Máxima Acuña Premio Goldman 2016 per l’Ambiente


Máxima Acuña, contadina peruviana, è la vincitrice indiscussa  del Premio Goldman 2016 per l’Ambiente, il Nobel dell’ecologia che ogni anno viene assegnato agli eroi ambientali dalla Fondazione Goldman Environmental. Il Goldman Environmental Prize è il più grande premio al mondo per gli attivisti ambientali.

Il Nobel per l’ambiente è andato quest’anno a Máxima Acuña, coraggiosa contadina peruviana analfabeta che ha difeso il suo territorio contro lo sfruttamento da parte di un colosso minerario intenzionato a scavare una miniera d’oro vicino al suo campo e prosciugare il lago, che serve per irrigare i campi, per trasformarlo in una discarica di rifiuti tossici.

Da: http://www.dailygreen.it/

Maxima è la protagonista del reportage di Simona Caino www.aguasdeoro.org, vincitrice con M.A.I.S. Ong di uno dei premi di Dev Reporter Network


Máxima Acuña, mujer campesina y agricultora gana el premio más importante sobre medio ambiente y ningún medio de comunicación transmitió en el Perú.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=MSrzroFceh8


A subsistence farmer in Peru’s northe highlands, Máxima Acuña stornod up for her right to peacefully live off her own land, a plot of land sought by Newmont and Buenaventura Mining to develop the Conga gold and copper mine.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=Gz8eZx8V4Uo

 




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti

 




L’atlante della giustizia ambientale


Nel mondo assumono sempre maggiore importanza i cosiddetti conflitti ambientali. Popolazioni locali, organizzazioni, singoli cittadini, reti di studiosi si oppongono a progetti «di sviluppo» dannosi per il territorio e rischiosi per la sostenibilità della vita sulla terra.
Da due anni esiste un atlante on line che offre un colpo d’occhio complessivo sui conflitti in corso nel mondo, e informazioni specifiche su ciascuno. Ecco il punto sui dibattiti riguardanti la giustizia ambientale e la sua rilevanza nel contesto globale.

Il rapporto di Global Witness del 20121 lancia un allarme sugli elevati livelli di violenza contro attivisti, cittadini e comunità rurali impegnati su tematiche ambientali e conflitti territoriali. Il titolo del rapporto, Deadly Environment (ambiente mortale), risveglia indignazione e ribellione nel lettore. Le cifre, negli ultimi anni, raggiungono il doppio zero: nel 2011, si è avuta la media di una vittima a settimana. I casi e numeri indicati nel report sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e diffuso, che sta coinvolgendo nuovi spazi, luoghi fisici e simbolici, e unendo gruppi sociali in una causa comune.

01 philippe leroyer Demonstration against the Notre Dame des Landes airport - 22Feb14, Nantes (France

Repressione crescente

Tanto in America Latina, Africa e Asia, come in Europa e Nord America, persone che si oppongono a attività estrattive come miniere, pozzi di petrolio e gas flaring2, a dighe, ma anche a discariche inquinanti e a grandi progetti di infrastrutture, subiscono una crescente repressione da parte di governi e milizie, in collusione con compagnie private e statali. Questi attivisti denunciano gli impatti sociali e ambientali del sistema economico estrattivo capitalista e il suo elevato metabolismo sociale. Nel suo ultimo libro3, Naomi Klein chiama Blockadia quelle azioni di opposizione, quei territori resistenti, come le remote foreste canadesi dove comunità di first nation (abitanti originari) bloccano la strada e impediscono la costruzione di oleodotti e gasdotti.

Piazza Taksim contro Erdogan

Turchia, Istanbul, Taksim Gezi Park 2013: gli abitanti della città sul Bosforo scendono in strada per difendere il parco cittadino più famoso della città, e mostrare la loro contrarietà al centro commerciale che dovrebbe sorgere al suo posto. In gioco non ci sono solo gli alberi del parco, ma una visione, un’idea politica di ciò che Istanbul deve offrire ai suoi cittadini. La contrarietà al mall e alla speculazione edilizia nell’area circostante si manifesta tra persone di diversa età ed estrazione sociale che, forse, mai nella loro vita precedente avevano pensato di scendere in strada o di partecipare ad azioni dimostrative. Per la prima volta in Turchia si trovano dalla stessa parte, e devono affrontare una dura repressione dello stato e delle forze dell’ordine. Nella discussione, emergono aspre critiche che mettono in difficoltà il governo di Recep Tayyip Erdogan.

Contro il bene comune

Dinamiche simili sono avvenute negli ultimi anni in Francia presso l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo aeroporto di Nantes, ribattezzata Zona da Difendere (Zad, dall’acronimo francese), a Stoccarda in merito alla paventata ristrutturazione della stazione dei treni, per non parlare della Val Susa e della decennale opposizione al Tav. Trasporti e infrastrutture, ma anche energia e industria estrattiva, sono al centro di intensi dibattiti e opposizioni in Europa, tra sostenitori di una politica espansiva e di grandi appalti per rilanciare l’economia e coloro che si oppongono a questa ideologia di sviluppo per i suoi impatti sociali ed ecologici e alla dominazione di potenti lobbies economiche e politiche.

Notizia dell’inizio del 2015, per esempio, è il cosiddetto Piano Junker, che sta investendo 315 miliardi di euro in grandi infrastrutture in Europa, con la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (Bei). Trasporti ed energia sono due colonne portanti del piano e rappresentano la maggior parte dei progetti candidati, cosiddetti di «interesse comune» (Pic). I criteri decisionali e di valutazione dell’opportunità o meno di aprire cantieri, e da parte di quale impresa, non sono chiari e certamente non sono frutto di una discussione democratica e informata in ciascun paese membro.

I trattati di cosiddetto «libero» commercio dell’Unione europea con partner di altri continenti, come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, cfr MC ottobre 2015, p. 64) con gli Stati Uniti o il Ceta (Accordo economico e commerciale globale) con il Canada, sono un altro cardine del meccanismo che porta le istituzioni a smettere di perseguire il bene pubblico a favore della concentrazione della ricchezza in mano di pochi.

Nuove forme di mobilitazione

Critiche al modello di accumulazione di ricchezza e impunità si stanno diffondendo in modo trasversale tra gruppi sociali distinti: l’opposizione alle esplorazioni per fracking4, per esempio, ha fatto il suo ingresso nei salotti della classe media in Polonia, mentre il caso della miniera di oro a Ro?ia Montan?, che prevederebbe la rimozione di diverse montagne nel territorio degli Apuseni (Monti del tramonto), parte della catena dei Carpazi occidentali, ha risvegliato la società civile rumena in quello che è considerato il più grande movimento civico del paese dopo la rivoluzione del 1989.

Tali mobilitazioni creano forti legami nazionali e inteazionali, e spesso azioni congiunte, tra comunità locali che subiscono le conseguenze sociali e ambientali di una stessa attività, o gli abusi di un’impresa.

I progetti di Enel-Endesa, per esempio, sono stati contestati dalla Patagonia cilena (contro i progetti idroelettrici nella regione australe) al Guatemala (contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo), alla Colombia (contro quella di El Quimbo). Ma anche in Spagna, per la rete d’alta tensione (Mat), e in Italia, sul Monte Amiata (Grosseto) e a Porto Tolle (Rovigo). La rete italiana Stop Enel sta intentando un cornordinamento fra i comitati in Italia, e scambi con comunità estere che vivono nelle località coinvolte dai progetti dell’azienda.

La rete di Oilwatch attenta al tema dell’estrazione di petrolio, o l’alleanza Gaia sulle alternative all’incenerazione dei rifiuti, o ancora la Campagna Internazionale contro l’Impunità delle Multinazionali, sono altri esempi di azioni di pressione congiunte su governi, istituzioni e imprese private a livello globale.

Mining conflicts in Latin America_EJAtlas

L’atlante globale della giustizia ambientale

Per fornire nuovi strumenti e metodologie di ricerca, accademici e organizzazioni per la giustizia ambientale hanno creato l’«Atlante Globale della Giustizia Ambientale» (Ejatlas, Environmental Justice Atlas), all’interno del progetto di ricerca Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona. L’atlas è stato lanciato online nel marzo 2014, ed è in costante espansione; oggi conta più di 1.600 casi di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo5. Vi si trovano informazioni circa mobilitazioni, campagne, petizioni e conflitti a livello locale, su progetti industriali, infrastrutture urbane, centrali elettriche per le quali si siano registrate istanze d’opposizione e forti critiche da parte di comunità locali, residenti dell’area, comunità scientifica o internazionale.

L’Ejatlas dimostra che esiste una presa di coscienza presso comunità in tutto il mondo rispetto alla difesa di un ambiente che non è costituito solo da parchi naturali e zone delimitate da conservare, ma è il fondamento della vita e della sua continuità. Descrive i tratti comuni di tanti movimenti sociali che vedono nello sfruttamento ambientale i rapporti di potere tra governi, imprese e comunità locali, in linea con il fenomeno che Henri Acselrad, professore della Universidade Federal do Rio de Janeiro (Ufrj), chiama environmentalization (ambientalizzazione) delle lotte sociali. L’Ejatlas dimostra infine che non si tratta di movimenti «nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile), come alcuni sostengono (tra cui il think tank italiano Nimby Forum), ma di genuini movimenti di solidarietà tra comunità anche molto distanti e diverse tra loro, benché certamente la mobilitazione di solito inizi per ciascuno nel proprio territorio, per ragioni di affezione emotiva e conoscenza delle sue caratteristiche. L’Ejatlas rende più evidente che quanto risulta nocivo alla salute a Ponte Galeria (frazione di Roma Capitale), lo è anche nella discarica di Dandora a Nairobi, e che la repressione violenta di cittadini della Val di Susa segue la stessa logica di controllo e imposizione che sta dietro la costruzione di dighe nei territori indigeni del Guatemala.

Fracking Frenzy_EJAtlas

Recuperare i saperi locali

Molti studiosi, tra cui l’economista ecologico Joan Martinez Alier, cornordinatore scientifico dell’Ejatlas, sostengono che sia già in corso un’alleanza tra movimenti ambientalisti e coloro che spingono verso una ridefinizione dei rapporti economici, produttivi e commerciali ispirati da concetti di equità sociale e rispetto. Se pensiamo alle proposte della Decrescita, così come a quelle dell’agroecologia, della riconversione urbana, ai gruppi di co-produzione tra famiglie e agricoltori, questo diventa evidente.

Lo storico italiano Marco Armiero, osservando che la convergenza fra giustizia ambientale, il movimento altermondialista, e le comunità di base è avvenuta già da tempo, al di là delle pubblicazioni scientifiche, sembra lanciare un appello al mondo accademico perché ne prenda coscienza e inizi a parlarne. Uno degli obbiettivi principali del progetto è proprio quello di superare, nell’ambito della giustizia ambientale, la visione dicotomica tra il sapere «scientifico» e quello «popolare», soprattutto in relazione a questioni vitali e a volte incerte come gli impatti socio-ambientali, oltreché sanitari ed economici, di un mega progetto minerario o energetico o dei trasporti, e così via. Infatti gli interessi corporativi e politici, insieme a un sapere troppo «istituzionale», hanno drammaticamente negato la partecipazione dei diretti interessati alle decisioni, silenziando i saperi locali, propri ad esempio di culture indigene, comunità montane, di piccoli pescatori, di agricoltori, che custodiscono un grosso patrimonio di conoscenze sul territorio e sulle sue fragilità. Recuperare tali saperi, riconoscere la loro dignità e integrarli nei criteri «scientifici» ufficialmente riconosciuti, deve essere un obiettivo del mondo accademico e universitario, e la metodologia di ricerca in Ejolt spinge in questa direzione. Una volta che tale frontiera tra saperi si vedrà sfumata, si indebolirà anche il sistema che concede potere a un attore piuttosto che all’altro, agli investitori di una grande multinazionale del petrolio piuttosto che al rappresentante scelto democraticamente di una comunità, ad esempio, nel Delta del Niger.

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Per una geografia dell’eguaglianza

L’uso delle mappe è considerato di estrema importanza per la visualizzazione di questo sapere e di una geografia dell’ineguaglianza. Se diamo un’occhiata all’Ejatlas, scopriamo storie sconcertanti che riguardano anche paesi insospettabili, come quella dell’uccisione di un giovane nell’ottobre 2014 durante la repressione di una pacifica manifestazione presso la diga di Sivens nella democratica Francia. Il logo dell’Ejatlas, che rappresenta un mondo «rovesciato», simboleggia proprio la messa in discussione dello status quo del sapere e del potere geopolitico. Esponenti della cartografia critica hanno fatto notare come le mappe siano state strumento di oppressione e conquista di territori attraverso la costruzione di un determinato sapere geografico. Secondo il geografo Nietschmann, «è stato conquistato più territorio degli indigeni attraverso mappe che con armi». Ma possiamo sperare che le mappe aiutino ora a riformulare il sapere per rispettare una maggiore giustizia ambientale. L’Ejatlas dà il suo contributo in tale direzione.

Daniela Del Bene


NOTE:

1 Http://www.globalwitness.org/sites/default/files/A_hidden_crisis.pdf

2 È la pratica di bruciare il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio. Ogni anno se ne bruciano nel mondo 140 miliardi di metri cubi: realizzare infrastrutture per utilizzarlo, infatti, comporterebbe un notevole costo. Si tratta di una quantità di gas pari al 30% di quello utilizzato dall’Unione europea, superiore al consumo attuale annuo dell’intera Africa.

3Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate), Milano, Rizzoli, 2015.

4 La tecnica del fracking, o della fratturazione idraulica, consiste nel liberare gas o petrolio contenuti nel sottosuolo in rocce impermeabili tramite la loro fratturazione. I rischi ambientali di questa tecnica sono molti: consuma enormi quantità di acqua; nel processo vengono impiegate sostanze chimiche che possono contaminare le falde sotterranee; non sono completamente evitabili fughe di gas metano, che si disperde nell’atmosfera.

5 Tra i partner del progetto che maggiormente hanno contribuito alla mappatura dei casi attuali e storici, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca), che ha pubblicato anche una mappa dell’Italia, Fiocruz e la Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale hanno contribuito su salute e ambiente in Brasile, l’Osservatorio Latinoamericano sui Conflitti Minieri ha contribuito sull’espansione del settore in America Latina e Caribe, il World Rainforest Movement su sfruttamento forestale e piantagioni, Accion Ecologica dell’Ecuador e Oilwatch su estrazione e inquinamento da attività petrolifere, per nominae solo alcuni.


Daniela Del Bene
Dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Autonoma di Barcellona e co-editrice dell’Ejatlas, membro della Xarxa per la Sobirania Energetica (Xse), Catalogna, Spagna.


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Un atlante costruito con il contributo di tutti

L’Atlante globale della Giustizia ambientale (Ejatlas), nell’ambito del progetto Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona, è nato per costruire una base di dati a livello globale tramite una piattaforma online costruita in maniera congiunta tra ricercatori, organizzazioni locali ed esponenti di movimenti. I singoli conflitti ambientali sono narrati attraverso una ricca scheda tecnica che include le ragioni economico-produttive alla loro base, le tendenze degli investimenti nel settore, gli impatti del progetto, gli attori del conflitto e le caratteristiche della mobilitazione da parte degli oppositori.

Chiunque sia interessato a contribuire alla mappa mondiale e ha accesso a dati su vertenze locali, può iscriversi alla pagina web http://ejatlas.org/accounts/new o contattare il gruppo di ricerca dell’Ejatlas all’indirizzo ejoltmap@gmail.com.

Per contribuire all’Atlante italiano, può inserire i propri dati nella pagina web http://atlanteitaliano.cdca.it/accounts/new. I dati relativi a ogni caso vengono raccolti attraverso una scheda di circa 100 voci, contenenti sia dati qualitativi che quantitativi, e esaminati attraverso un processo di moderazione e validazione delle informazioni. Una volta geolocalizzato sulla mappa, il caso viene pubblicato online e reso disponibile al pubblico per commenti e feedback. In qualsiasi momento il caso potrà venire aggiornato o arricchito di ulteriori informazioni. In alcuni casi poi, dati geografici vengono applicati alle mappe per permettere analisi spazio-geografica e mappe tematiche.

Daniela Del Bene


ejatlas-logoEJAtlas

Questo è il primo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas. Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’atlas le relative schede informative.

www.ejatlas.org
www.ejolt.org
http://atlanteitaliano.cdca.it




La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima

Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo.  Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.

Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.

Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.

Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.

Della «Tepco», ovvero  del crollo del mito giapponese.

Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.

Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.

Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.

La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.

Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).

 

Le certezze di Shinzo Abe

Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.

Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.

A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».

Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.

Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.

Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.

La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.

Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.

Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.

Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.

È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.

Stili di vita insostenibili

«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.

Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.

Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.

E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.

«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.

Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».

La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.

 

Problemi e paure di chi è rimasto

Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».

Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».

Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».

L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.

 


Quel che resta del mare

Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.

Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.

Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.

Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.

Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.

Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.

 


Lontani da Fukushima

Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.

 


       Gli Eventi                           

  • 11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
  • Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
  • Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
  • Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
  • Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
  • 12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
  • 12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
  • 14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
  • settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
       PER APPROFONDIRE                     

• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.

       GLI AUTORI                        

Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.

Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.

Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.

Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.

Piergiorgio Pescali




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.