Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

A proposito dell’Esodo

Ho letto l’inizio dello studio di Fracchia sull’ultimo numero della rivista, e mi sono rattristata perché vedo che tende a dare una interpretazione estremamente riduttiva della storia dell’Esodo. Ho letto due libri del prof. Anati ritrovando diverse convergenze con il testo biblico. Oltre a quelle esposte nell’articolo che allego, rilevo che, mentre Mosè era a Madian, Dio lo invia in Egitto dicendogli: «Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi verrete qui ad adorarmi su questo monte». Quando Mosè torna, trova suo suocero, che certo non era andato in giro per la penisola del Sinai. Quindi Madian. Ma non mi dilungo.

Mi dispiace soltanto che queste scoperte non vengano prese sul serio. Solo l’associazione Biblia, portando i suoi iscritti sia al Sinai, sia ad Har Karkom, ha dimostrato di aver dato importanza a questa diversa storia. Tra i partecipanti c’erano professori della Facoltà valdese di teologia (Soggin per esempio, se ricordo bene) e mio fratello, che erano rimasti molto colpiti dalla maestà di questo monte e dai reperti archeologici.

Retrodatare l’evento è un problema? Ma quante vicende umane sono state retrodatate!

Itala Ricaldone
Genova,  28/01/2021

Gent.ma signora Ricaldone,
intanto la ringrazio per la cortese e informata reazione al mio articolo. Ogni osservazione non superficiale e costruttivamente critica, come la sua, arricchisce e aiuta a chiarire o anche a ripensare le proprie espressioni.

La bibliografia e le ipotesi di spiegazione su Mosè e sul Sinai sono sterminate. Tra quelle è opportuno muoversi senza perdere d’occhio dove si vuole andare.

Lo scopo dei miei articoli sulla nostra rivista è di aiutare (e magari stuzzicare) ad affrontare di nuovo la lettura di testi biblici, scoprendoli nutrienti per la nostra fede di donne e uomini contemporanei. Per questo, tra l’altro, non si offre una bibliografia e non si giustificano le affermazioni, se non solo sul testo biblico: il mio studio alle spalle deve restare nascosto, perché l’approfondimento «accademico» non è il nostro interesse primario.

Al riguardo, le ipotesi di spiegazione archeologica della vicenda dell’Esodo sono affascinanti ma potrebbero fuorviare la nostra attenzione. Ancora oggi c’è chi contesta l’affidabilità storica della Bibbia per rifiutarne il messaggio, e chi invece crede che dimostrandone la verità storica anche il contenuto spirituale si imporrebbe come vincolante. Per questo ho accettato l’idea (ammessa e non concessa) che la vicenda dell’Esodo possa ormai contenere pochi dati affidabili, per mostrare come continui a mantenere un valore spirituale ed esistenziale prezioso. Ed è questo a interessarci, qui. Non vorrebbe essere riduzionismo, ma una scelta: privilegiare la lettura spirituale del testo su quella storico esegetica.

Grazie, in ogni caso.

Angelo Fracchia
28/01/2021

2019, marzo. Nella sua casa presso il Maria Mfariji shrine di Marsabit.

Mons. Ambrogio Ravasi

Rev.mo Padre,
ricevo da sempre la bella e ineguagliabile rivista e nell’ultimo numero ho letto con vera gioia il ritratto di mons. Ambrogio Ravasi, grande figura di missionario, servitore zelante e instancabile del Vangelo e della Chiesa. Ammirevole anche la figura di padre Gottardo Pasqualetti.

Mons. Ravasi appartiene alla schiera ormai abbastanza nutrita dei vescovi missionari della Consolata che a partire dai fratelli Perlo hanno dato lustro all’Istituto in qualunque angolo della «vigna» furono inviati, spesso da pionieri. Conservo una vecchia foto del gruppo di vescovi Imc sul sagrato di san Pietro ove si trovavano come partecipanti al Concilio.

Dalla mia raccolta di necrologi ho potuto conoscere tante di queste figure veramente affascinanti che hanno operato per impiantare avamposti della Chiesa senza mezzi, partendo dal nulla assoluto o incrementandone la presenza in zone e in tempi difficili.

Siete partiti bene col nuovo anno e spero possiate ricordarne altri di missionari chiamati al servizio episcopale in ogni continente e chi sa se un giorno non ne nasca una raccolta in volume. Nel mio piccolo penso che lo meritino assolutamente.

La ringrazio con i più deferenti saluti.

Luigi Bisignano
Lonato (Bs), 28/01/2021

 

Padre Antonio Giannelli

Sono passati 20 anni (23/01/2001 – 23/01/2021) da quando padre Antonio Giannelli Imc ha raggiunto la Casa del Padre, lasciando in tutti noi e a tutti quelli che l’hanno conosciuto un profondo vuoto. Quanti ricordi ci legano a lui, ma soprattutto nel ricordo di quello che ha saputo insegnarci, donandoci con la sua fede incrollabi!e e la sua voglia di vivere, la sua battaglia fino alla fine contro la malattia che aveva debilitato il suo fisico, ma non la sua voglia di aiutare tutti e insegnarci che la fede è la cosa più importante, quella che ci porta ad essere migliori.

Nel suo Kenya che ha vissuto per quasi quaranta anni nelle varie missioni (Rocho – Fort Hall – Gekondi – Kiangoni – Gaturi – Kerugoya – lchagaki – Tetu) padre Antonio ha saputo trasmettere, oltre le sua fede incrollabile, l’amore per gli altri, donando anche costruzioni per anziani, laboratori di sartoria, nuove chiese, fino a raggiungere una sperduta cappella, che poi diventerà la sua ultima dimora, Wamagana.

Ancora oggi laggiù se si parla di padre Antonio, hanno un ricordo vivo e tangibile. La costruzione della chiesa, dedicata alla Madonna della Cultura di Parabita, sua città natale, ma soprattutto dell’istituto da lui fondato e costruito in aiuto ai ragazzi portatori di handicap, l’Allamano special school. Dal 1996 in quell’istituto vengono accolti tutti i ragazzi in difficoltà sia fisica che psichica, ai quali viene offerto sia un aiuto completo, sia morale che materiale. Che dire di padre Antonio, uomo, ma soprattutto missionario con la «M» maiuscola che ha saputo infondere nei nostri cuori quelle cose che per lui erano indispensabili, fede, amore e carità?

Da parte nostra, oltre a continuare a ricordarlo, siamo riusciti – grazie all’aiuto di tanti amici e dei suoi parenti sempre presenti a mantenere vivo l’istituto. Speriamo, nonostante la pandemia che ci ha colpito, di riuscire a far sì che l’Allamano special school, continui a vivere per lui e per i suoi ragazzi. Tante cose sono state fatte, il pozzo, la lavanderia, l’infermeria, i dormitori, il pulmimo e tante altre cose, ma speriamo che con l’aiuto di tutti gli amici e tutte le persone che vivono ancora nel suo ricordo, possiamo continuare a far sì che l’istituto continui a esistere.

Fulvia Cattò e amici tutti
21/01/2021


Reddito universale

Buongiorno,
insieme al reddito di cittadinanza, già sperimentato in Italia da tempo, si parla (anche il Papa) di reddito universale. La pandemia aggraverà le disuguaglianze economiche, già aumentate nel nuovo millennio. Più aumenta la concentrazione della ricchezza, più peggiora «l’indice di disumanità» del pianeta. Per semplificare penso a un reddito minimo per ogni persona, da quando nasce sino alla morte, ricco o povero che sia, compensato da un sistema di prelievo fiscale fortemente progressivo. Sarebbe interessante un’opinione sulla vostra rivista a cura di Francesco Gesualdi che cura con grande passione e ricchezza intellettuale la rubrica «E la chiamano economia». Grazie per l’attenzione.

Claudio Solavagione,
08/01/2021

Ecco la pronta risposta di Francesco Gesualdi.

Il tema del reddito universale di base è tanto giusto in termini teorici, quanto complesso nella sua applicazione. La complessità deriva dal fatto che non si tratta semplicemente di garantire a tutti un ammontare di denaro, ma di assicurare che dietro a quel denaro ci sia della merce da poter comprare. Possibilità che si realizza solo se coloro che sono inseriti nella produzione mercantile accettano di rinunciare a una parte di ciò che producono in modo da accantonare la ricchezza che serve per assicurare a tutti un reddito di base. Che, tradotto, significa disponibilità a pagare tasse molto più alte di quelle pagate oggi. Perché al fondo, il reddito universale di base è una grande operazione di ridistribuzione della ricchezza mercantile prodotta: chi la produce accetta di condividerla anche con chi non la produce. Se questa disponibilità c’è, allora il reddito universale di base è possibile, altrimenti rimane un miraggio.

Per quanto ne so, al momento il reddito universale di base non esiste in nessun paese, evidentemente perché in nessuna nazione esiste una comunità con un senso di giustizia tanto elevato. E se è difficile introdurlo nelle singole nazioni, a maggior ragione è difficile prevederlo a livello planetario. Servirebbe un grande patto di solidarietà internazionale per il quale i paesi più ricchi accettano di dedicare alla cooperazione internazionale molto più dell’esiguo 0,15-0,30% del Pil che molti paesi industrializzati destinano oggi.

Ciò non di meno, in occasione del Covid, da più parti è stato auspicato che anche nei paesi più poveri venissero introdotte delle misure di protezione sociale a tutela delle fasce più fragili. Esattamente come è successo nei paesi a ricchezza avanzata che complessivamente dal marzo al dicembre 2020 hanno speso   513 miliardi di dollari in protezione sociale. I paesi più poveri ne hanno spesi solo 77, pur ospitando l’85% della popolazione mondiale. Naturalmente sarebbe servito molto di più per una protezione allargata. Al riguardo l’Undp, l’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, ha fatto varie simulazioni giungendo a cifre molto diverse a seconda della platea di persone che si prendono in considerazione e dal livello di reddito che si vuole garantire. La previsione minimale, quella tesa a garantire a un miliardo di poveri assoluti almeno un dollaro e 90 centesimi al giorno riconosciuto come limite della povertà assoluta, costerebbe un paio di miliardi di dollari al giorno ossia 720 miliardi in un anno.  Quella massimale, tendente a garantire a 2,7 miliardi di persone (il 44% della popolazione del Sud) la cifra di 5,5 dollari al giorno ritenuta necessaria per una vita minimamente dignitosa, costerebbe 15 miliardi al giorno, ossia 5.400 miliardi in un anno. Cifra importante, dal momento che rappresenta il 6,5% del prodotto lordo mondiale, ma non impossibile da raggranellare.

Si potrebbe cominciare esonerando i paesi del Sud dal pagamento del servizio del debito che nel 2020 è stato pari a 320 miliardi di dollari. Ma in questo campo il massimo che i paesi ricchi hanno accettato di fare è stata la sospensione del servizio del debito per i paesi più poveri finché la pandemia non sarà passata. Qualcosa come 30 miliardi di dollari per gli anni 2020-2021, che è meglio che niente. Ma considerato che si tratta solo di un rinvio e non di una cancellazione, non ci porta molto lontano.

Matteo p Pettinari con la mamma in mezzo a bambini

Mamma missionaria

Il 23 gennaio scorso, lo stesso in cui 25 anni prima i missionari della Consolata iniziavano l’avventura missionaria in Costa d’Avorio, Roberta Mazzanti, mamma di padre Matteo Pettinari, ci ha lasciati. «Come abbiamo cantato con lei poche ore prima che partisse per il Paradiso, la sua vita è tata per noi e per tutti quelli che l’hanno conosciuta “dono di Lui e del suo immenso amore”».

Mamma Roberta (nella foto con padre Matteo a Dianra) è stata missionaria fino in fondo con il figlio missionario. Con padre Matteo ringraziamo il Signore per il dono che lei è stata per tutti noi.




Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»

testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |


Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.

Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.

Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.

Consacrazione e piscopale di mons Ambrogio Ravasi a bellusco, suo paese natale, da parte del card Otunga e dei vescovi Gatimu e Njenga dal Kenya.

Un uomo gioioso

Consacrazione episcopale di mons Ambrogio Ravasi a Bellusco.

Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.

Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.

Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.

1971, in Kenya

Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.

Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.

Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.

Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.

La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.

Mons Ambrogio Ravasi in dialogo con donne samburu all’inaugurazione e benedizione della nuova chiesa di Lodokejek.

Nel 1981, vescovo

Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.

La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.

2002 a Tuthu, mons Ravasi durante la celebrazione del primo centenario della presenza dei missionari della Consolata in Kenya.

La diocesi nata grande

Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.

Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.

Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.

Inaugurazione e benedizione della nuova chiesa (ancora incompleta) della cappella di Lemsigiyioi a Suguta Marmar, voluta da padre Luigi Andeni e benedetta da mons Ambrogio Ravasi.

Impegno continuo

Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.

Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.

Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.

Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.

Vescovo emerito

Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.

Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.

Al Maria Mfariji shrine di Marsabit presso la tomba di padre Paolo Tablino.

Maria Mfariji Shrine

Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».

Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.

L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.

Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.

Gennaio 2009, nel Consolata shrine di Nairobi al funerale di padre Giuseppe Bertaina.

Come Mosè sul monte

L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.

Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.

«Maisha magumu»

Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.

Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni

Mons Ravasi ritratto ai piedi della croce in uno dei 43 grandi dipinti sulla storia della Salvezza al Maria Mfariji shrine di Marsabit.


Dai campi della Brianza alle savane del Kenya

  • 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
  • 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
  • 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
  • 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
  • 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
  • 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
  • 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
  • 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
  • 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
  • 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
  • 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
  • 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
  • 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
  • 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.

 

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