Incontro con i Kukama nella capitale amazzonica peruviana


Non è più tempo di nascondersi o di subire passivamente. Come tanti altri popoli, anche i Kukama hanno scelto di uscire allo scoperto per difendere con orgoglio il loro essere indigeni con le proprie consuetudini di vita e credenze. Come testimonia la storia di Rusbell Casternoque, apu (cacique) di una piccola comunità kukama nei pressi di Iquitos che ha lottato lungamente per ottenere il riconoscimento giuridico da parte dello stato peruviano.

Iquitos. Nell’angusto ufficio del Caaap – Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica – non ci sono finestre e fa un caldo soffocante. Dobbiamo accendere il ventilatore anche se il rumore delle pale disturba la conversazione.

L’interlocutore è l’apu (cacique) di Tarapacá, piccola comunità kukama sul fiume Amazonas, vicino a Iquitos. Si chiama Rusbell Casternoque Torres e ha un volto segnato dal sole, folti capelli neri, baffetti appena accennati e un bel sorriso.

Si presenta: «Appartengo a un popolo che risiede in tutta l’Amazzonia di Loreto. Un popolo al quale piace vivere in tranquillità. Avere cibo tutti i giorni. Cerchiamo di essere in armonia con gli esseri spirituali che vivono vicino a noi, nell’acqua e nel bosco. Parliamo con loro attraverso i nostri sabios e curanderos ogni volta che ce ne sia la necessità. Per esempio, quando si tratta di curare una persona».
Rusbell non parla esplicitamente di sumak kawasy, il «buon vivere» indigeno, ma il concetto è quello.

I Kukama sono tra i popoli indigeni più numerosi della regione di Loreto. Si parla di almeno 20mila persone. Abitano principalmente lungo il fiume Marañón. A parte qualche eccezione come quella rappresentata dalla comunità guidata da Rusbell.

La lotta per il riconoscimento

La storia di quest’uomo di 61 anni è a suo modo esemplare. Rusbell e gli abitanti di Tarapacá – 60 in tutto – hanno lottato a lungo perché volevano essere riconosciuti come indigeni e come kukama, un popolo cacciato – alla pari di tantissimi altri – dalle proprie terre ancestrali, per fare spazio alle compagnie petrolifere, del legno o turistiche. Dopo secoli di sottomissione o anonimato, da alcuni decenni i Kukama hanno riscoperto la propria identità e l’orgoglio dell’appartenza.

Oggi Tarapacá è riconosciuta dalla legge peruviana come Comunidad nativa kukama-kukamiria, ma è stato un processo lungo e pieno di ostacoli. «Ci dicevano che siamo troppo vicini a Iquitos, che non parliamo la lingua indigena, che siamo meticci».

La Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata anche dal Perù, nel secondo comma dell’articolo 1 prevede che un criterio fondamentale per essere riconosciuti come indigeni sia il «sentimento di appartenenza», vale a dire l’autoriconoscimento. Nonostante questo fondamento giuridico, Rusbell e la sua comunità – affiancati dagli esperti del Caap – hanno dovuto affrontare vari gradi di giudizio prima di vedere accolta la propria istanza.

Il riconoscimento legale – che spetta al ministero peruviano dell’Agricoltura – ha una conseguenza pratica rilevante: l’ottenimento della «personalità giuridica» da parte della comunità indigena. A partire da questa è possibile chiedere allo stato molte cose: la costruzione di una scuola o di un centro di salute, la fornitura di acqua adatta al consumo e, soprattutto, la titolazione delle terre ancestrali come previsto dall’articolo 89 della Costituzione peruviana.

La proprietà delle loro terre è imprescrittibile, afferma la norma. La realtà mostra però situazioni diverse. L’esempio più clamoroso viene dalla Riserva nazionale Pacaya Samiria (dal nome dei due fiumi che la attraversano).

Sulla loro terra

Inaugurata nel 1982, Pacaya Samiria ha un’estensione di quasi 21.000 chilometri quadrati (come la metà della Svizzera). Situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Marañón e Ucayali, all’interno della cosiddetta depressione Ucamara (Ucayali-Marañón), la riserva è un gioiello di biodiversità. La gran parte dei turisti che la visitano – sono circa 12.000 all’anno, di cui la metà stranieri – non sa però che la riserva si fonda su una serie di ingiustizie. Essa infatti è situata sul territorio ancestrale dei Kukama, ma questi – a parte alcune comunità che hanno resistito – non lo abitano più da quando ne furono espulsi. «Hanno presentato la riserva mostrando gli animali, ma dimenticando gli uomini», commenta Rusbell con una triste sintesi.

All’ingiustizia perpetrata ai danni degli indigeni lo stato peruviano ha aggiunto anche la beffa di permettere l’estrazione petrolifera all’interno della riserva (dal lotto 8X, che dispone di vari pozzi). E, come ampiamente prevedibile, l’attività ha prodotto inquinamento. Come accaduto, fuori dalla riserva, con il lotto petrolifero 192 (gestito dalla canadese Frontera Energy, che ha sostituito l’argentina Pluspetrol Norte) e con l’oleodotto Nor Peruano di Petroperú.

Nell’affrontare l’argomento Rusbell si scalda. Parla con passione. Nelle parole e nei gesti.

«Tutto ciò che viene chiamato investimento in terra indigena è impattante – spiega -. Imprese del legno, imprese turistiche, compagnie petrolifere. Queste ultime sono entrate da più di 40 anni e che hanno fatto? Dicevano che avrebbero portato sviluppo, ma non c’è stato. Anzi, cosa c’è ora nei luoghi dove esse hanno operato? Ecco, qui sta la disgrazia, la disgrazia (lo ripete due volte, ndr). Lo dico chiaramente, con rabbia e collera. Hanno lasciato terre e acque inquinate. Dove andrà la gente a seminare e a pescare?».

I Kukama sono uno dei popoli indigeni che mangia più pesce. L’inquinamento delle acque dei fiumi è per loro un colpo mortale.

«Ci sono – spiega l’apu – molte persone con metalli pesanti nel sangue che stanno morendo lentamente. Per non dire quelli infettati dal virus dell’epatite B. C’è qualcuno del governo che prende posizione per noi? Siamo dei dimenticati».

Rusbell ricorda che la stessa mancanza di consulta previa (consultazione preventiva) con le comunità indigene – prevista dall’articolo 6 della Convenzione 169 (e dalla legge peruviana n. 29785 del 2011) – stava per accadere per il megaprogetto cinoperuviano noto come Hidrovía Amazónica, che mira a realizzare una via navigabile di oltre 2.500 chilometri usando i corsi dei fiumi Marañón, Huallaga, Ucayali e Amazonas. Questa volta non è andata così: la consultazione è avvenuta. Tanto che, a luglio 2017, il governo peruviano ha annunciato di aver sottoscritto 70 accordi con 14 popoli indigeni. Occorrerà però aspettare per dare un giudizio definitivo perché le organizzazioni indigene sono tante e spesso in contrasto tra loro.

E?poi non c’è soltanto questo. Come per altre tematiche, anche per la Hidrovía Amazónica non è soltanto una questione di impatto ambientale e pareri preventivi, ma anche di cosmovisione o, per dirla meglio, di cosmologia amazzonica.

«Ridono di noi»

Quando si entra nel campo della cosmologia amazzonica, non è facile seguire i discorsi di Rusbell. Che abbia una mentalità laica o religiosa, nell’ascoltatore non indigeno prevalgono pensieri dettati dalla razionalità e dalla logica. Tuttavia, la conoscenza della cosmovisione è indispensabile per avvicinarsi alla comprensione del mondo indigeno.

Per i Kukama esistono vari mondi (di norma 5: terra, acqua, sotto l’acqua, cielo, sopra il cielo), abitati da esseri che influenzano – nel bene e nel male – la vita delle persone. Così c’è il mondo in cui viviamo, abitato da gente, animali, piante, spiriti buoni e spiriti cattivi. E c’è il mondo che sta sotto l’acqua, dove vivono sirene, yakurunas (gente dell’acqua) e la yakumama (la madre delle acque rappresentata da un enorme serpente). Così, ad esempio, quando le persone muoiono affogate e non se ne ritrovano i corpi, si dice che sono andate a vivere nel mondo sotto l’acqua. E le famiglie coltivano la speranza di rimanere in contatto con loro tramite gli sciamani. Per tutto questo i Kukama hanno un forte vincolo e un grande rispetto per i fiumi e per l’acqua.

«Altro tema è la nostra credenza: noi crediamo che dentro l’acqua ci siano esseri viventi. Hanno mandato scienziati con apparecchiature sofisticate per cercarli, ma hanno visto soltanto terra. È che vivono in maniera sotterranea: lì stanno. Escono quando i nostri curanderos ne hanno bisogno. Per aiutare a curare. Quanti bambini kukama sono stati rubati dalle sirene e, dopo anni, sono tornati per dire: “Mamita, sono vivo. Non preoccuparti. Là dove vivo mi sono fatto una famiglia”. Siamo orgogliosi di poter dire che noi abbiamo nostre famiglie che vivono sotto l’acqua. Questa è una realtà. Nella mia comunità c’è un vecchietto di 75 anni. Egli parla direttamente con la sirena. Questa esce dall’acqua e conversa con lui in persona. Noi ci crediamo, ma, se lo diciamo ad altri, questi ridono e dicono che siamo matti».

Rusbell parla con convinzione davanti a un interlocutore non sufficientemente preparato in materia. Riesco solamente a domandare se Tarapacá abbia uno sciamano. «Sì, abbiamo uno sciamano che è anche curandero». Poi, per riportare la discussione su livelli più comprensibili alla mentalità occidentale, chiedo a Rusbell come sia diventato apu.

«Si chiama la comunità all’assemblea. Si propongono i candidati. E poi si discute finché ne rimane soltanto uno. Così sono stato eletto anch’io. Sono apu dal 2011. Nel 2019 si riconvocherà l’assemblea che può rieleggermi o cambiare. L’apu è il rappresentante della comunità, la sua massima autorità. Egli però agisce secondo le direttive dettate dalla collettività. Sono aiutato da una giunta comunitaria composta da quattro persone».

La lingua perduta

L’identità culturale di un popolo passa anche attraverso la propria lingua. Chiedo a Rusbell quale sia la sua.

«Parlo kukama e castigliano. Quest’ultima è la lingua più parlata perché il nostro popolo è stato quello più sottoposto alla “castiglianizzazione” da parte dei meticci. La verità è che stavamo perdendo la nostra lingua, ma ora stiamo recuperandola. Stiamo imparandola di nuovo. Per fortuna, sono rimasti alcuni vecchietti che parlano il kukama, ma non lo usavano più per vergogna. E poi ci sono alcuni insegnanti bilingue che stanno insegnando ai nostri bambini».

Lo metto in difficoltà quando gli domando una conclusione in lingua kukama. Ride. «No, no, non sono in grado. Sto ancora imparando».

Rusbell Casternoque, apu di Tarapacá, non parla (per ora) la lingua madre, ma non per questo è un meticcio. È un kukama e lo rivendica con orgoglio.

Paolo Moiola


La responsabile del Caaap di Loreto

Dimenticati e inquinati

Dimenticati dallo stato, i popoli indigeni si trovano ad affrontare le conseguenze
dell’inquinamento di fiumi e territori. Anche per questo molti di loro emigrano verso le città dove però trovano discriminazione e altre difficoltà. Conversazione con l’avvocata Nancy Veronica Shibuya, che con il Caaap combatte al loro fianco.

Iquitos. Nel 1974 nove vescovi cattolici dell’Amazzonia peruviana crearono il «Centro amazzonico di antropologia e di applicazione pratica» (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica, Caaap), un’associazione civile che aveva l’obiettivo di servire le popolazioni emarginate, in particolare i popoli indigeni.

Nancy Veronica Shibuya è una giovane avvocata di 36 anni che dal 2012 lavora con il Caaap come responsabile della regione di Loreto. Quando la incontro nell’ufficio di Iquitos mostra un atteggiamento molto professionale, ma già dalle sue prime risposte traspare la passione per quello che fa, per i diritti che ogni giorno cerca di difendere o conquistare.

Veronica, quali sono i problemi principali dei popoli indigeni?

«Sono tanti. A iniziare da quelli che debbono affrontare nei loro territori a causa di  attività estrattive, deforestazione, inquinamento da petrolio. Quest’ultimo è tremendo perché colpisce in maniera diretta attraverso l’acqua, la terra, l’aria.

Oltre ai problemi ambientali che sono quelli più urgenti, ci sono quelli dovuti al mancato rispetto dei diritti alla salute e all’educazione come per tutti gli esseri umani. E ancora quelli sociali: alcolismo, prostituzione, tratta di persone».

Tratta di persone?

«Certo. Ci sono giovani donne indigene che sono state rapite e portate in altre zone del paese o fuori del paese. La regione di Loreto è nota anche per questo».

Si dice che un indigeno abbia verso la natura una sensibilità molto superiore a quella di un non indigeno. È una realtà o un mito?

«È così: esiste una differenza di sensibilità molto marcata. Un cittadino vede il taglio degli alberi come una necessità per avere legno. Al contrario, un indigeno ha molte difficoltà a tagliare un albero perché questo può avere un significato particolare o naturalistico o spirituale. Lo stesso vale quando s’inquina una laguna dato che per gli indigeni l’acqua significa vita, alimento, continuità. Il cittadino comune lo vede semplicemente come un reato e nulla più.

È difficile riuscire a comprendere la mentalità indigena che vede gli essere umani connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Nel momento in cui riusciremo a comprendere questo, riusciremo a comprendere anche il rapporto tra gli indigeni e l’Amazzonia».

L’Amazzonia è veramente in pericolo?

«Chiaro che è in pericolo. Un pericolo costante dovuto alla depredazione e alle minacce derivanti da megaprogetti, attività estrattive, indifferenza dello Stato. E parlo non soltanto dell’Amazzonia peruviana, ma dell’intera Amazzonia. Non sappiamo se, da qui a qualche anno, un ambiente come questo esisterà ancora».

 Quando non vince l’indifferenza, prevalgono frustrazione e impotenza. Che si può fare?

«Finché non sensibilizziamo ogni persona a rispettare l’ambiente circostante, poco o nulla possiamo fare. Certo, non dipende soltanto dal singolo individuo, ma dalla collettività nel suo insieme. E poi è necessario che lo stato assuma il suo ruolo a difesa dell’Amazzonia, delle risorse, dei popoli che vi vivono, esseri umani che meritano lo stesso rispetto che noi esigiamo».

Che tipo di lavoro svolge il Caaap?

«Il nostro lavoro con le comunità indigene è multidisciplinare. Significa che esse ricevano non solo un’assistenza tecnica e legale, ma anche formativa».

Esempi concreti di assistenza quali possono essere?

«L’assistenza legale può riguardare i rapporti giuridici con le istituzioni dello stato, ad esempio sulle questioni legate alla terra. Quella tecnica per spiegare come funziona qualcosa, ad esempio – per rimanere sull’attualità – il progetto di idrovia amazzonica. La formazione, infine, avviene con incontri e assemblee sulle tematiche più varie».

Come scegliete le comunità presso cui operare?

«Passando attraverso le organizzazioni indigene. Come Acodecospat (Asociación cocama de desarrollo y conservación san Pablo de Tipishca) di cui fanno parte 63 comunità kukama. O come Acimuna (Asociación civil de mujeres de Nauta) che raggruppa donne kukama discriminate o maltrattate. O ancora come Oepiap (Organización de estudiantes de pueblos indígenas de la amazonía peruana) in cui confluiscono studenti indigeni di varie etnie. Recentemente abbiamo iniziato a lavorare affiancando il Vicariato San José del Amazonas con le popolazioni indigene della conca del Putumayo. Ci sono Ocaina, Kichwa del Napo, Yaguas e Huitoto».

Veronica, non esiste un pericolo di neocolonialismo?

«Io credo che sia un problema sempre latente. Finché tutti i popoli indigeni non saranno consapevoli dei loro diritti esisterà questo pericolo».

Come Caaap lavorate molto con i Kukama.

«Sì, perché qui è l’etnia più diffusa. Negli anni hanno perso la propria lingua, rimasta viva soltanto negli anziani. Oggi però lottiamo al loro fianco per un’educazione bilingue. Il Kukama vive in stretta connessione con il fiume. Il suo alimento principale è il pesce. Oggi però il Marañón, il fiume lungo il quale vive la maggior parte dei Kukama, è così inquinato che le autorità statali hanno dichiarato che la sua acqua non è adatta al consumo umano e di conseguenza i pesci che in essa vivono.

Dato che il Kukama è un grande consumatore di pesce, le conseguenze dell’inquinamento sono molto pesanti. Tra l’altro, in quanto uomini di pesca, le loro attività agricole sono sempre state limitate. Hanno piccoli appezzamenti di terreno coltivati a riso, juca e platano».

Da tempo si assiste a una migrazione dalle comunità indigene sparse nella foresta amazzonica verso le città come Iquitos. Come lo spiega?

«La migrazione dei popoli indigeni verso la città è dovuta all’abbandono da parte dello stato. Ci sono carenze molto gravi. Pensiamo al diritto alla salute. Le comunità indigene non hanno centri di salute. Non ci sono opportunità di lavoro per gli adulti e d’istruzione per i figli. Le persone emigrano per cercare di soddisfare necessità fondamentali».

Chi emigra in città trova un’esistenza diversa e soprattutto altri problemi.

«Chiaro che c’è differenza tra gli indigeni che vivono nelle comunità e quelli che sono venuti a vivere in città. Nelle comunità c’è una totale di libertà di espressione, in città non è così. Nelle comunità un indigeno sta in contatto permanente con la natura e le sue risorse. È circondato dalla famiglia e ci sono vincoli stretti tra gli uni e gli altri. Venendo in città, la maggior parte degli indigeni si lascia influenzare dalla cultura occidentale. Si ritrova in balia di situazioni che spingono gli indigeni a negare la propria identità culturale. La negano per l’obiettivo di essere accettati in determinati ambiti sociali. La realtà racconta però che la maggioranza degli abitanti è indigena. Se poi glielo chiedi, ti risponderanno: “No, io sono della città”, “No, io vivo a Iquitos”, “No, io sono di Iquitos”».

Mi ha detto che voi lavorate anche con un’organizzazione di studenti indigeni. Per quale motivo?

«Nelle comunità i giovani indigeni non hanno la possibilità di avere un’educazione superiore. Quando alcuni di loro vengono in città ed entrano in un istituto superiore, per essere accettati, negano da dove vengono o chi sono. Anche se l’aspetto fisico o il nome dicono molto, loro continuano a negare.

È una lotta costante contro la discriminazione. Noi come associazione li sosteniamo per rafforzare il loro lato identitario, perché non perdano il senso della loro provenienza e il loro essere. Un esempio. Al contrario dei Kukama, gli Awajún (o Aguaruna della famiglia linguistica jíbaro, ndr) continuano a sviluppare la propria lingua. Eppure, in ambito scolastico o lavorativo anch’essi in generale negano la loro identità».

Voi siete un’istituzione della Chiesa cattolica. In più occasioni papa Francesco ha chiesto perdono per gli errori commessi nei confronti dei popoli indigeni.

«Storicamente, nel processo di evangelizzazione la Chiesa ha commesso molti errori. Ha avuto un atteggiamento impositivo che ha causato molti danni. È stato chiesto perdono. Oggi il volto della Chiesa è cambiato: è una chiesa itinerante, più vicina ai popoli e ai deboli. E il Caaap ne è un esempio concreto».

Paolo Moiola




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




È l’Amazzonia

Testi e foto di Paolo Moiola |


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

AMAZZONIA
I numeri, le ricchezze, le minacce

Da conquistatori a protettori
A colloquio con padre Angelo Casadei

«Essere custodi è la nostra responsabilità»
Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

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Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

La «minga»?del?vicariato?di Puerto?Leguízamo-Solano

L’Amazzonia è una regione unica. Per millenni abitata solamente da popoli indigeni, oggi ospita anche altre popolazioni. Gli uni e gli altri debbono affrontare molti problemi, perché la foresta si è trasformata in un luogo ambito a causa delle sue ricchezze. Il giovane Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano ha invitato decine di persone dei tre paesi confinanti – Perù, Ecuador, Colombia – sui quali si estende il suo territorio, per discutere su come difendere l’Amazzonia dall’assalto degli sfruttatori. Ha chiamato quest’evento «Minga amazónica fronteriza».

Verso Puerto Leguízamo, Colombia. Nel piccolissimo aeroporto di Puerto Asís non è facile avere informazioni. Non ci sono né monitor né annunci. L’aereo della Satena, la compagnia colombiana gestita dai militari, che ci ha portato qui da Bogotà, è ora fermo sulla pista. Finalmente un addetto ci spiega che a Puerto Leguízamo, meta del viaggio, sta piovendo a dirotto e pertanto la partenza è rimandata finché le condizioni meternorologiche non miglioreranno. Di norma nelle zone equatoriali le piogge sono molto intense ma si esauriscono in poco tempo. In ogni caso non c’è alcuna protesta dei viaggiatori visto che nessuno desidera imbarcarsi su un volo rischioso. All’improvviso viene aperta la porta che conduce sulla pista dove è posteggiato l’aereo (l’unico aereo). Saliamo la scaletta fiduciosi di riprendere il viaggio. Mi sistemo accanto al finestrino con la macchina fotografica nella speranza di poter immortalare qualche immagine dall’alto. Il volo si svolge tranquillo, a parte qualche prevedibile scossone. Nuvole nere impediscono di vedere bene la terra sottostante. Tuttavia, non mancano squarci nel cielo che consentono di ammirare i luoghi sorvolati. È una visione che affascina ma che al tempo stesso fa riflettere e intristire. Sotto è Amazzonia e il verde domina ancora incontrastato, ma gli spazi disboscati o ridotti a pascolo sono ampi. L’elemento più appariscente sono i fiumi, tanti, lunghi e sinuosi. Le loro acque non appaiono blu o verdi, ma marroni come la terra che trasportano.

Il volo dura circa un’ora. Nonostante la pioggia, l’atterraggio è relativamente facile. L’aeroporto di Puerto Leguízamo è costituito da una pista malconcia in mezzo alla campagna e una casetta bassa e anonima verso la quale s’incamminano i passeggeri di Satena. La pista è delimitata da una rete metallica oltre la quale s’intravvedono alcuni mototaxi, veicoli a tre ruote che costituiscono il mezzo di trasporto di gran lunga più diffuso. E, subito dietro, un grande cartellone sbiadito da sole e acqua che dà il benvenuto a Puerto Leguízamo, cittadina allungata lungo le rive del Putumayo, con il Perù di fronte e l’Ecuador poco sopra.

Sul volo ho incontrato padre Francisco Pinilla, colombiano e missionario della Consolata che lavora da queste parti da sei anni e che sta andando proprio dove vado io. Ne approfitto subito per chiedere una descrizione del luogo.

«Siamo – spiega – più o meno al centro del 6% dell’Amazzonia che la Colombia possiede. Contando tutto il municipio, qui vivono all’incirca 40mila abitanti». Di cosa vivono? «Un tempo si producevano riso, frutta, platano, yuca, però ultimamente la gente preferisce produrre altre cose (il padre si riferisce alla coca, ndr) che danno più reddito. Quindi, i prodotti locali sono andati sparendo». Per arrivare fino a qui ci sono due modalità. «Sì – conferma il missionario -, come siamo venuti, in aereo, con la compagnia della Forza aerea colombiana, e attraverso il fiume da Florencia o da Puerto Asís in 8-10 ore di viaggio».

Il viaggio per fiume, molto più lungo ma molto meno costoso di quello aereo, fino a qualche mese fa non era accessibile a tutti per la presenza delle Farc, che potevano fermare o sequestrare le persone giudicate non gradite. Dopo la firma degli accordi di pace (novembre 2016), la situazione è divenuta assai più tranquilla.

Sotto una leggera pioggia saliamo su un mototaxi. Per conversare occorre parlare a voce alta perché il rumore del veicolo è assordante ed anche la strada – stretta e dissestata – non agevola il dialogo tra i due passeggeri. Il paese è cresciuto lungo quest’unica arteria. Nostro destino è la sede del giovane Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che ha organizzato un incontro internazionale sull’Amazzonia: la «Minga amazónica fronteriza». Minga è un termine kichwa che indica un lavoro collettivo e gratuito di carattere temporaneo.

Iscrizione dei partecipanti

L’Amazzonia, da cortile a piazza centrale

L’albero simbolo dell’Amazzonia

All’incontro sono iscritte 147 persone: 32 provenienti dal Perù, 11 dall’Ecuador e 103 dalla Colombia (più una dall’Italia: chi scrive), tutte ospitate nelle strutture del Vicariato. In ognuno dei tre giorni (6-8 novembre 2017) è prevista l’esposizione di un esperto che parlerà di Amazzonia alla luce del motto della minga: Somos territorio, somos pobladores, somos cuidadores. La minga prevede però la partecipazione attiva di tutti. Per questo gli iscritti sono stati divisi in 11 gruppi o tavoli di lavoro: dai contadini ai cacique e governatori, dai laici missionari ai vescovi. Ogni gruppo dibatterà sugli interventi ascoltati in sala partendo dalle risposte ad alcune domande. Le considerazioni verranno quindi esposte da un portavoce di ciascun gruppo davanti all’assemblea riunita in seduta comune.

Nell’aula magna del Centro pastorale del Vicariato, sullo sfondo di un suggestivo albero di cartapesta (opera del padre Carlos Alberto Zuluaga), vengono cantati gli inni nazionali di Ecuador, Perù e Colombia. È mons. Joaquin Pinzón, il padrone di casa, a dare il benvenuto agli ospiti e aprire il convegno. Ma sono due indigeni shuar ecuadoriani, Bosco Guarusha e il figlio Daniel Guarusha, a offrire un senso mistico all’inaugurazione della minga con una cerimonia di purificazione (la cosiddetta «limpia») molto coinvolgente e partecipata.

Il primo intervento è di Maurizio López, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). «Per molti anni – spiega il relatore – l’Amazzonia è stata considerata come il “cortile sul retro”. Si parlava di “terra senza uomini per uomini senza terra”, di “territorio di indios da addomesticare”, di “inferno verde”. Oggi l’Amazzonia si è trasformata nella “piazza centrale”. E non si capisce cosa sia meglio visto che oggi ci sono tanti occhi e tanti pareri su questa realtà. Se prima era un luogo da addomesticare e civilizzare, adesso la si vede come dispensa per lo sviluppo del mondo. Il che conduce a un “estrattivismo” che si comporta come se qui non ci fosse nessuno. Come se questi territori non avessero una loro popolazione, identità, cultura ed anche una loro sacralità».

Per di più – spiega ancora – oggi l’Amazzonia viene distrutta non per ripartire in maniera equa le sue ricchezze, ma perché esiste una corsa all’accumulazione senza fine. «Come dice papa Francesco – conclude Maurizio López -, siamo davanti a una crisi che è ad un tempo sociale e ambientale».

In sala da pranzo

Dal «grande vuoto» ai selvaggi da umanizzare

L’antropologo peruviano Javier Gutiérrez Neira inizia il suo intervento citando dati archeologici che certificano la presenza umana in Amazzonia almeno da 12mila anni avanti Cristo. Smentita scientifica al mito del «gran vuoto amazzonico», successivamente sostituito da quello delle popolazioni selvagge da umanizzare. Azione che ebbe il suo apice con il genocidio avvenuto durante l’epoca del caucho (1840-1915), quando più di 30mila indigeni – principalmente Huitoto, Ocaina e Resigaro – vennero ridotti in schiavitù o sterminati. Rispetto al passato, oggi sono cambiate le condizioni generali (alle popolazioni autoctone si sono aggiunti gli abitanti meticci), ma non lo stato di conflitto.

I governi – spiega l’antropologo – hanno lottizzato l’Amazzonia dandola in concessione per molti anni a società minerarie e petrolifere, «senza considerare gli impatti sui territori indigeni e sulla stessa Amazzonia, la quale durante oltre 50 anni d’estrazione petrolifera ha conosciuto soltanto inquinamento e conflitti sociali». Nulla di più vero: in Perù, Colombia ed Ecuador, ad esempio, i conflitti ambientali in atto sono centinaia (Observatorio latinoamericano de conflictos ambientales, Olca).

Secondo l’antropologo peruviano, l’Amazzonia va pensata «da dentro» e non «da fuori». Dovrebbero cioè essere i popoli amazzonici ad avere la responsabilità di formulare una politica per l’Amazzonia e portarla all’attenzione degli stati nazionali.

Mons. Héctor Fabio Henao

La cancellazione del limite e la creazione delle necessità

Mons. Héctor Fabio Henao, direttore nazionale della Pastorale sociale della Caritas colombiana (e dal 17 dicembre anche presidente del Comitato del Consiglio nazionale per la pace, la riconciliazione e la convivenza) inizia il suo discorso dal concetto di limite. «La teoria è che la gente abbia necessità che non si saziano mai e per questo occorra produrre al massimo. È il produttivismo, cioè produrre illimitatamente per creare consumismo. Un consumismo che, a sua volta, ci porta verso uno sviluppo patologico, che chiameremo sviluppismo».

«Veramente abbiamo necessità illimitate? È sicuro che le necessità dell’essere umano non abbiano limiti? In verità, sono i sogni, i desideri a essere illimitati, mentre le necessità sono limitate». Ma come si inserisce in tutto questo l’Amazzonia? Il capitalismo, che mons. Henao definisce «uno stato dell’anima», vuole controllare completamente l’essere umano e la natura. Per questo ha messo gli occhi sull’Amazzonia. Concretamente: il capitalismo selvaggio spinge per l’estrazione delle materie prime (estrattivismo) del bioma amazzonico per alimentare una produzione senza limiti.

Mons. Henao vede il cambio corretto nelle proposte fatte da papa Francesco nella sua Laudato si’. Qui si parla di ecologia integrale e di rivoluzione della tenerezza. «Dobbiamo – conclude Henao – bandire la frase “Tutto è lecito”, visto che essa non include il futuro, non pensa cioè ad assicurare una vita dignitosa a chi verrà dopo di noi».

Gruppo di lavoro

«Cosa abbiamo capito, cosa vogliamo fare»

Dopo tre giorni di relazioni, dibattiti e incontri conviviali, l’8 novembre giunge il momento di tirare le somme. Tutti i gruppi partecipano alla stesura di un Manifesto rivolto agli abitanti dell’Amazzonia e a tutti coloro che hanno a cuore la sua causa. La dichiarazione prende atto dei grandi problemi che coinvolgono il bioma amazzonico: dallo sfruttamento petrolifero a quello minerario e boschivo, dalle monocolture all’allevamento, dal narcotraffico all’insufficiente presenza dello stato.

Quindi, richiama le autorità nazionali, internazionali e locali a comportamenti adeguati alle particolari necessità dell’Amazzonia: adottare piani di sviluppo che siano realmente amazzonici; garantire la consultazione preventiva dei popoli indigeni per qualsiasi progetto; educare le comunità locali a un trattamento adeguato dei rifiuti; incentivare le autorità accademiche allo studio scientifico della realtà amazzonica, nonché alla formazione e divulgazione delle conoscenze maturate; spingere gli agenti pastorali ad avere una parola più profetica e decisa in difesa dell’Amazzonia.

Infine, il Manifesto afferma la volontà degli estensori di partecipare attivamente alla realizzazione del Sinodo amazzonico del 2019*, accompagnare le comunità amazzoniche nella ideazione ed esecuzione di progetti sostenibili e di contrastare con determinazione tutto ciò che attenta alla vita in Amazzonia.

Un Manifesto – per propria intrinseca natura – contiene indicazioni generali e a volte generiche, soprattutto su una materia complessa com’è la realtà dell’Amazzonia. Tuttavia, esso è importante come base di partenza concettuale, per produrre una fotografia del problema e ipotizzare soluzioni, modalità d’azione, comportamenti.

Vista sul Rio Putumayo

La minga è terminata. Il giorno seguente seguo padre Fernando Florez, uno degli organizzatori più impegnati, mentre accompagna al porto di Puerto Leguízamo il gruppo di partecipanti – paiono tutti allegri – che torneranno in Ecuador e in Perù. I primi salgono su una lancia a motore per passeggeri che lascia subito la banchina e inizia a solcare le acque calme del Rio Putumayo in direzione Nord. I secondi si accontenteranno di un vecchio barcone di legno senza finestrini e con tavolacci al posto delle sedute. Il motore tuttavia pare a posto. Dato che il viaggio verso San Antonio del Estrecho durerà due giorni e non ci sono posti di rifornimento lungo il tragitto verso Sud, occorre fare il pieno di carburante. Il distributore sta sulla strada, qualche metro più in alto rispetto alla riva. Il comandante collega allora il suo barcone con la pompa di benzina attraverso un lungo tubo di gomma. Ci vuole oltre un’ora per completare il rifornimento. Alla fine il barcone prende il largo docilmente con la logora bandiera peruviana che sventola nell’aria, tra i cenni di saluto di chi è rimasto a prua e il rumore ripetitivo dei peke peke – le piccole barche a motore – che gli passano a fianco. L’Amazzonia è (anche) questo.

Paolo Moiola


AMAZZONIA

I numeri, le ricchezze, le minacce

DEFINIZIONE

Si chiama Amazzonia la regione sudamericana che ospita la maggiore foresta tropicale umida del pianeta e la più grande riserva di acqua dolce del mondo.

DATI?GEOGRAFICI

  • SUPERFICIE: 7.989.004 km2 divisi su 9 paesi;
  • PAESI: Brasile (64%), Perù (9,7%), Bolivia (7%), Colombia (6,6%), Venezuela (5,9%), Guyana (2,1%)*, Suriname (1,9%)*, Ecuador (1,6%), Guyana francese (0,8%)*; (*): paesi con territorio amazzonico posto fuori del bacino idrografico del Rio delle Amazzoni.
  • FIUMI: Río delle Amazzoni (6.992 Km, il più lungo del mondo), con migliaia di affluenti tra cui il Río Negro (2.000 km), il Río Madeira (3.240 km), il Río Putumayo (1.813 km), il Río Napo (1.130 km), il Río Marañón (1.600 km). (Fonte: Gutierrez-Acosta-Salazar, Instituto Sinchi, Colombia 2004)

DATI?DEMOGRAFICI

  • POPOLAZIONE: 38 milioni di cui 25 in Brasile e 3,7 in Perú;
  • CITTÀ PRINCIPALI: Manaus (Brasile), Belém (Brasile), Iquitos (Perú), Santarém (Brasile);
  • POPOLI?INDIGENI: circa 420 popoli indigeni (60 in isolamento) per un totale approssimativo di 1,5 milioni di persone; sono 433mila (per 240 popoli) nell’Amazzonia brasiliana e 333mila (per 52 popoli) nell’Amazzonia peruviana.

RICCHEZZE

Foreste, acqua, fauna, flora, biodiversità, risorse del sottosuolo, popoli indigeni.

MINACCE?ANTROPICHE

Attività petrolifere, attività minerarie (oro, in primis), allevamento bovino estensivo, monocolture (soia, in primis), industria del legname, coltivazioni di coca, sfruttamento delle acque dei fiumi (centrali idroelettriche), biopirateria.

(Paolo Moiola, 2018)


Da conquistatori a protettori

A colloquio con padre Angelo Casadei

Per l’Amazzonia colombiana sono mutate molte cose. I missionari, presenti dalla metà del XVI secolo, già da tempo avevano cambiato le proprie modalità di lavoro. Scegliendo di schierarsi (con convinzione) a fianco dei popoli indigeni e in difesa di un ambiente unico.

Puerto Leguízamo. «Forse anche noi missionari arrivammo con uno spirito di conquista e per accompagnare la colonizzazione di questo territorio. Oggi c’è quasi una visione opposta. Prima si parlava di conquista dell’Amazzonia, oggi si parla di protezione e conservazione. Oggi l’Amazzonia non è più soltanto la sua ricchezza ecologica, ma anche quella dei popoli che in essa vivono. C’è stato – conclude padre Angelo – un cambio di visione rispetto a quando arrivammo».

I primi missionari arrivarono da queste parti a metà del XVI?secolo, i missionari della Consolata nel 1952, padre Angelo Casadei da Gambettola nel 2005. «Però in Colombia ero già stato durante gli studi, dal 1989 al 1990», precisa.

Padre Angelo Casadei

Dalla guerra agli accordi di pace

Padre Angelo non si separa mai dalla sua Canon. Fotografa e filma tutto. E quando lo fa non passa inosservato dall’alto dei suoi 186 centimetri d’altezza. Avendo operato in Caquetà (a Remolino e San Vicente del Caguán) e in Putumayo (prima a La Tagua, oggi a Solano), il missionario è un testimone privilegiato di questa parte dell’Amazzonia che per anni è stata un feudo quasi inaccessibile delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia», le Farc.

«Era una guerra civile. All’interno di uno stesso paesino potevi trovare persone che appartenevano all’esercito e altre alla guerriglia.

Per questo dico che l’accordo di pace è stato un bene per i colombiani. Anche se permangono gruppi dissidenti, per esempio a Solano. Oggi il vero problema nasce dall’assenza dello stato. L’unica presenza sono queste grandi basi militari (il riferimento è alla base che sta accanto alla sede del Vicariato, ndr). Prima dell’accordo tra il governo e le Farc, i soldati uscivano in gruppo e rientravano in gruppo per ridurre i rischi. C’erano però vasti territori dove i militari non entravano mai e dove l’ordine pubblico era gestito dalla stessa guerriglia. Oggi, con la consegna alle autorità della gran parte dei guerriglieri, molti di questi territori sono rimasti scoperti. Se lo stato non darà segnali di presenza, il rischio è che gli spazi vuoti possano essere occupati da bande criminali o dalla delinquenza comune e le persone inizino a farsi giustizia da sé. Com’è già accaduto».

La coca e le (difficili) alternative

Il problema è reale. Le bande criminali – una delle più conosciute è La Constru – si dedicano all’attività mineraria illegale e soprattutto al narcotraffico, che è in costante aumento. Il Putumayo è il secondo dipartimento colombiano per coltivazione di coca: si stimano 25.162 ettari coltivati, il 17% del totale (146.000 ettari nel 2016, stando ai dati Simci-Unodc). Più coca significa più danni ambientali (disboscamento e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente) e più danni sociali.

Un chilo di coca – quella più grezza prodotta sul posto di raccolta delle foglie (pasta básica de cocaína) – vale oggi quasi 3 milioni di pesos (circa 870 euro).

La media di produzione per ogni ettaro coltivato è di chilogrammi 1,45 di pasta base (dati Simci-Unodc). I raccolti sono tre all’anno. I piccoli contadini che la coltivano non diventano ricchi, vivono o semplicemente sopravvivono (cosa ancora più vera per i raspachines, i braccianti giornalieri che raccolgono le foglie).

«È difficile trovare un’alternativa alla coca, soprattutto in territori isolati come questi. Un chilo di coca, che sono milioni di pesos, lo metti in uno zainetto e lo trasporti facilmente dove vuoi. Se coltivi mais o yuca o altri prodotti, la commercializzazione risulta molto più difficile. I missionari hanno proposto vari prodotti in alternativa alla coca – soprattutto cacao e caucciù -, anche se non esiste un prodotto sostitutivo perfetto. Il nostro è però anche un lavoro di coscientizzazione, per far capire alla gente cosa comporta produrre cocaina».

Se si esclude la coca, le alternative economiche praticabili ed ecosostenibili non sono molte. L’allevamento – che qui è sempre di tipo estensivo – ha effetti devastanti perché implica disboscamento. Tanto disboscamento: la media attuale è di una vacca per ogni ettaro. Quanto alle altre colture sono, almeno per il momento, troppo poco redditizie. «La foresta offre però varie ricchezze – precisa padre Angelo -. Penso alle piante medicinali. Penso alla noce amazzonica, che ha mercato e che viene coltivata da alcune comunità indigene. Penso al caucciù (caucho natural), che un tempo era una ricchezza. Penso al cacao. Penso al turismo, che qui non esiste anche se abbiamo due grandi parchi naturali, La Paya e Chiribiquete. Ovviamente dovrebbe essere un turismo con limiti ben precisi».

Militari al porto lungo il fiume

Oro e petrolio, una maledizione

Altro fattore di distruzione è stato l’espansione dell’attività mineraria illegale, in particolare quella legata alla ricerca dell’oro alluvionale. I danni prodotti dalla ricerca del prezioso metallo riguardano soprattutto la contaminazione delle acque con il mercurio. «Anche le Farc – spiega padre Angelo – usavano l’attività mineraria illegale per avere delle entrate. In particolare, chiedevano una percentuale sull’oro estratto. Oggi però la situazione pare fuori controllo».

La fine della guerra civile ha dato nuovo impulso anche all’esplorazione petrolifera nell’Amazzonia colombiana. Ecopetrol (Colombia), GranTierra (Canada), Monterrico (Perù), Amerisur (Gran Bretagna) sono alcune delle compagnie che hanno aperto campi petroliferi in Caquetà e Putumayo.

«Per le compagnie petrolifere la scomparsa delle Farc è un vantaggio perché entrano nelle zone di ricerca con più facilità. La guerriglia era contraria alla loro attività perché essa porta strade e comunicazione, rompendo l’isolamento». Contrarie sono anche la maggior parte delle comunità indigene che si trovano direttamente coinvolte nei progetti petroliferi.

«Lungo il fiume Putumayo e lungo il Caquetà ci sono molte comunità indigene di vari gruppi etnici, che da sempre vivono in questi territori. Mantengono la loro lingua e tradizioni, anche se sono comunità che sono venute a contatto con l’uomo e la cultura occidentali. E spesso sono state violentate, come all’epoca del caucciù quando moltissimi indigeni furono schiavizzati».

«Noi ci siamo assunti il compito di accompagnarli in una riflessione sul trauma subito. Per molto tempo siamo stati gli unici ad avvicinarli e aiutarli nelle loro lotte. Per questo i popoli indigeni ci guardano con rispetto».

Paolo Moiola

Mons. Jaoquín Pinzón


«Essere custodi è la nostra responsabilità»

Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Al centro dell’Amazzonia colombiana si trova il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, cinque anni a febbraio. Il vescovo Joaquín Pinzón e i suoi collaboratori hanno scelto di percorrere la strada della sostenibilità ambientale per difendere un territorio unico ma ambito e molto fragile. Un impegno complicato: gli sfruttatori dell’Amazzonia sono tanti (minatori illegali, compagnie petrolifere, coltivatori di coca, commercianti di legname, ecc.) e non paiono intenzionati ad arretrare. Approfittando anche dell’assenza dello stato.

Puerto Leguízamo. Le sei e trenta del mattino sono un buon orario per un’intervista all’aperto. Non ci sono ancora i chiassosi alunni della scuola attigua e la temperatura è ideale.

Mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza è giovane all’anagrafe e giovanile nell’aspetto. Colombiano del dipartimento di Santander, missionario della Consolata, egli ha visto nascere, crescere e cambiare il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che regge fin dalla sua fondazione, avvenuta nel febbraio del 2013. Da allora sono trascorsi 5 anni e tutt’attorno le cose sono cambiate: in primis, ci sono stati gli accordi di pace con le Farc e qui, a Puerto Leguízamo, molto più che nelle città (che infatti raccolgono la maggioranza dei contrari), i cambiamenti sono fatti quotidiani, concreti e visibili.

Monsignor Pinzón, il suo vicariato comprende municipi di tre diversi dipartimenti: Putumayo, Caquetá e Amazonas. Come descriverebbe questo territorio?

«Siamo ubicati nel cuore dell’Amazzonia colombiana. Ma allo stesso tempo siamo ai confini dell’Amazzonia peruviana e di quella ecuadoriana. In altre parole, noi non solo ci troviamo in un contesto amazzonico ma anche di frontiera. Per molti il Rio Putumayo ci divide, ma per noi non è così. Come dice padre Gaetano Mazzoleni, missionario della Consolata che ha lungamente vissuto qui, il fiume ci unisce. Il fiume ci dà la possibilità di muoverci, di trovare i prodotti per alimentarci. È la nostra “autopista fluvial”…».

Interessante la terminologia che lei usa: autostrada fluviale, autostrada d’acqua…

«In questo contesto amazzonico dove non esistono strade, il rio è la nostra autostrada. Il fiume è la possibilità per spostarci e metterci in comunicazione con altre popolazioni e altri contesti. È il nostro spazio di vita che ci mette in comunione con gli abitanti di questa Amazzonia sudcolombiana, nordperuviana e nordecuadoriana».

Popoli indigeni e non solo

Per molto tempo – per motivi politici, economici e culturali – si è sostenuto che l’Amazzonia fosse spopolata anche se era abitata dai popoli indigeni. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’Amazzonia è soltanto foresta e fiumi. Invece ci sono anche i suoi abitanti.

«Quando parliamo di pobladores (abitanti) dell’Amazzonia dobbiamo parlare di popoli, culture e famiglie da integrare. Siamo tutti pobladores di questo territorio, ma con caratteristiche molto particolari e precise. In questo Vicariato, ad esempio, ci sono molti popoli ancestrali, come i Murui (della famiglia Huitoto), gli Inga, i Koreguaje, i Siona, i Kichwa».

I popoli indigeni sono gli abitanti originari, oggi però non ci sono più soltanto loro.

«Sì, nel corso della storia, per diversi motivi e circostanze, qui sono arrivate altre persone: per cercare migliori condizioni di vita o per sfuggire alla violenza presente in altri territori. Oggi li chiamiamo campesinos, un tempo erano detti colonos. Definizione questa rifiutata dagli interessati: “Non siamo coloni. Non siamo venuti a colonizzare. Siamo abitanti di questo territorio”. Nello stesso tempo, sono cresciute le dimensioni delle città e le loro popolazioni. Insomma, l’Amazzonia odierna ospita differenti esperienze umane».

Gli accordi di pace e il vuoto di potere

Fino a pochi mesi fa Puerto Leguízamo e tutta questa regione erano sotto il controllo delle Farc. Gli accordi di pace hanno cambiato la situazione?

«Sì, l’hanno cambiata. La maggioranza degli appartenenti al movimento se ne sono andati nei luoghi di concentrazione fissati dal governo. In due territori del Vicariato rimangono piccoli gruppi dissidenti. In particolare, un gruppo venuto dall’Oriente – conosciuto come la dissidenza del Frente Primero – e altri gruppetti locali fuoriusciti dal Frente 48. Però, possiamo affermare che la situazione è cambiata perché i guerriglieri non esercitano più quel controllo sociale che avevano in gran parte di questo territorio. Quello che manca ora è una risposta del governo centrale. Le persone si domandano: oggi chi esercita l’autorità in questi luoghi? Chi comanderà d’ora in avanti? C’è incertezza. C’è paura che possano arrivare altri gruppi fuorilegge e che essi possano assumere il controllo che prima esercitavano le Farc.

Insomma, nella gente da una parte c’è contentezza per il cambiamento, dall’altra c’è sconcerto per la mancanza di risposte da parte del governo rispetto al vuoto di potere che si è creato».

Sempre più coca

Gli accordi di pace non pare abbiano cambiato l’economia della coca, che continua a essere prodotta in quantità.

«È vero: la produzione di coca prosegue. In ciò è cambiato poco. Anzi, secondo alcuni, la produzione è aumentata. Occorre riflettere sul fatto che le persone continuino a coltivare e la produzione a crescere. Il problema oggi è la commercializzazione. Anteriormente le Farc facevano da intermediarie, oggi manca questo passaggio. Pertanto, è aumentata la produzione ma è diminuita la commercializzazione. Le persone continuano a considerare la produzione di coca un’attività vitale, ma sono preoccupate per l’aspetto commerciale. Per tutto questo sulla questione della coca occorrerebbe fare una riflessione ad hoc».

È molto difficile vivere facendo i contadini. Al contrario, con pochi ettari di terra – si parla di tre – coltivati a coca si può vivere. A volte anche bene.

«Con tre ettari di coca si può vivere se le famiglie hanno esigenze limitate. È anche vero che il movimento di denaro generato dal narcotraffico ha incrementato le esigenze. Il problema vero è che non esiste una politica di sostituzione, un’alternativa che consenta alle famiglie di lasciare la coltivazione della coca per dedicarsi ad altre attività che consentano non soltanto di vivere ma di vivere degnamente».

Il porto sul fiume

Oro e petrolio sono incompatibili con l’ambiente

Altro problema che pare allargarsi è legato all’attività mineraria, in particolare quella illegale connessa alla ricerca dell’oro.

«L’attività mineraria illegale è un problema piuttosto serio, perché essendo illegale non esiste alcun controllo. Costoro arrivano e si stabiliscono in luoghi dove si possano nascondere da sguardi indiscreti. Questo genera una situazione molto difficile perché essi praticano l’attività senza preoccuparsi di usare metodi che riducano gli effetti sull’ambiente. A queste persone interessa soltanto estrarre il minerale, in questo caso l’oro, senza alcuna precauzione che consenta di mitigare l’impatto ambientale».

Già da alcuni anni si parla di tonnellate di mercurio riversate nei fiumi colombiani (Estudio Nacional del Agua 2014). Il problema riguarda anche il río Putumayo?

«Sì, nel río Putumayo si utilizza il mercurio. Questo ha generato e continua a generare problematiche. Contaminando il fiume, contaminano il pesce e quindi coloro che lo consumano. A poco a poco, le persone si caricano di questo metallo che l’organismo non è in grado di trattare».

Nel vicino Ecuador e nel Nord del Perù le imprese petrolifere stanno distruggendo l’Amazzonia e inquinando i fiumi. Com’è la situazione qui in Colombia?

«Rispetto alle compagnie petrolifere, al Nord del Putumayo – nella zona di Puerto Asís, in particolare – stanno avvenendo delle esplorazioni per capire se c’è la possibilità di estrarre petrolio. In questo momento sono in corso dialoghi con le comunità interessate, anche se alcuni di questi sono viziati da interessi economici. Le persone non sono state sufficientemente preparate e così accade che, con un po’ di denaro, a volte vengono comprate. Le persone non hanno la possibilità di raggiungere la consapevolezza dell’impatto che le attività petrolifere possono produrre».

I perché di una minga amazzonica

Il suo Vicariato ha organizzato – novembre 2017 – una «minga amazónica fronteriza». Perché avete usato il termine «minga»?

«Minga è parola kichwa che significa offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro. Nella pratica, si traduce in un’esperienza di lavoro comunitario che porta beneficio a tutti e nel quale tutti apportano ciò che hanno. In altre parole, tutti mettiamo i nostri sforzi in una causa comune per ottenere un beneficio comune. Per questo noi abbiamo voluto dare al nostro incontro di riflessione la categoria della minga. Creare uno spazio di riflessione comune».

Lo slogan continuamente richiamato durante la minga è stato «Amazonia, contexto de vida que une orillas», un contesto di vita che unisce le sponde. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa unione.

«Qui a Puerto Leguízamo si è unito un buon gruppo di persone della Colombia, del Perù e dell’Ecuador. Abbiamo avuto come ospiti i vescovi di San Miguel del Amazonas (Perù), di San Vicente e di Florencia. Abbiamo avute persone che si muovono da diverse prospettive rispetto a quella ecclesiale: persone delle amministrazioni (come il sindaco di Puerto Leguízamo), di organismi ecuadoriani, di organizzazioni ambientaliste.

Tutte istituzioni e persone a cui interessa la cura di questo contesto di vita. Tutti riuniti per una causa comune: come essere abitanti responsabili che cercano uno sviluppo sostenibile, cioè che non danneggi ma al contrario protegga il contesto amazzonico in cui ci ritroviamo a vivere.

Dalla minga siamo usciti tutti contenti e desiderosi di trasformarci in difensori di questo territorio e di questo spazio di vita. Le istituzioni pubbliche, quelle ambientali e quelle ecclesiali. Tutti desiderosi di trasformarci in piccoli cuidanderos».

Quindi, in epoca di sfruttamento dell’Amazzonia, voi volete esserne curatori, difensori, protettori: una bella responsabilità.

«Il motto completo della minga era: “Somos territorio, somos pobladores, somos cuidanderos”. L’ultima parola non è in un castigliano perfetto: in realtà, dovrebbe essere cuidadores. Ma abbiamo usato questa perché è un termine che usano le persone di qui quando affidano il loro campo a qualcuno perché lo curi bene. Dunque, non explotadores, ma al contrario cuidanderos».

il gruppo di lavoro dei vescovi a Puerto Leguízamo; da sinistra in senso orario: il padrone di casa, mons. Jaoquín Pinzón, mons. José Travieso (San José del Amazonas, Perú), mons. Francisco Múnera (San Vicente del Caguán, Caquetá), mons. Omar Giraldo (Florencia, Caquetá).

Dalla «Laudato si’» al Sinodo amazzonico

Per il novembre del 2019 è stato convocato un sinodo per l’Amazzonia. Si può dire che la vostra minga lo abbia anticipato?

«Potremmo dirlo ma sarebbe una risposta un po’ superba. Abbiamo sognato e progettato quest’esperienza di minga nel febbraio 2017. Potremmo dire che abbiamo anticipato il sinodo. Ma la vera risposta è che papa Francesco ci ha sfidati con il contributo della Laudato si’.

L’enciclica è stato un regalo per l’umanità. Sappiamo che essa è una proposta del papa non soltanto per la chiesa ma per l’umanità tutta.

Vivendo in questo territorio noi ci siamo sentiti molto in sintonia. Non soltanto con la Laudato si’, ma con la sensibilità ecologica di questo papa».

Monsignor Pinzón, la porta qui accanto è quella di una scuola elementare. Quanto è importante l’istruzione nella difesa dell’Amazzonia?

«Abbiamo bisogno di un sistema educativo che ci aiuti. Finora ci hanno abituato non soltanto al consumo, ma al consumo senza limiti. Necessitiamo di un’educazione nuova, basata su un’altra mentalità, che ci renda persone responsabili nell’uso delle risorse. Il mondo ci chiede di essere responsabili con il pianeta, con la nostra casa comune, con la natura che Dio ci ha regalato».

Paolo Moiola

Vescovi partecipnati alla minga


Questo dossier:

• Approfondimenti

Il manifesto della Minga di Puerto Leguízamo è leggibile a questo link (clicca su questa linea).
Sul canale YouTube sono invece reperibili vari documentari di padre Angelo Casadei.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UUG7cIYkOIY?feature=oembed&w=500&h=281]

• Prossimamente

Il nostro reportage lungo il río Putumayo proseguirà in terra peruviana fino alle comunità di Soplín Vargas e Nueva Angusilla.

• Dedica

Questo dossier è dedicato a padre Antonio Bonanomi, scomparso domenica 7 gennaio. Per molti anni padre Antonio – una vita in Colombia, soprattutto tra gli indigeni del Cauca – è stato assiduo informatore dell’autore sulle cose colombiane, nonché guida durante il primo viaggio in quel paese. Mancherà a tanti. (Pa.Mo.)


Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano

·      FONDAZIONE

Il 21 febbraio 2013. Da allora è retto da mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza.

·      GEOGRAFIA

Si estende in tre dipartimenti colombiani: Caquetá, Putumayo e Amazonas. È caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi: il río Caquetá e il río Putumayo, più i loro affluenti. In esso si trovano il Parco nazionale naturale La Paya, il Parco nazionale naturale Chiribiquete e la Zona di riserva forestale dell’Amazzonia. I centri urbani principali sono Puerto Leguízamo (Putumayo), Solano (Caquetá) e Puerto Alegría (Amazonas).

·      POPOLI?INDIGENI

Kichwa (Quechua), Koreguaje, Siona, Huitoto (ramo Murui), Inga, Nasa, Andoque.

·      ALTRE?POPOLAZIONI

Meticci (campesinos) e comunità di afrodiscendenti.

·      DATI

  • SUPERFICIE: 64.912 km2;
  • POPOLAZIONE: 46mila abitanti;
  • RELIGIONE: 36mila cattolici.

Rio Putumayo




Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




Gli indigeni (e l’industria del carbone) della Guajira colombiana


Testi e foto di Eloisa d’Orsi


In questo dossier vi raccontiamo una storia di incubi (il carbone e le sue conseguenze) e di magie (l’inventiva che alimenta l’arte di sopravvivere delle persone).

Incubi e?magie

CARBONE di?COLOMBIA

  • Le risorse minerarie colombiane sono di circa 17 miliardi di tonnellate. Suddivise tra il dipartimento del Cesar, la Guajira, Boyacá e Antioquia.
  • La Colombia è il principale paese produttore di carbone in America Latina. A livello globale è il decimo per la produzione, il quinto per l’esportazione.
  • Per l’economia colombiana, il carbone si è consolidato come secondo prodotto di esportazione dopo il petrolio grezzo.Il terzo è il caffè.
  • La produzione nazionale è cresciuta in modo significativo nel corso degli ultimi venti anni, alimentata soprattutto dalla realizzazione di grandi progetti destinati all’esportazione da parte di investitori stranieri come Drummond, Exxon, Bhp Billiton, Glencore International, Amcoal e Rio Tinto.
  • Le principali destinazioni del carbone colombiano sono l’Europa e gli Stati Uniti.

L’incubo:
L’impossibile convivenza tra miniere e popolazioni indigene

La scelta tra il carbone e la vita

Come in tutta l’America Latina le attività estrattive producono effetti devastanti sulle popolazioni indigene e sull’ambiente. E oltretutto sono fonte di profitti soltanto per una ristretta oligarchia nazionale e internazionale. Il caso del carbone nella Guajira colombiana.

La Guajira, uno dei trentadue dipartimenti colombiani, è un deserto di sabbia, vento e cactus, all’estremo Nord Est del paese. Con le sue 3mila ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del Nord, gli Alisei, è più nota per le sue spiagge selvagge e per le tartarughe marine che per il suo potenziale minerario ed energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un ambito economico degno di grande interesse. Ben più grande di quello dei turisti nei confronti delle borse colorate tessute a mano dalle belle donne indigene della regione. Donne native come è nativo il 98% degli abitanti della zona, di cui 270mila appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi della famiglia indo-americana, il maggiore di tutto il paese.

 

Vivere da Wayuu 

I Wayuu, presenti nella Guajira da più di 10mila anni e plasmati dai suoi elementi naturali, il vento, la luna, il tempo, la calma, tanto da farli confluire nei loro racconti cosmogonici, sono da sempre un popolo resistente che, nonostante gli svariati tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto le proprie tradizioni e la propria lingua, il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15mila km2 di superficie sabbiosa con una vegetazione rada, hanno fin qui vissuto di pastorizia e pesca che garantivano loro una precaria sussistenza.

Grazie a tecniche tramandate dalla loro cultura ancestrale, come lo scavo di «jagüeyes» (pozzi per accumulare le piogge), la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per irrigare i terreni, la costruzione di case «antisismiche» con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango e bambù, i Wayuu conquistarono palmo a palmo questa zona semidesertica, dimostrando la possibilità di sopravvivere a contatto con una natura difficile, con risorse scarse, tramite la gestione responsabile delle stesse.

El Cerrejón: la miniera, la città, il treno

L’industria mineraria colombiana cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando iniziò lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo, tra le più grandi dell’America Latina.

Nel 1976 il governo, sotto la presidenza di Alfonso Lopez Michelsen, firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di tutto il paese, quella della montagna El Cerrejón, nel Sud del dipartimento de La Guajira.

Nel 2002, il governo cedette le proprie quote alle multinazionali Bhp Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore che – una volta costituitesi nel consorzio «Carbones del Cerrejón Limited» (www.cerrejon.com) – estesero la loro concessione di altri 25 anni. Un territorio di 69mila ettari i cui abitanti furono lasciati, di fatto, nelle mani di un colosso energetico transnazionale. Fino al 2034.

Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off limits. Un piccolo principato con i suoi 12mila dipendenti – tra lavoratori interni ed esterni (contractors) – che faticano senza tregua giorno e notte nei 42 hangar di mantenimento della miniera, caricatori dislocati in un’area di circa 8.400 metri quadrati. Un quartier generale di polvere nera e macchine pesanti di dimensioni abnormi con pneumatici di 4 metri di altezza e 100mila dollari di valore di mercato, che sembrano uscite da un film di fantascienza. Trattori, raschiatori, bulldozer, Caterpillar cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, camion e autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo che, con folli pulegge, pompe, rulli, pale, in questi anni di attività, hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere. Tutto ciò per raggiungere la cifra di 33.700 tonnellate di carbone termico estratto ogni anno. Combustibile fossile che viene lavato quotidianamente con 17mila litri di acqua dolce e poi trasportato su una ferrovia per 150 chilometri fino a Puerto Bolivar. Qui viene stivato in navi con capacità fino a 180mila tonnellate che salpano verso Europa, America e Asia.

La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti tra i diversi clan della zona, mettendo in difficoltà la loro forma di organizzazione sociale e l’uso delle risorse agricole e animali locali.

È vero che grandi cartelli segnalano a caratteri cubitali il passaggio dei convogli ferroviari, ma, come dicono scherzando gli indigeni più anziani, «le capre non sanno leggere», e finiscono travolte dai vagoni, mentre le particelle nere di carbone si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.

Polveri micidiali

«È solo polvere, annerisce, ma è innocua», ripetono come un mantra i responsabili del programma di miniera del Cerrejón durante una delle tante visite organizzate ad hoc per i giornalisti. Polvere nera e leggera come quella seminata dai camion che trasportano il carbone agli hangar, e che i venti Alisei del Nord disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter, si chiamano, o Pm10, e sono responsabili di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari: la silice cristallina, infatti, è un agente cancerogeno.

I responsabili di «Carbones del Cerrejón», interrogati a riguardo, minimizzano affermando di essere entro i limiti consentiti dalla legge colombiana e di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria, nonostante si oppongano a far realizzare test da società indipendenti e non al loro servizio. L’azienda cerca di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua, ma la misura risulta essere insufficiente. Per i lavoratori della miniera che fanno turni di 12 ore, come per le comunità circostanti, quella «polvere nera e innocua» è diventata la causa di gravi malattie. Una di esse è quella diagnosticata al piccolo Moisés Daniel Guette, figlio di Luz Angela Uriana Epiayu.

La casa di Luz Angela e dei suoi cinque figli

Luz Angela è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e al suo compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1.500 metri dal «Tajo la Puente»: un buco nero di polvere largo due chilometri e profondo più di 100 metri, una delle zone di estrazione de El Cerrejon. Moisés, il suo piccolo di sei anni, ha gli occhi color mandorla e una storia di problemi respiratori. «Si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare», dice la madre che, con il solo sostegno del Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo, sta conducendo una battaglia importante che nel 2015 ha portato il giudice di Barrancas a dare seguito a una denuncia contro il consorzio energetico. David, il figlio più grande, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della sua capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno. «È il nostro terremoto 13,45, l’ora della prima esplosione della giornata», racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: «Trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa e, una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù». Gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo.

Si chiama «water grabbing», furto d’acqua

Luz Ángela non è l’unica a combattere il progetto del «Tajo la Puente»: ha dalla sua gran parte della comunità locale, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione avrebbero implicato la deviazione del corso d’acqua Arroyo Bruno. Secondo la compagnia, la deviazione dovrebbe proteggere l’alveo del torrente. Secondo i nativi, invece, mira solo a incrementare la produzione con lo sfruttamento dei 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano appena sotto il letto del fiume. Il Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che affluiscono nel fiume Ranchería. La compagnia aveva già cercato di deviarlo qualche anno fa provocando vive proteste.

Questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, come denuncia Jackeline Romero Epiayu, del collettivo Fuerza Wayuu, avrebbe gravi conseguenze perché, danneggiandone l’alveo e diminuendone il flusso, farebbe aumentare la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto in attesa che le cause in corso si risolvano. Ma il rinvio è una delle tante misure provvisorie che non mettono fine ai conflitti in un territorio semiarido in cui il consorzio minerario ha già prosciugato 17 fonti d’acqua e continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.

«Cerrejón Llc» utilizza 25 litri di acqua al secondo prelevandola dal fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.

Se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per risorse fondamentali come l’acqua diventerà sempre più disperata. Oscure profezie – come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab – che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio delle conseguenze negative della privatizzazione dei beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leader locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali. Secondo Global Witness, almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici.

Sono la violenza, la corruzione e la politica a corto raggio i mali contro i quali i Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando pacificamente i binari della ferrovia. La loro richiesta è che venga rispettata la loro autonomia politica e territoriale e che il governo intervenga per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, problematica urgente che potrebbe annientare il loro popolo.

Tra malnutrizione e abbandoni

Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 per cento delle esportazioni di carbone del paese. Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi visitatori della zona che – mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio wayuu – vengono fermati a check point improvvisati con un filo di spago da bambini malnutriti e disidratati che chiedono da mangiare ottenendo qualche caramella.

Nel frattempo nella Media e Bassa Guajira, a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando – in cambio di misere compensazioni – di reinsediarsi in luoghi senza anima né fonti d’acqua, nei quali la cultura ancestrale viene annullata costringendo gli indios a trascorrere le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.

Aspettando la pioggia che non arriva

In wayuunaiki, pioggia si dice «juya», parola che può significare anche «anno», inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola «wayuu» è «figli della pioggia», ma negli ultimi cinque anni le precipitazioni – anche a causa del fenomeno de El Niño – sono diminuite drasticamente. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma veri e propri cicloni che sferzano violentemente quelle lande desolate colpite da una siccità prolungata. Non riuscendo a penetrare in profondità, l’acqua inonda le coltivazioni dissestando il territorio.

I costi della svendita del territorio

Nei villaggi della Alta, dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci raccontano, con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, le loro storie di desolante quotidianità. Storie d’impianti di potabilizzazione rotti, di mulini a vento in avaria, di cisterne che non arrivano mai, di sete, fame, disoccupazione, povertà, di mancanza di pozzi, corruzione, inquinamento delle acque, malattie respiratorie e della pelle. Nenie che nascono dalle conseguenze di un’operazione di gigantesca privatizzazione avallata da un governo miope che, in nome dello «sviluppo», ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, comportando enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese.

Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il «Cerrejón Llc», in 40 anni di saccheggio – o «concessione», a seconda del punto di vista -, oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.

La strada da imboccare

Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva. Le poche popolazioni indigene che sono ancora radicate sulle proprie terre sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali passi da una profonda comprensione del territorio. Motivo per cui l’Università delle Nazioni Unite nel 2016 ha deciso di convocare alcune popolazioni indigene per discutere di un loro possibile contributo alla indipendenza energetica, soprattutto attraverso le energie rinnovabili, provando finalmente a invertire il paradigma occidentale di successo, progresso e sviluppo.

Eloisa d’Orsi


La magia 1:

Le indigene wayuu e l’energia solare

Storie di donne che portano la luce

Colombia, India e un tocco d’Italia. A Nazareth – villaggio indigeno dell’Alta Guajira – un gruppo di donne di etnia wayuu è partita alla volta del «Barefoot College», in India, per imparare a produrre energia verde. Un progetto meritorio e di successo sostenuto da un’importante azienda italiana. Questa è la storia di una di loro.

La storia di Magalys Polanco, la nonna wayuu che a Nazareth dal buio creò la luce, come ogni storia che si rispetti in Colombia, ha qualcosa di quel «realismo magico» che rende la sua terra così fascinosa e imprevedibile. Tutto ebbe inizio nel 2013, quando Magalys Polanco, 65 anni e 3 figli, venne a sapere di quel tipo allampanato che si aggirava come un rabdomante per la provincia di Uríbia, in cerca di donne analfabete di una certa età che avessero il coraggio di lasciare per un certo tempo la Guajira per andare fino in India. «Ma perché mai gente di città si aggirerebbe per una regione sperduta come l’Alta Guajira in cerca di attempate madri di famiglia semianalfabete?», si chiedevano scettiche le comari indigene in coda per ricaricare il proprio cellulare all’ospedale di Nazareth, l’unico punto con energia elettrica del villaggio.

Magalys, al di là della sua terza media, è una donna curiosa e intelligente, e volle andare di persona a parlare con quell’uomo venuto da un altro mondo con promesse realmente luminose.

L’affidabilità è donna

«Perché cercate delle donne per andare fin laggiù?», gli chiese quando lo trovò. E l’uomo, di nome Rodrigo Paris, «messaggero» del Barefoot College, le raccontò che la fondazione di cui era emissario aveva scelto di coinvolgere nei suoi progetti di sviluppo sostenibile delle donne perché più ancorate al territorio di quanto non lo fossero gli uomini. Questi, infatti, di solito, una volta ottenuto il brevetto di ingegneri solari, abbandonavano il villaggio per andare in città a cercare di sfruttare economicamente la loro nuova professione. E concluse: «Si educas a un niño tendrás un hombre, si educas a una niña tendrás una aldea» (Se educhi un bambino avrai un uomo, se educhi una bambina avrai una comunità). Magalys lo ascoltò con attenzione e, pur non avvezza a concetti come quello dell’empowerment femminile, comprese che la posta in gioco non era solo imparare un mestiere, ma regalare a tutta la sua comunità energia elettrica. Si sentì chiamata in causa, ne discusse con la sua famiglia e decise di partire per recarsi al corso intensivo per ingegneri solari organizzato dal Barefoot College in Rajasthan, India.

Bunker Roy e il «collegio dei piedi scalzi»

Il Barefoot College, «collegio dei piedi scalzi», (www.barefootcollege.org) è una fondazione non profit con base a Tilonia, un villaggio del Rajastan. È un centro di lavoro sociale e di ricerca di cui esistono pochi esempi al mondo. Fu creato nel 1972 da Bunker Roy, un attivista della intellighenzia indiana. Dopo aver studiato nelle migliori università, seguendo i principi del Mahatma Gandhi secondo il quale lo spirito dell’India vive nei villaggi, invece di sfruttare i suoi studi per godersi una vita da benestante, decise di andare a vivere per un certo tempo in campagna, dove si scontrò con la violenta realtà dell’India rurale. Dopo aver toccato con mano le devastanti conseguenze della carestia del Bihar del 1960, Roy decise di regalare il suo sapere ai poveri e agli emarginati, i cosiddetti «intoccabili», che per lui erano persone degne di rispetto che andavano aiutate a mettere a frutto le proprie conoscenze. Convinto delle potenzialità della formazione come strumento di riscatto, diede il là a uno degli esperimenti sociali più interessanti dell’India contemporanea e, lavorando sulla formazione di poveri e analfabeti, riuscì a nobilitare mestieri antichi come quello delle levatrici o degli scavatori manuali di pozzi, e a responsabilizzare migliaia di persone che nessuno avrebbe mai impiegato, rivisitando dalle basi il concetto stesso di «professionalità» che – secondo Roy – è una combinazione di competenza, passione, e sicurezza per il proprio lavoro. Convinzione quella di Roy che negli anni gli fece ottenere svariati riconoscimenti come quello per l’«Imprenditorialità sociale Schwab» nel 2002, il «Premio Ashden» per l’energia sostenibile nel 2003, e nel 2005 il «Premio Skoll per l’Imprenditoria sociale», trasformandolo in una delle figure di spicco nella comunità indiana del mondo della cooperazione. La rivista Time lo ha nominato nel 2010 tra le 100 personalità più influenti del mondo.

Il Barefoot College ha formato più di 50mila bambini attraverso le scuole serali in villaggi remoti di sedici stati indiani per creare «professionisti a piedi nudi», insegnando loro a sfruttare le proprie risorse in maniera autonoma. Grazie al coinvolgimento di partner internazionali, è poi riuscito ad ampliare i suoi programmi verso regioni sperdute dell’America Latina, dell’Africa e del Medio Oriente. Il suo nuovo obiettivo ora è quello di formare più donne possibile per portare energia elettrica nei loro villaggi, rendendoli sostenibili e rafforzandone il tessuto sociale per incentivare i suoi abitanti a non fuggire verso le città.

A raccontarci tutto questo, con gli occhi pieni di rispetto e ammirazione, è proprio Rodrigo Paris, ambasciatore per l’America Latina del Barefoot College che, dopo aver trovato Magalys, è riuscito a convincere a partire alla volta di Tilonia altre donne coraggiose: Anastasia, Maria Luisa e Maria Milagros. Tutte loro, anche grazie alla partner-ship con l’italiana Enel Green Power (www.enelgreenpower.com), hanno portato elettricità a migliaia di persone di varie comunità sperdute.

Raccontare alla luce di casa Magalys

Ho scelto di andare a visitare la comunità di Magalys, all’estremo settentrionale della penisola, nella provincia di Nazareth, la più difficile da raggiungere. Per arrivarci servono diversi giorni di viaggio in cui non è mai chiaro quando si arriverà. Per la strada s’incontrano solo cactus, alberi morti e vecchi mulini arrugginiti che evocano una lontana presenza umana. Quando sono giunta con Rodrigo Paris, dopo vari incidenti di percorso come insabbiature e conseguenti salvataggi da parte di indios locali, la strada tortuosa che si arrampicava per la serra della Makuira era avvolta nell’oscurità più assoluta. Una volta giunti in cima, è apparsa fioca una luce che, oscillando, si è avvicinata sempre più fino a svelarci Magalys nel suo bel vestito bianco e nero. Dopo averci accolti sorridente nel suo rancho, la donna si è messa subito a preparare arepas con queso nella sua cucina illuminata da varie lampade a led alimentate dai pannelli solari.

«Vedi, anche solo questo momento che stiamo vivendo ora sarebbe stato impensabile qualche anno fa: passare la serata insieme chiacchierando, cucinando o tessendo. Ora i ragazzi possono studiare la sera, noi donne possiamo tessere e si può passare del tempo insieme senza doverci mettere a letto alle sette di sera per poi svegliarci alle tre del mattino. Ora sì che abbiamo capito perché in città la gente fa le ore piccole», scherzava con la sorella.

Magalys, come le altre indigene wayuu partite con lei per la grande avventura, parlava solo wayuunaiki e un poco di spagnolo. «Chi avrebbe mai potuto credere a una cosa simile? Proprio io in India. Africa», racconta, felicemente ignara delle sue lacune geografiche, commossa nella sua amaca tessuta a mano e oscillante al vento del Nord, tipico della regione. «Il viaggio è stato difficile all’inizio. Nessuna di noi capiva nulla di cosa dicessero. Pensavamo fosse hindi, poi abbiamo scoperto che era inglese». «Ripetevamo – continua la donna – cento volte le stesse parole: il nome dei componenti, delle valvole, trasmettitori, bottoni, lampade… era estenuante; pensavamo di non farcela. Le mie compagne volevano tornare a casa. Non eravamo neanche in grado di chiedere di non darci quel cibo così piccante, pensavamo davvero di aver fatto un lungo viaggio inutile. Ma a un certo punto ho capito quello strano abbinamento tra numeri e colori – ha sussultato Magalys emozionata dal ricordo -. Mi sono alzata dal mio banco e ho detto: “Teacher! Posso venire alla lavagna?”. E da allora ho cominciato ad aiutare le altre che avevano più difficoltà. E la lingua, anche con le signore che arrivavano da Zanzibar e dal Myanmar, ha smesso di essere un problema. Comunicando a gesti, siamo riuscite a fare amicizia scoprendo di avere molte cose in comune, e alla fine ci siamo anche divertite».

E così grazie a un’intuizione sagace, a vari incontri casuali, un pizzico di fortuna, molto coraggio e un metodo di apprendimento basico fatto di empatia, ascolto, gesti, ripetizioni e associazione di numeri e colori, dopo sei mesi di corso in India, le novelle ingegnere solari sono tornate in Colombia.

Le ingegnere (e i pannelli) al servizio delle comunità

Maria Luisa ha partecipato all’installazione di 35 pannelli solari a Bocas de Aracataca, nel dipartimento di Magdalena. E Magalys, già da un paio d’anni, monta valvole, gestisce e ripara i pannelli quando subiscono dei danni e ha anche imparato a ricaricare i telefoni, di modo che i membri della sua comunità non sono più costretti a fare chilometri a piedi sotto il sole per andare fino a Nazareth per la ricarica. E grazie alle conoscenze acquisite, e ai pannelli donati da Enel per il programma «Enabling Electricity», presentato al Forum del Settore privato nell’ambito dell’iniziativa «Global Compact» delle Nazioni Unite (www.unglobalcompact.org), non solo lei, ma buona parte della comunità, sta portando avanti un progetto più ampio di elettrificazione rurale in quindici comunità tramite il fotovoltaico, che mira a facilitare l’accesso all’elettricità in aree isolate come Nazareth, Wimpeshi o Uribia, rendendole comunità autosufficienti e sostenibili.

Grazie all’appoggio della Corinam International Corporation (corinam.org), le ingegnere solari infatti hanno dato vita all’«Associazione solare pedagogica» per implementare la formazione della comunità attraverso riunioni e workshop di contabilità di base, gestione del progetto, responsabilità, gestione dei conflitti. Le famiglie utilizzatrici del programma assicurano la sostenibilità del servizio e la remunerazione delle «mamme solari», tramite un contributo mensile il cui importo è stabilito collettivamente, e comunque inferiore a quello che le famiglie avrebbero speso per l’illuminazione tradizionale.

Si chiama cooperazione

Il Barefoot College gestisce il progetto, il governo indiano copre i costi del viaggio e la logistica, il settore privato mette i pannelli solari, le donne chiamate in causa mettono il loro impegno, il loro coraggio di essere catapultate in un altro mondo, e i loro mariti e gli uomini dei villaggi mettono lo sforzo che comporta accettare un ruolo nuovo della donna all’interno della loro comunità. Una circostanza, questa, che in certe società come quella wayuu (fondata sul matriarcato) ha già delle basi culturali, ma in moltissimi altri casi, specialmente in paesi del Sud, è molto facile che possa creare conflitti interni. Quello innescato dal Barefoot College è un meccanismo virtuoso di cooperazione internazionale sulle questioni relative all’energia solare che dal 2008, quando il governo dell’India ha deciso di includerlo nei suoi programmi di cooperazione internazionale, è riuscito ad addestrare 1.100 donne provenienti da 64 paesi. In Colombia, grazie a 350 impianti solari installati nella regione, è arrivato a coinvolgere 15 comunità, 1.050 famiglie e circa 3.500 beneficiari. Grazie anche all’iniziativa di Enel Green Power, dal 2012 a oggi, ha garantito l’accesso all’elettricità in 41 comunità di nove paesi dell’America Latina portando benefici a 19mila persone scommettendo non solo a favore della sostenibilità ma anche della parità di genere, favorendo l’empowerment femminile.

La sfida raccolta da queste donne indigene colombiane, grazie a questo esperimento di sapere collettivo, sta tessendo legami nella comunità e distribuendo a raggiera le conoscenze acquisite, migliorando la vita quotidiana dei beneficiari, e continuando a creare opportunità permettendo a queste donne, madri, nonne indigene di reinventare il proprio futuro e di rendendolo davvero «luminoso».

Eloisa D’Orsi


La?magia?2:

i Wayuu e la trasformazione dell’acqua

Salata, dolce, scarsa (ma sempre preziosa)

Secondo dati ufficiali sono 5mila i bambini indigeni morti negli ultimi sei anni per denutrizione e mancanza d’acqua potabile nella Guajira. Vi raccontiamo la storia di Juan Carlos Borrero Plaza, ingegnere che, per aiutare le popolazioni della regione, ha inventato un sistema per desalinizzare l’acqua.

La penisola della Guajira è una terra semiarida e, per gli indigeni che la abitano, l’acqua è sempre stata un elemento chiave. Amata, rispettata, invocata, difesa, temuta, scarseggiante e maledetta, ma pur sempre wuin (acqua). I Wayuu vivono da secoli questa contraddizione: attorniati da ogni lato dall’acqua salata dell’Oceano, hanno sempre visto scarseggiare quella dolce. Ma se prima – da nomadi e abili rabdomanti quali sono sempre stati – spostandosi alla sua ricerca, padroneggiavano quelle lande desolate, ora che si ritrovano confinati in un territorio sempre più frammentato e compromesso dall’industria mineraria, stanno letteralmente morendo di sete. Per letteralmente intendo che, secondo i dati dell’Unicef, i bambini morti negli ultimi sei anni a causa della malnutrizione sono stati 5mila, anche se secondo le autorità tradizionali la cifra potrebbe arrivare a 14mila.

Quando arrivò Juan Carlos

Vedere un bambino morire di disidratazione davanti ai propri occhi è uno spettacolo difficile da accettare, specialmente in questo secolo, e a maggior ragione per una persona come Juan Carlos Borrero Plaza, un ingegnere specializzato in approvvigionamento idrico e in energie rinnovabili. Un giorno, di ritorno da una visita al Parco Eolico di Jepirachi della Empresas Públicas de Medellín (Epm), nel bel mezzo del deserto si trovò di fronte a una donna che supplicava aiuto per suo figlio. Parlava in wayuunaiki e Juan Carlos non capiva. La guida che accompagnava lui e consorte gli spiegò che, nella Guajira, i bambini muoiono di sete. Portarono la donna e il figlio in ospedale, ma il bimbo morì: Juan Carlos rimase scioccato. Non si capacitava che esistesse un problema simile proprio nel suo paese. Promise allora a sua moglie Helga che avrebbe smesso di dedicarsi a qualsiasi altra invenzione fino a che non avesse trovato una soluzione per tutti coloro che non possono soddisfare un bisogno primario come quello dell’acqua.

L’invenzione dell’«aero-desalinizzatore»

Con 20 anni di esperienza nell’installazione di impianti di trattamento delle acque alle spalle, l’ing. Borrero sostiene che i sogni nascano nel cuore, crescano nella mente ma si realizzino con le mani. Così mantenne la sua promessa tornando nella provincia di Manaure per eradicare il problema della siccità e ridare l’acqua ai «figli della pioggia», il popolo wayuu.

Quando i capi tradizionali dei villaggi sentirono parlare quel signore con un accento caleño che sosteneva di poter estrarre acqua dolce dal sottosuolo grazie alla forza motrice del vento, pensarono che si trattasse di un incantesimo. O forse della solita fregatura di abili venditori di promesse come ne avevano già incontrati.

Succede spesso che, in una regione con grandi risorse ma minime possibilità di riscatto, le poche persone preparate, approfittino delle ricchezze a disposizione facendo aumentare esponenzialmente l’ingiustizia sociale. Ma Juan Carlos è un omone con la faccia sincera e gli indigeni di quel villaggio di 30 abitanti erano così disperati che decisero di dargli il loro assenso. Fu così che, durante i nove anni successivi, egli poté utilizzare segretamente il villaggio di Ulekumaná, in provincia di Manaure, come laboratorio a cielo aperto per mettere a punto la sua invenzione e finalmente brevettare il suo «aero-desalinizzatore». Un apparato basato sulla forza dell’energia eolica (che fornisce la pressione necessaria per aspirare acqua da pozzi) e sulla osmosi inversa che purifica l’acqua facendola passare attraverso filtri e membrane legate che ne sopprimono gli agenti patogeni. Una tecnica questa che Barrero ha messo a punto anche grazie a due viaggi di studio in Egitto e in Messico per approfondire le conoscenze della tecnologia idrica degli antichi egizi e delle civiltà precolombiane, i quali già in quei tempi remoti utilizzavano gli ioni per purificare l’acqua.

Purificare con la forza dei venti

Nella Guajira acqua ce n’è in quantità, ma quella dolce è solo circa l’1%. Purificare la linfa vitale significa dover affrontare costi ingenti e pertanto non sostenibili.

Per rendere il progetto sostenibile, gli studiosi coinvolti da Barrero si sono concentrati sul tema dell’energia che avrebbero dovuto usare per realizzare il processo di purificazione. In una regione come la Guajira, sferzata dagli Alisei del Nord, una forza della natura perenne e pulita, l’idea di utilizzare il vento è sembrata ovvia. Per sfruttarlo senza costi aggiuntivi sono stati utilizzati quei 3mila vecchi mulini a vento installati, negli anni ’50, dal governo di Rojas Pinilla. Da anni in disuso, essi languivano spettrali nel deserto. Ora invece, grazie al progetto di Juan Caros «Guajira sin sed» (Guajira senza sete), hanno finalmente ricominciato a battere le ali, riuscendo incredibilmente a vincere la sfida di rendere dolce l’acqua salata, senza l’ausilio della chimica e costi insostenibili.

Il progetto di Barrero, presentato con l’appoggio dell’Università Santiago de Cali nel 2013, oggi conta 40 aerodesalinizzatori nella zona. Essi forniscono acqua potabile a molte rancheríe (fattorie) isolate disperse per tutta la Guajira. Ogni aerodesalinizzatore – che può durare tra i 20 e i 30 anni – consente di produrre 4mila litri di acqua potabile al giorno, e aiuta a dissetare 20mila persone. Un successo che è stato certificato a livello mondiale da Unicef e dalla impresa svizzera «Sgs», leader mondiale nella verifica e certificazione. Ora che il progetto è avviato, Barrero vorrebbe riuscire a superare tutti gli impedimenti e arrivare a installare almeno 400 di questi sistemi nella Guajira.

Le potenzialità dell’idrogeno

Uomo di scienza, ma anche inventore, alchimista e soprattutto sognatore, Juan Carlos vede cose che altri non hanno la lungimiranza di vedere. Già ai tempi dell’università inventava modi per purificare l’acqua facendola bollire con raggi ultravioletti, o si faceva ispirare dal sistema digestivo delle galline per decomporre sostanze senza prodotti chimici. Non c’è da stupirsi che abbia inventato una nuova tecnica per l’idrogenasi tropicale (metodologia che spezza la molecola dell’idrogeno, ndr), che gli è fin valsa un invito alla Casa Bianca. Il gas idrogeno, che può essere ottenuto dall’acqua, ha enormi potenzialità per generare e conservare energia da usare per produrre elettricità ad un prezzo ragionevole. I nuovi catalizzatori a idrogeno potrebbero diventare un passaggio chiave nel processo di sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.

Juan Carlos Barrero Plaza d’altra parte è convinto del fatto che le tecnologie si debbano adattare alle persone e non certo il contrario. Lui fa parte di quella ristretta cerchia di persone che in Colombia sta lottando per capitalizzare il proprio patrimonio naturale, solare ed eolico per utilizzarlo in favore delle popolazioni svantaggiate che vivono in un territorio da secoli penalizzato dalla carenza d’acqua dolce e dall’abbondanza di acqua salmastra, e che nel prossimo futuro potrebbe vedere aumentare le difficoltà in concomitanza con l’aggravarsi del cambio climatico.

Bambini da istruire

Quando non sta ideando marchingegni, Juan Carlos inventa storie per bambini, storie che gli hanno già fatto guadagnare un premio dalla «Società dei poeti» della Colombia e che lui sta cercando di pubblicare con uno sponsor per poterli regalare ai poveri, perché possano leggere e imparare come tutti gli altri.

È convinto sia fondamentale e necessario insegnare ai bambini che le nostre risorse non sono infinite e che – se non accresceranno le loro conoscenze – continueranno a subire le prepotenze di chi sa approfittare meglio delle circostanze.

«I sogni sono nati nel cuore, crescono nella mente e sono fatti con le mani. Così continuerò a lavorare, se Dio lo permette», ama ripetere Juan Carlos Borrero Plaza. Uomo di scienza, inventore, alchimista e soprattutto sognatore.

Eloisa d’Orsi


Questo dossier:

 Eloisa d’Orsi

Eloisa d’Orsi è una fotogiornalista freelance, laureata in antropologia visiva presso l’Università di Torino. Ha collaborato con varie testate quali Internazionale, L’Europeo, GEO, New York Magazine, The Guardian, El Pais, Die Zeit. Ha lavorato molto sull’America Latina, con un’attenzione particolare alla Colombia. Negli ultimi anni ha coperto il conflitto in Crimea e nella Striscia di Gaza (nel 2014), la situazione igienico-sanitaria in India e nella Repubblica democratica del Congo (nel 2016) grazie a un grant dell’European Journalism Centre. Più recentemente, grazie a una fellowship dell’Iwmf (International Women’s Media Foundation), ha realizzato questo lavoro.

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e alla sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di Fuerza Mujeres Wayuu, Censat Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del Colectivo de abogados, Louise Winstanley di ABColombia, Cinep, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di Ask (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di Iwmf.

I principali siti web citati:

 www.cerrejon.com; www.barefootcollege.org; www.enelgreenpower.com; www.corinam.org; www.unglobalcompact.org.

Altri link e YouTube:

Per il testo 1: stress idrico, censat.org/; diritti umani, www.colectivodeabogados.org/;
Fuerza Mujeres Wayuu; jieyuuwayuu.blogspot.it/;
speciale carbone Colombia // El Espectador; static.elespectador.com/especiales/1402-caribe/index.html.com.
Per il testo 2: Barefoot College, Bring the sun home, Anastasia Garcia, Magalys Polanco cercare su YouTube.
Per il testo 3: revistas.usc.edu.co/index.php/Ingenium/article/viewFile/312/277 e su YouTube (aerodesalinizzatore).

Foto delle copertine

In prima: Magalays Polanco illumina la sua casa.
In ultima: un gruppo di Wayuu occupano per protesta i binari della ferrovia che collega la miniera de El Cerrejón a Puerto Bolivar.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Algeria: Il metano non dà una mano


Lo sfruttamento spregiudicato del gas

L’Algeria, paese grande produttore di gas, è strategica per l’Europa a causa della sua posizione. Ma lo sfruttamento avviene sempre più con tecniche ad alto impatto ambientale e sociale. È un capitalismo basato sull’estrazione che crea povertà e dipendenza. E la popolazione tenta di ribellarsi. Mentre l’Unione europea resta a guardare.

Hassi R’Mel è la riserva più grande di gas naturale in Algeria, nel centro Nord del paese1. Scoperta nel 1956, insieme al grande campo petrolifero di Hassi Messaoud, è sotto il controllo dell’impresa nazionale Sonatrach. La sua attività di estrazione inizia nel 1961 e già dal 1964 fa dell’Algeria il primo paese esportatore di gas naturale liquefatto (o liquefied natural gas – Lng) verso Marocco, Tunisia, Spagna, Portogallo, Italia. Nel 2011 e 2012 questa energy town è scenario di mobilitazioni sindacali molto forti, sia per le condizioni del lavoro sia in protesta contro il clientelismo e la corruzione.

Una polveriera minacciosa

Negli ultimi anni, i movimenti popolari a cui abbiamo assistito nel Sahara sono in buona parte una insurrezione contro gli effetti del capitalismo fossile, dell’estrattivismo e della sua logica di creazione di povertà e dipendenza. Se si dà un’occhiata alle città del Nord e poi a quelle del Sud dell’Algeria, non si può rimanere indifferenti di fronte al contrasto in termini di disparità di investimenti e servizi, con il Sud abbandonato a se stesso nonostante i giacimenti più fruttuosi si trovino nel suo territorio.

Tuttavia, a differenza di altri paesi come la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria non ha visto il crescere di movimenti forti e articolati di opposizione politica.

Probabilmente la memoria della guerra civile che ha seguito il golpe militare degli anni ’90 è ancora molto forte. Una guerra che ha lasciato la popolazione traumatizzata e meno incline a criticare un regime che ha messo fine all’islamismo radicale, seppur a costo di migliaia di vite. In ogni caso il paese sembra avere tutti gli ingredienti di una minacciosa polveriera: autoritarismo, sviluppo diseguale, violazione di diritti umani, una gioventù con educazione (sovvenzionata dalla rendita del petrolio e del gas) ma senza prospettive nel paese, una élite dirigente clientelare e corrotta.

La guerra civile è stata inoltre accompagnata da una campagna di liberalizzazione economica promossa da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm). Per ottenere maggior credito internazionale, il governo algerino ha aperto zone economiche speciali intorno ai campi di estrazione di gas e petrolio. E grazie a queste manovre, imprese come la britannica British Petroleum (Bp), la francese Total, la statunitense Arco, hanno firmato contratti trentennali per lo sfruttamento degli idrocarburi. In nome della sicurezza energetica dei paesi importatori e di quella finanziaria degli investitori, la stabilità del paese non ha prezzo. E se per tal fine è necessaria la militarizzazione e un repressivo apparato di polizia e di intelligence, l’Unione europea non dice nulla.

La benedizione della ricchezza di idrocarburi si è rivelata una maledizione per il paese, ciò che viene chiamata Resource curse (maledizione delle risorse o anche paradosso dell’abbondanza). L’Algeria ha da allora vissuto problemi strutturali gravi, quali altissimi livelli di corruzione, la delicata dipendenza dalle esportazioni, la deindustrializzazione e il disinteresse nel settore agricolo.

Ambiente addio

Ad Hassi R’Mel, scioperi della fame, blocchi stradali e boicottaggi hanno cercato di mettere in luce e denunciare le condizioni di sicurezza del lavoro, salari da fame, favoritismi clientelari e la precarietà dei contratti che portavano spesso a lunghi periodi di disoccupazione. Ai lavoratori di Hassi R’Mel hanno immediatamente fatto eco quelli di Ouargla, forse la più grande energy town oggi in Algeria. Qui, nel 2012, pochi mesi dopo le prime manifestazioni della Primavera araba, la popolazione è scesa nelle strade per denunciare l’emarginazione economica e la mancanza di infrastrutture adeguate per uno sviluppo regionale, nonostante le attività di estrazione di petrolio e gas. Nel 2013, è stato annunciato a Ouargla il primo progetto di sfruttamento di gas secondo la tecnica della fratturazione idraulica2 (fracking), da parte della Total (il fracking è proibito in Francia per l’alto impatto ambientale e sociale, ma viene promosso altrove dalle imprese francesi e molto utilizzato negli Usa), e la popolazione ha cominciato a denunciare gli effetti negativi sui campi e l’inquinamento delle acque. Nel centro della cittadina, al lato del mercato, è stata eretta una tenda da campeggio con un cartello che recita: «La gente ha decretato una moratoria al fracking». Si è creato il Comitato nazionale per al Difesa dei diritti dei disoccupati (Cnddc, nel suo acronimo francese) che mobilita decine di migliaia di persone in Ouargla ma anche in altre località che affrontano vulnerabilità e disoccupazione. Gli attivisti algerini ricordano come nel 1960-61 (prima dell’indipendenza del 1962) la Francia avesse usato Reggane, località nel Sahara algerino, per quattro esperimenti nucleari, i cui effetti sulla salute si percepiscono ancora oggi. Sul fracking, dunque, lo slogan recita «L’Algérie n’est pas une terre d’essais et d’expérimentation pour le gaz de schist» (L’Algeria non è un banco di prova e sperimentazione per il gas di scisto3). Tuttavia, non hanno ricevuto alcuna risposta concreta.

Realpolitik energetica

E ciò non stupisce se si dà un’occhiata alla politica energetica dell’Algeria e al suo commercio estero. Il settore degli idrocarburi rappresenta circa il 60% delle entrate del bilancio totale del paese, quasi il 30% del Pil, e più del 97% provengono dall’export. Per le autorità algerine è di grande importanza mantenere una buona reputazione: essere un fornitore stabile di un prodotto di buona qualità, che garantisce una fornitura continua e senza interruzioni. L’Algeria è in un’ottima posizione geografica e politica per rispondere alla crescente domanda dell’Unione europea (Ue), con la quale è ben collegata con linee di trasporto marittimo in navi cisterna e gasdotti.

Le riserve algerine ammontano a 4,5 miliardi di metri cubi, cosa che mette il paese all’undicesima posizione a livello mondiale e alla seconda in Africa, dopo la Nigeria. Si stima che l’Algeria abbia le riserve di gas di scisto più grandi del mondo.

Più del 90% del gas algerino trasportato in gasdotti va a stati europei, soprattutto Spagna (34%) e Italia (27%), il resto a Marocco e Tunisia come tassazione per il trasporto sul loro territorio. Delle esportazioni come gas liquefatto (Lng), la maggior parte va a Francia (34%), Turchia (23%), Spagna (23%), Italia (9%), Grecia (6%).

Per farsi un’idea dell’importanza della dipendenza dal gas algerino, ricordiamo ancora che rappresenta una buona fetta della domanda domestica di Italia (30%), Spagna (40%) e quasi la metà di quella della Tunisia.

Sicurezza energetica e democrazie

A causa della diminuzione delle riserve nel Mare del Nord e della crisi in Ucraina, l’Unione europea ha stabilito come priorità strategica la diversificazione energetica, all’interno dell’ampio progetto dell’Unione energetica europea (cfr. MC gennaio-febbraio 2017). Tuttavia, la pianificazione gasistica si basa su delle stime al rialzo per quanto riguarda i consumi (che sono in realtà in diminuzione dal 2010 a causa della crisi finanziaria e produttiva ma anche dell’uso di altre fonti). In questo modo vengono costruite infrastrutture con garanzie e fondi pubblici, che poi rimangono sottoutilizzate. D’altro canto, la diversificazione avviene in termini di paesi di origine del gas, ma non discute strade possibili per la promozione di altre fonti o altri tipi di gestione (più comunitaria, democratica, a piccola scala ad esempio).

Nel luglio del 2013 è stato firmato un importante accordo per la cooperazione tra Ue e Algeria, rappresentati dall’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal. Si è sancita così una promettente cooperazione sulle riforme democratiche e sulle politiche di sviluppo. A livello interno in Algeria si è promosso, nella totale opacità, la legge sugli idrocarburi, volta ad attrarre e proteggere investimenti stranieri.

Allo stesso tempo, da parte dell’Unione europea, si continua a mantenere il silenzio in materia di restrizioni delle libertà personali, delle minacce contro attivisti politici, violazioni di diritti umani, contaminazione ambientale, o riguardo la corruzione altissima all’interno della classe dirigente. La sicurezza energetica dell’Unione europea, con il beneplacido delle sue lobby dell’industria delle armi e delle grandi imprese energetiche, resta assicurata.

Ma per gli algerini, la dipendenza dall’esportazione del gas si presenta come un’altra preoccupante forma di accaparramento delle risorse, in cui i benefici derivanti dalla rendita sono concessi alla popolazione attraverso politiche assistenzialistiche, parziali e clientelari.

Manifestazioni anti fracking

Nel 2014 le autorità algerine annunciano la perforazione di pozzi di gas di scisto anche a In Salah, un paesino-oasi nel centro del deserto algerino e sede della potente joint venture tra Bp, Statornil e Sonatrach. Decine di migliaia di algerini manifestano a partire dall’inizio del 2015 in tutto il paese (Salah, Tamanrasset, Ouargla, Ghardaia, Illizi, Adrar, Timimoun, Bordj Baji Mokhtar, Argel, Ain Beida, Oum El Bouaghi, Bejaia e Oran). Il livello delle proteste coglie di sorpresa il governo che comincia a temere per i piani di Total e Shell per il fracking.

Si tollerano diverse marce e proteste pacifiche, fino a quando sabato 17 gennaio 2015 decine di persone sono arrestate ad Algeri per una manifestazione di solidarietà. Le violenze di tale operazione scatenano un’ondata di protesta, che dura più di cinque mesi. Il popolo richiede la sospensione di qualsiasi attività di fracking e l’apertura di un dialogo a livello nazionale, che era mancato nel processo di approvazione della Legge sugli idrocarburi del 2013.

Rapporti pericolosi

L’Algeria non è l’unico regime violento con il quale l’Unione europea coltiva rapporti d’amicizia in nome della sua sicurezza energetica. La politica estera comunitaria infatti vede anche controversi rapporti con paesi dove l’Indice di sviluppo umano (Isv) è particolarmente basso, dovuto a ragioni simili all’Algeria, tra cui Tanzania, Nigeria e Mozambico. Con paesi i cui governi sono considerati autoritari (Algeria, Angola, Russia, Qatar, Egitto, Azerbaijan, Libia, Iran, Turkmenistan), con paesi che presentano grande conflittualità interna (Libia, Russia, Iraq e Egitto), con corruzione endemica (Angola, Iraq, Libia, Turkmenistan, Nigeria) e forti disuguaglianze in termini di distribuzione della ricchezza (Nigeria, Usa, Mozambico e Angola).

La diversificazione promossa dalla politica energetica comune cerca inoltre solo un ampio ventaglio di origini degli idrocarburi, ma non pone in discussione il loro utilizzo e non propone politiche chiare per una transizione a energie rinnovabili e su basi democratiche.

La responsabilità dell’Unione europea verso la popolazione algerina e del progetto dell’Unione energetica verso il resto dei paesi di esportazione è enorme. Promuovere il gas come «combustibile della transizione», ma non fare niente per discutere verso cosa si vuole transitare è una contraddizione in termini. Pianificare l’infrastruttura gasistica sulla base di ottimistici calcoli al rialzo rispetto alle riserve e poi accettare qualsiasi condizione per mettere mano a esse è una strategia connivente con i regimi dei paesi produttori.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

1- Questo articolo si basa principalmente sul rapporto Colonialismo Energético: el acaparamiento del gas de la Ue en Argelia preparato da Hamza Hamouchene del Algeria Solidarity Collective e Alfons Perez del Observatori del Deute en la Globalització, 2016, Barcelona. Il rapporto è scaricabile al seguente link: http://www.odg.cat/es/publication/colonialismo-energetico-acaparamiento-gas-UE-argeli.

2- Fratturazione idraulica o fracking è una tecnica che consiste nell’utilizzo della pressione di un fluido per creare una frattura in uno strato roccioso del sottosuolo. Il fracking è utilizzato anche per estrarre petrolio e gas con costi ambientali molto elevati.

3- Gas di scisto è il termine improprio utilizzato per il «gas da argille», ovvero gas metano estratto da giacimenti non convenzionali, gas intrappolato nella microporosità della roccia. Per l’estrazione sono necessari trattamenti ad alto impatto ambientale, come il fracking che può anche dare origine a terremoti. È una tecnica molto utilizzata negli Usa.




Colombia: salviamo il bioma amazzonico e tutta la sua diversità


La «Minga» amazonica trifronteriza

La situazione

Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.

Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.

Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.

La proposta: «Minga», lavoriamo insieme

In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune. Da questo incontro è uscito il seguente documento programmatico.

Partecipantes a la Minga


Il Manifesto

Alla popolazione e a tutti coloro che servono l’Amazzonia e amano questa causa.

Convocati dal Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo – Solano, nel contesto della celebrazione del suo quinto anniversario, nei giorni 6-7-8 novembre 2017, i Vescovi e rappresentati delle equipe pastorali di Florencia, San Vicente del Caguán, Puerto Leguízamo – Solano (Colombia), San José del Amazonas (Perú) y San Miguel de Sucumbíos (Ecuador) insieme agli indigeni, contadini e alle istituzioni pubbliche e private per riflettere sulle opportunità e le sfide dell’Amazzonia nella tripla frontiera di Colombia/Ecuador e Perù.

Obispos partecipantes – I vescovi delle cinque circoscrizioni ecclesiastiche durante la Minga.

Come comunità di fede che offre il suo servizio nell’evangelizzazione dei popoli amazzonici, prendendosi cura della causa comune

Costatiamo:

  • Il forte impegno delle organizzazioni comunitarie per preservare, conservare e curare la vocazione di questo bioma amazzonico come regolatore del climatico mondiale
  • La crescente coscienza della responsabilità ambientale e sociale che ha portato alla conformazione di iniziative di grande impatto come la Rete ecclesiale pan-amazzonia (Repam)
  • L’assenza di politiche pubbliche a livello locale, regionale, nazionale e internazionale dirette alla cura, preservazione e conservazione dell’Amazzonia.
  • L’esistenza di progetti economici disarticolati, come lo sfruttamento petroliero, minerario, boschivo, le monoculture, l’allevamento estensivo e la pesca eccessiva, senza uno sguardo ecologico-ambientale e privi di responsabilità verso la preservazione della selva a medio e lungo termine.
  • La forte minaccia che mina la stabilità del sistema ecologico ambientale della nostra Amazzonia dovuta ad una deforestazione indiscriminata.
  • La contaminazione dei grandi fiumi e suoi affluenti che vengono convertiti in depositi di scarichi solidi, chimici e residuali, minacciando seriamente e irreversibilmente tutti gli organismi viventi.
  • L’impatto nocivo di agenti esterni sulla sopravvivenza e identità culturale delle comunità autoctone.
  • Il narcotraffico e le miniere illegali (che) diventano una fonte permanente di degrado e distruzione dell’ambiente e delle relazioni familiari e comunitarie.
  • La presenza insufficiente dello stato nei luoghi più isolati dell’Amazzonia che garantirebbe alla popolazione i suoi diritti fondamentali alla vita, educazione, salute e sicurezza.

Facciamo appello a

  • Le autorità nazionali e internazionali,
    1. affinché garantiscano la cura e la protezione del bioma amazzonico e tutta la sua diversità; i diritti dell’Amazzonia devono essere tutelati e garantiti da ogni singolo paese e dal sistema globale;
    2. garantiscano che vengano consultati anticipatamente popoli indigeni in qualsiasi progetto che si pretenda sviluppare, soprattutto quelli di carattere estrattivo o le opere civili, proteggendo i popoli, i loro usi e costumi.
  • Le autorità locali, affinché i loro piani di sviluppo abbiano uno sguardo veramente amazzonico, stabilendo alleanze che rafforzino le organizzazioni presenti nel territorio.
  • Le organizzazioni indigene, contadine, urbane e di afro-discendenti, affinché cerchino consensi e impegni effettivi che generino condizioni per una vita degna, giusta e rispettosa dell’ambiente.
  • Tutta la comunità,
    1. affinché si educhi ad un uso adeguato dei residui solidi contaminanti per diminuire l’impatto ambientale negativo.
    2. (si impegni) a sostituire l’uso dei pesticidi e di altri chimici agrari con pratiche agro-ecologiche che non colpiscano la flora e la fauna del territorio amazzonico
  • Il mondo accademico, perché si coinvolga con decisione nei processi di ricerca scientifica, formazione e divulgazione della nostra realtà amazzonica per il beneficio di tutti.
  • Gli agenti di pastorale, affinché assumano una voce più profetica e decisa nella difesa della pan-amazzonia.

Ci impegniamo a:

  • Sintonizzarci con la proposta del Sinodo per l’Amazzonia convocata dal Papa Francesco per il 2019, partecipando attivamente nella sua preparazione, realizzazione e implementazione.
  • Assumere, come discepoli missionari, uno stile di vita che metta in pratica la cura e la protezione della causa comune nelle nostre azioni quotidiane.
  • Integrare nei piani pastorali un’azione evangelizzatrice che promuove la cura della vita in tutte le sue manifestazioni, ispirati dalla teologia della creazione.
  • Stabilire in ogni chiesa locale un vincolo più stretto con la Repam
  • Accompagnare le Comunità nella costruzione ed esecuzione di progetti produttivi sostenibili e confacenti all’ambiente amazzonico circostante.
  • Dare vita ad azioni che si oppongano a tutto ciò che va contro la vita in Amazzonia.

Puerto Leguizamo, 8 novembre 2017

Arbol signo de la Amazonia – L’albero simbolo dell’Amazzonia




Borneo, giungla addio


La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.

Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.

Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.

Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.

L’isola misteriosa

Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.

Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.

Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.

Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.

È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.

Lo spirito della foresta

Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.

Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.

Impatto devastante

La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.

Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.

Il cuore del Borneo

Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.

Troppo tardi?

In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.

Marco Bello

Note

  1. S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
  2. Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
  3. Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
  4. David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.

Una storia unica
Il Sarawak dei rajah bianchi

Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).

Ma.Bel.




Marocco. Argento e ambiente


Assetati d’argento

Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.

Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.

Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).

Accaparramento e resistenza

Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.

In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.

L’argento del re

Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.

La miniera è gestita dalla Société Metallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.

La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.

Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.

Danni ambientali e repressione

Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.

Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.

Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.

Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.

Movement on the Road ’96

Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.

Proteste socioambientali in aumento

Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.

E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.

Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.

Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.

Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili

L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.

Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.

Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.

Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.

Non basta dire «sostenibilità»

In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas


Altri tre casi emblematici

1.      L’impatto ambientale dell’energia solare

Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?

2.      Le donne Soulaliyate

Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.

3.      Land grabbing a Rabat

La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.