Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis




Popolazione e ambiente


In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popolazione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Inumeri non sempre sono veritieri e niente lo dimostra meglio dell’argomento popolazione. Ad esempio, stando alle rilevazioni, la nazione più popolata del pianeta risulta essere la Cina che ospita 1 miliardo e 450 milioni di persone. Ma se mettiamo la popolazione a confronto con il territorio disponibile, scopriamo che lo stato a più alta densità, ossia con più alta concentrazione di popolazione, è il Principato di Monaco con 18mila persone per chilometro quadrato. La Cina arriva 84ª con 151 persone per chilometro quadrato. Un numero che la colloca dopo Malta (8ª), l’Olanda (27ª), la Gran Bretagna (52ª), la stessa Italia che si trova al 75° posto.

In conclusione, la popolazione la si può guardare sotto varie angolature, con graduatorie che cambiano di continuo.

 

L’equilibrio perduto

Con il passare dei decenni, un problema si è fatto sempre più acuto, quello che riguarda l’impatto della crescita demografica sull’ambiente. Salvo casi straordinari, come quello dell’isola di Pasqua che, attorno al 1400, fu deforestata per fare spazio alle statue note come moai, l’umanità ha sempre vissuto in equilibrio con il pianeta.

In altre parole, il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti avveniva in maniera tale da rispettare la capacità della natura di rigenerare le risorse rinnovabili ed assorbire le sostanze di scarto. Un equilibrio che però ha cominciato a rompersi nel corso del secolo scorso, come conseguenza di un sistema economico che, in maniera ossessiva, aveva come unico obiettivo la crescita di produzione e consumo noncurante dei limiti del pianeta. Un’ossessione che ci ha portato a tutti i disastri ambientali che conosciamo oggi. In particolare, all’esaurimento di risorse, sia di tipo rinnovabile che non rinnovabile, e all’eccesso di rifiuti, primo fra tutti l’anidride carbonica il cui accumulo in atmosfera sta provocando i cambiamenti climatici.

Lentamente, stiamo capendo che questi ultimi sono un problema serio, ma quello che ancora ignoriamo è che le conseguenze non saranno uguali per tutti. Qualche assaggio, è vero, lo abbiamo anche in Europa con perdita dei ghiacciai, lunghi periodi di siccità, straripamento di fiumi, ma i veri drammi stanno avvenendo e, sempre di più, avverranno altrove.

Geografi e climatologi ci avvertono che le aree più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici saranno quelle del Sud del mondo con effetti diversificati: in alcune regioni il problema maggiore sarà l’aridità, in altre l’eccesso di acqua.

Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e subsahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare.

Mentre metà della popolazione africana già vive in condizione di insicurezza alimentare, si teme che i cambiamenti climatici ridurranno le rese agricole del 30% entro il 2050. E, tuttavia, l’aumento di popolazione farà crescere la richiesta di cibo del continente del 50%.

L’Asia meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa.

In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione di tutto ciò che i venti troveranno lungo il proprio percorso. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avveleneranno le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità. Le zone più a rischio sono le coste solcate dai delta. In particolare, si teme per il Bangladesh, paese piatto e densamente popolato con una grande quantità di famiglie ancora dipendenti dall’agricoltura. Se il livello del mare dovesse innalzarsi di 45 centimetri, come potrebbe succedere se non si riuscisse ad arrestare la crescita della temperatura terrestre, l’11% del territorio bengalese potrebbe essere invaso dal mare, con gravissime conseguenze umane, sociali ed economiche. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

Ciò che stiamo imparando dai cambiamenti climatici, se mai ce ne fosse bisogno, è che i processi naturali trascendono i confini politici creati dagli umani. Effetto serra, venti, correnti marine, sono fenomeni di tipo planetario che possono avere la propria origine in un punto del globo e provocare i propri effetti in un altro.

Le emissioni di CO2

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione europea se ne intesta un altro 24%. In termini di popolazione, gli Usa rappresentano solo il 4,2% della popolazione mondiale, mentre l’Unione europea il 5,6%. Da un punto di vista storico la Cina ha contribuito solo per il 13% delle emissioni globali, mentre la sua popolazione rappresenta il 18% della popolazione complessiva.

Quanto all’Africa, la sua partecipazione alle emissioni di CO2 è stata appena del 2%, ma la sua popolazione rappresenta oltre il 16% di quella mondiale.

La dimostrazione pratica di come i ricchi abbiano inquinato e i poveri ne paghino le conseguenze.

Oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica in termini assoluti è la Cina che si intesta

il 27% delle emissioni annuali globali. Per correttezza dovremmo precisare che buona parte delle sue emissioni
andrebbero ascritte a consumatori di altre nazioni perché nella nuova geografia internazionale del lavoro, la Cina è stata ormai eletta a fabbrica mondiale.

Ma, pur sorvolando su questo aspetto, se distribuiamo le tonnellate di anidride carbonica emesse dalla Cina per i suoi abitanti, otteniamo un’emissione pro capite annuale di 7,3 tonnellate. Gli statunitensi, invece, ne producono mediamente 14,5 a testa, mentre gli europei 6.

Si calcola che, per rimanere in equilibrio con il pianeta, nessuno dovrebbe emettere più di 2,2 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno, per cui la Cina è come se avesse una popolazione 3,3 volte superiore a quella che di fatto ospita. La popolazione degli Stati Uniti, invece, è come se fosse 6,5 volte più alta mentre quella dell’Unione europea 2,7 volte più elevata.

In altre parole, prendendo come riferimento le emissioni ammissibili, è come se la Cina ospitasse 4,7 miliardi di individui invece di 1,4, gli Stati Uniti 2,1 miliardi invece di 332 milioni e l’Unione europea 1,2 miliardi invece di 447 milioni.

La conclusione è che, contando le teste, oggi la Cina risulta avere una popolazione quattro volte più alta degli Stati Uniti. Contando le emissioni pro capite di anidride carbonica è come se ne avesse solo il doppio. Quanto all’Africa, che emette anidride carbonica corrispondente a una sola tonnellata a testa, è come se avesse 650 milioni di abitanti invece di 1,4 miliardi.

L’impronta ecologica

Molti altri aspetti potrebbero essere presi in considerazione per valutare la dimensione reale di ogni nazione: il consumo di acqua, il consumo di risorse e di cibo, i rifiuti prodotti. Ma ce n’è uno che in qualche modo li ricomprende tutti ed è la così detta impronta ecologica. Un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla natura.

Più precisamente, l’impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. Purtroppo, noi abbiamo perso il contatto con la natura e abbiamo dimenticato che gran parte dei nostri consumi proviene dalla terra. L’esempio più evidente è il cibo. Ma anche la carta affonda le sue radici nella terra perché proviene dagli alberi. Perfino l’anidride carbonica che esce dalle nostre marmitte può essere espressa in metri quadrati di terra, perché è riciclata dalle piante. Ad esempio ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell’intervento di 5 metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza ogni anno 8 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,8. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari.

Se prendiamo l’insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un’impronta di 1,5 ettari. All’incirca un terzo della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l’impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è l’80% più grande di quella ammissibile. Come dire che un pianeta terra non ci basta più. Già ora ce ne servirebbero quasi due. Non a caso l’anidride carbonica si sta accumulando nell’atmosfera per l’insufficiente presenza di organismi vegetali capaci di assorbirla.

In conclusione, se valutiamo la popolazione delle singole nazioni in base alla loro impronta ecologica, cambia tutto.

La popolazione cinese si rivaluta dell’80% passando da 1,4 miliardi a 2,6 miliardi. Quella statunitense si rivaluta del 433%, passando da 332 milioni a 1,7 miliardi. Quella italiana si rivaluta del 146% passando da 59 milioni a 145 milioni. Al contrario, quella indiana si riduce del 20% passando da 1,4 miliardi a 1,1.

Fertilità versus eccessi

Troppo spesso attribuiamo la responsabilità degli squilibri naturali a chi fa molti figli. Ma dimentichiamo che le popolazioni ad alta fertilità sono anche quelle con tassi di consumo e di inquinamento al di sotto della soglia di sostenibilità.

Per risolvere i problemi dell’umanità, piuttosto che puntare il dito contro di loro faremmo bene a mettere in discussione i nostri eccessi.

Francesco Gesualdi
(seconda puntata – fine)




Cinghiali (e lupi) alle porte di casa

In Italia, si stima la presenza di 2,3 milioni di cinghiali. I danni che producono sono enormi, ma la caccia libera non è la soluzione. Nel frattempo, anche sui lupi (pur presenti in poche migliaia ) si è aperta la discussione.

È un fatto che i centri abitati siano diventati molto attraenti per la fauna selvatica. Sempre più spesso, infatti, le nostre città si trovano a ospitare svariate specie di animali selvatici, diventati – per ragioni opportunistiche – tolleranti alla presenza umana. I motivi di questo fenomeno sono molteplici. Ad esempio, l’abbondanza di cibo scartato e di rifiuti organici dentro e fuori i cassonetti; la presenza di prede di piccola taglia, come topi o ratti, presenti in gran numero in strade e discariche, a loro volta presidiate dai gabbiani. Ci sono poi le condizioni climatiche cittadine più favorevoli rispetto a quelle che si trovano fuori dai centri abitati: in questi, solitamente, ci sono 1-2 gradi in più e, inoltre, ci sono meno vento e umidità. Anche l’acqua è più disponibile. Infine, qui si trovano tanti siti utilizzabili per la riproduzione. La tendenza all’inurbamento è tipica delle specie opportuniste o onnivore, che sono quelle più facilmente adattabili.

Tutto ciò può creare seri problemi di convivenza tra animali e umani, nonché il rischio di zoonosi, cioè di patologie causate da agenti patogeni trasmessi da animali, come nel caso della rabbia silvestre, trasmessa soprattutto dalle volpi (ma non solo da esse) e quello della peste suina, trasmessa dai cinghiali. Ecco, quindi, la necessità di controllare la presenza delle specie selvatiche vicino alle nostre abitazioni.

L’invasione dei cinghiali

Negli ultimi trent’anni, in Europa si è verificato un notevole incremento – sia numerico, che per distribuzione geografica – dei cinghiali. Originatosi in Eurasia e Nord Africa, si sta diffondendo in tutto il mondo. In Italia, sono ormai presenti ovunque, comprese le isole. Dal 1500 questa specie aveva subito una vera e propria persecuzione da parte umana, tanto per le trasformazioni ambientali, che per l’avvento delle armi da fuoco. Ne era derivata una sua progressiva diminuzione tanto che, all’inizio del XX secolo, i cinghiali erano presenti solo in nuclei isolati nelle regioni tirreniche del Centro e del Sud Italia, sul Gargano e in Sardegna. Nel 1919, la specie è però tornata sull’arco alpino, con la comparsa di alcuni esemplari giunti dalla Francia in Liguria e in Piemonte. Negli anni Cinquanta si sono verificate numerose immissioni di cinghiali provenienti dalla Slovenia in Friuli, a scopo venatorio e, sempre per lo stesso motivo della caccia, negli anni successivi tali immissioni sono proseguite con animali provenienti da allevamenti nazionali. Non è possibile conoscere il numero dei cinghiali attualmente presenti in Italia, a causa delle difficoltà e dei costi che comporterebbe un conteggio dei singoli capi. Tuttavia, secondo i dati più recenti dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel 2020 i cinghiali sarebbero stati circa un milione, raddoppiati rispetto al 2010, mentre, secondo Coldiretti, il sindacato dei piccoli imprenditori agricoli, nel 2022 il totale stimato sarebbe di 2,3 milioni.

I motivi di una così grande espansione del cinghiale in Italia sono dovuti sia alle immissioni a scopo venatorio, attualmente proibite (anche se ancora effettuate illegalmente in qualche regione del Sud), sia al progressivo spopolamento di vaste aree montane e rurali. Quest’ultimo fenomeno comporta sia una netta diminuzione del prelievo venatorio operato dall’uomo, sia una notevole sostituzione di terreni prima impiegati per l’agricoltura e la pastorizia con i boschi di vegetazione spontanea. Qui i cinghiali, che sono animali plastici e adattabili, possono trovare casa, benché il loro ambiente prediletto sia quello della macchia mediterranea, caratterizzato da vegetazione bassa e fitta, in cui possono nascondersi, come nel caso della smilacea, una pianta spinosa, tra i cui arbusti essi creano i loro viottoli. Peraltro, i cinghiali sono animali elusivi e intelligenti, capaci di sopravvivere in territori molto diversi tra loro e di cibarsi di un po’ di tutto, essendo onnivori opportunisti (benché la loro tendenza frugivora faccia prediligere loro ghiande, radici, tuberi, castagne in autunno-inverno e foglie, gemme e piccoli fusti in estate). Proprio perché sono animali opportunisti, quando le risorse naturali scarseggiano, i cinghiali, pur essendo considerati una specie sedentaria, sono capaci di percorrere anche decine di chilometri in cerca di cibo e, sempre più spesso, entrano nelle nostre città, attratti dai rifiuti organici presenti nei bidoni in strada. È chiaro che la loro presenza può essere percepita come pericolosa, anche se spesso la reazione umana risulta sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo. Tuttavia, può capitare che una femmina di cinghiale con prole al seguito possa diventare aggressiva e quindi, se allarmata dalla presenza umana, attaccare l’uomo.

Inoltre, i cinghiali vanno nottetempo a compiere veri e propri scavi nei terreni da pascolo o agricoli, facendo razzia delle coltivazioni e arrecando gravi perdite economiche ad agricoltori e pastori. Si stima che i danni all’agricoltura in Italia, a causa dei cinghiali, dal 2015 al 2021 siano stati in media di circa 17 milioni di euro annui. Questa cifra non tiene conto dei danni (anche mortali) causati agli automobilisti negli incidenti stradali da essi provocati. Infine, occorre considerare il rischio di possibili infezioni trasmesse ai suini d’allevamento, visto che, dal gennaio dello scorso anno, i cinghiali sono stati individuati come i principali responsabili della diffusione della peste suina. Per tutto questo sono, quindi, moltissimi coloro che, a gran voce, chiedono il controllo e l’eliminazione di questi animali, indicando la caccia come soluzione. Siamo però sicuri che sia questa la strada migliore per risolvere il problema?

Una società matriarcale

In realtà, se consideriamo la biologia e lo stile di vita dei cinghiali, la risposta è certamente «no», anzi, con la caccia, si rischia di aggravare il problema invece di risolverlo. Infatti, nonostante il gran numero di capi abbattuti ogni anno (circa 300mila secondo l’Ispra), la loro popolazione continua ad aumentare. Per capire questo fenomeno, dobbiamo prendere in considerazione la biologia e l’ordine sociale dei cinghiali, che vivono in società matriarcali con a capo una femmina anziana, detta «matrona», che è la madre di tutte le altre femmine presenti nel branco e che è l’unica a riprodursi in condizioni normali, dal momento che essa emette particolari feromoni capaci di inibire la riproduzione delle femmine più giovani, impedendo che esse vadano in estro. La matrona normalmente si accoppia con il maschio più anziano, detto «salengano», che, pur essendo un animale potente, è caratterizzato da una bassa carica spermatica. Dalla loro unione nascono mediamente 4-6 cuccioli all’anno. Date le maggiori dimensioni delle matrone e dei salengani, essi sono le vittime predilette dei cacciatori, i quali, uccidendoli, privano il branco di controllo. In tal modo, le giovani femmine rimanenti entrano immediatamente in estro e si accoppiano con i giovani maschi ad alta carica spermatica. Il risultato è che in un branco, nel quale normalmente sarebbero nati solo i cuccioli della matrona, ogni anno ne nascono 20-30 dalle giovani femmine. Queste, per riprodursi, hanno soltanto bisogno di raggiungere i 30 chilogrammi di peso (indipendentemente dall’età), cosa piuttosto semplice vista la grande disponibilità di cibo sul territorio. L’età media di riproduzione delle femmine di cinghiale è scesa da 18 a 15 mesi. Quindi, è a causa delle battute di caccia che colpiscono gli animali più grandi e anziani, che ci ritroviamo popolazioni sempre più giovani e prolifiche.

L’intervento umano

Questo dimostra come spesso l’intervento umano in natura porti più danno che beneficio. Come se non bastasse, l’attività venatoria, oltre ad alterare l’organizzazione sociale dei cinghiali, ne altera la mobilità spingendoli verso le aree libere da cacciatori, come i luoghi abitati, i bordi delle strade e i parchi cittadini. Peraltro, bisogna distinguere la caccia sportiva dall’attività di controllo e dalla caccia di selezione. Mentre la prima è sostanzialmente un hobby, l’attività di selezione si fonda su basi ambientali ed è selettiva sugli animali da contenere scegliendo, in base a valutazioni biologiche ed ecologiche, quali colpire, utilizzando un’ampia strumentazione e non solo il fucile. La caccia di selezione è invece una via di mezzo tra le altre due. È effettuata da cacciatori, ma su base ecologica, per cui chi vuole diventare selecontrollore deve seguire dei corsi di formazione e superare un esame finale.

Tuttavia, è bene considerare che se ci sono voluti settant’anni per arrivare alla situazione attuale, questa non potrà essere risolta in breve tempo.

Come prevenire i danni

Sarebbe opportuno agire su più fronti. In primo luogo, limitare la pressione venatoria, per evitare il più possibile l’alterazione dell’organizzazione sociale dei cinghiali, che – come abbiamo visto – favorisce un maggiore numero di nascite. Inoltre, bisognerebbe predisporre delle aree libere dalla caccia, dove gli animali si sentano più sicuri e quindi invogliati a lasciare i luoghi abitati. Essenziale, inoltre, sarebbe evitare di lasciare i rifiuti organici in luoghi a loro accessibili, poiché la disponibilità di cibo non può che attrarli e rendere le giovani femmine più prolifiche.

Per quanto riguarda la prevenzione dei danni causati dai cinghiali all’agricoltura, potrebbe essere utile ricorrere a recinzioni elettrificate delle aree coltivate, così come la selezione oculata delle colture da impiantare. Infine, per la prevenzione degli incidenti stradali causati non solo dai cinghiali, ma dalla selvaggina in genere sono disponibili delle tecnologie piuttosto semplici, che percepiscono l’avvicinamento di un animale a bordo strada ed emettono luci e suoni, sia per spaventarlo che per avvisare gli automobilisti del pericolo. Il loro uso andrebbe sicuramente incentivato.

Prede e predatori

Poiché dove c’è la preda, lì si trova anche il predatore, ed essendo il cinghiale la preda per eccellenza del lupo, non poteva essere che quest’ultimo non facesse altrettanto rapidamente la sua comparsa vicino ai luoghi abitati.

In questi ultimi anni, sono stati numerosi gli avvistamenti vicino ai paesi o nelle periferie di grandi città in diverse zone italiane. Il lupo in Italia è una specie protetta, quindi non può essere oggetto di attività venatoria. Attualmente, in Italia si stima che ci siano circa 3mila lupi, mentre in Europa sarebbero circa 17mila. Le prede del lupo sono principalmente selvatiche ma, come noto, possono essere anche gli animali d’allevamento, soprattutto caprini e ovini, per l’estrema facilità di cattura. La totale protezione del lupo, in vigore in alcuni paesi europei, ha fatto sì che molti esemplari abbiano meno paura dell’essere umano; si parla di «lupi confidenti», che si addentrano nelle periferie dei centri abitati e fanno strage soprattutto di pecore e capre anche custodite all’interno di recinti, che questi predatori sono spesso in grado di saltare.

Da una parte, dunque, il lupo potrebbe essere alleato dell’uomo nel controllo dell’espansione dei cinghiali, dal momento che, come fanno spesso i grandi predatori, catturano più facilmente i piccoli che gli adulti. Per contro, i lupi causano gravi danni agli allevatori, anche perché sovente un singolo lupo che riesce a introdursi in un recinto di pecore o capre, ne uccide parecchie per cibarsi di una soltanto. Questo capita perché gli animali d’allevamento hanno perso i comportamenti delle prede selvatiche, quindi stanno fermi, oppure fuggono disordinatamente, mentre il lupo ha mantenuto le sue caratteristiche naturali di predatore, cioè è programmato per assalire l’animale oggetto di preda. Ecco perché è essenziale non fuggire di corsa dandogli le spalle. Tra l’altro, i lupi si avvicinano sempre più ai centri abitati seguendo anche le stagioni e le condizioni meteo, poiché sono le loro stesse prede, in particolare gli ungulati, a farlo. Normalmente l’inverno comporta carenza di cibo per gli animali selvatici, che tendono ad avvicinarsi maggiormente ai centri abitati. Secondo alcuni studiosi sarebbe opportuno derogare alla protezione assoluta del lupo, con degli abbattimenti controllati, in modo da riuscire a mantenere alta nel lupo la diffidenza verso l’essere umano.

Rosanna Novara Topino




Festival della Missione 2022. Svelare l’umano condivisibile


Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.

Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.

Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.

Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.

Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.

Diverse file di sedie iniziano a riempirsi di persone attorno alla statua che troneggia al centro della piazza: l’imperatore Costantino, quello che firmò nel 313 d.C. il famoso editto di Milano che concesse libertà di culto ai cristiani.

La missione in piazza

La prima edizione del Festival della Missione si è tenuta a Brescia nel 2017 (cfr MC dicembre 2017, p. 14). Un’occasione di festa, incontro e scambio missionario così entusiasmante da convincere i due organismi promotori, la fondazione Missio e la Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani di cui fanno parte 14 istituti ad gentes: 6 femminili e 8 maschili), a organizzarne, cinque anni dopo, una seconda edizione.

In entrambe le manifestazioni, sia a Brescia che a Milano, la missione si è fatta presente in piazza, tra la gente.

Ma perché portare in strada la missione e i «suoi» temi?

Di certo perché «la ricchezza delle esperienze missionarie è ricchezza per tutti» – come ha detto don Giuseppe Pizzoli, direttore della fondazione Missio, alla conferenza stampa di presentazione del 19 settembre -, e quindi vale la pena portarla tra la gente, raccontando le storie di persone che nel mondo vivono «per dono», come ha aggiunto Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica del Festival, parafrasando il tema della quattro giorni.

Di certo per «far crescere la missione nella società italiana», nella convinzione che «la fede si rafforza donandola e non difendendola» – come ha chiosato in quella stessa sede padre Fabio Motta, missionario del Pime e rappresentante della Cimi -.

Ma anche per portare in superficie e porre all’attenzione di tutti, cristiani e non, alcune «tracce dell’umano condivisibile: gli spazi, i valori, le sfide, i sogni che ci accomunano tutti come esseri umani», come ci dirà Agostino Rigon, direttore generale del Festival, che sentiremo dopo la sua conclusione.

I linguaggi della missione

Quando abbiamo deciso di partecipare al Festival e abbiamo letto il programma degli eventi sul sito festivaldellamissione.it, siamo stati colpiti dalla varietà di temi e di ospiti. Il mondo missionario vuole comunicare con la città attraverso i linguaggi che gli sono propri: quelli della testimonianza, della Scrittura, della fede, della spiritualità, della teologia; ma anche tramite quelli (che non gli sono estranei) dell’economia, della politica, dell’ecologia integrale, dei diritti umani, dell’etica, della giustizia.

Forse perché impegnati quotidianamente a confrontarsi faccia a faccia con i poveri, gli ultimi, gli scartati di ogni latitudine, con i conflitti, le conseguenze dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento indiscriminato della terra, i missionari non possono fare a meno di domandarsi (e domandare) il perché, e di denunciare quali sono i meccanismi che schiacciano nella marginalità la maggior parte della popolazione mondiale (la «violenza strutturale», direbbe Johan Galtung, o le «strutture di peccato», secondo Giovanni Paolo II).

Storie di «semplici» missionari

Dato che diverse iniziative del Festival si terranno in contemporanea, a malincuore siamo costretti a scegliere.

Parteciperemo ad alcuni incontri nei quali «semplici» suore, famiglie, sacerdoti missionari racconteranno le loro esperienze in terre lontane (o vicine).

Ascolteremo, ad esempio, suor Dorina Tadiello, sorella comboniana, già missionaria in Uganda, a Roma e Verona, che da due anni fa parte della comunità intercongregazionale di Modica, provincia di Ragusa, composta da sacerdoti e suore di diversi istituti religiosi che condividono la vita e la fede per fare accoglienza di persone migranti.

Sentiremo le parole appassionate di don Dante Carraro, medico cardiologo dall’87, sacerdote dal ‘91, e dal 2008 direttore dell’Ong Medici con l’Africa Cuamm, con la quale viaggia spesso in Angola, Etiopia, Mozambico, Tanzania, Sierra Leone, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Uganda.

E poi la testimonianza ricca e colorata di Chiara Bolzonella e suo marito Mauro Marangoni che, con tre anni di missione fidei donum in Kenya alle spalle e cinque figli, hanno fondato nel padovano, assieme ad altre tre famiglie, la comunità Bethesda per condividere il Vangelo nella forma dell’accoglienza e dell’animazione spirituale.

Di giustizia, diritti, vangelo e altro

Parteciperemo poi ad altri eventi nei quali sentiremo parlare di giustizia riparativa dalla ministra Marta Cartabia (che verrà in seguito sostituita nel nuovo governo da Carlo Nordio) con il prof. Adolfo Ceretti, grande promotore della restaurative justice in Italia come all’estero; di «economia che uccide» dall’ex presidente del consiglio Mario Monti con suor Alessandra Smerilli, figlia di Maria Ausiliatrice, insegnante di Economia politica e Segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del Vaticano. Ascolteremo Patrick Zaki in collegamento dal Cairo parlare di diritti umani e della sua situazione di attivista sotto processo nel suo paese; il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, condividere riflessioni sull’annuncio della Parola; il leader indigeno Adriano Karipuna denunciare la situazione di violenza e devastazione subita dal suo popolo e dalla foresta Amazzonica.

Parteciperemo, tra le altre cose, al laboratorio sull’agenda 2030 e a una sfilata di moda «etica».

Faremo anche un aperitivo missionario e visiteremo una delle mostre allestite in diversi luoghi della città.

non solo Numeri

Nell’arco dei quattro giorni del Festival più di cento ospiti si alterneranno sul palco in trenta eventi e convegni, centoventi missionari «testimonieranno» la loro esperienza agli «aperitivi» organizzati in ventisette bar e bistrot del centro, saranno coinvolte dieci piazze, quattro musei, ci saranno otto mostre, undici percorsi artistici con visite guidate in basiliche e chiese, quattordici presentazioni di libri e incontri con gli autori, sei proiezioni di documentari, cinque spettacoli, dieci laboratori per bambini, ragazzi e giovani, un torneo di calcetto, una serata di racconto e sfilata di moda. I partecipanti saranno circa 30mila.

Semi di futuro

Guardandoci attorno, mettiamo a fuoco alcuni volti di missionari conosciuti, alcune famiglie, molti giovani, veli di suore.

C’è un gruppo un po’ chiassoso che si infila nell’edificio dell’oratorio della parrocchia di San Lorenzo. Lì è stata allestita «Casa Missione»: stanze con tavoli e sedie, una macchinetta per il caffè, il bagno, un fasciatoio, un luogo per riposare nelle pause tra una conferenza e la proiezione di un documentario, e magari mangiarsi un panino facendo due chiacchiere con qualche sconosciuto che diventerà presto un volto amico.

Ci avviciniamo a uno dei gazebo del Festival per la registrazione. Uno dei duecento volontari ci consegna il libretto con l’elenco di tutte le proposte. Abbiamo la conferma che a molte non potremo partecipare, ma siamo consolati dalla promessa di ritrovare, in seguito, molti dei contenuti del Festival sul web. Alcuni degli incontri ai quali non potremo partecipare li potremo fruire a casa, andando sul canale Youtube
@FestivaldellaMissione.

Il volontario ci sorride e, prima che noi ci allontaniamo, ci consegna una bustina di carta contrassegnata con il logo e i colori della kermesse. «Vivere per dono» c’è scritto. Dentro alla bustina si sentono rotolare alcuni semi di piante a sorpresa. È l’auspicio di questo secondo Festival della Missione: essere un seme da piantare nella terra con la fiducia che qualcosa di buono e bello spunterà.

Luca Lorusso

Fare rete per dire la missione

A distanza di qualche settimana dal Festival, abbiamo sentito alcuni dei protagonisti del dietro le quinte per raccogliere impressioni «a freddo»: Agostino Rigon, direttore generale del Festival, padre Piero Masolo, direttore operativo, ed Elisabetta Grimoldi, del consiglio direttivo.

Elisabetta Grimoldi

Elisabetta è una laica missionaria saveriana, promotrice del coordinamento dei laici missionari legati ai diversi istituti ad gentes in Lombardia e, tra le altre cose, membro del Suam (l’organo della Cimi per l’animazione missionaria). È manager per un’azienda multinazionale. Si fa chiamare Betty: «Da qualche anno sono nel comitato dei laici lombardi legati agli istituti missionari di cui fanno parte anche le Famiglie missionarie a Km0 e i laici fidei donum. Già da tempo lavoravamo in rete, poi il Festival ci ha spronato a farlo ancora di più. Io sono stata scelta come rappresentante dei laici a livello nazionale, e, durante la preparazione, con Emanuela Costa (Famiglie missionarie Km0) e Claudia Del Rosso (di Missio), abbiamo cercato di aprire i confini della rete coinvolgendo realtà come il Mato Grosso, la Papa Giovanni XXIII e altre».

Le chiediamo cosa le è piaciuto di più del Festival. «Il dono dell’accoglienza, i legami creati tra tante reti. Il fatto che le relazioni proseguono ancora oggi. Questo significa che la rete non aveva come unico fine quello dell’evento. C’è desiderio di continuare assieme. Poi mi sono piaciuti i contenuti, e il fatto che ci fossero tante realtà a costruirli. Infine, il tentativo di intercettare chi è fuori dal mondo missionario e dalla Chiesa».

Padre Piero Masolo

Padre Piero Masolo è un missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere), sacerdote dal 2008, è stato sette anni in Algeria. Lavora al centro missionario della diocesi di Milano. La sua funzione di direttore operativo del Festival ha aiutato a raccordare «la macchina» organizzativa con il territorio. Gli chiediamo se, secondo lui, l’obiettivo dei promotori di far incontrare i tanti soggetti del mondo missionario tra loro e di comunicarsi al di fuori è stato raggiunto. «Sì. I feedback sono positivi. Intanto le 30mila presenze sono già un dato importante. Poi dobbiamo tenere conto anche del grande lavoro fatto nel “pre Festival”. Volevamo che il tutto fosse un percorso e non un evento: è il percorso che può dare frutto. Oggi, ad esempio, molte persone in diocesi ci chiedono di aiutarli a trasformare in realtà quotidiana l’atmosfera di incontro del Festival. Si cammina». Chiediamo quali sono le ricadute positive per la chiesa missionaria di quanto fatto: «Uno: non è vero che la missione è una ciliegina sulla torta. È, anzi, quel filo rosso del logo che tiene assieme il gomitolo. La Chiesa è missionaria, oppure non è. È lo spirito con il quale appartenere alla Chiesa. Questo penso che sia stato recepito da chi ha seguito il Festival. Due: l’evento dice anche che uniti non si è insignificanti. A volte noi missionari ci lamentiamo di non venire ascoltati. Ok, ma noi come ci proponiamo? Il Festival ha provato una modalità nuova di proporre la missione a tutti, e mi pare ci sia riuscito».

Agostino Rigon

Agostino Rigon è il direttore generale del Festival. Ha alle spalle sei anni di Messico e molti anni di lavoro missionario in Italia. È l’attuale direttore dell’ufficio missionario di Vicenza. «Il desiderio dal quale è nato il Festival era triplice. Uno: superare l’autoreferenzialità dei soggetti missionari, vincere la fatica di interfacciarci tra di noi e con il mondo. Il secondo desiderio era quello di aiutare lo svelamento dell’umano condivisibile: non volevamo che il Festival fosse un’occasione per parlarci addosso, volevamo, invece, portare in evidenza gli spazi, i valori, le sfide che ci accomunano tutti come umani. Per questo il Festival ha ascoltato anche voci estranee al mondo ecclesiale. Terzo: mettere in luce la bellezza del Vangelo come dono per la vita del mondo. Attraverso il racconto delle storie di molti missionari, mostrare che ci sono ragioni di vita che ispirano uomini e donne a vivere e a servire l’umanità».

Questo triplice desiderio si è realizzato? «Io direi di sì. Non come obiettivo raggiunto, ma per i passi avanti fatti. Ad esempio, la Cimi e Missio non avevano mai lavorato insieme con tanta corresponsabilità e convergenza di visione, e mai avevamo creato una tale rete di alleanze con cui parlare dell’umano condivisibile».

Anche ad Agostino domandiamo cosa è piaciuto di più della manifestazione: «La sinodalità: nel consiglio direttivo eravamo decine di soggetti diversi e ho visto che tutte le cose fatte con un’intesa comune sono state quelle più belle. La sinodalità intesa come esperienza di relazioni e corresponsabilità molto pratica e concreta.

Un altro aspetto è “la contaminazione”: abbiamo visto che è possibile condividere valori e sfide, sogni e speranze con molte più persone di quante immaginassimo. A volte ci consideriamo un’isola che lavora controcorrente, invece c’è una moltitudine di gente che condivide tante cose e ha sete e fame di fare sistema e impegnarsi con altri».

E adesso cosa si fa? «È un discernimento che spetta a tutti, non solo agli organizzatori del Festival. Sono stati proposti metodi, idee, occasioni, ma poi bisogna che ciascuno li faccia propri».

Il prossimo Festival? «L’idea è di fare il Festival ogni 3 anni, ogni volta in una sede diversa. Il prossimo potrebbe essere nel centro Italia o al Sud… ma è tutto da verificare».

L.L.

Un laboratorio sinodale

I quattro giorni del Festival della Missione di Milano, che hanno visto la partecipazione di 30mila persone, non sono stati «solo» un evento, ma l’apice di un percorso che, cominciato nel 2020 con la sua ideazione e progressiva attuazione in una serie di iniziative «pre Festival», prosegue ancora oggi con il «post Festival».

Promosso da Fondazione Missio (Cei) e Cimi (Conferenza istituti missionari in italia) e realizzato dall’Arcidiocesi di Milano in rete con più di 70 partner, sia ecclesiali che laici, tra istituzioni, sponsor, diocesi lombarde, media, enti formativi, associazioni, Ong, fondazioni, il Festival è stato, ed è ancora, un laboratorio di «sinodalità».

Padre Piero Masolo, missionario del Pime, direttore operativo del Festival, fa un elenco di diciannove ambiti nei quali la «sinodalità» della rete messa in campo dagli organizzatori si è espressa nei mesi scorsi, a volte a livello nazionale.

Per citarne solo alcune, ricordiamo le proposte didattiche che hanno raggiunto 64mila studenti nelle scuole dell’interland milanese nell’anno scolastico 21/22; i progetti di giornalismo a livello universitario; i gemellaggi internazionali tra gruppi di ragazzi del Nord e del Sud del mondo; la proposta di un song contest rivolto ad adolescenti e giovani, sfociato nel concerto del 2 ottobre a Milano; il cosiddetto «cantiere festival», cioè l’organizzazione di eventi, conferenze, serate, testimonianze, spettacoli, momenti di preghiera, di dialogo interconfessionale e interreligioso, giornate di spiritualità da parte dei centri missionari diocesani, degli istituti missionari, di altre congregazioni religiose, monasteri, gruppi di tutta Italia; i percorsi di giustizia riparativa per i detenuti di Agrigento e Campobasso, e sul dialogo islamo-cristiano nelle carceri di Busto Arsizio e di San Vittore a Milano.

Dal «pre Festival», a fine settembre si è passati al Festival. Dai quattro giorni di Milano, si è passati ora al «post». Succederà presto, anche se non sappiamo ancora quando, che dal «post» si passerà a un nuovo «pre» che ci accompagnerà a un nuovo percorso.

L.L.

 




Stati Uniti. Alaska, l’ultima frontiera

Un’aquila calva in inverno nel National Kenai Fjords Park, in Alaska. Foto Jeff Carpenetti – NPS.

Sommario

Alaska, il pianto dei ghiacciai

Viaggio nello stato Usa più grande e spopolato

Nel 49° stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.

Seward (Kenai). È una fila di cippi in legno, ciascuno con segnato un anno: 1830, 1917, 1926, 1951, 2015… Distano qualche decina di metri l’uno dall’altro: più recente è l’anno, maggiore è la distanza tra un cippo e l’altro, una distanza che misura il regresso del ghiacciaio. I numeri parlano da soli. Tra il 1815 e il 2015, esso si è ritirato di 2,5 chilometri con una progressione costante: da 19,7 metri all’anno a 29,4 (2006-’10) a 44,5 (2011-’15). In questi ultimi anni poi, l’«eccezionale» (secondo la University of Alaska-Fairbanks) incremento delle temperature medie ha ulteriormente accelerato il ritmo dello scioglimento.

Quei cippi in legno sono come lapidi funerarie che rammentano, a chiunque voglia vedere, l’agonia di Exit, questo il nome del ghiacciaio, il più accessibile tra i 35 ospitati dall’altopiano di Harding, nel Kenai Fjords National Park, sulla penisola del Kenai, a Sud di Anchorage, la città più grande (290mila abitanti) dell’Alaska.

Il ritiro di Exit è impressionante, ma probabilmente il sentimento più forte è la tristezza di vedere una meraviglia della natura contrarsi, rattrappirsi come un corpo che invecchia. Exit è soltanto uno degli oltre 27mila ghiacciai (dato 2021) dell’Alaska, che, in totale, occupano circa il 5 per cento del suo territorio (costituito a Sud dalla taiga e a Nord dalla tundra).

Oggi l’Alaska – 49° stato ad aderire agli Usa (3 gennaio 1959), il più grande (quasi sei volte l’Italia) e il meno popolato (meno di 800mila abitanti) – è la rappresentazione plastica e tangibile dei mutamenti climatici.

L’Alaska sta sperimentando profonde alterazioni ambientali dovute a eventi meteorologici estremi e mutamenti nel clima storico. Le conseguenze – temperature più alte, perdite di ghiaccio marino, riduzione del manto nevoso, degradazione del permafrost, inondazioni, incendi, acque dell’oceano più calde e cambiamenti dell’ecosistema (sia marino che terrestre) – stanno producendo impatti sulla vita quotidiana degli abitanti dello stato.

L’innalzamento della temperatura varia notevolmente da regione a regione, con il riscaldamento nelle parti settentrionali e occidentali che è doppio rispetto al tasso riscontrato nell’Alaska Sudorientale. L’International Arctic Research Center (Iarc, Università di Fairbanks, 2019) ha, infatti, registrato temperature fino a 3,2 gradi Celsius più elevate nelle zone settentrionali, fino a 2,0 gradi Celsius nelle zone meridionali e fino a 1,1 gradi Celsius lungo le coste e negli arcipelaghi.

Lo sbocco finale di Exit, ghiacciaio da anni in drammatica ritirata. Foto Paolo Moiola.

Se crescono più alberi

Le poche strade dell’Alaska hanno caratteristiche precise: dritte, lunghissime e praticamente senza traffico, si addentrano tra la taiga o la tundra. La taiga è l’ambiente tipico dell’Alaska meridionale. Più si procede verso il centro e verso Nord, più gli alberi si riducono in dimensioni (diventano piccoli e sottili) e numero, fino a scomparire del tutto, dando origine alla tundra. Tuttavia, negli ultimi anni, a causa dei mutamenti climatici, questa ha mostrato una crescita verde (greening, più piante) maggiore rispetto alla media nel lungo periodo. Un fenomeno evidenziato anche nei parchi nazionali dall’innalzamento della cosiddetta «linea degli alberi» (treeline). Come nel parco del Denali dove il passaggio dalla taiga alla tundra si distingue nitidamente. «Guardate – ci fa notare Laurie, una guida del parco -, oggi gli alberi crescono più in alto. Con conseguenze a catena, in primis sulla fauna».

Per ammirare il parco dall’alto e in particolare il Denali (per quasi un secolo chiamato Monte McKinley), per prominenza la terza montagna al mondo (6.138 metri), il piccolissimo aeroporto di Talkeetna è la base di partenza migliore. Fondata nel secondo decennio del Novecento, con circa mille abitanti ufficiali, la cittadina è, a conti fatti, una strada fiancheggiata da una fila di ristorantini e negozietti.

Entriamo al Village Arts and Crafts, uno dei piccoli empori aperti a beneficio dei turisti. Alla cassa c’è Ruth Cook, la proprietaria, una donna anziana e minuta. «Sono qui da tutta la mia vita – racconta con voce amichevole -, e ho visto tante cose cambiare. Sono cresciuti i turisti, i rifiuti e la mancanza di rispetto. E, soprattutto, i mutamenti causati dall’aumento delle temperature».

Anche se oggi il cielo è molto coperto e la pioggia incombente, i piccoli velivoli decollano da Telkeetna: volare sulla catena montuosa del Denali è un’esperienza imperdibile perché permette di ammirare lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai. E, infatti, le aspettative sono ampiamente ripagate. Tuttavia, ai nostri occhi inesperti la visione dall’alto non consente di distinguere i segni della malattia climatica. Segni che invece appaiono evidenti in un’altra zona geografica.

Will Popoli non ha ancora vent’anni e studia geologia e storia all’Amherst College, nel Massachusetts. A McCarthy-Kennicott, all’interno del vastissimo parco nazionale Wrangell St. Elias, sta facendo esperienza come guida con l’agenzia St. Elias Alpine Guide.

Mentre, con i ramponi ai piedi, camminiamo sul Root Glacier, ci spiega le cose essenziali del ghiacciaio: i detriti morenici, la colorazione blu del ghiaccio e, soprattutto, la sua progressiva riduzione. «Sì, penso che in Alaska stia accelerando la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo è un fatto molto preoccupante». Il Root è un affluente del Kennicott, il ghiacciaio principale. Le ricerche degli scienziati confermano che questo continua a ritirarsi ed espandere l’area coperta da detriti.

Dominio conservatore

Va riconosciuto che i 16 parchi nazionali dell’Alaska, a cui vanno aggiunti i National wildlife refuges (rifugi nazionali per animali selvatici), hanno finora rappresentato una diga contro gli interessi dei politici repubblicani e le mire dei signori del petrolio. Ma cosa pensano gli alaskani della situazione ambientale del loro stato?

Nelle conversazioni, la sensazione è che nessuno neghi gli effetti della crisi climatica, ma – allo stesso tempo – sono in molti a ritenere i mutamenti ambientali come un fenomeno naturale negando o sminuendo le responsabilità umane. Una constatazione questa che trova spiegazione (anche) nella storia dell’Alaska.

Già dal 1867 (anno in cui gli Usa l’acquistarono – a prezzo di saldo – dalla Russia zarista), la regione è stata terra di conquista del Gop (Grand old party), il partito conservatore statunitense che, per Dna, considera il cambio climatico alla stregua di una fake news. Come hanno dimostrato anche le elezioni locali (sia primarie che suppletive) dello scorso 16 agosto (e quelle di mid-term dell’8 novembre), dominate da esponenti repubblicani, eccezion fatta per la performance della democratica Mary Peltola, candidata di etnia Yup’ik, il maggiore tra i popoli indigeni dello stato (che, in totale, rappresentano il 21% della popolazione). La Peltola ha sconfitto addirittura Sarah Palin, l’ex governatrice (ed esponente del Tea Party) sostenuta da Trump.

Per ironia della sorte, le votazioni alaskane di agosto si sono tenute nello stesso giorno in cui un redivivo Joe Biden firmava la legge nota con l’acronimo di Ira (Inflation reduction act of 2022), un piano in cui sono previsti 369 miliardi di dollari di investimenti per l’energia e il contrasto ai cambiamenti climatici.

Vista aerea di un tratto della catena del Denali.

Andare oltre Prudhoe Bay?

La crisi climatica che ha investito l’Alaska è certificata da decine di studi scientifici, eppure oggi non si discute su come contrastare o, almeno, mitigare la contrazione dei ghiacciai. No, si discute di come portare le trivellazioni petrolifere nel Nord dello stato, al di fuori di Prudhoe Bay (davanti al Mar Glaciale Artico), il sito dove, da 45 anni, si estrae il petrolio dell’Alaska. Lo stato è il sesto produttore statunitense, ma la produzione è in costante declino dal 1990, arrivando oggi a 448mila barili al giorno contro i due milioni di un tempo (dati Eia, 2020).

L’espansione avverrebbe sia a Nord Ovest (nella National petroleum reserve-Alaska) che a Nord Est, nella ragione al confine con il Canada e nota come Arctic national wildlife refuge, paradiso ancora incontaminato dei caribou (renne selvatiche), ma anche di orsi (compresi quelli polari), volpi artiche, alci, buoi muschiati e lupi grigi. Dopo il permesso di esplorazione petrolifera nell’area concesso da Trump già nel dicembre 2017, il presidente Biden è riuscito – almeno per ora – a fermare il progetto (ordine esecutivo del 20 gennaio 2021).

Tuttavia, la partita non è certamente chiusa, soprattutto nella National petroleum reserve-Alaska, dove – sotto la superficie della tundra – sono state individuate vaste riserve d’idrocarburi.

Qui il progetto di trivellazione della ConocoPhillips – noto con il nome di Willow project – è stato approvato da Trump nel 2020, fermato dai tribunali nel 2021 e ancora in corso di valutazione da parte dell’amministrazione Biden da luglio 2022.

In agosto, i cartelloni elettorali di Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska (considerata moderata e ben vista anche da alcuni avversari perché anti trumpiana), erano visibili anche nei posti più impensabili e disabitati dello stato.

La senatrice ha ottimi rapporti con l’industria petrolifera e, in particolare, proprio con la ConocoPhillips, il principale produttore (con ExxonMobil e Chevron che seguono a distanza) dell’Alaska, compagnia da cui lei ha ricevuto anche fondi per la propria campagna elettorale. Non stupisce, pertanto, che la Murkowski appoggi il Willow project. «Produrrà – scrive la senatrice – fino a 160mila barili di petrolio al giorno e creerà oltre duemila posti di lavoro ben pagati per gli abitanti dell’Alaska». Ben diversa è la posizione degli scienziati e della Wilderness society: Willow è una bomba al carbonio (carbon bomb) che aggiungerebbe più di 250 milioni di tonnellate di CO2 all’atmosfera nei prossimi 30 anni e probabilmente stimolerebbe la costruzione di strade, oleodotti e impianti di lavorazione.

Come prevedibile, il progetto è altamente divisivo tra gli stessi nativi. L’Arctic slope regional corporation (Asrc), società degli Iñupiat (creata nel 1972 in seguito all’Ancsa, la legge sulle terre), lo appoggia, mentre gli indigeni ambientalisti (per esempio, quelli riuniti nell’Alaska climate alliance) lo contrastano con forza. Ma si tratta di una lotta impari perché l’industria petrolifera è «la vacca sacra della politica dell’Alaska» (the sacred cow of Alaskan politics), secondo la definizione dell’Earth island institute di Berkeley.

Disastri ambientali e dollari

Lo si capisce anche a Valdez, tra le penisole, i fiordi e i «ghiacciai di marea» (quelli che terminano nell’acqua del mare) dello stretto Prince William.

Il suo piccolo porto ha un fascino particolare, con i pescherecci, i battelli turistici e gli uccelli in attesa dei resti del pesce che, appena sbarcato sulla banchina, viene subito tagliato e ripulito da addetti rapidissimi. Più lontana e defilata, confusa nella nebbia, c’è un’altra banchina, molto anonima. Alla fonda c’è una lunga nave cisterna e sulla terraferma, posti in posizione sopraelevata, dei grandi serbatoi circolari e un lungo serpente di tubi. È la stazione finale del Trans Alaska pipeline system (Taps), l’oleodotto che, dal 1977 e per 1.300 chilometri, attraversa l’Alaska da Nord a Sud.

Le sue tubazioni, innalzate a un metro dal terreno (per questioni di permafrost), affiancano la strada da Prudhoe Bay a Fairbanks (seconda città dello stato, situata a circa 200 chilometri dal Circolo polare artico) fino al terminal di Valdez. È da qui che, nel marzo del 1989, partì una superpetroliera della multinazionale Exxon che s’incagliò poco dopo riversando nel golfo dell’Alaska milioni di litri di petrolio, producendo uno dei peggiori ecocidi (morirono, tra l’altro, balene, lontre marine, salmoni, uccelli marini, aquile) della storia moderna, con l’inquinamento di duemila chilometri di costa e 28mila chilometri quadrati di oceano: a 33 anni da quel disastro non si è ancora tornati alla normalità.

Eppure, nonostante problemi e rischi ambientali, il petrolio e l’oleodotto che lo trasporta continuano a foraggiare gran parte del bilancio dell’Alaska e sono anche un persuasivo strumento politico, come ben sa Mike Dunleavy, il governatore repubblicano dello stato. Già a luglio, con la dovuta enfasi accentuata dalla vicinanza delle elezioni (poi vinte), Dunleavy aveva annunciato che, dal 20 settembre, a ogni residente alaskano sarebbe stata pagata la somma di 3.200 dollari come dividendo derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Alaska. In realtà, il Pfd (Permanent fund dividends) non costituisce una novità, considerato che viene distribuito ogni anno dal 1976 rappresentando per molte famiglie una fonte di reddito importante in uno stato con un costo della vita elevatissimo.

Trivelle versus ambiente

Alla fine, anche in Alaska, il dibattito è sempre lo stesso: una visione economicista e di corto respiro (lo sfruttamento delle risorse petrolifere) ma molto ben pubblicizzata, contro una visione dell’esistenza più complessiva e più preoccupata del futuro della «casa comune».

«The last frontier», si legge sovente sulle targhe automobilistiche dell’Alaska. In verità, l’ultima frontiera territoriale è divenuta l’ultima frontiera climatica: luogo simbolico in cui i ghiacciai si sciolgono a un ritmo sempre più sostenuto, ma dove l’homo politicus prosegue con tracotanza su strade che, al di là delle circostanze attuali (guerra e tensioni internazionali), la natura e la storia hanno già bocciato.

Paolo Moiola

Uno scorcio dell’altopiano di Harding nel Kenai Fjords National Park. Foto Paolo Moiola.

Da Jack London ad Alex

Autobus 142, ultima fermata

Un elicottero della Guardia nazionale preleva il famosissimo autobus 142 dalla foresta del Denali (19 giugno 2020); oggi il mezzo è esposto all’Università di Fairbanks. Foto Alaska National Guard Public Affairs.

Jack London e Charlie Chaplin, ma anche il fumetto di zio Paperone. Personaggi diversi con storie diverse, ma con un elemento in comune: l’Alaska e la corsa all’oro che, a fine Ottocento, richiamò in quelle regioni almeno centomila cercatori. Il californiano Jack London aveva solo 21 anni quando – era il 1897 – sbarcò in Alaska per fare fortuna. Non trovò il prezioso metallo, ma trovò la fama scrivendo due piccole gemme della letteratura The call of the wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna bianca).

L’attore e regista Charlie Chaplin in realtà non girò The gold rush (La febbre dell’oro) in Alaska, ma ricreò quei luoghi in maniera stupefacente considerando che correva l’anno 1925. Sia la versione muta del film che quella sonora (uscita nel 1942) sono considerati capolavori del cinema mondiale.

Nel 1947 arrivò anche zio Paperone (Uncle Scrooge), i cui ideatori fanno risalire la sua immensa fortuna all’oro trovato nel fiume Klondike, nella regione canadese dello Yukon, ai confini con l’Alaska.

Non cercava l’oro, ma una diversa esperienza di libertà il giovane Alex Supertramp (soprannome di Chris McCandless) che, nell’agosto del 1992, morì di fame e di stenti in un vecchio autobus – verniciato di bianco e verde e segnato con il numero 142 – abbandonato dal 1961 nelle foreste dell’Alaska, vicino al Denali National Park. La sua storia, tanto straordinaria quanto tragica, è stata raccontata in un libro (di Jon Krakauer) e poi in un film (di Sean Penn) dal titolo Into the wild. Il 19 giugno 2020 l’autobus 142 (conosciuto come «Magic bus») è stato trasportato all’Università dell’Alaska, a Fairbanks. Ultima fermata per una moderna icona di libertà.

Pa.Mo.

 

Non chiamateli Eschimesi

I popoli nativi

In Alaska, ci sono oltre centosettantamila indigeni (alaskan natives) divisi in una decina di gruppi principali. Il loro destino non è dissimile da quello dei popoli autoctoni di altre regioni del mondo: la difficile lotta per la terra e per preservare la propria cultura. Con un problema in più: la cooptazione nel sistema dei bianchi attraverso una legge del 1971.

Anchorage. Nel buio della stanza, i volti illuminati dei nativi risaltano sul grande schermo interattivo. Ognuno racconta la propria storia. Una storia incredibile, a lungo tenuta nascosta e ancora oggi poco conosciuta.

«Durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – si legge -, i nativi del Nord dell’Alaska furono deliberatamente esposti a radiazioni senza esserne a conoscenza o senza il loro consenso. Gli esperimenti inclusero la somministrazione di pillole ad alta radioattività di iodio (I-131) per studiare come l’ambiente freddo influisse sulla ghiandola tiroidea. I rifiuti radioattivi furono bruciati vicino ai villaggi per testare come le radiazioni si diffondessero nell’Artico».

Gli esperimenti rientravano nell’ambito del «Project Chariot» della Commissione statunitense per l’energia atomica il cui obiettivo dichiarato era la creazione di una baia per costruire un porto a Point Hope, un piccolo e isolatissimo villaggio Iñupiaq, attraverso l’utilizzo di ordigni atomici.

L’installazione – chiamata «cold treatment» (trattamento a freddo) – si trova nello spazio Alaska Exhibition all’interno dell’Anchorage Museum, il moderno e interessantissimo museo della più grande città alaskana.

La vicenda del Project Chariot e quanto raccontato nella sala dedicata ai popoli nativi dell’Alaska (Smithsonian arctic studies center gallery) porta ad affermare che la storia dei nativi dell’Alaska è identica a quella di tanti altri popoli indigeni invasi, uccisi, conquistati o schiavizzati dai bianchi.

Un Athabascan con i propri cani da slitta (1936). Foto esposta all’Anchorage Museum.

Cittadini di seconda classe

Il quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che prevede la cittadinanza a chi nasca sul territorio nazionale, risale al 1868. Incredibilmente ne rimasero esclusi i nativi americani. Non avendo la cittadinanza statunitense, non potevano vantare diritti sulla terra, a tutto beneficio dei bianchi. Essi furono cittadini di seconda classe per ben 56 anni. Infatti, soltanto nel 1924 il Congresso emanò l’«Indian citizenship act» che concedeva la cittadinanza (e, quindi, il diritto di voto) anche a loro. Tuttavia, alcuni stati vietarono ai nativi di votare ancora per decenni. L’ultimo a conformarsi al dettato costituzionale fu il Maine nel 1954.

Per vedere posto un limite al processo di assimilazione e riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, i nativi dovettero però attendere fino al 1934, quando il presidente Roosevelt firmò l’«Indian reorganization act». Ancora più lunga fu l’attesa per la completa libertà religiosa che arrivò soltanto nel 1978 con l’«American indian religious freedom act».

I nativi dell’Alaska e l’Ancsa

Era comune riferirsi ai popoli nativi dell’Alaska e delle altre regioni artiche (Siberia, Nord del Canada e Groenlandia) con il termine di «Eschimesi» (Eskimo, in inglese). L’etimologia non è chiara, spaziando da «fabbricanti di racchette da neve» a «mangiatori di carne cruda» a «scomunicati» (perché non cristiani). Introdotto dai colonizzatori bianchi, il termine andrebbe evitato essendo considerato razzista e dispregiativo, oltre che generico, visto che si riferisce a etnie con tratti fisici e culturali (ad esempio, la lingua) diversi.

La riscossa indigena iniziò il 5 novembre 1912 quando undici nativi (del gruppo dei Tlingit) e una nativa fondarono la Fratellanza dei nativi dell’Alaska (Alaska native brotherhood, Anb), seguita nel 1914 dalla Sorellanza (Alaska native sisterhood, Ans).

Le due organizzazioni si prefiggevano la promozione della solidarietà tra le popolazioni autoctone, il raggiungimento della cittadinanza statunitense (ottenuta nel 1924), l’abolizione del pregiudizio razziale e il riconoscimento dei diritti economici attraverso l’attribuzione dei titoli sulla terra e sulle risorse minerarie, nonché la difesa del salmone, loro alimento essenziale.

Dopo l’ammissione nell’unione statunitense come 49° stato, avvenuta il 3 gennaio 1959, l’Alaska divenne ancora di più terra di conquista.

Nel 1966, Willie Hensley, un Iñupiaq nato poche decine di chilometri sotto il Circolo polare artico, fondò la Federazione dei nativi dell’Alaska (Alaska federation of natives, Afn) allo scopo di difendere le terre indigene.

La questione fondiaria divenne esplosiva nel 1968, quando la Atlantic-Richfield Company (Arco, oggi Bp Amoco) scoprì ingenti riserve di petrolio a Prudhoe Bay, sulla costa artica dello stato, e, successivamente, propose la costruzione fino al porto di Valdez di un oleodotto (il Trans Alaska pipeline, Tap), che transitava su territori indigeni.

Una soluzione fu trovata con la legge sulla risoluzione dei reclami dei nativi dell’Alaska (Alaska native claims settlement act, Ancsa), firmata da Richard Nixon il 18 dicembre 1971. «Una pietra miliare nella storia dell’Alaska e nel modo in cui il nostro governo tratta i nativi», commentò il presidente. Per essi la legge stabilì un’assegnazione di terre (44 milioni di acri, pari a circa il 13 per cento dell’intero territorio), una compensazione monetaria (quasi un miliardo di dollari) e un’organizzazione dei nativi in società a scopo di lucro (corporations, 12 più una nata in seguito) e villaggi (200) attraverso cui gestire le terre da loro occupate e i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie (petrolio, in primis). L’impatto dell’Ancsa sulle popolazioni autoctone fu enorme dando loro potere e influenza, ma non fu privo di conseguenze negative su stili di vita e cultura.

Una famiglia di nativi in una foto esposta al Museo di Anchorage. Foto Anchorage Museum.

Chi sono, quanti sono

Stando agli ultimi dati (U.S. Census bureau, 2020), oggi in Alaska si contano 172.712 indigeni, pari al 21,86 per cento della popolazione, la percentuale più alta tra gli stati americani.

Secondo l’Alaska federation of natives (Afn), si distinguono una decina di gruppi principali distribuiti in specifiche regioni del paese: Iñupiaq e Yup’ik di San Lorenzo (Alaska Nordoccidentale, Mare di Bering e isola di San Lorenzo); Yup’ik e Cup’ik (Alaska Sud occidentale); Athabascan e Dena’ina (Alaska interna); Alutiiq (o Sugpiaq; nel Kenai, Kodiak, Prince William Sound) e Aleut (o Unangax, sulle isole Aleutine); Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian (Alaska Sud orientale). Per consistenza i gruppi maggiori sono gli Yup’ik (34mila), gli Iñupiaq (20.800) e i Tlingit (14mila).

Le comunità native più isolate, quelle non raggiungibili via strada (chiamate «bush communities»), vivono ancora oggi della pesca (salmone e halibut, soprattutto) e della caccia di animali selvatici (renne-caribou e alci-moose, in primis).

Mary Peltola: «I am pro fish»

Per i popoli indigeni dell’Alaska una buona notizia è arrivata lo scorso agosto (e ribadita l’8 novembre nelle elezioni di mid term) con l’entrata di una loro rappresentante nel Congresso degli Stati Uniti. Lei – Mary Peltola, democratica di etnia Yup’ik – è la prima nativa alaskana eletta deputata a Washington.

Nata a Bethel, sul fiume Kuskokwim, cinquanta anni fa, la donna è un avvocato e una politica specializzata nella difesa della pesca in Alaska. Tanto che, sul suo sito, lei dichiara: «I am pro fish» (Sono a favore del pesce) e «Fighting for our fish is critical to preserving our Alaska way of life» (Lottare per il nostro pesce è fondamentale per preservare il nostro stile di vita alaskano). Non sono affermazioni esagerate. In effetti, la pesca – quella del salmone, in particolare – è un’attività vitale per le popolazioni autoctone. La stessa Peltola racconta di aver iniziato a pescare con il padre all’età di sei anni.

Oggi la pesca è un’attività in grave rischio, soprattutto la pesca del salmone, il pesce più pregiato e richiesto. Nella loro migrazione fiume-oceano-fiume, i salmoni tornano indietro in numero sempre minore. Tra le possibili cause vengono annoverati i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e i troppi pescherecci stranieri. Per i molti nativi che ancora vivono di questa attività il problema è diventato una questione di sopravvivenza.

Paolo Moiola

Strumenti di assimilazione

I nativi e la trappola del petrolio

«Appartenevo – ha raccontato Willie Hensley, Iñupiaq, tra i fondatori dell’Alaska federation of natives – a quella generazione che stava ancora cacciando e pescando e vivendo in tende di zolle e usando i cani per muoversi. C’erano pochissimi soldi allora e abbiamo dovuto lottare davvero. Ricordo di avere avuto molti denti marci fino alle gengive e nessuno che si prendesse cura di essi. Abbiamo davvero lavorato sodo. Era una vita normale; era solo una vita dura. Semplicemente non avevamo reti di sicurezza».

Oggi, per i nativi dell’Alaska le «reti di sicurezza» ci sono, ma anche altre cose sono cambiate e non per il meglio. Dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1971 la legge del Congresso statunitense, nota con l’acronimo di Ancsa (Alaska native claims settlement act), ha in gran parte eliminato le rivendicazioni sulla terra da parte dei popoli indigeni a favore della creazione di società a loro affidate (Alaska native regional corporations e Alaska native village corporations). Queste società – create sulla base di zone geografiche ed etnicamente connotate – sono nate come entità private orientate al profitto.

Tra le 13 società regionali, le principali sono la Arctic slope regional corporation degli Iñupiat, la Nana regional corporation, anch’essa con azionisti Iñupiat, la Aleut corporation degli Unaganx, la Doyon corporation degli Athabasca, la Calista corporation degli indigeni Yup’ik, Cup’ik e Athabasca. Sui siti web di queste compagnie sono magnificati i benefici arrivati alle popolazioni locali, ma non tutti sono d’accordo.

Già negli anni Settanta, anche prima della costruzione della Trans Alaska pipeline, Eben Hopson (1922-1980), leader iñupiaq e politico democratico, aveva avvertito dei pericoli insiti nel denaro derivante dal petrolio. In un suo discorso pubblico, affermò: «La politica dell’Artico non è più la politica delle persone, ma è la politica del petrolio». E aggiunse: «La politica del boom petrolifero crea dipendenza».

In questi anni sono aumentati i nativi preoccupati per uno sviluppo fondato su petrolio e gas, sviluppo che implica inevitabili impatti ambientali (e culturali) in uno stato già colpito duramente dagli effetti del cambiamento climatico. Vanno menzionati, per esempio, il Native movement, l’Alaska climate alliance, l’Alaska native oil and gas working group.

Questi gruppi si oppongono ai nuovi progetti petroliferi e propongono di puntare sulle energie rinnovabili diversificando l’economia dello stato. Tuttavia, al cospetto delle società dei nativi e delle compagnie petrolifere, la loro voce è ancora un sussurro. Almeno per il momento.

Pa.Mo.

Un tratto dell’oleodotto Tap, che attraversa taiga e tundra dell’Alaska per 1.300 chilometri. Foto U.S. Geological Survey.

Cacciatori di pellicce e missionari

Religione e chiese in Alaska

I primi non indigeni s’insediarono in Alaska all’inizio del 1700. Dopo di loro, arrivarono anche i missionari, prima gli ortodossi russi, poi gli anglicani e i cattolici.

Hope (Kenai). A lato della strada forestale, ad alcuni chilometri da Hope, villaggio che in inverno non raggiunge i cento abitanti, c’è una chiesetta in legno. Al momento non è aperta, ma le evidenze esteriori dimostrano che è funzionante. A parte quelle di Anchorage, Fairbanks e Jeneau – le tre principali città dello stato – la maggior parte delle chiese (di tutte le confessioni) dell’Alaska sono strutture isolate, solitarie, in apparenza abbandonate.

Questo non significa che in questo territorio la religione non sia una presenza importante. Al contrario, anche qui l’offerta religiosa – se così possiamo chiamarla – è molto ampia, anche se relativamente recente.

Fino alla fine del 1600, la regione era abitata esclusivamente da popoli indigeni, stimati attorno alle 80-100mila persone che seguivano religioni sciamaniche. Fu all’inizio del 1700 che, dalla confinante Russia, arrivarono i primi esploratori, cacciatori e commercianti attratti dal business delle pellicce. Il più famoso fu Grigory Shelekhov, che nel 1784 massacrò centinaia di indigeni dell’arcipelago di Kodiak, salvo poi chiedere all’imperatrice Caterina di Russia l’invio di missionari ortodossi. La prima missione fu fondata nel settembre del 1794 sull’isola di Kodiak dal monaco Herman (Germano d’Alaska) che subito e fino alla sua morte (nel 1837) si distinse nella difesa della popolazione indigena, schiavizzata dai mercanti russi.

Nel 1799 Nikolaj Petrovič Rezanov e lo stesso Shelekhov fondarono la Compagnia russo americana (Rac), una compagnia commerciale partecipata da molti esponenti dell’impero russo, con sede nell’attuale Sitka. I nativi, esperti cacciatori, venivano arruolati con la forza. È per la loro difesa che si battè una parte importante della Chiesa ortodossa russa in Alaska.

Di essa va ricordata soprattutto la figura e l’opera di padre Ivan Veniaminov (in seguito, Innocenzo d’Alaska). Nato in Siberia nel 1797, arrivò in Alaska (prima in Analaska sulle isole Aleutine e poi nell’attuale Sitka) nel 1824 assieme alla famiglia, e vi rimase, con alcune interruzioni, fino al 1867, quando venne nominato metropolita di Mosca. Persona eclettica, primo vescovo ortodosso dell’Alaska, Veniaminov si distinse subito in quanto, al contrario dei colonizzatori, instaurò un rapporto paritetico con i popoli nativi (prima Aleuti, poi Tlingit), rispettandone tradizioni e lingua.

Un totem, simbolo culturale di Eyak, Tlingit, Haida e Tsimshian. Foto Wikimedia.

Politica coloniale e missionari

Dopo gli ortodossi russi, nell’Ottocento, dal confinante Yukon inglese (canadese dal 1869), arrivarono sparuti gruppi di missionari anglicani.

La situazione cambiò con la vendita – avvenuta con il trattato sottoscritto il 30 marzo 1867 (la Russia zarista si riteneva proprietaria di quei territori senza considerare i suoi veri abitanti) – dell’Alaska agli Stati Uniti.

I primi cattolici ad arrivare nella regione furono gli Oblati attorno al 1871, viaggiando sullo Yukon, il fiume artico divenuto scenario della corsa all’oro alla fine dell’Ottocento. Furono gli Oblati a fondare, nel 1879, la prima chiesa cattolica: Santa Rosa di Lima, sull’isola di Wrangell.

All’epoca del passaggio agli Stati Uniti, l’Alaska era abitata soprattutto dai popoli nativi. Come sempre accade durante i processi di colonizzazione, all’inizio l’idea guida fu quella dell’assimilazione: gli indigeni sarebbero dovuti diventare come i colonizzatori, abbandonando la propria cultura, incluse le credenze religiose.

Come affermava il rapporto annuale del Consiglio dei commissari indiani per il 1869, «Si ritiene che la religione del nostro benedetto Salvatore sia l’agente più efficace per la civiltà di qualsiasi popolo». Per lungo tempo ancora la politica coloniale degli Stati Uniti in Alaska si fondò sull’idea che gli indigeni dovessero «essere portati sotto l’influenza cristiana dai missionari».

L’Università dell’Alaska-Anchorage (Uaa) ha analizzato una foto del 1914 scattata alla scuola della St. Mary’s Mission ad Akulurak (delta dello Yukon-Kuskokwim, sul mare di Bering). In quella immagine si vede un gruppo di studenti nella sala mensa e, sulla parete dietro di loro, un poster con la scritta «Please, do not speak eskimo» (Per favore, non parlare eschimese).

Fu John Collier, commissario per gli affari indigeni dal 1933 al 1945, a iniziare a battersi per la libertà religiosa degli indiani d’America, mettendo in discussione i divieti locali e regionali alle cerimonie e alle pratiche tradizionali. Tuttavia, soltanto con l’American indian religious freedom act (Airfa) dell’agosto 1978, legge firmata dall’allora presidente Jimmy Carter, venne formalmente riconosciuta la piena libertà religiosa dei popoli indigeni. Nel firmare la legge, il presidente ammise che, a dispetto del primo emendamento della Costituzione Usa, «in passato, agenzie e dipartimenti governativi hanno occasionalmente negato ai nativi americani l’accesso a siti particolari e interferito con pratiche e costumi religiosi».

Una piccola chiesa cristiana tra i boschi di Hope (Kenai). Foto Paolo Moiola.

Le Chiese in Alaska, oggi

Le statistiche più affidabili sulle fedi religiose in Alaska risalgono a uno studio del Pew Research Center (The 2014 U.S. Religious landscape study). Secondo i ricercatori dell’istituto, i cristiani sarebbero il 62% della popolazione adulta. Questa percentuale si dividerebbe in: 22% di evangelici (cioè protestanti non tradizionali), 16% di cattolici, 12% di protestanti (storici), 5% di ortodossi (di cui 4% di ortodossi russi). La Chiesa cattolica dell’Alaska conta su due diocesi: quella di Anchorage-Juneau e quella di Fairbanks. Entrambe hanno uffici che si dedicano alle relazioni con i popoli indigeni dello stato.

Al riguardo, va ricordata l’esperienza di Stan Jaszek, missionario polacco arrivato in Alaska nel 2002. Padre Jaszek, appartenente alla diocesi di Fairbanks (la più estesa degli Stati Uniti), ha lavorato per 15 anni nei villaggi del delta dello Yukon-Kuskokwim, tra i Yup’ik, lo stesso popolo nativo cui appartiene anche Mary Peltola, prima indigena dell’Alaska eletta al Congresso Usa. «Il popolo Yup’ik è profondamente radicato nella natura, quindi comprende intuitivamente la connessione tra il mondo fisico e quello spirituale», ha spiegato padre Jaszek.

Paolo Moiola

Natale e Babbo Natale

La festa e il business

North Pole, agosto. Il nome di questa cittadina può trarre in inganno. In realtà, a dispetto di esso, il North Pole (Polo Nord) dista ancora 2.700 chilometri e il Circolo polare artico più o meno 200. La cittadina di North Pole – meno di tremila abitanti, a circa 20 chilometri da Fairbanks, seconda città dell’Alaska – ospita una base militare, ma è conosciuta soprattutto per la presenza della Santa Claus House, il negozio di Babbo Natale, fondato nel 1952.

La rivendita è in posizione commercialmente strategica, sorgendo accanto alla Richardson Highway. Colore bianco candido con geometrie rosse e, sui muri, tanti disegni di renne, slitte, Babbi Natale, folletti. Detto questo, la struttura esterna non ha nulla di memorabile: forse dipende dai 20 gradi di questo caldo agosto, forse il tutto si dovrebbe vedere con la neve. Entrando, però, il giudizio non cambia.

Alberi di Natale, addobbi per alberi di Natale, maglioni con le renne, pantaloni, cappellini, tazze dipinte, dolci in tema. È un tripudio dell’inutile, dell’eccessivo e del kitsch.

E tutto, o quasi, pare essere più per un pubblico di adulti che di bambini. Il sito internet del Santa Claus racconta delle sue lettere intestate e personalizzate spedite (a partire da 9,95 dollari) a bambini di tutto il mondo e delle migliaia di lettere ricevute da ogni dove (a cui però – viene precisato – «non è possibile rispondere»).

In un recinto poco distante dal negozio, a lato del grande parcheggio, ci sono anche le renne, quelle vere. Probabilmente non sono contente di essere lì, con una temperatura inusuale e non libere di «volare» come vuole la tradizione.

Nessuna ragione per non credere alla felicità natalizia in offerta speciale, ma che la Santa Claus House sia soltanto una redditizia trovata commerciale è ben più di un’impressione.

Pa.Mo.

Un’entrata della Santa Claus House, a North Pole, nei pressi di Fairbanks. Foto Paolo Moiola.

Ha firmato questo dossier:

Paolo Moiola
Giornalista redazione MC; ha viaggiato in Alaska lo scorso agosto.

Fonti principali

Per la storia dei popoli nativi e dell’Alaska: Harry Ritter, Alaska’s History, West Margin Press, 2020; Steve J. Langdon, The Native People of Alaska, Greatland Graphics, Fairbanks 2022.

Per clima e problemi ambientali, per i parchi nazionali, per i nativi, per le istituzioni statali:
https://uaf-iarc.org/
https://www.nps.gov/
https://www.alaska.gov/
https://www.anchoragemuseum.org/

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Montenegro. L’altopiano della discordia


Una diversità bioculturale da salvare nel cuore dei Balcani

L’altopiano di Sinjajevina ha una biodiversità unica. Si è costituita grazie a secoli di gestione come «bene comune» da parte delle comunità pastorali native. Da alcuni anni è minacciato da un centro militare installato dal governo. Ma attivisti di tutto il mondo vogliono salvarlo.

La catena montuosa Sinjajevina-Durmitor del Montenegro è il secondo alpeggio più grande d’Europa, un altopiano calcareo di quasi mille km2 tra 1.600 e 2mila metri di altitudine, con una biodiversità unica, costruita e conservata attraverso millenni di usi pastorali, e alcuni dei paesaggi alpini più straordinari del continente.

L’area è stata riconosciuta di particolare valore per la sua biodiversità. La creazione di numerose aree naturali e culturali protette ne fanno probabilmente la regione più ricca del suo genere in tutto il Montenegro (paese di 600mila abitanti su una superficie  pari al Trentino Alto Adige, ndr).

Uno stile di vita antico

La diversità bioculturale di Sinjajevina non è solo un prodotto della natura, ma l’eredità di secoli di comunità pastorali locali, una simbiosi di società e ambiente e un’eredità di storia sociale sostenibile. Questi ecosistemi autentici esistono grazie all’uso ponderato e alla gestione concertata del territorio, generazione dopo generazione.

Pertanto, l’ecosistema stesso dipende dalla presenza e dalle attività di queste comunità. Gli insediamenti pastorali dell’altopiano, detti katun, dispersi nel territorio di Sinjajevina, appartengono a otto grandi gruppi etnici, ciascuno con le proprie regole di governo dei beni comuni (o commons) riguardanti i tempi di accesso ai pascoli e le modalità di utilizzo per garantirne la rigenerazione.

Tuttavia, un progetto per costruire un poligono di addestramento militare, che occuperebbe gran parte della sua area, minaccia non solo la biodiversità ma anche le attività di pastorizia, i mezzi di sussistenza di migliaia di persone intorno a essa, e paesaggi unici che sono un patrimonio europeo comune.

Installazioni militari

In diretta contraddizione con la raccomandazione emersa da uno studio del 2018 cofinanziato dall’Unione europea che prevedeva di creare un’area protetta a Sinjajevina entro 18 mesi – e contro ogni apparente logica di sviluppo rurale, turistico, agroalimentare e ambientale -, nel settembre 2019 il governo montenegrino ha inaugurato un’area di addestramento militare e test per gli armamenti proprio nel cuore di questi pascoli abitati, all’interno della Riserva della biosfera riconosciuta dall’Unesco e a metà del processo di dichiarazione di Sinjajevina come parco naturale regionale. Questa decisione è stata presa senza alcuna valutazione di impatto ambientale, nessuna valutazione sanitaria e nessuno studio di impatto economico pubblicamente disponibile, né alcun negoziato coerente con le comunità pastorali colpite. Infatti, né i pastori, né alcuna organizzazione della società civile dei sette comuni interessati hanno tuttora una chiara idea dell’esatto perimetro del poligono militare, del suo scopo, della natura dei suoi rischi per la popolazione. Ciò che è noto pubblicamente è che è previsto un poligono di oltre 10mila ettari (100 km2, poco meno dell’intera città di Torino).

Si tratta di terre che che conservano testimonianze storiche del governo comunitario del territorio e del suo uso pastorale fino al XIX secolo, con un utilizzo dimostrabile continuo e ininterrotto per almeno gli ultimi 140 anni. Tuttavia, storici e archeologi ritengono che questa data dovrebbe essere spostata molto più indietro, probabilmente a diversi millenni. Sono necessarie ulteriori ricerche su date più esatte, ma nulla toglie al fatto che il poligono militare debba essere sottoposto a uno studio di impatto sociale e ambientale approfondito e indipendente, nonché a una revisione legale delle procedure seguite sia a livello nazionale che internazionale in quanto il Montenegro è firmatario di numerosi accordi interstatali.

I problemi legati alla costruzione e all’uso di un sito di artiglieria in questi ecosistemi non riguarda solo i diritti tradizionali delle popolazioni locali alla natura da un punto di vista giuridico. Anche da quello scientifico è comprovato che lo stesso ecosistema pastorale e i servizi ecosistemici che esso fornisce dipendono dalla presenza e dall’attività in sicurezza delle comunità pastorali minacciate dal poligono militare.

Conseguenze ambientali

Il poligono militare è stato solennemente inaugurato il 27 settembre 2019 con operazioni in collaborazione con altre forze militari della Nato (Usa, Austria, Italia, Slovenia, per ricordarne alcune). Ciò è avvenuto prima che i pastori con le loro greggi avessero iniziato la transumanza, la discesa dalle montagne ai loro masi invernali nelle valli più basse, il che ha provocato diverse perdite nel bestiame.

Dal punto di vista ambientale, risulta preoccupante il fatto che l’epicentro del poligono militare sia Savina Vode, la più importante fonte d’acqua della zona. Le attività militari rischiano di contaminare la sorgente e di danneggiare la salute degli esseri umani e degli animali che la bevono. Lo stesso varrebbe per le piante di cui gli esseri umani e gli animali si cibano, mettendo in pericolo anche il mercato della carne e dei latticini. Sinjajevina produce uno dei formaggi e prodotti lattiero caseari più pregiati del paese, come ad esempio i tradizionali formaggi skorup, venduti a 25 euro al chilo, che rappresentano un’autentica fortuna se si pensa che nel paese lo stipendio medio è di 300 euro al mese.

La contaminazione dell’acqua, poi, potrebbe estendersi ben oltre il sito stesso, ed espandersi attraverso i ruscelli sotterranei, specialmente nei villaggi intorno a Lipovo, appena sotto il lago Savina Voda. Qui è in funzione una fabbrica di imbottigliamento di acqua minerale, (finora) reputata pulita e altamente curativa.

Proprio per il suo valore strategico idrologico e pastorale, questo territorio era particolarmente protetto e conservato da importanti norme consuetudinarie. I membri delle diverse etnie di pastori da tempo hanno deciso il divieto di costruzione di infrastrutture o blocchi abitativi nel raggio di diversi chilometri e stabilito il diritto a soli 15 minuti di abbeveraggio per gregge o mandria oltre a spazi limitati molto ristretti per il pascolo di ogni gruppo. Ed è proprio la coscienza dell’unicità di questa area che è riuscita a conservare, generazione dopo generazione, un paesaggio straordinariamente produttivo e ricco dal punto di vista bioculturale e agroeconomico.

Naturalmente, un’altra grande paura tra i locali è il pericolo fisico di essere colpiti dall’artiglieria in azione o da ordigni abbandonati inesplosi.

La campagna internazionale

Di fronte all’azione del governo, che considera questa come una «terra di nessuno» aperta allo sfruttamento, le comunità locali e attivisti in tutto il Montenegro e in altri paesi europei, hanno iniziato a unirsi e pianificare azioni per denunciare il crimine del governo nei confronti del proprio popolo. Centinaia sono le pubblicazioni nella stampa, interviste televisive e radiofoniche in difesa della Sinjajevina. Molte le mobilitazioni, quasi dieci nell’ultimo anno, e alcune hanno visto la partecipazione di oltre trecento persone. Il movimento ha l’appoggio di un grande pubblico, sia a livello nazionale che internazionale.

All’inizio del 2019, questa mobilitazione ha anche portato alla creazione di un’alleanza per la salvaguardia dell’ambiente in tutto il paese. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile (Kor, in montenegrino), è stata fondata a partire dall’unione di diverse organizzazioni locali, tra cui il Movimento ecologico Ozon, che da due decenni si battono per l’ecologia in Montenegro e sostengono le comunità locali nella loro lotta. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile riunisce le persone che lottano per la protezione di fiumi, foreste, montagne, laghi e tutte le altre risorse naturali che sostengono la vita degli abitanti del Montenegro, oltre a Sinjajevina.

Qualche mese più tardi, l’Iniziativa civica save Sinjajevina il 6 giugno 2019 ha lanciato una petizione online per dichiarare la Sinjajevina area protetta. La firma della petizione è durata fino al 5 agosto 2019 e, durante la raccolta delle firme, ha dovuto affrontare numerose sfide. Quindici persone sono state coinvolte nella sua promozione, ma i cittadini non hanno potuto votare perché il portale pubblico dello stato si rifiutava di accettare molte firme e il sito delle petizioni era molto spesso non disponibile. I promotori però non si sono fermati e hanno iniziato a raccogliere firme, di persona, nei villaggi intorno alla Sinjajevina. Hanno anche organizzato visite nelle città raccogliendo firme per Sinjajevina fino a ottenerne più di tremila, il minimo necessario perché il parlamento montenegrino accetti di discutere la questione.

La risposta del governo

Tuttavia, il 5 settembre 2019, ignorando questa petizione e limitandosi a «prenderne atto», il governo ha deciso unilateralmente la creazione del campo di addestramento militare a Sinjajevina. A seguito delle proteste, il ministro della Difesa ha ordinato la posizione di segnali di confine sull’area e l’interruzione di alcuni percorsi e ha lanciato un’esercitazione militare sul territorio del comune di Kolašin e Sinjajevina denominata «Joint challenge 2019», che ha riunito i soldati della Nato dalla Macedonia del Nord, Austria, Italia, Slovenia, Stati Uniti e Montenegro. Gli abitanti del villaggio si sono lamentati di molestie e danni alla proprietà, ma non è stata concessa loro alcuna attenzione.

Lo stato balcanico è in trattativa di adesione con l’Ue, e il parlamento europeo ha dichiarato, lo scorso 23 giugno, il suo rammarico perché, nonostante i progressi iniziali, la questione di Sinjajevina non è ancora risolta. Dalla campagna Save Sinjajevina si chiedono: «Perché si dimenticano della Costituzione del Montenegro, delle convenzioni internazionali sulla conservazione degli habitat e sull’accesso dei cittadini delle informazioni? Dove sono i principi democratici e la partecipazione dei cittadini nelle decisioni su questioni vitali?».

In tutta risposta, il nuovo ministro della Difesa del Montenegro, dopo il vertice della Nato a Madrid, ha annunciato il 4 luglio scorso che si prepareranno per nuove esercitazioni militari a Sinjajevina. Decisione che sembra non concorde con la posizione del primo ministro Dritan Abazović che si è più volte dichiarato contrario alla militarizzazione del sito, o del ministro dell’Ecologia che apertamente sostiene l’idea che Sinjajevina venga dichiarata area protetta.

Saperi locali e saperi scientifici

Alla società civile internazionale si è unita anche la comunità scientifica, che da allora dedica il giorno 18 giugno a mobilitazioni coordinate in Montenegro e online. Nell’ambito della giornata per Sinjajevina dell’anno scorso, i beni comuni creati e mantenuti dalla pastorizia montana sono stati al centro di una mostra fotografica dal titolo: «Territories of life on the margins. Mediterranean pasture commons in the 21st century», con esperienze da Spagna, Marocco, Turchia e, appunto, Montenegro.

La mostra è stata inizialmente lanciata online nell’aprile 2021 dal museo virtuale di ecologia umana ed è coordinata da Pablo Dominguez (ecoantropologo al Centre national de la recherche scientifique, Cnrs in Francia, laboratorio Geode), con il supporto di oltre venti coautori e collaboratori. Versioni online ampliate sono state poi realizzate con la collaborazione dell’economista Bruno Romagny, e successivamente la mostra e stata presentata in formato fisico al congresso mondiale dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) a Marsiglia, e continua a essere esposta in diversi paesi del Mediterraneo. La mostra vuole ribadire l’importanza dei beni comuni (o commons in inglese) come pratiche e congiunzione di saperi da preservare alla pari della biodiversità. Come ricordano i creatori della mostra, l’economista Gaël Giraud, gesuita autore di Transizione ecologica, ha definito i commons come «risorse, simboliche o materiali, che una comunità sceglie di amministrare fornendo regole a loro volta sottoposte a deliberazione. Ciò che definisce i commons non è quindi la natura della risorsa, ma l’azione politica collettiva che sottopone al giudizio permanente della comunità le proprie modalità di azione nella tutela e nella promozione di ciò che le sta a cuore».

Infine, ricordano come i commons pastorali montani descritti dimostrano l’importanza di tre principi fondamentali correlati tra loro, che ricordano quelli elaborati da Elinor Ostrom, prima donna a ricevere nel 2009 il Premio Nobel per le scienze economiche: una comunità locale che mantiene legami forti e profondi con un territorio; questa comunità è un attore chiave nel processo decisionale relativo alla governance territoriale delle risorse; questa governance contribuisce a una gestione responsabile e sostenibile degli ecosistemi e del patrimonio materiale e immateriale delle comunità.

Opporsi dunque al poligono militare in Sinjajevina non è solo preservare un tipo di ambiente naturale e i suoi usi tradizionali, ma implica anche un’azione di difesa di questi principi, che hanno retto per lunghissimo tempo la convivenza umana all’interno di ecosistemi che ne fornivano le basi di sostentamento. E che ci continuano a ispirare per trasformare le nostre economie ed affrontare i profondi cambiamenti che stiamo vivendo.

Daniela Del Bene


Per approfondire

• Pagina FB del movimento: www.facebook.com/sacuvajmosinjajevinu/.
• Sito della mostra fotografica: cpm.osupytheas.fr/index.php/en/montenegro/
• Sito del consorzio Territori di vita: www.iccaconsortium.org/index.php/2022/08/19/mountains-sinjajevina-face-threats-support-uk

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (Atlante conflitti ambientali Italia).

 




Non c’è un domani senza biodiversità


Invasione e distruzione degli habitat

L’uomo sta occupando, distruggendoli o modificandoli, gli habitat di molte specie animali. Ciò mette a rischio sia la loro sopravvivenza che l’equilibrio ambientale, favorendo al tempo stesso la diffusione delle malattie di origine zoonotica.

La copertina del «Living planet report 2022» del WWF.

Negli ultimi cinquanta anni, il consumo di risorse legato alle attività umane ha portato a una drastica riduzione di esemplari nelle popolazioni di vertebrati, al punto che si sta ormai parlando di sesta estinzione di massa. Secondo il Living planet report 2022 del Wwf, siamo arrivati a un calo medio, rispetto al 1970, del 69% degli individui nelle popolazioni di specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci) analizzate dal Living planet index, che studia quasi 32mila popolazioni di oltre 5mila specie diverse. Questo non significa che abbiamo perso il 69% dei vertebrati terrestri, ma che in media ciascuna specie di vertebrati si è ridotta di questo valore.

Habitat e Occupazione umana

Si stima che, nel 2018, solo un quarto della superficie terrestre disponibile fosse libera dall’impatto umano e che nel 2050 lo sarà soltanto il 10%. L’occupazione del suolo per le molteplici attività umane, dalla produzione di cibo e di energia alla costruzione di infrastrutture e di miniere, porta alla privazione per le specie animali di habitat che sono essenziali per la loro sopravvivenza.

I peggiori trend tra le popolazioni di vertebrati analizzate si ritrovano in America Latina e nella regione dei Caraibi, con un calo medio del 94% dal 1970. Seguono l’Africa con il 66% e la regione dell’Asia-Pacifico con il 55%. In Nord America si è registrato un calo del 20%, mentre in Europa e in Asia centrale del 18%, ma questi dati non sono più confortanti dei precedenti, perché, in queste tre regioni, gran parte della biodiversità era già andata persa nei decenni precedenti. Tra le specie analizzate, quelle di acqua dolce hanno subito la riduzione più drastica, con un declino medio dell’83%. Attualmente tra l’1 e il 2,5% delle specie di vertebrati si è già estinto, mentre le popolazioni rimanenti e la loro diversità genetica sono diminuite notevolmente. In particolare, il 46% degli anfibi, il 25% dei mammiferi e il 13% degli uccelli si stanno avvicinando all’estinzione.

Rettili e temperature

Per quanto riguarda i rettili, finora meno studiati di altre specie, un recente studio apparso su «Nature» e condotto da Neil Cox e Bruce Young (che hanno studiato la situazione conservazionistica di 10.196 specie di rettili) è giunto alla conclusione che un rettile su cinque è a rischio estinzione. Tra i rettili in pericolo maggiore troviamo le tartarughe, con il 58% di specie appartenenti a quest’ordine che rischiano di sparire nei prossimi vent’anni. Seguono coccodrilli e alligatori, di cui il 50% delle specie è a rischio. Tra gli squamati, cioè lucertole e serpenti, sono il 19% le specie a rischio, in particolare gli iguanidi. Le specie che rischiano maggiormente l’estinzione sono quelle che vivono nelle foreste, essendo il loro ecosistema più alterato sia dalla deforestazione che dall’espansione urbana. Questo studio ha anche messo in luce il nesso tra l’aumento della temperatura e il rischio estinzione per i rettili. In molte loro specie, infatti, il sesso è determinato dalla temperatura, per cui un costante rialzo termico rischia di alterare significativamente le proporzioni tra maschi e femmine.

Tuttavia, i resoconti sulle specie minacciate di estinzione non descrivono in modo esaustivo il quadro attuale. Secondo uno studio di Gerardo Ceballos, ecologo dell’Università nazionale autonoma del Messico, un terzo delle specie, che più di tutte si stanno assottigliando, non fa attualmente parte dell’elenco delle specie a rischio. Il 32% delle specie di vertebrati considerate nello studio ha avuto perdite notevoli sia nel numero, che nel range di distribuzione. In particolare tutte le specie di mammiferi studiate hanno subito una riduzione di oltre il 30% del loro habitat, ma più del 40% ne ha perso oltre l’80%. Tali perdite sono ascrivibili a varie cause: il continuo aumento della popolazione umana (con uno sfruttamento eccessivo delle risorse), la distruzione degli habitat naturali, la caccia e la pesca sconsiderate, l’inquinamento conseguente alle attività umane e l’invasione di specie aliene (non autoctone) favorita dall’uomo.

Ecosistemi, specie e specializzazione

Generalmente, quando parliamo di perdita della biodiversità, facciamo riferimento al numero delle specie a rischio in determinate aree. Tuttavia, è sbagliato considerare solo il numero delle specie a rischio perché, all’interno del proprio ecosistema, ogni specie svolge un ruolo dettato dalla sua specializzazione. Se la specie in questione va incontro all’estinzione, la sua specializzazione andrà persa per sempre a meno che tale specie non venga rimpiazzata da un’altra con analoga specializzazione e quindi con simili strategie di sopravvivenza. Poiché in un ecosistema non sempre questo avviene, c’è il rischio della perdita non solo della biodiversità, ma della diversità funzionale. In questo caso, la perdita di una specie non rimpiazzata lascia un vuoto, che può avere gravi ripercussioni su tutte le altre specie animali e vegetali dell’ecosistema, che sarà progressivamente compromesso. Le strategie di conservazione non possono essere, quindi, uguali in tutto il mondo. In altre parole, vi sono aree in cui l’estinzione di una specie non comporta necessariamente l’alterazione dell’ecosistema; al contrario, in altre aree la perdita di una specie insostituibile può portare a un crollo della diversità funzionale e al conseguente sbilanciamento dell’ecosistema. È perciò fondamentale conoscere il ruolo ecologico delle singole specie, in modo da concentrare gli interventi di protezione sulle specie che svolgono un ruolo cruciale nel loro ecosistema. Ad esempio, nella ecozona indo-malese – comprendente l’India, parte della Cina e del Pakistan e una serie di isole dell’Oceano Indiano tra cui Taiwan e le Filippine – ci sono specie di mammiferi e di uccelli la cui estinzione comporterebbe un calo di oltre il 20% della diversità funzionale. In Europa, invece, la diversità funzionale crollerebbe del 30% se si arrivasse all’estinzione di determinate specie di rettili, di anfibi e di pesci d’acqua dolce.

Un esemplare di camaleonte. Foto AQagraphy – Pixabay.

La situazione Italiana

In Italia sono piuttosto numerose le specie a rischio di estinzione o che lo sono state in passato. Tra queste abbiamo il lupo, la lince, l’orso bruno, lo stambecco, il cervo sardo, la foca monaca, la lontra, l’aquila reale, il gipeto, il grifone, il gallo cedrone e la starna. In seguito all’occupazione e allo sfruttamento del suolo, molto spesso gli habitat naturali vengono frammentati, cioè suddivisi in sottoaree tra loro parzialmente connesse o totalmente isolate. Questo può essere dovuto alla costruzione di barriere artificiali come strade, impianti sciistici, linee elettriche o ferroviarie, canali artificiali, ecc., che impediscono la libera circolazione degli animali nel loro areale di distribuzione. Vengono così a formarsi sottoaree a macchia di leopardo, con la suddivisione della popolazione di una specie in sottopopolazioni scarsamente in contatto tra loro. Queste ultime sono meno consistenti numericamente rispetto alla popolazione originale e più vulnerabili alle fluttuazioni climatiche, alle possibili epidemie, al deterioramento genetico dovuto a endogamia, cioè all’incrocio tra individui consanguinei, e ai fattori di disturbo antropico. Inoltre, in presenza di frammentazione, l’habitat di una specie è maggiormente a contatto con l’habitat di altre specie. Questo può comportare maggiori casi di predazione, competizione e parassitismo. In pratica le sottopopolazioni di una specie dislocate in aree distanziate tra loro e con scarsa o nulla possibilità di contatto sono maggiormente a rischio di estinzione, perché il distanziamento tra le diverse aree impedisce di fatto la ricolonizzazione laddove la popolazione si sia estinta per qualsivoglia motivo.

Se scompaiono  gli impollinatori

Quando pensiamo alle specie in via d’estinzione, siamo portati a pensare solitamente ad animali di grossa taglia, come il rinoceronte nero o l’elefante asiatico, ma ci sono specie di animali piccoli e piccolissimi, la cui forte diminuzione ci riguarda molto da vicino. Si tratta degli impollinatori, per lo più insetti, ma non solo, la cui attività è fondamentale per favorire l’impollinazione delle piante, da cui dipendono per buona parte la nostra alimentazione e la nostra economia. La riproduzione di almeno il 75% delle piante da fiore e dei raccolti di tutto il mondo dipende dagli impollinatori. Tra questi: api, vespe, farfalle, mammiferi come i pipistrelli e uccelli come i colibrì. Già nel 2010 gli scienziati erano giunti alla conclusione che oltre il 40% degli insetti di tutto il mondo era a rischio di estinzione e che il ritmo della loro moria è otto volte superiore a quello dei mammiferi e degli uccelli.

Sono tre le principali cause della progressiva riduzione degli impollinatori: l’uso dei pesticidi, il modo in cui sfruttiamo il suolo con la predilezione per le monocolture e soprattutto la distruzione dell’habitat. Anche l’aumento delle temperature globali ha un ruolo nella riduzione degli impollinatori, ma si trova solo al quarto posto. Per capire la portata del danno che deriverebbe dalla scomparsa degli impollinatori, basta pensare che, negli ultimi 50 anni, tra i cibi consumati, quelli la cui produzione dipende dagli impollinatori sono aumentati del 300% e fanno muovere un mercato globale del valore di 577 miliardi di dollari. Dobbiamo anche considerare che, finora, ci siamo resi conto della diminuzione solo delle specie di impollinatori che conosciamo, ma la quantità di specie, soprattutto di insetti, a noi ancora sconosciuta è altissima quindi la valutazione del numero delle specie di impollinatori a rischio di estinzione o già estinte è certamente sottostimata. Secondo un recente studio di Matt Devis e Jens Christian Svenning del «Center for biodiversity dynamics in a changing world» (Danimarca), gli esseri umani sterminano le specie animali e vegetali così rapidamente che l’evoluzione, come meccanismo di autodifesa della natura, non può porvi rimedio. Secondo questi ricercatori, nel corso degli ultimi 450 milioni di anni ci sono stati cinque grandi sconvolgimenti con alterazioni ambientali tali che buona parte delle specie animali e vegetali presenti sul nostro pianeta si è estinta. Dopo ciascuna estinzione di massa, l’evoluzione, con i suoi tempi, ha colmato le lacune con nuove specie, ma nel caso dei mammiferi, considerando i loro tempi di diversificazione, per riportare la biodiversità a ciò che era prima della comparsa dell’uomo moderno ci vorrebbero 5-7 milioni di anni e 3-5 milioni solo per riottenere l’attuale biodiversità, dato che è in corso la sesta estinzione di massa, questa volta causata dall’uomo.

Con la perdita delle specie, perdiamo non solo le loro funzioni ecologiche talvolta uniche, ma anche i milioni di anni di storia evolutiva che queste specie rappresentavano.

Habitat, pandemie E zoonosi

C’è un altro aspetto che dovremmo prendere in attenta considerazione. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo sta rivelando il suo effetto boomerang sotto forma di pandemie o comunque di diffusione di malattie di origine zoonotica, che sono all’origine di circa un miliardo di casi di malattia e di milioni di morti ogni anno a livello globale.

Le zoonosi attualmente conosciute sono oltre 200, tra cui: rabbia, leptospirosi, Hiv, Ebola, antrace, Sars, Mers (queste ultime due causate da Coronavirus), febbre gialla, dengue, malattia di Lyme, tifo esantematico, malaria e non dimentichiamoci della peste, che non è mai stata completamente debellata.

Fino a qualche tempo fa si riteneva erroneamente che gli ambienti naturali intatti fossero pericolosi serbatoi dei virus e degli altri agenti patogeni portatori di queste malattie, ma studi recenti hanno completamente smontato questa tesi dimostrando, al contrario, che è la distruzione degli habitat che crea le condizioni ottimali per la trasmissione all’uomo degli agenti eziologici.La riduzione delle specie predatrici a seguito delle attività umane può rivelarsi molto pericolosa per la nostra salute.

Rosanna Novara Topino

Un esemplare di zecca (sempre più diffusa). Foto Erik Karits – Pixabay.


Biodiversità e zoonosi

La diffusione della zecca

La malattia di Lyme o borrelliosi è una malattia diffusa in Nord America, Europa e Asia e trasmessa dalle punture delle zecche del genere Ixodes. Questa malattia presenta alcuni sintomi tipici come eritema migrante, febbre, mal di testa, debolezza e affaticamento ma, se non si interviene precocemente con una cura antibiotica, l’infezione può diffondersi andando a interessare articolazioni, cuore, muscoli, reni, fegato, cute, sistema nervoso centrale (causando in questo caso encefalite o mielite). Il suo agente eziologico è un batterio, la Borrelia burgdorferi, che ha come vettore la zecca, ma presenta diversi ospiti tra i vertebrati soprattutto mammiferi, alcuni dei quali risultano essere serbatoi altamente competenti, cioè capaci di ospitare e di trasmettere il batterio molto meglio di altri. Tra questi ultimi vi sono il peromisco dai piedi bianchi, una varietà di topo diffusa nel continente americano dal Canada fino al Nicaragua e il toporagno, specie assai diffusa anche da noi nelle aree verdi, soprattutto nei parchi e nei boschi. Le zecche non trasmettono l’infezione alla prole, ma si contaminano infestando un ospite infetto, mentre ne succhiano il sangue che serve loro per completare le tre fasi del loro ciclo vitale (larva, ninfa, adulto) e per riprodursi. Le zecche adulte passano l’inverno ben rigonfie di sangue e in primavera depongono le uova, da cui a metà estate nascono le larve. Poiché necessitano di pasti a base di sangue ma hanno scarsa mobilità, questi aracnidi devono mettersi in posizione ottimale, per esempio sulla cima di un filo d’erba, per attaccarsi a un ospite vertebrato di passaggio. Date le loro piccole dimensioni, peromischi e toporagni sono gli ospiti ottimali delle larve di zecca e, se sono infettati dalla Borrellia, passano loro agevolmente il batterio; le zecche lo trasmetteranno poi ad altri ospiti con le loro punture. Peraltro la varietà degli ospiti delle zecche è elevatissima, potendo comprendere animali di svariate dimensioni come scoiattoli, opossum, conigli selvatici, volpi, cervi, cinghiali e, occasionalmente, l’uomo. Non tutti questi però si rivelano dei serbatoi altamente competenti come i topi e i toporagni. L’essere umano, ad esempio, non lo è in alcun modo, quindi non trasmette la malattia ad altre persone.

Gli studiosi hanno osservato che la diffusione delle zecche è particolarmente alta dopo le annate ricche di ghiande delle querce, frutti di cui sono particolarmente ghiotti i peromischi e i toporagni, che hanno elevatissimi tassi di riproduzione e ciascuno dei quali può arrivare a ospitare fino a una settantina di larve di zecca, che allo stadio adulto infestano solitamente animali di grossa taglia, come i cervi, utilizzati come supporto per la riproduzione. Si è osservato che è più facile essere punti da una zecca in un parco o piccolo boschetto, dove la fauna è rappresentata da poche specie e quindi i peromischi e i toporagni hanno pochi predatori, piuttosto che in un grande bosco ricco di specie come scoiattoli, opossum, falchi, furetti e gufi, che ne limitano la presenza. Questo dimostra come la biodiversità sia indispensabile per il controllo delle zoonosi.

RNT

 




Brasile. «Ma il futuro è indigeno»


Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.

È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».

Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).

Un arcobaleno illumina il cielo sopra la aldeia Xihopi (Tiy, Amazonas, maggio 2022). Foto Christian Braga – ISA.

«Dio, patria e famiglia»

Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).

Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.

Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o  candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».

La copertina del rapporto 2022 del CIMI.

Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.

A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.

Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».

L’aldeia Xihopi in una spettacolare vista dall’alto. Foto Christian Braga – ISA.

«Sì, anch’io posso agire»

Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.

Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.

Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.

Paolo Moiola


Il libro

Laboratorio Amazzonia

La copertina di «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» (giugno 2022).

Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).

Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).

Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.

Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).

«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.

Paolo Moiola

 (*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.




L’invasione dei superbatteri


I microrganismi patogeni si evolvono (anche a causa dei nostri comportamenti) e resistono ai farmaci. Presto potrebbero causare più decessi del cancro. Già oggi alcuni superpatogeni fanno paura.

Da un secolo a questa parte, la medicina e la farmacologia hanno fatto continui progressi che hanno permesso di curare patologie dall’esito infausto fino ai primi quarant’anni del Novecento.

È del 1928 la scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina, una molecola prodotta da un fungo e capace di aggredire la parete cellulare dei batteri, provocandone la morte. I microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi, eccetera) sono spesso in competizione tra loro e una delle strategie più collaudate è proprio quella di produrre sostanze antibiotiche (a cui i produttori sono immuni) per sterminare gli avversari. In questa «guerra molecolare», in cui l’uomo è l’ultimo arrivato, antibiotici e fenomeni di resistenza sono le due facce di una stessa medaglia. Questo è il motivo per cui i microrganismi patogeni trovano spesso una strada per non soccombere sviluppando resistenza ai farmaci in uso (antimicrobico-resistenza o farmaco-resistenza). Oggi, uno dei principali problemi di salute pubblica è quello della nascita di superpatogeni, capaci di resistere a pressoché ogni forma di difesa di cui l’uomo dispone.

Batteri e resistenza: un problema serio

Solo nel nostro paese ogni anno muoiono circa 10mila persone a causa dell’antimicrobico-resistenza. L’Italia, con la Grecia e la Romania, è uno dei paesi europei con i maggiori tassi di antimicrobico-resistenza. In particolare, negli ospedali italiani i ceppi del batterio Klebsiella pneumoniae (Kpc) resistenti ai carbapenemi (classe di antibiotici ad ampio spettro, con struttura molecolare simile a quella delle cefalosporine e delle penicilline) sono già intorno al 50%, mentre quelli di Acinetobacter resistenti sono circa l’80-90%. E queste sono solo due delle specie di batteri che stanno creando seri problemi ai pazienti ospedalieri. Si stima che in Europa siano già circa 33mila i decessi annuali legati all’antimicrobico-resistenza con un impatto di circa un miliardo e mezzo di euro a livello economico sia per le spese sanitarie, sia per la perdita di produttività. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), se la tendenza attuale non verrà modificata, nel 2050 l’antimicrobico-resistenza sarà responsabile di circa 2,4 milioni di decessi all’anno solo nei 38 paesi dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) con un impatto economico da 3,5 miliardi di dollari annui. Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, a livello mondiale i decessi annui legati a questo fenomeno potrebbero raggiungere i 10 milioni nel 2050 (superando gli 8 milioni di morti previsti per il cancro), con una riduzione del Prodotto interno lordo (Pil) stimabile nel 2-3%, che potrebbe tradursi in una perdita fino a 100mila miliardi di dollari a livello mondiale da qui al 2050. Oltre all’impatto sui singoli sistemi sanitari, infatti, un aumento delle resistenze ai farmaci avrebbe ripercussioni sulla forza lavoro in termini di mortalità e di morbosità e quindi sull’intera produzione economica. Di fatto, si sta diffondendo un panico silenzioso negli ospedali, ma per la maggior parte delle persone, dei gruppi politici e di quelli d’affari sembra essere un problema molto lontano. Del resto, governi e istituzioni di tutto il mondo, dopo aver ripetutamente ridotto i fondi a disposizione della ricerca, sono piuttosto riluttanti a rendere pubbliche epidemie di infezioni resistenti ai farmaci.

Batterio di Escherichia coli al microscopio elettronico. Foto WikiImages – Pixabay.

Pericoli e ricerca

L’Oms ha stilato una lista dei principali batteri che presentano antibiotico-resistenza, classificandoli in base alla loro pericolosità e alla loro resistenza, in modo da promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici. L’accento è posto in particolare sui batteri Gram-negativi resistenti a molteplici antibiotici. Questa lista è suddivisa in tre categorie, a seconda dell’urgenza di nuovi antibiotici: priorità fondamentale, elevata e media. I batteri appartenenti al primo gruppo sono quelli resistenti a più farmaci, rappresentando una particolare minaccia in ospedali, case di cura e tra i pazienti che necessitano di ventilatori e di cateteri. Tra questi ci sono Acinetobacter, Pseudomonas e vari componenti della famiglia delle Enterobacteriacee (tra cui Klebsiella, Escherichia coli, Serratia, Proteus). Essi possono causare gravi infezioni, spesso mortali, come setticemie e polmoniti e sono diventati resistenti a un gran numero di antibiotici compresi i carbapenemi e le cefalosporine di terza generazione, tra i migliori antibiotici attualmente a disposizione. La seconda e la terza categoria della lista comprendono altri batteri sempre più resistenti ai farmaci e capaci di causare malattie più comuni come gonorrea e salmonellosi.

La Candida auris, il fungo killer

Un altro superpatogeno, che desta sempre più preoccupazione come emergenza di salute pubblica, non è un batterio bensì un fungo, la Candida auris. Si tratta del cosiddetto fungo killer, che è molto resistente ai farmaci ed è capace di uccidere la metà dei soggetti colpiti in tre mesi. La sua diffusione, cominciata in sordina, ha raggiunto ogni zona del globo. Fu identificato per la prima volta nel 2009 nell’orecchio di una donna giapponese di circa 70 anni e da allora è stato rinvenuto in tutto il mondo, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Australia e in Europa, dove sono stati identificati 52 casi al Royal Brompton Hospital di Londra nel 2015 e 85 casi al Politecnic La Fe di Valencia nel 2016. Si rivela molto pericoloso per chi ha il sistema immunitario immaturo o compromesso come i neonati o gli anziani, i fumatori, i diabetici e le persone con patologie autoimmuni costrette ad assumere farmaci steroidei, che funzionano come immunosoppressori. I ricercatori che hanno studiato la Candida auris ritengono che essa sia comparsa in contemporanea e in modo indipendente negli stati di tre diversi continenti, in particolare in India, in Sudafrica e in Sud America e questo fatto singolare non può essere imputabile solo all’abuso di antibiotici e di antimicotici, quindi alla farmaco-resistenza.

Il riscaldamento globale

Un recente studio suggerisce che i cambiamenti climatici possano avere favorito la diffusione del fungo killer e la sua capacità di infettare gli esseri umani. Confrontando il comportamento di Candida auris con quello di altre specie micotiche strettamente imparentate dal punto di vista genetico, i ricercatori si sono resi conto che il fungo killer sa adattarsi molto bene all’aumento della temperatura e sarebbe perciò predisposto a infettare l’essere umano, a differenza della maggior parte dei funghi, che sono incapaci di sopravvivere alla nostra temperatura corporea e vengono quindi facilmente eliminati dai nostri meccanismi di difesa. Secondo uno degli autori di questo studio, Alberto Casadevall (John Hopkins Bloomberg School of public health) «il riscaldamento globale porterà alla selezione di lignaggi fungini, che sono più tolleranti alle alte temperature e che dunque possono violare la zona di restrizione termica dei mammiferi». Si tratta di un’ipotesi ancora da verificare, ma senz’altro suggestiva e meritevole di ulteriori approfondimenti. Sicuramente sono necessari migliori sistemi di sorveglianza per segnalare rapidamente nuove infezioni fungine come quella di Candida auris.

I batteri e i loro geni

Cosa causa l’antibiotico resistenza? Alla base di questo fenomeno vi è una serie di cause. Sicuramente la resistenza ai trattamenti è un fenomeno naturale presente in tutti gli organismi. I batteri, rispetto ad altri patogeni, hanno una marcia in più rappresentata dalla capacità di trasferimento genico orizzontale, che li caratterizza, cioè la capacità di trasmettere materiale genetico ai loro simili senza passare attraverso la riproduzione. Spesso nel materiale trasferito si trovano geni che conferiscono la resistenza a qualche farmaco. Questo consente ai batteri di essere più veloci nell’evolvere le loro difese. Dall’analisi di campioni di acque profonde un centinaio di metri è stata rilevata la presenza di batteri con geni della resistenza ad alcuni antibiotici. Questo dà un’idea di quanto sia diffuso questo fenomeno.

La «Candida auris», un fungo molto pericoloso. Foto notiziescientifiche.it.

Antibiotici vecchi e nuovi

Ci sono antibiotici nuovi, che generano resistenza già poco tempo dopo la loro immissione sul mercato, mentre alcuni antibiotici vecchi di decenni come le tetracicline si dimostrano ancora efficaci contro la filariosi, una malattia parassitaria dei cani veicolata dalle zanzare. Le case farmaceutiche si dimostrano un po’ restie a investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, perché è sempre più difficile produrne uno che duri a lungo come le tetracicline. L’insufficienza degli investimenti nella ricerca di nuove terapie è un problema evidenziato anche dall’Oms.

L’uso sconsiderato ed eccessivo di antibiotici è sicuramente una parte del problema. Questi farmaci, infatti, sono inutili per la cura delle patologie di origine virale, dal momento che i virus non sono esseri viventi, a differenza dei batteri, dei funghi, dei protozoi e dei parassiti pluricellulari, quindi non possono essere uccisi dagli antibiotici.

Inoltre, spesso l’antimicrobico-resistenza si osserva in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuata in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che hanno assunto farmaci qualitativamente scadenti o che non hanno effettuato per intero il ciclo di cura. È infatti molto pericoloso interrompere il ciclo di cura non appena si attenuano i sintomi della malattia. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi sempre più resistenti e la difficoltà di trattare le infezioni aumenta i rischi delle procedure mediche come la chemioterapia, gli interventi chirurgici e odontoiatrici.

Il problema allevamenti

Un’altra fonte di rischio di antimicrobico-resistenza è l’uso massiccio di antibiotici, che si è fatto finora in campo veterinario, soprattutto negli allevamenti intensivi, i quali massimizzano la resa economica, ma anche la diffusione delle malattie che necessitano di un trattamento antibiotico. Poiché è complicato curare i singoli individui malati di un allevamento, solitamente vengono trattati tutti gli animali presenti, malati e sani. Questo abuso di antibiotici per curare gli animali d’allevamento supera quello in campo umano. Inoltre, questi prodotti vengono anche usati per stimolare la crescita degli animali. I batteri farmaco-resistenti, che vengono selezionati negli allevamenti, hanno diverse possibilità di diffusione: possono infettare gli operatori del settore; essere ingeriti, se la carne viene consumata senza un’adeguata cottura; finire nelle feci usate come fertilizzanti e raggiungere i campi coltivati oppure passare i loro geni ad altri batteri secondo il meccanismo del trasferimento genico orizzontale già visto. A tal proposito, l’Agenzia europea per la regolamentazione dei farmaci (Ema) ha fissato una soglia per l’uso della colistina, che dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5 mg per chilogrammo di bestiame.

Come prevenzione, va detto che sono senz’altro importanti le raccomandazioni sulle norme igieniche personali di base, come il lavaggio frequente delle mani, come abbiamo sperimentato durante la pandemia di Covid. Tuttavia, sono misure ampiamente insufficienti. È infatti indispensabile, da parte delle amministrazioni nazionali e locali prendere provvedimenti seri contro le infestazioni di roditori e di insetti ematofagi.

Negli allevamenti intensivi si fa un uso massiccio di antibiotici con gravi conseguenze. Foto Ralphs fotos – Pixabay.

Dalla storica peste ai superpidocchi

Non dimentichiamo che la Yersinia pestis, che ha più volte decimato le popolazioni europee nel corso dei secoli, è un batterio trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti e dei topi, roditori di cui purtroppo attualmente le nostre città sono piene. Proprio come capitò nel Medio Evo, quando il batterio si diffuse in comunità affollate e malnutrite di città fiorenti, uccidendo circa il 30% della popolazione europea. Cosa succederebbe se questo batterio si ripresentasse adesso, magari dopo avere acquisito qualche gene dell’antibiotico-resistenza? E che dire della diffusione dei pidocchi diventati resistenti agli insetticidi attualmente in uso, tanto da essersi meritati l’appellativo di superpidocchi? Questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’abuso fatto per anni del Ddt, che colpisce il sistema nervoso dei pidocchi provocandone la morte. Dopo decenni di esposizione, in alcuni pidocchi sono comparse mutazioni genetiche, che li hanno resi insensibili a questo insetticida. Mentre i loro simili non resistenti venivano sterminati, la popolazione resistente è aumentata enormemente e a nulla è valsa la sostituzione del Ddt con insetticidi naturali a base di piretrine o dei loro analoghi sintetici, i piretroidi, che hanno un meccanismo d’azione simile a quello del Ddt. In Europa si sta ricorrendo a metodi alternativi come l’uso di siliconi e di oli sintetici per incapsulare i pidocchi e provocarne la morte; tuttavia, i casi d’infestazione sono in aumento. Oltre al fastidio rappresentato dall’infestazione, non dimentichiamo che i pidocchi potrebbero trasmettere il tifo petecchiale, essendo tra i vettori della Rickettsia prowazekii, il batterio che causa questa patologia.

Zanzare e superzanzare

Ritroviamo lo stesso fenomeno della resistenza a piretrine e a piretroidi nelle zanzare, che sono i vettori del plasmodio della malaria, malattia che, nel 2019, ha colpito 229 milioni di persone in tutto il mondo con circa 409mila morti, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana. Naturalmente anche il Plasmodium malariae si è dato da fare ad acquisire la farmaco-resistenza nelle zone dove la malaria è endemica, per cui attualmente i ceppi ancora sensibili alla clorochina sono presenti solo più nell’America centrale, nei Caraibi e nel Medio Oriente, mentre la resistenza all’artemisina è stata osservata per la prima volta nel Sud Est asiatico nel 2008 e, da allora, si è diffusa in tutta la regione ed ha raggiunto l’India.

Oltre alla malaria, le zanzare sono responsabili anche della diffusione di altre gravissime infezioni come la febbre gialla, la chikungunya, la filariosi e la più recente zika. Da quanto abbiamo visto, risulta evidente che i molteplici agenti patogeni contrastati per decenni grazie alla scoperta e alla produzione di diverse classi di antimicrobici stanno riuscendo poco per volta ad aggirare l’ostacolo tornando a rappresentare un serio pericolo.

Rosanna Novara Topino




Messico. Costruendo Autonomia


Il modello di sviluppo dominante opera con mega progetti che distruggono territori e modi di vita originari. Le comunità locali sono al lavoro per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia. L’esempio della città di Cuetzalan.

«Cosa ti dice oggi il tuo cuore?», mi saluta Ivan. È un mattino di novembre, siamo nel bar Tosepan Kajfen nel centro di Cuetzalan del Progreso.

Il saluto di Ivan, tradotto letteralmente dalla lingua nahuatl della Sierra Nordorientale dello stato di Puebla, in Messico, corrisponde al nostro «buon giorno».

Il Nahuatl è una delle lingue principali di questo territorio, i cui abitanti appartengono in gran parte ai popoli Masewal-Totonaku e mestizos (meticci)1.

Cuetzalan ne è una delle principali cittadine, con il suo centro storico dalla pavimentazione in pietra, il tiangui (mercato) domenicale, il palo della danza de los voladores di fronte all’enorme chiesa, anch’essa in pietra, e le sue abbondanti piogge che durante tutto l’anno alimentano la rigogliosa vegetazione della regione.

Mi trovo in una terra generosa, nella quale si coltiva e si commercia caffè, cannella, pepe nero, e si fabbricano cesti e altri prodotti di jonote e tessuti elaborati al telar de cintura.

 Minacce e resistenza

Questa terra ha anche una lunga storia di custodia e di resistenza da parte dei suoi abitanti.

Da decenni, infatti, diversi megaprogetti minacciano il territorio, la cosmovisione autoctona, le identità, le pratiche culturali delle comunità indigene, gli agroecosistemi locali delle milpas, l’acqua e la foresta.

Negli ultimi venti anni ci sono stati molti conflitti. Una resistenza che non si limita all’opposizione, ma difende i modelli alternativi di vita, pianificati e gestiti dalla popolazione locale in armonia con un paradigma culturale e spirituale che rispetta il territorio e il suo benessere, in favore di tutti i suoi abitanti.

 

il malinteso sviluppo

L’anno decisivo fu il 2008, quando la Commissione nazionale per lo sviluppo dei popoli indigeni (Cdi – Commisión nacional para el desarrollo de los pueblos indígenas) annunciò l’attuazione di un progetto turistico nella parte alta del comune, sulla Sierra de San Manuel.

Il piano, sostenuto dal governatore dello stato di Puebla, si poneva l’obiettivo di attrarre capitali privati, nazionali ed esteri, allo scopo di creare imprese turistiche in undici comuni della regione, in aree particolarmente attrattive per il loro valore paesaggistico e ambientale.

Il progetto riguardante Cuetzalan prevedeva la costruzione di capanne, hotel e di una scuola alberghiera nella quale gli «indigeni locali» sarebbero stati formati per prestare servizi turistici (poco pagati).

Fin da subito il progetto destò dubbi per gli incerti benefici che avrebbe portato a livello locale e per la mancata partecipazione degli abitanti nella sua pianificazione.

Durante i lavori, poi, le famiglie cominciarono a notare contaminazione di calce, fango e cemento nell’acqua dei loro rubinetti. Il sistema idrico del municipio, amministrato in maniera autonoma dai comitati territoriali dell’acqua, infatti, stava subendo le conseguenze del progetto che, oltre a essere stato imposto, era stato fin da subito mal gestito con disprezzo per la salute degli abitanti e gli ecosistemi locali.

Pianificazione ecologica

Le comunità non rimasero a guardare. Nel 2009, in collaborazione con accademici e accademiche della Buap (Benemérita universidad autónoma de Puebla), esse cominciarono a sviluppare un modello di pianificazione territoriale basato sulle conoscenze, la cosmovisione e le esigenze di indigeni e mestizos locali.

Nel dicembre 2010, il modello elaborato venne pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» come «Programma di pianificazione ecologica territoriale» (Poet – Programa de ordenamiento ecológico territorial) del comune di Cuetzalan.

Il Poet prevedeva limitazioni ai «progetti di sviluppo» e alla costruzione di infrastrutture energetiche. Da quel momento, i progetti consentiti sarebbero stati solamente quelli pianificati e pienamente giustificati dai bisogni della popolazione locale.

Difesa di vita e territorio

Per dare seguito alla nuova modalità di gestione del territorio, si costituì il Comitato di pianificazione territoriale integrale (Cotic), composto principalmente da organizzazioni sociali, comitati dell’acqua, produttori di caffè e pepe, artigiani, associazioni di difesa dei diritti umani, associazioni di donne, nonché dai residenti di Cuetzalan e da autorità municipali, statali e federali.

Le decisioni relative a qualsiasi piano o progetto per il territorio vengono da allora discusse nell’amplissima Assemblea in difesa della vita e del territorio che normalmente si riunisce nel centro di Cuetzalan ed è riuscita a raccogliere fino a 4mila persone. Quest’ampia partecipazione e il reale controllo del processo di decisione da parte delle organizzazioni locali, fa del Poet un esempio unico nel paese e un punto di riferimento e ispirazione per altre esperienze simili.

Proyectos de Muerte

Cuetzalan

L’articolazione della popolazione locale in comitati e associazioni, e la lunga esperienza di collaborazione comunitaria e cooperativista che caratterizza il municipio, facilitarono la creazione di un fronte di resistenza allo sfruttamento del territorio e di vigilanza sui progetti infrastrutturali in campo energetico e minerario.

Alcuni dei casi più significativi di programmi di «sviluppo» nocivi, hanno portato alla distruzione di sorgenti d’acqua per la costruzione di un’autostrada da parte del ministero dei Trasporti, al tentativo di costruzione di due grandi magazzini che avrebbero messo a repentaglio il commercio locale (uno del gruppo Walmart e l’altro di Coppel), a quattro dighe idroelettriche sul fiume Apulco, a giacimenti di gas e petrolio, e ad attività di fracking (estrazione di petrolio tramite frantumazione delle rocce, ndr).

Accanto al Cotic, un altro comitato si creò proprio in risposta all’industria estrattiva, il Concejo Tiyat Tlali en defensa de la vida y el territorio, con compiti di sorveglianza e denuncia di opere e progetti contrari a quanto previsto dal piano regolatore.

Questi progetti sono chiamati dai loro oppositori proyectos de muerte, perché chiaramente contrari alla cura e riproduzione della vita e delle sue basi ecologiche, alle pratiche agroecologiche e alla convivenza di tutti gli esseri viventi, delle generazioni attuali e future.

Molti di essi furono fermati. Tra i più recenti, possiamo ricordare le concessioni minerarie revocate dalla Corte suprema nei primi mesi del 2022 a causa della non conformità di tali progetti con la legislazione vigente. La revoca delle concessioni ha colpito gli investimenti della multinazionale canadese Almaden Mineras, che intendeva estrarre oro e argento dal territorio del municipio di Ixtacamaxtitlán, e del Grupo Ferro Minero, che aveva tre progetti in Cuetzalan del Progreso, Tlatlauquitepec e Yahonáhuac.

Energia, tema chiave

Un altro anno decisivo per Cuetzalan, questa volta in relazione ai megaprogetti elettrici, fu il 2015. La Commissione federale dell’elettricità (Cfe), società statale incaricata di produrre e vendere energia elettrica, aveva promosso lo sviluppo della linea ad alta tensione (di seguito Lat2) tra Teziutlán II e Papantla, passando per Ayotoxco de Guerrero e Cuetzalan. Nella zona Nord Est di quest’ultima sarebbe stata costruita una sottostazione elettrica.

Il Cotic, tramite studi specializzati, dimostrò che la stazione non rispondeva alla domanda di energia di Cuetzalan e della regione, bensì a quella dell’industria che si stava preparando nello stato e in tutto il paese.

Gli abitanti del municipio scoprirono così che il loro territorio era strategico per l’interconnessione di diverse linee elettriche che avrebbero fornito energia allo sfruttamento minerario del territorio e al fracking.

«Da quel momento abbiamo capito che dovevamo affrontare il tema energetico in chiave di autonomia locale, altrimenti sarebbe stato inutile opporsi ai megaprogetti. Dovevamo dimostrare che un altro modello è possibile e che le comunità lo possono gestire», mi spiega Leo Durán, della cooperativa Tosepan. «Così abbiamo deciso che l’energia doveva diventare un settore chiave di trasformazione comunitaria».

La Lat, tra le altre cose, avrebbe danneggiato irrimediabilmente un’importante area di acque sorgive, protetta e conservata nel tempo dalle comunità locali, comportando impatti irreversibili su una vasta area di piantagioni di caffè e di altri prodotti che rappresentano il sostentamento di numerose famiglie.

Inoltre la Lat avrebbe messo a rischio l’habitat di specie uniche e il sistema di orientamento dell’ape melipona, responsabile dell’impollinazione di tutte le coltivazioni e delle specie silvestri. La produzione di miele, fonte di reddito soprattutto per apicoltrici donne, si sarebbe interrotta.

La deforestazione, infine, avrebbe provocato la destabilizzazione dei pendii portando il rischio di frane disastrose.

La linea s’interrompe a Cuetzalan

Per queste ragioni, il 19 novembre 2016, il popolo Masewal-Totonaku e i mestizos, tramite un’azione nonviolenta, dichiarò la sua ferma opposizione alla linea ad alta tensione, affermando il diritto dei popoli indigeni alla libera autodeterminazione tutelato dal secondo articolo della Costituzione messicana.

In grande numero, gli abitanti del municipio si recarono nell’area di costruzione della sottostazione e impedirono fisicamente la ripresa dei lavori mediante un lungo, deciso e pacifico sit in. Dopo più di un anno di accampamento e turni di guardia degli abitanti di Cuetzalan e dei municipi vicini, le autorità comunali si videro obbligate a ritirare la licenza di costruzione della sottostazione elettrica in programma.

Criminalizzazione e repressione violenta

Nonostante la cancellazione del progetto, la criminalizzazione e la violenza contro gli oppositori della Lat non si fece aspettare. Nel febbraio 2018, otto rappresentanti di organizzazioni della regione furono accusati (e poi assolti) del reato di «impedimento» all’esecuzione di un’opera pubblica. Il 14 maggio 2018 fu assassinato Manuel Gaspar Rodríguez, membro del Miocup (Movimiento independiente obrero campesino urbano popular) che già aveva ricevuto molteplici minacce di morte per la sua opposizione alla centrale.

Il suo nome, così, si aggiunse a quelli delle molte persone che nel mondo scompaiono per la difesa e la cura del loro territorio.

Un altro membro di Miocup, Antonio Esteban Cruz, era stato già ucciso nel giugno del 2014 per la sua opposizione alle dighe idroelettriche (Vedi Daniela del Bene, Uomini e terra sotto attacco, MC giugno 2021).

Nel marzo di quello stesso 2018, un commando armato sparò a un camion su cui viaggiavano membri della Tosepan. Successivamente, il centro di formazione della cooperativa fu dato alle fiamme mentre alcuni suoi membri vi lavoravano.

Il 18 marzo 2021, la Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) emise la raccomandazione numero 9/2021, chiedendo alle autorità competenti di effettuare una riparazione completa del danno subito dalle persone criminalizzate per la protesta a Cuetzalan.

Energie alternative

L’opposizione alla centrale rappresentò il ripudio popolare al piano estrattivista della regione.

L’Assemblea in difesa della vita e del territorio invitò le persone a disconnettersi dai cavi dei «progetti di morte» e ad appropriarsi di tecnologie alternative per la produzione di energia e per la riduzione del consumo.

«Durante il sit in, si erano organizzati laboratori e discussioni sul tema energetico, e alcuni giovani avevano insegnato alla comunità il funzionamento delle energie alternative, in particolare quella prodotta con pannelli solari», mi racconta doña Rufina che gestisce la piccola struttura di ricezione turistica Hotel Taselotzin insieme alle altre donne della cooperativa Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij (che in nahuatl significa «donne indigene che lavorano insieme e si sostengono a vicenda»).

Non era infatti più sufficiente opporsi ai megaprogetti, ma era giunto il momento di costruire alternative in armonia con la cosmovisione e l’idea stessa di vita dignitosa e sana propria degli abitanti della regione.

Le comunità organizzate nell’assemblea annunciarono in particolare l’intenzione di camminare verso un modello energetico che contribuisca al buen vivir, al yeknemilis in Nahuatl.

Photo by Pablo Rebolledo on Unsplash

Codice Masewal

Dal 2015 al 2018, una riflessione collettiva coordinata da organizzazioni locali come l’associazione di donne Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij, l’Unione delle cooperative Tosepan Titataniske e altre, portò alla stesura del Codice Masewal: sognando i prossimi 40 anni, nel quale si dettagliano dieci linee strategiche per la costruzione del «Yeknemilis dei popoli Masewal, Tutunakú e i mestizos della Sierra Nord orientale di Puebla».

Tra queste, la linea strategica dell’autonomia energetica portò all’installazione di pannelli fotovoltaici nelle sedi di ricezione turistica gestita dalle stesse organizzazioni locali, tra cui l’Hotel Taselotzin, varie strutture della cooperativa Tosepan, e alcune case della vicina comunità di Xocoyolo.

L’installazione degli impianti fotovoltaici beneficiò della collaborazione della cooperativa Onergia, con sede nella città di Puebla. Essa, dal 2017, si occupa anche di sviluppare processi formativi su energie rinnovabili e cooperativismo rivolti ai giovani.

Furono inoltre realizzate mappature e inchieste per conoscere i livelli di povertà energetica nelle comunità della regione.

Infine, la progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici adattati alle condizioni meteorologiche locali e al materiale da costruzione, come il bambù, disponibile nella zona.

Autonomia energetica

Dal 2016 a oggi si sono tenute molte formazioni in campo energetico alle famiglie e alle organizzazioni di Cuetzalan per la buona manutenzione dei pannelli solari. L’obiettivo è di fornire conoscenze e autonomia nella loro manutenzione.

Nel 2020, fu sviluppato un percorso di consolidamento della nuova cooperativa locale Tonaltzin, composta da un gruppo di dieci giovani che fornisce servizi elettrici e di riparazione rivolti principalmente alle comunità di Cuetzalan.

Nel 2021, la cooperativa Tosepan e altri partner ottennero un finanziamento del Consiglio scientifico nazionale (Conacyt) per un progetto denominato «Energia per il Yeknemilis nella Sierra Nord orientale di Puebla».

Comunità locali, organizzazioni e accademici lavorano ora insieme per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia, a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione della cosmovisione comunitaria e contadina, che contribuisca a vivere secondo il Yeknemilis.

L’Assemblea per la difesa del territorio ha intanto cambiato il suo nome in Asemblea para los planes de vida en el territorio, un nome che sottolinea la necessità non solo di difendere le basi della vita ma anche di costruire collettivamente meccanismi che garantiscano una vita sana e dignitosa, coerente e in armonia con la cosmovisione locale, in un territorio sano.

L’energia come diritto collettivo e bene comune è solo una parte di questo progetto, ed è tanto centrale quanto lo è l’acqua, la terra, la cultura e la madrelingua, il rispetto intergenerazionale e di genere, la dialettica tra il sapere locale e quello scientifico e tecnologico.

Un processo di difesa della vita e di costruzione di saperi e di alternative concrete che sta già ispirando altre comunità e di cui abbiamo tutti e tutte estremo bisogno.

Daniela del Bene


Note:

1- Cuetzlan del Progreso è un comune situato nella Serra Nord orientale dello stato di Puebla. Il comune fa parte di un vasto territorio in cui i popoli Masewal, Tutunaku e i mestizos (meticci) convivono insieme da molte generazioni. Nel caso del comune di Cuetzalan del Progreso, la popolazione è prevalentemente indigena di lingua nahuatl e si identifica come masewalmeh, che letteralmente si potrebbe tradurre come «donne e uomini liberi, orgogliosi della propria identità e del proprio territorio».
Le comunità tutunaku vivono generalmente in zone più isolate rispetto al centro urbano. Il concetto di «mestizos» si riferisce alle famiglie miste o che non si riconoscono propriamente indigene.

2- La Lat consiste nell’installazione, esercizio e manutenzione di una linea di trasmissione ad alta tensione, della potenza di 115 kilowatt (Kw), a doppio circuito, della lunghezza di 10.171,63 metri. La traiettoria del progetto inizierebbe all’incrocio con una linea esistente (Papantla Power-Teziutlán II), e finirebbe sotterranea presso la futura sottostazione elettrica, nel Nord Ovest della città di Cuetzalan, vicino alla strada statale 575. Entrambi i progetti sono stati promossi dalla Commissione Federale d’Elettricità, sostenendo i benefici che porterebbero alla popolazione della zona. Tuttavia, esiste una triste correlazione tra lo sviluppo della Lat e gli altri megaprogetti in corso di attuazione nella Sierra Norte di Puebla, tra cui l’idroelettrico, il minerario e l’estrazione di idrocarburi.

Video:

La Energía de los Pueblos su Youtube.

Link

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).