, qui a Nairobi, dove lavorano due sacerdoti fidei donum di Torino, don Paolo Burdino e don Daniele Presicce.
La parrocchia è inserita in un quartiere davvero povero, popolazione numerosissima, ambiente maleodorante, ma, anche qui, ho incontrato una comunità viva e accogliente.
Si celebra la messa senza fretta. Mentre siamo all’altare, don Paolo, che è stato parroco nell’arcidiocesi di Torino per molto tempo, mi dice: «Per avere tanta gente così in Italia, bisogna mettere insieme un po’ di parrocchie! Qui ce n’è tutte le domeniche, per tre messe di fila». I due sacerdoti hanno infatti il progetto di allargare la chiesa.
Chiese sempre più grandi
A proposito di lavori: un po’ ovunque, qui, le parrocchie sembrano cantieri, stanno facendo opere per allargare le chiese e le strutture parrocchiali, o per farne di nuove, più grandi e spaziose, mentre in Europa non sappiamo che farne. Anzi, delle grandi strutture, si cerca a fatica di disfarsene.
Bene, in Africa, in Kenya in particolare, sembra essere un momento di gloria.
Volti stanchi e induriti
Nei villaggi e nelle campagne, la vita pian piano migliora, ma è ancora dura. Lo si capisce dai volti stanchi e induriti di uomini e donne.
Sono ancora molte le persone che non hanno acqua potabile e devono fare chilometri per andare nei fiumi o scavare buche nella sabbia. Molti i ragazzi che fanno fatica ad andare a scuola, anche se il governo cerca di agevolare il più possibile l’istruzione pubblica.
Una Chiesa chiamata alla santità
La Chiesa del Kenya, e dell’Africa in generale, rappresenta una bella pagina della storia universale dell’evangelizzazione. I missionari hanno seminato, il numeroso e giovane clero locale, gli istituti di vita consacrata e i laici locali, continuano ad arare, irrigare. Ma, come dice san Paolo, è il Signore che fa crescere. Davvero si prova, da una parte, una bella sensazione a vedere la comunità cattolica così piena di vita e propositiva, ma, allo stesso tempo, ci si affida al Signore, perché le sfide e i peccati non mancano e sono anche enormi.
Questa Chiesa sarà chiamata a coinvolgersi sempre di più nella lotta contro la povertà, la corruzione e le grandi disuguaglianze che rendono disumana la società.
Se vorrà continuare a essere significativa nel lungo corso della storia, ho la sensazione che dovrà produrre santi, ed essere autentica e trasparente, cioè, capace di quella santità che inietta nella società i valori eterni del Vangelo.
Nicholas Muthoka
Ciao padre Giordano
Padre Giordano Rigamonti, 80 anni, dopo una vita spesa per il Signore e per Maria Consolata, per l’Africa e per i giovani, è andato alla casa del Padre il 30 dicembre scorso. Ecco il ricordo, pronunciato al funerale, di uno dei suoi amici e compagni di cammino.
Non so se sono degno di parlare in questo momento. Ciascuno di noi avrebbe un milione di cose da dire oggi, molto meglio di me. Ciascuno di noi ha trascorso un pezzo della sua vita con lui, è stato coinvolto, trascinato, appassionato, ha fatto del bene con lui.
Conosco padre Giordano da 35 anni. Come molti qui presenti, sono andato in Africa la prima volta grazie a lui. Ho partecipato a convegni missionari giovanili, congressi, manifestazioni, mostre… tutto grazie a lui e ai missionari della Consolata.
Sono un figlio dei missionari della Consolata.
Sono un figlio di padre Allamano. Sono figlio di padre Giordano. Sì, perché se è vero che di mamma ne abbiamo una sola, sono convinto che i padri sono tutti coloro che nel corso della vita ci aiutano a crescere. Lui è mio papà come è padre per molti di noi qui presenti.
Padre Giordano è così: non riesce mai a tenere il suo entusiasmo, i suoi ideali, la sua fede, Dio, le sue sfide e il suo ardore missionario solo per sé.
Dal profondo del cuore deve raccontarlo a tutti, deve raccontarlo al mondo.
Da quando è arrivato a Torino nel 1982 si è lanciato, da vero innamorato di Dio e della missione, instancabile, in una miriade di iniziative, tutte volte a far conoscere l’amore di Dio per l’uomo e padre Allamano, fondatore dei missionari della Consolata.
L’animazione missionaria al Cam (Centro di animazione missionaria) e nelle parrocchie, i convegni, l’impegno con Facciamo pace durante la guerra in Bosnia, l’Expo Missio durante il Giubileo del 2000 e, per ultimo, forse una delle sue più belle creature: Impegnarsi serve.
Caro Padre Giordano, ci ritroviamo oggi qui ad augurarti buon viaggio, come tu hai fatto con noi e con centinaia di giovani e adulti che hai inviato nel mondo per fare un’esperienza missionaria.
Attraverso l’associazione Impegnarsi serve, hai voluto formare tutti noi per renderci dei missionari, non solo in terre lontane, ma anche qui fra le vie delle nostre città.
Ci hai fatto conoscere e amare l’Allamano, per farci sentire parte della famiglia dei missionari e far sentire nostri i suoi comandamenti.
Di questi ho sempre pensato che tu li seguissi tutti, tranne uno: quello che dice: «Fate bene il bene e senza rumore». Tu di rumore ne hai fatto eccome, e ce ne fai fare ancora tanto, per attirare l’attenzione della gente e condurla alla visione della giusta prospettiva, nelle piazze, fra i banchi di scuola, con convegni, mostre, spettacoli, cene, messe. E tu eri sempre in prima fila, per condurci e seguirci allo stesso tempo.
Per citare una frase che dicevi spesso, ci hai lanciato tante «provocazioni» e tante «sfide», sfide che a volte avevamo timore di accettare, perché ci sembravano troppo grandi per le nostre forze. Ma tu ci hai sempre spronati a provarci e ad affidarci alla Divina Provvidenza e al supporto di Maria Consolata.
Sei stato per molti di noi un grande amico. Ci hai accompagnati nelle fasi belle della nostra vita e ci ha sostenuti nelle fasi più dure.
Resti per noi un esempio di instancabile servo di Dio, con un entusiasmo missionario che ha saputo contagiare tantissime persone.
Ora l’entusiasmo che ci hai trasmesso deve farci ripartire da qui, senza la tua presenza. Ma tu non lasciarci soli, continua a seguirci da lassù e a guidare i nostri passi perché possiamo ancora fare bene il bene e riusciamo a insegnarlo anche alle generazioni future.
Grazie Giordano! Ci mancherai tanto, ma ti promettiamo che il tuo ricordo continuerà a vivere forte in ognuno di noi e a essere di ispirazione per condurre una vita fatta di servizio e di aiuto verso gli altri.
Kwa heri Padre Giordano, Tutaonana!
I tuoi amici di Impegnarsi Serve Testimonianza di Angelo D’Auria, letta durante il funerale di padre Giordano a Rivoli (To) il 02/01/2019
Giovane: riconosci, comprendi, scegli…
Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.
Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.
Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.
Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).
In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.