Burkina Faso: l’uomo che fermò il deserto


È nato in una regione del mondo dove la natura è avversa. E produrre cibo è molto difficile. Le grandi carestie degli anni ‘80 hanno allontanato gli uomini validi. Ma lui è rimasto e ha studiato un metodo per coltivare nel deserto. Con la sola acqua piovana. Ora a casa sua c’è una foresta con una grande biodiversità.

Ma le sfide non sono terminate.

Alto e secco, indossa l’abbigliamento tipico saheliano delle persone di una certa età e quindi, per l’Africa, autorevolezza sociale: un grand boubou (vedi foto pag. 15) e un cappellino circolare. Sembra un po’ spaesato quando lo incontriamo a Cumiana, cittadina in provincia di Torino, dove l’amministrazione comunale e l’Ong Cisv hanno organizzato il CumianaFest, di cui Yacouba Sawadogo è l’ospite d’onore. Il Festival presenta le esperienze di piccoli agricoltori che hanno fatto del loro lavoro un modo di salvare il pianeta e la sua biodiversità.

Yacouba Sawadogo è un contadino del Nord del Burkina Faso. Non è mai andato in una scuola di tipo «occidentale», per cui non sa leggere né scrivere e parla solo la sua lingua, il moore. Ha invece frequentato una scuola coranica nel vicino Mali, quando era ragazzo.

Originario di Gourga, piccolo villaggio nei pressi di Ouahigouya, quarta città del Burkina Faso, con 70.000 abitanti, vi ha passato tutta la sua vita. La zona è in pieno Sahel, la fascia climatica che taglia l’Africa in senso orizzontale a Sud del Sahara. Una cintura di savana secca e poco arborata, che costituisce il raccordo tra il deserto nel Nord e le zone più umide a Sud. Tecnicamente si considera Sahel la fascia climatica che ha una pluviometria media annuale, misurata in millimetri di pioggia caduti all’anno, tra i 150 e i 600.

Negli ultimi 50 anni la zona ha continuato a deteriorarsi: sono diminuiti gli alberi e gli arbusti, mentre lo strato di terra organica coltivabile si è assottigliato. Un fenomeno causato dall’erosione delle violente piogge, concentrate in poche settimane, ma anche dalla pressione umana (taglio degli alberi e pastorizia) e, a livello più globale, dal cambiamento climatico e diminuzione delle piogge. È come dire che il deserto del Sahara si è impossessato di una striscia mediamente di 100 km, e la banda saheliana si è spostata della stessa distanza verso Sud. Per questo motivo si dice che il Sahara si estende verso il Sud.

A Ouahigouya la pioggia è scarsa e cade in un unico periodo dell’anno, tra giugno e settembre. È in questi mesi che i contadini coltivano il miglio e il sorgo, i cui semi, stoccati in magazzini tradizionali, dovranno nutrire le loro famiglie per l’intero anno successivo. Sempre più accade che le precipitazioni siano scarse e irregolari per cui le piantine non riescono a svilupparsi e le pannocchie ad arrivare a maturazione.

È in questo contesto che periodicamente si verificano fenomeni di siccità e carestia. Ed è proprio durante la grande carestia agli inizi degli anni ’80 (1980-83) che inizia la storia di Yacouba Sawadogo.

I soldi non si mangiano

«Quando rientrai in Burkina dal Mali, dopo aver frequentato la scuola coranica, iniziai un commercio. Conoscevo la meccanica delle moto. Il lavoro andava bene, e i soldi non mi mancavano» ci racconta Yacouba. È la fine degli anni ’70. Poi iniziano i problemi. «Dopo qualche tempo, a causa della grande siccità, la gente iniziava ad andarsene dal Nord per cercare zone in cui poteva trovare da mangiare. Anche io sono andato a lavorare in Costa d’Avorio, ma sono tornato dopo poco tempo». Yacouba prende una decisione, quella di seguire la strada più dura: lavorare la terra. «Quando ho cominciato, non c’era acqua, per cui non solo non si poteva coltivare, ma anche gli animali morivano perché non c’era pascolo. Ho osservato che anche quelli che avevano i soldi, non avevano nulla da comprare. Ho visto commercianti più ricchi di me, che se ne andavano». Yacouba comprende una semplice ma essenziale verità: «In quel periodo ho capito che né i soldi, né la ricchezza delle mandrie dominano il mondo, ma è il cibo la chiave della vita». Così decide: «Invece di scappare, attaccherò il problema».

Yacouba conosce una tecnica ancestrale, che a quelle latitudini ha permesso ai contadini di sopravvivere. Si chiama «Zai» e consiste nello scavare nel terreno delle conchette di una ventina di centimetri di diametro, una accanto all’altra, allineate secondo la pendenza del terreno. In esse si depositano i semi. Le conchette, talvolta riempite di concime, hanno l’effetto di trattenere l’acqua, che le piogge torrenziali e il terreno secco tendono a far scorrere velocemente a valle, non penetrando nel suolo e, anzi, erodendolo.

Il nostro uomo si ingegna e modifica la tecnica dello Zai tradizionale migliorandola. Modifica la zappa utilizzata per scavare le conchette e le scava più grandi e profonde. Fa poi in modo di porvi sempre del concime organico e talvolta altri elementi, come le termiti.

All’inizio è dura: «Ho cominciato da solo sulla mia terra. Quando ho visto che le migliorie funzionavano e riuscivo a produrre miglio e sorgo, ho coinvolto mia moglie e i miei figli. Poi si sono aggiunti i vicini. Siamo arrivati a un lavoro comunitario».

Proprio il lavoro comunitario ha un’importanza fondamentale per Yacouba: «Apporta molte conoscenze a tutti quelli che vi partecipano e aiuta molto il proprietario del campo. È un lavoro che coinvolge anche i più riluttanti che vedono che gli altri lavorano insieme, e imparano. Inoltre essendo in tanti si può fare un lavoro più efficace tutti insieme».

Yacouba ha coinvolto anche villaggi dei dintorni e ha realizzato una specie di credito in natura. A chi lo aiuta fornisce parte dei suoi semi. Questi li utlizzano per coltivare e poi, a loro volta, renderenno a Yacouba parte dei semi raccolti.

Un’oasi di biodiversità

Ma Yacouba non si ferma all’agricoltura di sostentamento e inizia a portare semi di diverse piante nel suo campo. Arriva così a sviluppare, in quasi 40 anni di lavoro continuativo, una vera foresta in una zona altamente desertificata. La foresta di Gourga, su una superficie di 23,5 ettari, è un polmone a elevata biodiversità.

«All’inizio nacquero delle piante spontaneamente perché nel letame usato come concime c’erano i semi dei frutti mangiati dagli animali. Poi iniziai io stesso a portare semi di piante che erano scomparse dalla zona». Senza accorgersene Yacouba realizza un esperimento di agroecologia in anticipo sui tempi.

«L’importanza delle piante e degli alberi è fondamentale: danno ombra all’uomo, fanno da frangi vento, in zone nelle quali il vento è molto forte, trattengono la terra, lottando quindi contro l’erosione, e fertilizzano il suolo. Inoltre alcune loro parti, come foglie, corteccia, radici, semi sono utilizzate per curare gli uomini. Per tutti questi motivi ho piantato gli alberi».

Ci sono anche animali nella foresta di Yacouba: diversi uccelli, tortorelle, lepri, scoiattoli, roditori. Tutti contribuiscono alla rigenerazione della foresta. Perché i volatili possono portare semi da altre zone, i roditori scavano gallerie che aiutano la fertilizzazione del suolo, sono utili per l’uomo, e alcune specie sono commestibili. L’anziano contadino «agroecologista» ha, anche in questo, molto da insegnare: «Io do da mangiare e da bere agli animali della foresta, in particolare gli uccelli. Metto delle ciotole con l’acqua e lascio per terra delle granaglie. Così gli uccelli si fermano e abitano la foresta. Con i benefici che questo crea. Inoltre voglio salvaguardare tutte le specie della foresta, anche quelle più rare nel Sahel».

Esiste un animale molto piccolo fondamentale per la lotta alla progressione del deserto: la termite.

Le termiti contribuiscono alla fertilizzazione dei suoli attraverso i cunicoli e la trasformazione dei microelementi del letame posto nelle conchette. «Ad esempio si possono utilizzare nello Zai migliorato. La tecnica è semplice: quando vedo un posto dove osservo la presenza di termiti, conosco quello che a loro piace mangiare, porto questi alimenti e vedo le termiti uscire per mangiare». Così Yacouba può spostare le termiti in altre zone e diffonderle. «Ci sono dei termitai morti, ovvero disabitati. Io riesco a riportare termiti in questi termitai che non sono più abitati per farli rivivere perché possano dare così il loro contributo all’ecosistema».

In queste attività Yacouba si fa aiutare dai suoi figli: «Quello che fanno è studiare le specie vegetali, entrano nella foresta e verificano se qualche specie locale non è ancora presente. In questo caso viaggiano nella regione per cercare i semi e piantarli nella foresta. Uno dei miei figli è andato fino in Mali per prendere i semi di un’erba specifica e portarli a Ouahigouya».

Dalla terra all’uomo

Ma dietro all’idea – e alla pratica – di salvaguardare l’ambiente, Yacouba Sawadogo ha come obiettivo, sul lungo termine, quello di curare le persone. «Mi ero detto: per 40 anni lavorerò per migliorare la terra e la foresta, producendo piante, portando specie da altre zone, ma dopo mi consacrerò a curare l’umanità».

Così una decina di anni fa, il contadino noto come «colui che ha fermato il deserto», inizia a utilizzare piante medicinali per curare i malati. «Quando ero piccolo, ho visto dei vecchi che curavano le persone con diverse malattie, usando semplicemente delle piante, scorze, fiori, foglie, radici. Ma ho notato che negli anni molte piante sono scomparse. Ecco perché ho iniziato a cercarle per introdurle nella foresta. Poi ho cominciato a usare le piante. Se vedevo qualcuno che aveva bisogno, allora intervenivo. Ma non mi proponevo come curatore. Solo più tardi ho iniziato a ricevere i pazienti come curatore. Ho costruito 10 piccole case nella foresta dove ricevere i malati. Adesso visito almeno un paziente al giorno. Da quando sono in Italia, ricevo telefonate di malati del mio paese che hanno bisogno di me, che mi chiamano per andare a curarli».

Yacouba ottiene poi dal ministero della Sanità un’autorizzazione per curare le malattie. In particolare per raffreddori, bronchiti ed emorroidi.

Ecco perché, da qualche tempo, nella «sua» foresta sono prioritarie le piante medicinali, ma sta seminando anche piante per alimentazione. In particolare essenze che stanno scomparendo nella zona.

Fama internazionale?

Yacouba ha un aspetto tranquillo, quasi dimesso, ma si vede che è una persona autorevole. Non si dilunga in conversazioni inutili, e risponde in modo molto sintetico alle domande.

Circa 10 anni fa l’Ong Oxfam fa in modo di farlo invitare negli Stati Uniti, dove organizza la presentazione del suo lavoro al congresso statunitense. È un’occasione in cui il lavoro dello sconosciuto e riservato contadino burkinabè ha un momento di gloria. Qualche anno dopo, nel 2010, il documentarista britannico Mark Dodd ne fa un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

«Dopo il viaggio sono stato avvicinato da molte persone straniere e burkinabè e in diversi sono venuti a vedere il mio Zai. L’esperienza mi ha galvanizzato e mi ha dato più coraggio per perseverare in questo lavoro. Inoltre mi ha fatto comprendere che quello che faccio in questo angolo della terra è molto utile per l’umanità, a tal punto che la maggiore potenza del mondo mi chiede di spiegarlo».

Yacouba riceve pure un premio negli Usa, ma nessun aiuto materiale o finanziario per migliorare la sua pratica.

Anche in Burkina Faso il governo conosce il suo lavoro straordinario, ma nessuno si impegna ad andare a vedere, aiutarlo finanziariamente o riconoscerlo ufficialmente.

Preservare la foresta

Alcuni anni fa, a causa dell’estensione di Ouahigouya, una fascia intorno alla città viene lottizzata e venduta a privati. In Burkina Faso la terra in ambiente rurale è tutta di proprietà dello stato che la lascia sfruttare a chi ci abita, secondo delle regole di assegnazione attraverso i capi tradizionali. Quando un’area rurale diventa urbana, allora viene venduta e sono rilasciati titoli di proprietà. La terra della famiglia di Yacouba, sulla quale aveva lavorato suo padre e nella quale sono seppelliti lui e gli altri antenati, è proprio nei pressi della città. L’ultima lottizzazione la interessa e la sua casa viene suddivisa su quattro parcelle, la tomba di suo padre su due, un pozzo che lui utilizzava rimane su un’altra parcella ancora. Anche la foresta rischia di venire suddivisa, ma forse grazie al momento di notorietà, il comune la risparmia. «Tutto intorno alla foresta la terra è stata suddivisa e venduta a privati, ma gli alberi non sono stati toccati. Qualcuno ha cercato di costruire all’interno di essa ma lo stato li ha cacciati». Il nostro uomo però non dorme sonni tranquilli, teme che la foresta, se non viene protetta, un giorno scomparirà con tutta la sua biodiversità: «Sto chiedendo al governo che il suo territorio sia demarcato ufficialmente, e quindi protetto, e cerco finanziamenti per realizzare un muro di cinta che la circondi». Operazione non facile, la seconda, visto che si tratta di una superficie vasta, grosso modo, come 32 campi da calcio.

«Ogni giorno – ricorda l’anziano – recevo un visitatore nazionale o internazionale, vengono classi di studenti. Tutti a vedere la foresta e conoscere le mie tecniche. È come una scuola mondiale, un bene comune dell’umanità. Lasciarla distruggere sarebbe un grave errore»

La successione

Yacouba ha oggi 70 anni, un’età veneranda nel Shael, dove la speranza di vita si ferma intorno ai 55. Si preoccupa per la foresta per quando lui non sarà più sulla terra. Per questo ha formato uno dei suoi figli, che poi è andato a vivere vicino agli alberi. Un altro figlio lo ha mandato a studiare come tecnico forestale, affinché si formi meglio per poi tornare.

«Vorrei che questo luogo sia per tutta l’umanità una scuola di agroecologia, dove chiunque possa venire da altre zone della terra a imparare la tecnica dello Zai per rigenerare la natura. Vorrei salvaguardare tutte queste specie di piante e animali selvaggi, una biodiversità saheliana, per l’umanità».

Congedandoci dal questo «grande vecchio» non possiamo che pensare alla saggezza di questo uomo semplice, che ha dedicato tutta la vita per lottare contro la distruzione della natura, per e con il fine ultimo di migliorare le condizioni di vita dei suoi compaesani e dare un segnale a tutta l’umanità.

Marco Bello

 




Tibet rischio di non sentirsi nessuno


Dall’occupazione cinese del 1950, il Tibet sta subendo un modello di sviluppo degradante e impoverente. L’industria estrattiva, energetica, delle comunicazioni e, ultimamente, quella turistica, procurano danni gravi. Non solo ambientali, ma anche culturali, religiosi, sociali ed etnici. Al punto che gli abitanti della regione a volte non si sentono né cinesi, né tibetani.

«Martedì 20 novembre 2012 un ragazzo tibetano […] ha preso un sentirnero su per la collina fino all’ingresso della miniera d’oro a Gyagar Thang, si è versato kerosene su tutto il corpo e si è dato fuoco». Secondo il Tibetan Centre for Human Rights, il venticinquenne ha voluto denunciare il disagio delle comunità locali colpite dalle operazioni minerarie delle aziende cinesi nella zona.

«Il numero di tibetani che si sono autornimmolati negli ultimi anni sta aumentando a un ritmo allarmante», afferma un articolo firmato nel 2013 dal Tavolo ambiente e sviluppo del Goveo tibetano in esilio a Dharamsala, in India, e prosegue: «Oltre ai fattori politici, sociali, religiosi ed economici, una delle cause principali di tale disperazione sono le attività di estrazione e di inquinamento in Tibet». Il dolore causato dal deterioramento degli equilibri ecologici locali e dei modi di vita tradizionali porta alcuni ad atti estremi di dissenso. L’occupazione cinese del Tibet nel 1950 ha aperto la porta allo sfruttamento sistematico dei minerali di cui è ricco (rame, oro, cromite, alluminio, ferro, boro, piombo, zinco, litio), ma anche del petrolio greggio, del potassio, amianto, gas naturale e carbone. L’inquinamento dell’acqua e l’impatto delle centrali idroelettriche per fornire energia alle miniere e, non ultimo, l’aumento del turismo cinese, facilitato dall’apertura di ferrovie e strade, aggravano le condizioni di vita delle popolazioni locali. In più, per facilitare l’estrazione delle risorse naturali, le autorità costringono i nomadi a stabilirsi in villaggi costruiti ad hoc dove perdono le loro pratiche tradizionali e quindi i loro riferimenti culturali.

A Dharamsala abbiamo parlato di questi problemi con Tempa Gyaltsen Zamlha, ricercatore del Tavolo dell’Ambiente del Tibet Policy Institute (presso il governo tibetano in esilio).

Ci può spiegare il suo lavoro al Tavolo ambiente e sviluppo e i suoi principali obiettivi?

«Il Tavolo è stato istituito nell’ambito del Policy Institute tibetano a Dharamsala: da qui monitoriamo la situazione ambientale in Tibet. Cerchiamo anche di informare la comunità internazionale sull’importanza ecologica dell’altipiano del Tibet a livello mondiale. Ci rivolgiamo particolarmente al governo e alla popolazione cinese. Il nostro obiettivo è quello di proteggere l’altipiano più alto e più esteso del mondo, che ospita la più grande concentrazione di ghiacciai dopo i due poli, e anche la sorgente dei fiumi più importanti dell’Asia. Lavoriamo anche perché la civiltà tibetana, che ha prosperato per migliaia di anni, possa continuare a vivere una vita sana e felice, e anche perché le nazioni a valle continuino a godere dei fiumi da cui le loro civiltà dipendono.

Per i tibetani, la missione ambientale è uno dei compiti più urgenti. Sua Santità (il Dalai Lama) ha detto una volta che la questione politica può attendere, ma non l’ambiente».

Quali sono le principali sfide ambientali di oggi per il Tibet?

«Le principali minacce sono i cambiamenti climatici, ma anche l’impatto umano, in particolare l’eccessiva attività mineraria.

Come tibetani, abbiamo un rapporto molto intimo con la natura, perché crediamo che Dio sia presente in tutto, nelle montagne come nei fiumi.

Le cose sono radicalmente cambiate dall’occupazione cinese del Tibet nel 1950. Ad esempio sono state costruite strade e linee ferroviarie che rendono l’estrazione molto più facile, economica e redditizia. Inoltre, la Cina ha costruito molte centrali idroelettriche, indispensabili per l’industria».

«I tibetani non sono contro l’estrazione di per sé, ma contro l’estrazione nei pressi di villaggi, di corpi idrici, di montagne sacre o di praterie usate dai nomadi. Per le attività minerarie nella vasta pianura del Nord dove c’è meno popolazione, non c’è quasi nessuna protesta.

Le montagne sacre hanno un forte legame storico, culturale, politico e spirituale con la vita del popolo tibetano. Non lontano da Lhasa (capitale del Tibet cinese), ad esempio, si trova il Monte Yarlha Shampo. Esso era la residenza di un dio della religione tradizionale Bon. Il primo dei sette ministri nobili nella storia del Tibet che nel 7° secolo d.C. hanno contribuito alla ricostituzione del regno, era considerato figlio di Yarlha Shampo. Ci sono molte montagne sacre simili in Tibet, che sono rispettate e protette dalla gente».

Che legame c’è fra la sacralità di un monte e la resistenza ambientale delle comunità?

«La credenza nella sacralità di un luogo svolge un ruolo importante nella sua conservazione e protezione. La biodiversità in queste aree è infatti più elevata: la gente cerca di non tagliare alberi o cacciare animali. Non tutte le montagne sono considerate sacre, ma se studiamo la posizione dei siti sacri saremo sorpresi di notare che corrispondono alle zone più importanti dell’ecosistema locale, alla montagna con più ghiacciai, al lago che è fonte di molti fiumi, a una zona umida che sostiene la vegetazione nella regione. La credenza nella sacralità di una montagna è un fenomeno antico e anche molto intelligente: è grazie a questo che i tibetani hanno preservato gli ecosistemi per migliaia di anni, nonostante le dure condizioni climatiche, a una quota tanto estrema».

Ma ora le cose stanno cambiando. E rapidamente.

«Le compagnie minerarie cinesi stanno entrando in questi territori. I nomadi tibetani sono stati sfollati e reinsediati altrove dal governo cinese. Ogni volta che le comunità locali resistono, vengono prima di tutto invitate ad andarsene, poi le aziende cercano di convincerle dell’importanza del progetto per il loro sviluppo. Se l’opposizione persiste, cercano di dividere i membri della comunità offrendo denaro o altro, infine passano al dispiego delle forze di polizia.

È molto importante per noi rendere note queste informazioni al mondo esterno e al governo cinese. Il mondo ha la responsabilità di reagire.

Negli ultimi anni ci sono stati molti progetti di estrazione su larga scala, ma solo pochi tibetani vi lavorano. La maggior parte dei lavoratori vengono dalle province cinesi. Sono i governi locali, oltre alle società, che beneficiano dell’estrazione mineraria in aree tibetane, non la comunità».

Miniere e costruzione di grandi infrastrutture sono la causa di un gran disagio sociale in tutto il mondo, anche a causa degli sfollamenti su larga scala. È questo il caso anche del Tibet?

«Sì, lo spostamento di intere comunità avviene regolarmente in Tibet. I nomadi, che normalmente si trasferiscono in un sito di pascolo diverso ogni tre mesi, al fine di non esaurire le risorse, si ritrovano costantemente a confrontarsi con le compagnie che invadono la loro terra con l’appoggio del governo. Per accelerare questo processo, la Cina ha introdotto politiche di reinsediamento in villaggi construiti appositamente, con case addossate le une alle altre e servizi mal funzionanti, e con specifiche restrizioni sull’uso della terra. Si tratta di uno sfollamento non solo da un luogo, ma da uno stile di vita.

Il governo cinese sostiene poi che i nomadi devono essere modeizzati, i bambini educati, e che ciò è più facile quando la popolazione vive concentrata in un villaggio. Ma abbiamo le prove che la vita in questi villaggi si è deteriorata. Le persone diventano dipendenti dai sussidi del governo e perdono le loro fonti di indipendenza economica (bestiame, praterie, ecc.), cosa che fa aumentare l’alcolismo e la prostituzione.

Quello che il governo cinese ha fatto è spingere i nomadi nella povertà assoluta».

Ha citato anche il turismo come problema ambientale urgente. Da dove vengono questi turisti e cosa cercano?

«Il problema del turismo in Tibet sta nella sua concentrazione in alcune zone e nella brevissima stagione estiva, con dei numeri enormi di visitatori. Recentemente la Cina ha attivato percorsi per visitare laghi sacri e altri importanti siti ambientali, cosa che ha avuto un impatto grave per le persone e la terra.

Il turismo crea poca ricchezza e lavoro per i tibetani locali. La maggior parte dei turisti in Tibet sono cinesi che viaggiano con pacchetti giornalieri prenotati attraverso agenzie di viaggio cinesi che prenotano alberghi cinesi, autisti cinesi e guide cinesi e mangiano in ristoranti cinesi. Così la maggior parte del denaro speso dai turisti cinesi che viaggiano in Tibet torna in Cina».

Il suo lavoro nel documentare resistenze socio ambientali in Tibet è abbastanza unico. Ci racconta un caso?

«Il più noto è probabilmente quello della miniera Gyama Copper Gold Polymetallic Mine in una zona ricca di rame, zinco, piombo, litio, vicino a Lhasa, la capitale. Il governo l’ha dichiarata miniera modello nonostante le vicine comunità abbiano protestato per più di cinque anni denunciando i disagi creati alla vita nomade e l’inquinamento delle acque del vicino fiume. Nel 2013 un’enorme frana ha ucciso più di 80 lavoratori nei pressi della miniera. Anche se il governo sostiene che la frana sia stata causata da fattori naturali, noi abbiamo le prove che la causa primaria è stata una cattiva gestione della miniera».

Esiste una rete di persone che si batte per l’ambiente in Tibet? Le Ong ambientaliste in Cina e in Tibet possono allearsi per la giustizia ambientale e sociale?

«Ci sono buone Ong ambientali in Tibet, ma la maggior parte di esse sono state costrette a chiudere dopo le proteste del 2008. Ci sono anche alcune buone Ong ambientali cinesi che lavorano in Tibet. Il problema è che quando una Ong sta facendo un grande lavoro sociale e ambientale, il governo locale cerca in diversi modi di farla chiudere etichettandola come separatista. Qualsiasi collaborazione sarà quindi abbastanza problematica».

In Europa e altrove si dibatte su decrescita o visioni alternative di sviluppo. Qual è il tuo pensiero in merito?

«Questo è qualcosa su cui qui discutiamo molto. Ci chiediamo “qual è lo sviluppo per tutti? Non è semplicemente essere felici? Cosa succede quando a qualcuno non va bene il tuo modo di intendere lo sviluppo, come ad esempio ai nomadi?”. Sviluppo, per me, dovrebbe essere il livello di soddisfazione di te come persona. Per i tibetani, i nomadi sono persone felici perché hanno le loro risorse e la libertà. Diciamo anche che non dovremmo cercare di imporre un’unica definizione di felicità su tutti. Lasciate che ognuno trovi la sua strada, e rispettate la vita. Naturalmente, non tutto ciò che è antico è buono di per sé, ma cerchiamo la parte buona di questo passato e preserviamola. A volte i tibetani non si sentono abbastanza cinesi per fare le cose cinesi, e non abbastanza tibetani per vivere come vivevano i loro antenati. Tra i due, il rischio è di non sentirsi più nessuno.

Daniela Del Bene
Co-editrice di Ejatlas


Per approfondire

Environmental and Development Desk, http://tibet-edd.blogspot.com.es/.
Documentario Shielding the Mountains, regia di Kunga Lama. Prodotto da Emily Yeh.
Tibet Centre for Human Rights and Democracy, Imposing Modeity with Chinese Characteristics, Dharamsala 2011.
Jampel Dell’Angelo, The sedentarization of Tibetan nomads: conservation or coercion?, p. 309-332 in H. Healy et al, Ecological Economics from the Ground Up, Routledge, London, 2012.
We are here to stay, documentario prodotto dal progetto Lamca-Ejolt.

Archivio MC:

Interviste con il Dalai Lama, ott.-nov. 2001 e giu. 2013;
Lhasa, nella morsa di Pechino, mar. 2010;
Contro Pechino a costo della vita, dic. 2012.

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il quarto articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas). Nei prossimi numeri verranno pubblicate altre storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.


Sotto il giogo cinese

Il Tibet è una regione dell’Asia centrale, grande quattro volte e mezzo l’Italia, con un’elevazione media di 4.500 metri sul livello del mare, appartenente per la gran parte alla Cina, in piccola parte all’India. La parte cinese, che nel 2005 contava 2.740.000 abitanti, chiamata ufficialmente Xizang, fu occupata dalla Repubblica Popolare Cinese nell’ottobre 1950 e dichiarata regione autonoma nel 1965. La sua capitale Lhasa (3.650 metri sul livello del mare) conta circa 200mila abitanti.

Dal 1951 è iniziata l’immigrazione dalle altre regioni cinesi. Tanto che oggi i non autoctoni, prevalentemente militari e coloni agricoli e tecnici delle attività industriali, costituiscono circa il 20% della popolazione. All’aumento dell’immigrazione corrisponde una notevole emigrazione di tibetani verso altri paesi: sono circa 2 milioni i tibetani che vivono fuori dal Tibet.

Tra la popolazione autoctona sono ancora presenti gruppi di nomadi che vivono di pastorizia. Prima dell’annessione alla Cina nel 1951, la classe monacale buddista, che contava circa un ottavo della popolazione complessiva, era molto potente, tanto da conferire allo stato tibetano un carattere teocratico, con a capo il massimo esponente spirituale, il Dalai Lama. Dall’anno dell’annessione, la Cina, ignorando le istanze indipendentiste dei tibetani, iniziò un programma di sviluppo che venne osteggiato dalla popolazione locale fino alla rivolta di Lhasa del 1959 che venne repressa dal regime cinese costringendo alla fuga il 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, in India, a Dharamsala, dove costituì il governo tibetano in esilio.

Nei decenni successivi la Cina ha continuato a intensificare l’attività di sviluppo e integrazione del Tibet allo scopo di omologare sempre più (anche sul piano culturale ed etnico) la regione al resto della Repubblica popolare. Un ultimo tentativo di rivolta nella regione è stato quello del 2008, represso con la violenza dal governo comunista.

L’attuale posizione del Dalai Lama, che nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a Lobsang Sangay, riguardo alla questione tibetana è quella da lui stesso denominata «la via di mezzo», per un Tibet con un alto grado di autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese: «Sono finiti i giorni in cui si assisteva alla vittoria di una parte e alla totale sconfitta dell’altra – ha ribadito il 13 settembre scorso in una conferenza a Parigi -. È necessaria una riconciliazione, altrimenti la nostra lotta non avrà successo».

La religione prevalente del Tibet è il buddismo tibetano, introdotto nella regione nell’8° secolo d.C. Accanto al lamaismo sono presenti la religione autoctona, il Bon, ed elementi di sciamanismo.

Luca Lorusso

 




Papua Nuova Guinea. Deforestazione: la rapina silenziosa


Lo stato di Papua Nuova Guinea divide con l’Indonesia la seconda isola più grande del mondo. Ma soprattutto il terzo polmone verde del pianeta. Un polmone messo in pericolo da una deforestazione incontrollata. Il programma delle Nazioni Unite denominato «Redd» può essere una soluzione?

Fermare la deforestazione che sta devastando il paese e stabilire un piano d’azione concreto per dar vita a un’industria del legname sostenibile, in grado di produrre vantaggi anche per le comunità locali e non solo per le grandi compagnie straniere. È questo l’obiettivo degli incontri del Redd+ in Papua Nuova Guinea, avvenuti ad aprile e agosto 2016 a Kimbe, nella regione della Nuova Britannia.

La sigla Redd+ sta per «Reduction of emissions from deforestation and forest degradation», un programma elaborato nell’ambito della Unfccc, la «Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici», per favorire la riduzione delle emissioni provenienti dalla distruzione delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo alla base del progetto prevede l’istituzione di un sistema di pagamenti per quegli stati che riescono a dimostrare la capacità di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione che, secondo le stesse Nazioni Unite, ammontano al 20 per cento del totale prodotto sul pianeta.

Per una terra verde e in buona parte ancora incontaminata come la Papua Nuova Guinea, che, secondo le stime degli esperti dell’Onu, ospita da sola circa il 5% della biodiversità di tutto il globo ma che da decenni è oggetto di un sistematico e violento saccheggio da parte di società straniere che commerciano in legname, il Redd+ non può essere considerato solo un programma di nicchia per biologi e addetti ai lavori, quanto piuttosto uno strumento da mettere in funzione prima che sia troppo tardi. Vale a dire prima che si superi quella soglia di non ritorno che porterebbe al definitivo collasso del terzo polmone verde più grande della terra, dopo la foresta amazzonica e quella che ricopre la parte meridionale del continente asiatico. Porre un freno alla deforestazione, però, è un’impresa tutt’altro che semplice in uno dei paesi tra i più poveri e arretrati del pianeta, oggetto delle voraci brame dell’industria dei tronchi d’albero.

Tremila alberi per abitante

La Papua Nuova Guinea occupa metà della seconda isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e diverse centinaia di piccole isole. Tre quarti dei suoi 462.840 chilometri quadrati sono coperti da foreste, in un chilometro quadrato delle quali crescono circa 70.000 alberi. Partendo da queste premesse è facile calcolare a spanne che il paese ospita più o meno 24,3 miliardi di alberi, 3.037 per ognuno dei suoi 8 milioni di abitanti. Numeri impressionanti, che sembrerebbero mettere al sicuro il territorio da qualsiasi «calvizie» da disboscamento, e che invece devono essere confrontati con le ancora più sconcertanti cifre della deforestazione.

Superando tutti i paesi africani, asiatici e dell’America Latina, la Papua Nuova Guinea è divenuta infatti il primo esportatore mondiale di «taun». Conosciuto nella regione del Sud Est asiatico anche come ahabu, matorna, malugai, kasai, sibu, tava o truong, questo particolare tipo di legno tropicale simile al mogano risponde al nome scientifico di Pometia pinnata ed è ricercato principalmente, ma non solo, per le decorazioni degli interni. Secondo uno studio pubblicato a febbraio dal think tank califoiano Oakland Institute (oaklandinstitute.org), solo nel 2014 dall’isola sono stati esportati quasi 4 milioni di metri cubi di legname, l’80 per cento dei quali è finito sul mercato cinese. Il tutto senza che la disastrata economia locale ne abbia tratto sostanziale giovamento.

Il dossier, significativamente intitolato «The great timber heist» (La grande rapina del legno), sottolinea a questo proposito che attualmente circa un terzo del territorio coperto da foreste del paese è nelle mani di compagnie straniere, e che ogni anno l’isola perde oltre 100 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale perpetrata da queste società. Attraverso complessi sistemi di scatole cinesi e aziende controllate, spiega il documento, le imprese estere riescono a dichiarare prezzi di vendita del legname irrisori, gonfiando parallelamente i costi dei materiali acquistati e arrivando in questo modo a dichiarare profitti quasi nulli, e quindi non tassabili. L’Oakland Institute ha analizzato nel dettaglio il caso della società malese Rimbunan Hijau, le cui 16 consociate attive in Papua Nuova Guinea risultano essere in perdita e non pagano un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese.

«I prezzi all’esportazione dichiarati per il legname dell’isola – si legge nel dossier – sono significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri grandi fornitori di tronchi tropicali. Negli ultimi 15 anni il prezzo medio per metro cubo è stato inferiore del 20 per cento rispetto alla media degli altri cinque principali esportatori. Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e la Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo. Applicati ai volumi di esportazioni del 2014 questo si traduce in una variazione annua di fatturato di 679 milioni di dollari per le industrie del legno». Le autorità forestali del paese sono «inefficienti – prosegue lo studio – e presentano grandi carenze e una corruzione diffusa». In questo contesto «l’industria del legname ottiene in molti casi trattamenti preferenziali, mentre gli abitanti delle zone rurali subiscono le conseguenze sociali e ambientali prodotte da un settore che opera spesso al di fuori delle leggi». Se veramente il commercio del legname è un’attività in perdita, «perché le imprese straniere continuano la loro attività?», si è chiesto Frédéric Mousseau, direttore del think tank califoiano. Una domanda ovviamente retorica, se si considera che, malgrado i bilanci in rosso dichiarati dalle compagnie, le esportazioni sono quasi raddoppiate a partire dal 2009.

Terre in vendita

Il documento si sofferma anche sul problema delle cosiddette Sabl, le Special agriculture and business leases, locazioni a tassi agevolati per agricoltura e commercio concesse dalle autorità alle imprese e pensate teoricamente per attrarre investimenti. Tra il 2003 e il 2012 a causa delle Sabl, 5,5 milioni di ettari di foreste sono passati di fatto sotto il controllo di società del legname nazionali ed estere, mentre la percentuale della terra controllata dalle comunità locali è scesa dal 97 all’85 per cento. Un’inchiesta ufficiale condotta dalle autorità di Port Moresby ha dimostrato come le assegnazioni delle Sabl siano state caratterizzate da «abusi, frodi, assenza di cornordinamento tra le agenzie governative, fallimento e incompetenza dei funzionari governativi nell’assicurare il rispetto, la responsabilità e la trasparenza». Evidenze che hanno portato il primo ministro papuano Peter O’Neill ad ammettere in pubblico che «lo strumento delle Sabl ha fallito miseramente».

L’Oakland Institute aveva provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il problema della deforestazione in Papua Nuova Guinea già nel 2014 con il documentario On our land. Un cortometraggio di 36 minuti (è visibile su YouTube, ndr) che racconta il furto subito dalle comunità rurali dell’isola, nonostante la carta costituzionale del paese stabilisca l’autonomia e la sovranità della terra e delle risorse naturali, imponendone un impiego sostenibile e affidandone la gestione a clan e tribù, con l’esclusione quasi completa della proprietà privata. Anche grazie a queste e tante altre iniziative di sensibilizzazione portate avanti da numerosi gruppi e associazioni per la difesa della terra e dell’ambiente, le autorità di Port Moresby hanno iniziato a rendersi conto che lo sfruttamento delle foreste ha ormai raggiunto un livello insostenibile. Il problema, come ha spiegato il professor Simon Saulei del Papua New Guinea Forest research institute all’agenzia Inter press service (Ips), è che gli organismi governativi incaricati di difendere le foreste e l’ecosistema si scontrano con una cronica «carenza di personale e fondi», che blocca le attività avviate e non consente di intraprendere nuove iniziative.

Redd sarà la soluzione?

Una delle strade che l’esecutivo di Port Moresby sta cercando di percorrere per arginare in qualche modo la situazione è l’implementazione del Redd+. Come già ricordato, lo scorso aprile si è svolto a Kimbe il primo Redd+ expert training event, che ha visto la partecipazione di 37 rappresentanti del governo, della società civile e del settore privato. L’evento ha avuto il sostegno dell’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. «Abbiamo messo insieme esponenti di tutti i settori interessati dal problema della deforestazione – ha spiegato al quotidiano online Papua New Guinea Today Terence Barambi, manager della Climate change and development authority papuana -. Quello che vogliamo fare è individuare le diverse priorità e stabilire una strategia nazionale contro la deforestazione nell’ambito del progetto Redd+». Barambi crede che la massima di Lao Tzu secondo cui «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», descriva bene la situazione della Papua Nuova Guinea, dove la deforestazione ha prodotto danni enormi ma a suo avviso non ancora irreparabili.Nel frattempo prosegue un altro importante progetto che vede il National forest monitoring system (Nfms) papuano impegnato nella creazione di un inventario nazionale degli alberi. Un’iniziativa senza precedenti per un paese in via di sviluppo, che coinvolge anche l’Italia, dato che il Nfms si avvarrà della collaborazione di alcuni scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. L’archivio comprenderà la misurazione del volume del legname, la stima delle riserve di carbonio immagazzinate dagli alberi e delle emissioni di gas a effetto serra in caso di deforestazione, consentendo di effettuare una valutazione concreta del rapporto costi-opportunità legati al taglio degli alberi. L’obiettivo è mostrare chiaramente i benefici economici collegati alla creazione di un’industria del legname che abbia ritmi di produzione commisurati alle esigenze di tutela dell’ambiente, con vantaggi di lungo periodo sia per le società impiegate nel settore che per le comunità locali.

Paolo Tosatti*
(China Files)

* Paolo Tosatti, giornalista, collabora con China Files dal 2011. Per MC ha già scritto: Timor Est, Piccoli imprenditori crescono, giugno 2016.

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Honduras Berta si è moltiplicata


Sono stati 185 gli attivisti per la giustizia ambientale uccisi nel 2015 nel mondo. Berta Cáceres, hondureña, sarà contata tra le vittime del 2016. Il suo paese è tra i più pericolosi per chi vuole difendere i territori e, con essi, la vita, la storia, la cultura delle comunità che li abitano. A rappresentare la minaccia è spesso l’industria estrattiva, mineraria ed energetica. Industria che, con cinismo, non manca di autodescriversi come sostenibile, green, attenta ai bisogni delle popolazioni locali.

Il rapporto di Global Witness uscito a giugno e riferito al 2015, intitolato in modo significativo «Su un terreno pericoloso » (On dangerous ground) registra un aumento del 59% rispetto all’anno prima degli omicidi ai danni di attivisti ambientali (185 in 16 paesi del mondo)1. L’accurato lavoro di ricerca con cui l’organizzazione non governativa denuncia l’elevato livello di violenza che si produce nei luoghi di estrazione di materie prime e di fonti energetiche in tutto il mondo, è dedicato quest’anno all’attivista Berta Cáceres2, uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 in uno dei paesi che risultano essere tra i piú pericolosi negli ultimi anni per chi lotta per la giustizia ambientale: l’Honduras.

I Lenca sotto assedio

Berta Cáceres, cornordinatrice del Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras – Copinh -, viene brutalmente assassinata nella sua casa in La Esperanza, nella valle del rio Blanco-Gualcarque, da almeno due sicari. Ospite a casa sua quel giorno, sopravvissuto all’attacco ma ferito alle mani e a un orecchio, c’era Gustavo Soto, presidente di Otros Mundos Chiapas Amici della Terra Messico, che partecipava a un workshop di formazione con il Copinh sul tema delle energie rinnovabili comunitarie. La comunità La Esperanza, dove Berta si era trasferita da poco, si trova nella regione delle comunità lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, appartenente alla cultura maya. Quelle abitate dai Lenca sono terre fertili e ricche d’acqua. Per questo vengono considerate la nuova frontiera dell’economia estrattiva. Il Copinh denuncia da molti anni le modalità con cui vengono rilasciate le concessioni minerarie, quelle per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di centrali idroelettriche con dighe sui principali fiumi del territorio.

Insicurezza, deportazioni, criminalizzazione della protesta

Non solo il Copinh si occupa delle terre lenca: anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidu) nel suo ultimo rapporto sull’Honduras lancia un allarme per la grave insicurezza, l’uso eccessivo della forza, le deportazioni forzate, la criminalizzazione della protesta. Tutto ciò trova la strada spianata soprattutto a partire dal 2009, durante i governi creatisi dopo i golpe di Micheletti e poi di Porfilio Lobo Sosa. Il 24 agosto 2009 si approva la Ley General de Agua (la legge generale sull’acqua), che apre a nuove concessioni idriche, e il decreto 233 che deroga qualsiasi impedimento a concessioni idroelettriche in aree protette, in violazione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni, che l’Honduras ha firmato nel 2007. Organizzazioni della società civile hanno informato la Cidu di almeno 837 potenziali progetti minerari, che coinvolgerebbero il 35% del territorio nazionale, 76 progetti idroelettrici che già vantano uno studio di fattibilità e/o un contratto per operare già approvato, in un totale di 14 dei 18 dipartimenti del paese.

Progetto Agua Zarca

Tra il 2010 e il 2013 viene approvato uno dei progetti più controversi, conosciuto come Agua Zarca. Contro di esso il Copinh e Berta Cáceres non risparmiano critiche e denunce: la centrale è una infrastruttura di per sé piccola, con una potenza stimata di 21,3 Mw, ma che comporta un profondo impatto ambientale e culturale nel territorio. L’esistenza delle comunità lenca è infatti strettamente legata ai boschi e ai fiumi, fonte di vita e luogo in cui vivono gli spiriti delle niñas indigenas. La zona è considerata inoltre eredità del Cacique Lempira, eroe nazionale che ha lottato per la libertà di quei territori dall’invasione coloniale spagnola. L’arrivo senza preavviso dell’industria estrattiva con conseguenti zone disboscate, macchinari nel letto dei fiumi, strade bloccate, presenza di militari e forze di sicurezza armate, ha purtroppo diviso la popolazione. Alcuni Lenca hanno infatti creduto alla promessa di «sviluppo» fatta dall’impresa, una strategia corporativa piuttosto comune per rompere il fronte critico delle comunità locali, soprattutto se organizzate.

«Consultazioni zero»

«Sviluppo locale», «protezione dell’ambiente attraverso l’energia verde, rinnovabile», sono le parole d’ordine, gli slogan usati per presentare il progetto ai finanziatori e alla comunità internazionale. Nel 2012, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (Cabei) concede all’impresa hondureña Desarrollos Energéticos (Desa) un prestito di 24,4 milioni di dollari. Desa a sua volta stipula un contratto con il gigante cinese dell’idroelettrico Sinohydro, che viene presto accusato dalla popolazione lenca di non rispettare il diritto alla consultazione previa e informata della popolazione locale, così come sancito dall’Ilo (Oganizzazione internazionale del lavoro) nella Convenzione 169, firmata dall’Honduras nel 1995. Anche la tedesca Voith Hydro Holding GmbH & Co. KG è coinvolta nella foitura delle turbine, e accusata delle stesse violazioni. Di fronte alla protesta e alle denunce, Sinohydro si ritira dal progetto, così come la Corporazione Finanziaria Internazionale (Ifc) della Banca Mondiale.

I paradossi locali dell’economia estrattiva

Agua Zarca indica chiaramente che i conflitti non sorgono solo contro progetti di grandi dimensioni, ma da situazioni in cui diversi fattori d’ingiustizia si combinano insieme. In terra lenca, infatti, sono ben 17 le nuove dighe in previsione o già in costruzione, ma l’elettricità prodotta da questi impianti è principalmente destinata alle industrie e al settore minerario. Questo territorio non ha mai beneficiato di servizi statali, di salute, di educazione, se non in misura insufficiente. Tanto che l’Istituto Nazionale di Statistica registra, per esempio, un 30% di analfabetismo nel municipio di Intibuncá, 16 punti sopra la media nazionale. Ma il paradosso più grande sembra però essere il fatto che, appunto, alle comunità non è mai arrivato il collegamento all’energia elettrica. Un’analisi comparata delle realtà dove opera l’industria estrattiva rivela che questo è un fenomeno ricorrente che si verifica in maniera sistematica soprattutto in zone rurali dove la popolazione viene emarginata e i cui diritti di partecipazione e di espressione sono violati.

«Svegliati, umanità, vegliati!»

La morte di Berta Cáceres ha destato indignazione e rabbia in tutto il mondo. Espressioni di solidarietà sono arrivate da tutti i continenti perché il suo lavoro era conosciuto: il suo sguardo e le sue parole avevano suscitato forti emozioni, ad esempio, durante la consegna proprio a lei del premio ambientale Goldman nel 2015. Premio che Berta Cáceres aveva dedicato al popolo lenca e alla sua forza e dignità. In quell’occasione aveva invitato la comunità internazionale ad agire: «Svegliati, umanità, svegliati! Non c’è più tempo!». Parole che sono risuonate mille e mille volte nei social media dopo il suo assassinio, come un monito e un grido di dolore per le tante persone che subiscono repressione e violenza.

Una scia di sangue troppo lunga

Solo pochi giorni dopo la morte di Berta, viene ucciso nella sua dimora in Rio Lindo Nelson Garcia, per essersi opposto a deportazioni e sfollamenti forzati della sua comunità. Nel 2013, il giovane Tomas Garcia era stato ucciso durante una repressione della polizia. Entrambi i Garcia erano membri del Copinh assieme a Berta. Nel vicino Messico, Noé Vasquez della piattaforma anti dighe Mapder era stato vittima di un’imboscata mentre raccoglieva fiori e pietre per la cerimonia di apertura dell’incontro annuale del movimento nel 2013. Nello stesso anno due ragazzi erano stati assassinati da un sicario presso la diga Santa Rita in Guatemala, e un anno prima Andrés Francisco Miguel era morto durante le proteste per la diga Barillas Santa Cruz per mano delle guardie di sicurezza. Questi sono solo alcuni dei molti casi3 che dimostrano la grande violenza che accompagna l’industria estrattiva e i suoi progetti energetici e infrastrutturali, la connivenza fra imprese e autorità pubbliche e forze di «sicurezza» in Centroamerica.

L’eredità di Berta

Berta Cáceres però ha lasciato un’eredità speciale: «Il suo assassinio ha lasciato un segno profondo nei movimenti per la giustizia ambientale. Qualcosa è cambiato dalla sua morte», ci dice un attivista in Cile. C’è stata infatti una grande mobilitazione a molti livelli, dalle reti sociali al Parlamento europeo, che ha chiesto con forza al governo hondureño di intervenire per identificare i colpevoli materiali, per indagare sul ruolo delle imprese di Agua Zarca, e per rilasciare immediatamente Gustavo Soto, unico testimone diretto di quella tragica notte, che per settimane è stato trattenuto in Honduras nonostante avesse già riferito alle autorità tutto ciò che sapeva. Tra il 17 e il 21 marzo la Missione Internazionale Justícia per Berta Cáceres Flores ha partecipato a una visita nel paese, assieme a membri del Copinh e altre organizzazioni dell’Honduras. Anche dai paesi europei molte reti si sono attivate e hanno fatto pressione anche sui finanziatori del progetto, tra cui BankTrack, Both Ends, Inteational Rivers e la grande rete della campagna Stop Corporate Impunity. Fmo, la banca finanziatrice olandese, già coinvolta in altri progetti come Barro Blanco nello stesso Honduras e Santa Rita in Guatemala, e Finnfund, hanno deciso di sospendere il loro appoggio alla centrale pochi giorni dopo l’assassinio. La Cabei, che al principio aveva espresso fiducia sul fatto che per «il caso di Mrs. Cáceres ci sarà la dovuta accuratezza nelle indagini da parte delle autorità», il 4 aprile finalmente ha deciso di sospendere il finanziamento a Agua Zarca.

Resistenza all’imposizione

Nel mese di maggio è venuta in Europa una delegazione del Copinh, tra cui una delle figlie di Berta, che porta il suo stesso nome. Due lunghe settimane di incontri con dirigenti di banche, agenzie per lo «sviluppo», e imprese per raccontare, testimoniare ma anche per interrogare chi decide la destinazione di fondi e chi investe in nome di quello sviluppo e quell’energia che non si dimostrano né sostenibili né puliti. «Noi Lenca viviamo il nostro territorio con altre relazioni socio-ambientali », dice Bertita, che per la sua sicurezza ha dovuto vivere molti anni fuori dal paese e lontana dalla madre, durante un incontro a Barcellona. «Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori lenca, è una forma di resistenza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale». E, concludendo, saluta con quanto gridato più volte dalla sua gente: «Mia madre no murío, se multiplicó ».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas


Note:

1- «Global Witness ha documentato in totale 185 omicidi in 16 paesi nel 2015, un aumento del 59% rispetto al 2014, e il numero totale più alto da quando abbiamo iniziato la raccolta di dati nel 2002. Difensori del territorio e dell’ambiente vengono uccisi a un ritmo impressionante di più di 3 a settimana. La maggior parte dei casi registrati sono avvenuti in paesi dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, con il più alto pedaggio registrato ancora in Brasile (50) e nelle Filippine (33). I popoli indigeni difensori delle loro terre ancestrali sono stati i più colpiti, rappresentano infatti quasi il 40% delle vittime. Industrie minerarie e estrattive sono state collegate ad almeno 42 delitti. Ma anche industrie agroalimentari (20 omicidi), idroelettriche (15) e del legname (15). Abbiamo trovato un coinvolgimento sospetto di gruppi paramilitari in 16 casi, delle forze armate in 13, della polizia in 11, e di guardie di sicurezza private in altri 11». (da On dangerous ground, p. 5).

2- «Intoo alla mezzanotte del 2 marzo 2016, uomini armati hanno sfondato la porta della casa in cui Berta Cáceres si trovava a La Esperanza, Honduras, hanno sparato e l’hanno uccisa. Berta era un’attivista ambientale e per i diritti della terra indigena di alto profilo. L’anno scorso aveva ricevuto il premio ambientale Goldman, un prestigioso riconoscimento per l’attivismo ambientale di base in tutto il mondo. Nel suo discorso alla premiazione Berta aveva parlato delle minacce di morte e dei tentativi di rapimento subiti a causa della sua lotta contro la diga di Agua Zarca. Global Witness ha evidenziato il suo lavoro coraggioso in How many more? (quanti altri?), una ricerca in cui l’Honduras veniva descritto come il paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Questo rapporto (On dangerous ground, ndr.) è dedicato a Berta Cáceres e ai molti attivisti coraggiosi che, come lei, resistono al potere, nonostante i pericoli per la loro vita». (da On dangerous ground, p. 2).

3- Circa l’assassinio sistematico degli indigeni in America Latina si veda MC 6/2016, p. 10-12.




Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




La maledizione del petrolio


Siamo andati a visitare le due città dell’Amazzonia ecuadoriana – Francisco de Orellana (Coca) e Nueva Loja (Lago Agrio) – cresciute sull’onda dello sfruttamento petrolifero. Oggi, con il crollo del prezzo del greggio, le luci della ribalta si sono affievolite. Rimangono invece i problemi ambientali, sociali e culturali, che la difficile congiuntura economica ha reso più evidenti. Abbiamo parlato con alcuni esponenti delle associazioni che, tra mille difficoltà, si battono contro l’arroganza delle compagnie petrolifere e la connivenza del governo. In difesa dell’Amazzonia, dei popoli indigeni e delle famiglie campesine.

Francisco de Orellana. Fuori della stazione degli autobus è in attesa una fila di taxi gialli. Francisco de Orellana – nota come El Coca (o semplicemente Coca) – è una città dell’Amazzonia ecuadoriana cresciuta attorno a tre fiumi: il Napo, il Coca e il Payamino. Capoluogo della provincia di Orellana, essa è considerata la seconda città petrolifera dell’Ecuador dopo Nueva Loja.

All’autista che ci conduce in hotel chiediamo come vadano gli affari. «Tanti taxisti, poco lavoro», sintetizza lui. «Ci sono sempre i turisti», ribattiamo. «Quelli non si fermano qui neppure un’ora. Arrivano in aereo da Quito e subito s’imbarcano su una lancia che li porterà in qualche lodge della foresta».

Quella del taxista non è la solita lamentela. Il crollo dei prezzi del greggio ha dato un duro colpo all’economia locale. Ce lo conferma anche Carlos Zabala, proprietario dell’Hotel Río Napo: «Andate a vedere la zona industriale che sta tra l’aeroporto e Sacha».

È la zona dove si trovano le imprese che offrono beni e servizi alle compagnie petrolifere, il cui lavoro di trivellamento e d’estrazione è molto complesso. Ci sono i capannoni d’industrie meccaniche, edili, chimiche, di trasporti e logistica. Tra esse c’è anche la statunitense Halliburton, divenuta mondialmente famosa durante la guerra in Iraq1. C’è la cinese Hilong, certamente meno nota ma probabilmente più importante dato che la Cina è oggi il primo partner petrolifero e soprattutto il primo creditore del paese.

Tutto pare però andare al rallentatore, quando non è addirittura fermo. Notiamo anche alberghi e ristoranti chiusi o in vendita. Fuori dai cancelli qualcuno accetta di dire due parole, confermando che l’attività è crollata assieme al crollo del prezzo del greggio.

Le autorità parlano di 30 mila persone (su una popolazione totale di 150 mila) che, nel corso dell’ultimo anno, hanno lasciato la provincia di Orellana per mancanza di lavoro. La governatrice Mónica Guevara ha dovuto varare misure di sostegno per i commercianti.

Viene da chiedersi: valeva la pena fondare l’economia di Coca (e di Orellana) sullo sfruttamento petrolifero?

Se i campesinos diventano attivisti

Andiamo a cercare una risposta nella sede della Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre. L’associazione è dedicata a Ángel Shingre, un contadino e attivista ambientale assassinato con tre colpi d’arma da fuoco a Coca il 4 novembre del 2003.

«I suoi assassini non sono mai stati identificati», ci spiega Diocles Antonio Zambrano, fondatore e responsabile dell’associazione. Come lo era Ángel anche Diocles è un campesino. Con cinque figli e 58 anni ben portati: «Quando negli anni Settanta arrivai qui dalla regione della costa, il verde era impressionante, i fiumi pieni di pesce, la foresta ricchissima di fauna. Tutta questa esuberanza della natura è stata uccisa prima dalla industria della palma africana2 e poi dal petrolio». L’Amazzonia non è stata la sola vittima.

«Prima del petrolio questo territorio era considerato disabitato. Invece era abitato da gente autoctona – Quichua, Shuar, Huaorani – che era parte di questa meraviglia. Avevano tanto territorio perché erano popolazioni da sempre nomadi, vivendo di caccia, pesca, raccolta di prodotti della foresta e qualche piccola coltivazione nella chacra (piccolo terreno rurale, ndr) per l’autosostentamento. Tutto in forma sostenibile. A poco a poco, la situazione degli indigeni è cambiata. Una parte di loro è andata a lavorare per le imprese petrolifere, sempre in cerca di manodopera a basso costo. Nel frattempo, sono iniziate le morti per cancro o per malattie rare, nonostante le compagnie e lo stesso stato facessero pubblicità sull’assenza di rischio in quelle attività».

Il gruppo di attivisti della Rete Ángel Shingre cerca di informare la popolazione che il petrolio è una miscela impressionante di composti chimici e di metalli pesanti, molti dei quali soggetti a bioaccumulo3. E tuttavia l’arroganza delle compagnie arrivava a livelli inauditi. «Veniva detto – racconta Diocles – che il petrolio era medicina, che era concime, che conteneva vitamine, proteine, finanche latte. E c’erano molti che ci cascavano tanto da seminare yucca, platanos, frijoles dove c’erano stati sversamenti di petrolio». Poi il castello di bugie è crollato sotto le evidenze degli studi scientifici.

«È stato dimostrato che la popolazione che vive vicino ai luoghi petroliferi ha il 200-230% di probabilità in più rispetto alla norma di contrarre il cancro (in particolare, al fegato, all’utero, alla prostata) e di avere aborti spontanei. Senza dire dei danni alle attività economiche dei contadini con morte di galline, cavalli, maiali. E poi – pare incredibile considerando dove siamo – nessuno dispone di acqua potabile perché gli idrocarburi hanno inquinato ogni fonte: fiumi, lagune, terreni».

Enormi cartelloni pubblicitari, posti dal governo ai lati delle strade, magnificano il petrolio. Chiediamo a Diocles se qualcosa di positivo è stato raggiunto e soprattutto se natura e petrolio possano coesistere. «Grazie al petrolio, c’è stato un certo “sviluppo” (però scrivetelo tra virgolette): costruzione di strade, ponti, strutture varie. Tuttavia, gli effetti negativi sono dieci volte più di quelli positivi. Per questo io dico: no, definitivamente no, non ci può essere una convivenza tra ambiente e petrolio. Sono incompatibili».

Lungo la via Auca

Le parole non bastano. Diocles ci offre un giro sui luoghi di estrazione, lungo la via Auca, qualche chilometro fuori della città. Lui li chiama «toxitour», e presto capiremo il perché. Il giorno seguente ci viene a prendere in hotel con un vecchissimo fuoristrada guidato dal figlio.

La strada è brutta e anche pericolosa. Ci sono curve e ponti strettissimi e senza alcuna protezione. Lungo tutto il percorso stradale, senza soluzione di continuità, tubazioni di varie dimensioni seguono l’andamento del terreno.

Ci fermiamo in una casa a lato della strada. «Signora Leonila, qui vicino c’è stato uno sversamento, vero?». «Sì, dalla tubazione qui davanti, ma il petrolio è arrivato fino alla nostra finca», risponde lei e ci fa accompagnare dal figlio. Scendiamo a piedi lungo una strada sterrata. C’è una povera casa di legno su palafitte. I panni stesi sotto la tettornia. Un uomo, una donna, un paio di bambini, che ci accolgono con curiosità. Il colono prende un badile e si dirige verso un rivolo d’acqua che sta a pochi passi dall’abitazione, seminascosto dalla vegetazione. Poche badilate e subito viene allo scoperto terra nera come il bitume. Puzzolente come il bitume. «Vi hanno risarcito?», domandiamo al figlio di Leonila. «No, nulla», risponde sconsolato.

Riprendiamo il cammino lungo la via Auca, la via del petrolio. Ci fermiamo per qualche foto (discreta) davanti a un campo di Petroamazonas, la compagnia dello stato ecuadoriano. Ci sono due alti mecheros4, che sputano fuoco e fumo sopra gli alberi. E, in mezzo, un grande contenitore di metallo con la scritta agua de formación5. A lato del campo sale una strada, su cui vanno e vengono camion pesanti. Un cartellone dice che Petroamazonas sta costruendo una centrale. Risaliamo in auto per proseguire, ma la vecchia jeep non ne vuole proprio sapere di ripartire. Ci passano accanto i grossi e lussuosi fuoristrada delle compagnie petrolifere. Le persone a bordo ci guardano con facce che paiono di commiserazione. Passano anche fuoristrada delle forze dell’ordine, presenti in forza a difesa delle installazioni petrolifere. «Mettete via le macchine fotografiche», consiglia Diocles.

Dopo un paio d’ore arriva il meccanico e finalmente possiamo tornare verso Coca. Ripercorriamo a ritroso la strada del mattino, attraversando El Dorado e Dayuma, villaggi anonimi, cresciuti dal nulla e adibiti a dormitori per i lavoratori petroliferi. Sono fatti di case approssimative, ma insegne ammiccanti e luci sgargianti evidenziano la presenza di bar e di bordelli, come sempre capita in zone dove si concentrano quasi esclusivamente uomini.

Diocles non la manda a dire: «Adesso che è arrivata la crisi, tutti dicono che bisogna puntare sul turismo e sull’agricoltura. Anche coloro che fino a ieri si sono riempiti le tasche con il denaro del petrolio. Per questa regione il petrolio è stata una vera maledizione. La maledizione della ricchezza».

Difficile, per noi, aggiungere qualcosa. Salutiamo con un abbraccio d’ammirazione Diocles, piccolo campesino e attivista ambientale che, anche a costo di apparire un po’ retorici, ci piace considerare un eroe solitario dei nostri giorni.

Ferite e colpi mortali

In Coca abbiamo toccato con mano i danni – ambientali e umani – prodotti dall’estrazione petrolifera. Abbiamo anche visto le conseguenze di un’economia di mercato incentrata sui prezzi del petrolio. Domani, percorrendo il Rio Napo, andremo verso il Parque Yasuní e poi ci sposteremo nella provincia di Sucumbíos, dove c’è l’altra capitale petrolifera: Nueva Loja-Lago Agrio. Forse la città simbolo della maledizione del petrolio. Quella dove la multinazionale statunitense Texaco-Chevron ha compiuto disastri inimmaginabili per i quali è stata condannata. Ma per i quali nulla ha pagato.

Paolo Moiola
(fine terza puntata – continua)

Note

1 – La Hulliburton è stata l’azienda di Dick Cheney, vicepresidente Usa durante l’amministrazione di George W. Bush e la Guerra del Golfo (2003), durante la quale si dice che la multinazionale sia stata favorita.

2 – La palma africana (Elaeis guineensis) si è diffusa in tutto il mondo in quanto il suo olio è molto richiesto, soprattutto dalle industrie alimentari e cosmetiche. La sua coltivazione su larga scala ha effetti nefasti sull’ambiente e sul clima.

3 – Il «bioaccumulo» è il processo attraverso cui sostanze tossiche persistenti si accumulano all’interno di un organismo, in concentrazioni superiori a quelle riscontrate nell’ambiente circostante. Questo accumulo può avvenire attraverso qualsiasi via: respirazione, ingestione o semplice contatto, in relazione alle caratteristiche delle sostanze.

4 – Vengono chiamati mecheros i camini attraverso i quali si brucia il gas che esce quando si estrae petrolio. Si tratta di un gas che contiene vari elementi contaminanti: metano, butano, etano, propano, acido solfidrico.

5 – In un giacimento petrolifero, il petrolio si trova in sospensione su uno strato di acqua  definita «acqua di formazione». Durante le attività di trivellamento ed estrazione si ha come effetto collaterale una grande produzione di acqua contaminata detta «acqua di produzione». Oltre all’olio, nell’acqua di produzione sono presenti inquinanti quali metalli pesanti, solidi sospesi e disciolti e elementi radioattivi.


Ecuador: l’economia del petrolio e le critiche

Petrolio e ambiente sono incompatibili

In Ecuador, l’economia del petrolio riveste un ruolo preponderante. Tuttavia, i costi che essa – inevitabilmente – comporta superano i benefici. Nomi e dati per orientarsi nella questione.

  • Zone petrolifere – Regione della costa (penisola di Santa Elena). A partire dal 1967, la regione dell’Amazzonia ecuadoriana – in particolare, le province di Orellana e Sucumbíos (Nord Est del paese) – è diventata la principale zona di produzione. Sono in corso nuove esplorazioni in altre province.
  • Città petrolifere – Francisco de Orellana-Coca (Orellana) e Nueva Loja-Lago Agrio (Sucumbíos), quest’ultima è la città più popolata dell’Amazzonia ecuadoriana.
  • Compagnie petrolifere statali – Le compagnie petrolifere di proprietà della stato ecuadoriano sono la Petroecuador e la Petroamazonas EP. Nell’aprile 2016 quest’ultima ha annunciato – tra la sorpresa e i dubbi di molti – il record storico di produzione: 366.754 barili al giorno (nonostante il prezzo internazionale del greggio sia sceso a quotazioni molto basse). Della raffinazione, immagazzinamento, trasporto e commercializzazione si occupa invece Petroecuador.
  • Compagnie petrolifere straniere – Stanno assumendo sempre più importanza le compagnie petrolifere della Cina: PetroChina, Andes Petroleum, Petroriental, Sinopec, Cnpc. Tra le altre si segnalano: Repsol, Agip, Petrosud, Enap, Pegaso, Petrobell, Pacipetrol, Tecpetrol, Consorcio Interpec, Consorcio DGC, Consorcio Marañón. Hanno lasciato il paese la Petrobras (Brasile), la Perenco (anglofrancese), nonché le statunitensi Oxy (Occidental) e Texaco-Chevron. Tra le aziende di servizi per le compagnie petrolifere primeggiano la Halliburton (Stati Uniti), la Hilong (Cina), la Weatherford (Stati Uniti) e la Mkp Petroleum (Stati Uniti).
  • Sistema contrattuale – Con la riforma della Legge sugli idrocarburi, approvata nel 2010, tra stato ecuadoriano e compagnie petrolifere si è passati dal contratto di partecipazione al contratto di prestazione di servizi. In questo secondo caso, lo stato garantisce alle singole compagnie petrolifere un prezzo fisso per barile estratto. Se il prezzo internazionale del greggio è alto, lo stato guadagna. Se il prezzo è basso o molto basso (come in questo momento), allora lo stato ecuadoriano può anche rimetterci.
  • Economia e petrolio – Negli ultimi 10 anni il petrolio ecuadoriano ha generato: tra il 43 e il 66 per cento del totale delle esportazioni; tra il 43 e il 59 per cento del bilancio statale.
  • Costi economia petrolifera – Difficile quantificare i costi ambientali, umani e sociali provocati dall’economia del petrolio. Universalmente conosciuto – per la sua entità e per le vicende processuali – il disastro provocato dalla Texaco-Chevron nell’Amazzonia ecuadoriana (dove operò dal 1964 al 1990).
  • Principali gruppi oppositori – Contro l’economia petrolifera ecuadoriana sono attive alcune organizzazioni di cittadini, soprattutto nella regione amazzonica:

1) «Union de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de?Texaco» (Udapt), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Donald Moncayo, avv. Pablo Fajardo Mendoza, Luiz Yanza;

2) «Frente de Defensa de la Amazonía» (Fda), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Carlos Guamán, Carmen Aguilar;

3) «Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre», che opera a Coca (Orellana); responsabile: Diocles Zambrano;

4) «Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos» (Inredh), che si occupa di diritti umani in senso ampio;

5) «Yasunidos», organizzazione nata principalmente per salvare dalle perforazioni petrolifere il Parco nazionale Yasuní, paradiso amazzonico della biodiversità.

(a cura di Paolo Moiola)


Incontro con monsignor Jesús Esteban Sádaba Pérez

Nell’Amazzonia assediata di Alejandro Labaka

Cappuccino di origine basca, mons. Esteban è responsabile del vicariato apostolico di Aguarico, provincia amazzonica di Orellana, dal lontano 1990. È il successore di mons. Alejandro Labaka, ucciso in un agguato nel 1987. Lo abbiamo incontrato nel capoluogo della provincia.

Francisco de Orellana. Ogni tanto, tra gli alberi e i fiori dello splendido giardino del Vicariato apostolico di Aguarico, s’intravvedono i tiranti del moderno ponte sul fiume Napo, inaugurato nell’aprile del 2012. Per la sua costruzione non si è badato certo al risparmio, come d’altra parte sul suo nome. È infatti conosciuto come Puente Majestuoso Río Napo.

Siamo qui per incontrare mons. Jesús Esteban Sádaba Pérez, dell’ordine dei Cappuccini, vicario apostolico di Aguarico dal 1990. Sorridente e pacato, parla uno spagnolo influenzato dall’accento basco (è di Pamplona).

Iniziamo la conversazione con uno sbaglio mettendo un «san» davanti al nome di Francisco de Orellana. «Beh, tanto santo non fu», risponde il vescovo senza riuscire a trattenere un sorriso. In effetti, Francisco de Orellana è il nome del conquistatore ed esploratore spagnolo, che navigò il Napo e il Rio delle Amazzoni, fino a raggiungee le foci. Era il 1542.

 

Mons. Esteban, lei arrivò qui, a Francisco de Orellana, nel 1990 in circostanze particolari: per sostituire mons. Alejandro Labaka, suo connazionale, che era rimasto ucciso in una storia di sangue.

«Direi piuttosto una storia di martirio. Mons. Labaka fu ucciso – insieme a suor Inés Arango – da lance indigene il 21 luglio del 1987. Le lance appartenevano a un gruppo di Tagaeri che i due missionari volevano proteggere dall’imminente arrivo degli uomini di una compagnia petrolifera (la Braspetro, ndr). Alejandro Labaka, cappuccino, era in Ecuador dal 1954. Quando, nel 1965, arrivò in questa regione decise subito di avvicinarsi agli indigeni e in particolare al gruppo più numeroso, quello degli Huaorani, conosciuti per l’indole guerriera (e un tempo noti con il termine dispregiativo di Aucas)».

Può ricordarci i nomi dei gruppi di indigeni che vivono in questa regione?

«In questa parte dell’Amazzonia ecuadoriana vivono tre nazionalità indigene: i citati Huaorani, i Quichuas dell’Oriente e gli Shuar. I più vulnerabili sono quelli che arrivano in città, perché perdono la loro cultura e dunque pagano un prezzo molto alto. Rimangono molte comunità che vivono nella foresta, vicino ai fiumi».

Esistono anche gruppi di indigeni non contattati o, come a volte si preferisce dire, in isolamento volontario?

«Sì, ci sono (almeno) due gruppi non contattati: i Tagaeri e i Taromenane».

Con l’arrivo delle attività petrolifere com’è stato modificato il paesaggio umano?

«Quando agli inizi degli anni Settanta arrivò l’industria petrolifera, qui c’erano il 90% di indigeni e il 10% di bianchi o meticci. In questo momento le percentuali sono invertite perché sono venuti migranti da tutte le parti del paese».

I grandi cartelloni pubblicitari ai margini delle strade dicono: «Il petrolio unisce le comunità amazzoniche!»; «Il petrolio migliora la tua comunità». Che ne pensa, mons. Esteban?

«Lo sfruttamento del petrolio ha portato – direttamente e indirettamente – distruzione della foresta e inquinamento dei fiumi che infatti oggi danno poca pesca. Per non parlare delle tensioni razziali e culturali. In questa situazione mantenere un equilibrio ambientale e umano è difficile, anche se non impossibile, come suggerisce papa Francesco».

In questo momento l’economia basata sul petrolio sembra però in forte crisi. In città tutti gli alberghi sono vuoti. Fuori città abbiamo visto decine di imprese – piccole e grandi (come la Halliburton e la Hilong) – che foiscono materiali e servizi alle compagnie petrolifere, ma pare che tutto si sia fermato.

«È così. Attualmente ci sono grandi difficoltà causate dalla caduta dei prezzi del petrolio. Si parla di 15.000 posti di lavoro perduti. Una parte di queste persone sono tornate ai luoghi da cui provenivano. In ogni caso si è generato un problema sociale molto grave».

Il Parque Yasuní è a pochi chilometri da qui. Monsignore, cosa comporta (comporterà) l’apertura di campi petroliferi al suo interno?

«Certamente lo sfruttamento del petrolio del Parque Yasuní porterà a una diminuzione della sua ricchissima biodiversità. Anche mettendo in campo le migliori condizioni tecnologiche e organizzative, difficile combinare obiettivi economici e difesa della natura, i cui diritti sono peraltro sanciti anche dalla Costituzione ecuadoriana. Occorrerebbe capire quale sia il modello appropriato non solo per la difesa della natura, ma di quella “casa comune” di cui parla il papa Francisco nella sua Laudato si’».

Mons. Esteban, ci dica due parole anche sul presidente Rafael Correa.

«È arrivato al potere per cambiare le cose. Poi, in questi anni, sono sopraggiunte anche delle difficoltà. Soprattutto, secondo me, quella di non saper dialogare. Inoltre, trovo che quando presenta le sue proposte lo fa sempre con un tono piuttosto aggressivo. Non penso sia una buona cosa per un governante che deve trasmettere speranza. Con lui ci sono molte cose che sono migliorate (le strutture, per esempio), ma altre situazioni che sono peggiorate. Io credo che abbiamo più cose ma che, in generale, abbiamo meno libertà».

Intende libertà d’espressione?

«Libertà in generale. D’altra parte, questo è l’anno della misericordia. Tutti ne abbiamo bisogno».

Paolo Moiola




Viaggio in Ecuador: l’alunno e il professore


Sempre alternativo in forza di una grande preparazione culturale, padre François Houtart, sociologo e professore, analizza quella che lui definisce la «crisi multidimensionale» (economica, ambientale, di valori) del mondo odierno. L’ambizione è quella di arrivare a una «Dichiarazione universale del bene comune dell’umanità». Lo abbiamo incontrato a Quito, dove vive in  una stanza di pochi metri quadrati. Una scelta di vita sobria all’insegna della coerenza con quanto da sempre insegna. Anche a Rafael Correa, suo ex alunno, oggi presidente dell’Ecuador, del quale dice…

Quito. François Houtart – sacerdote, sociologo, professore – è un personaggio affascinante: per quello che ha fatto, per quello che dice, per l’energia che sprigiona a dispetto dei suoi 91 anni. Oggi vive a Quito, alloggiando in una stanzetta di pochi metri quadrati con un letto e molti libri. E sulle pareti alcuni poster di personaggi latinoamericani.

Nato in Belgio, François Houtart conosce l’Ecuador dagli anni Settanta, ma vi risiede stabilmente soltanto dal 2010. Attualmente è professore (principal, come lui stesso sottolinea) all’«Instituto de Altos Estudios Nacionales» (Iaen), un’istituzione universitaria pubblica di specializzazione postlaurea.

«Libero dagli impegni all’Università di Lovanio e del Cetri (Centro Tricontinentale), ho accettato volentieri. Questo è un paese geograficamente molto ben collocato. Da qui posso andare facilmente in tutti i paesi latinoamericani. Quito inoltre è una città culturalmente straordinaria con varie università (la Flacso1, l’Università andina, e molte altre) e istituzioni come la Unasur2. Oltre che insegnare, posso scrivere e pubblicare».

E poi – osserviamo – l’Ecuador è un paese che si è dotato di una Costituzione realmente innovativa. Il professor Houtart conferma, pur con qualche distinguo: «Forse contiene troppi articoli, ma è realmente all’avanguardia. In essa si sono introdotti i concetti di paese plurinazionale e pluriculturale. E poi, unica al mondo, i diritti della natura. Certamente, una cosa è scrivere una Costituzione e altra cosa è applicarla. E in questo senso, anche qui in Ecuador, c’è un abisso tra il testo e ciò che accade nella realtà. In altre parole, l’applicazione di una carta costituzionale non è un dettaglio! Come mi commentava con ironia un amico boliviano: “In Bolivia abbiamo una Costituzione magnifica, però tutte le leggi sono anti-costituzionali”. Questa è ovviamente un’esagerazione, ma il problema esiste».

La Costituzione è stata varata durante il primo mandato del presidente Rafael Correa del quale il professor Houtart racconta: «Fu un mio alunno all’Università di Lovanio e al Cetri. Io gli diedi soltanto un corso di sociologia della religione, perché lui era un economista. Però ebbi occasione di conoscerlo abbastanza bene. Poi, divenuto politico e presidente, Correa mi invitò in varie occasioni. Oggi abbiamo una corrispondenza abbastanza frequente. Anche se non ci troviamo d’accordo su varie cose».

Questa crisi non si cura con più neoliberismo

Nel mondo sono evidenti sia il fallimento distruttivo del sistema economico neoliberalista che il rapido aggravarsi della questione ambientale. Per questo François Houtart parla di una «crisi multidimensionale», una crisi che è al tempo stesso finanziaria, economica, alimentare, energetica, climatica, una crisi di sistema, valori e civilizzazione.

«Eppure – spiega il professore – in Asia il neoliberalismo3 appare come un’opportunità di sviluppo. Identicamente in Africa, in Medio Oriente e nella stessa Europa, dove le misure contro la crisi sono, semplicemente, aumentare il neoliberismo».

«Non dico che si debba arrivare subito a un nuovo paradigma, a quello che io chiamo “il bene comune dell’umanità”. Sarebbe utopico e illusorio. Ma si potrebbero fare passi in questa direzione. Finora invece ci sono stati soltanto adattamenti del sistema alle nuove domande sociali e culturali».

Fino a poco tempo fa – osserviamo -, l’America Latina sembrava il luogo della sperimentazione e dell’alternativa, poi anche qui tutto ha iniziato a crollare. Dal Venezuela all’Argentina, passando per le sconfitte (pur diverse) di Dilma in Brasile e di Evo Morales in Bolivia. «Però – obietta Houtart -, l’America Latina è stato l’unico luogo dove un cambiamento si è tentato. Com’è avvenuto in Ecuador. Qui è stato fatto qualcosa di notevole: ricostruire lo stato e i cittadini; dare più importanza ai servizi pubblici come la salute e l’istruzione. Il modello di Correa è sì un modello post-neoliberista, ma non ancora post-capitalista. Come d’altra parte lui stesso riconosce».

«Il problema è che la maggior parte dei leader politici stanno ancora nell’antica visione dello sviluppo inteso come sfruttamento della natura e all’interno di una modeità vista come non accettazione delle tradizioni e delle culture diverse. Non sono entrati in questa nuova prospettiva dove la natura e la cultura sono elementi fondamentali dello sviluppo umano. Occorre formare nuovi leader ma senza troppi indugi perché questa situazione può tramutarsi in un disastro».

La natura e i suoi diritti

Natura come risorsa da sfruttare versus natura come fondamento di sviluppo. La Costituzione dell’Ecuador ha fatto una scelta chiara dedicando quattro articoli ai «diritti della natura»4.

«La prima difficoltà – spiega Houtart – sta nel definire cosa significhi diritto della natura. Soltanto nella cosmovisione indigena la natura è un essere vivente che prova sensazioni. Alberi, fiumi, animali sono nostri fratelli e sorelle. Questa visione è magnifica ma non si adatta alla mentalità della maggioranza della gente d’oggi».

Houtart ricorda la Conferenza mondiale per i diritti della Madre Terra tenuta a Cochabamba, in Bolivia, nel 2010. «C’erano oltre 30mila indigeni a parlare di cosmovisione, cambio climatico e diritti della Madre Terra, della Pachamama (in lingua quechua). Si tentò di imporre un testo che però trovò l’opposizione, ad esempio, di Via Campesina5».

«Qual è il problema? È l’integrazione dei diritti della natura in una prospettiva giuridica. Perché la natura, come risulta evidente, non può difendere le sue prerogative. Sono soltanto gli esseri umani che possono riconoscerle e quindi difenderle. O, al contrario, violarle o distruggerle. Dunque, il diritto della natura è – com’è stato detto – un “diritto vicario” di cui cioè non si può parlare senza la intermediazione dell’uomo. E qui entra in campo la coscienza e la responsabilità umana davanti alla natura».

E su questo punto la fiducia di padre Houtart sembra vacillare: «Sto lavorano sul settore agrario e vedo un’agricoltura campesina e indigena completamente abbandonata. Sto visitando l’Amazzonia in vari paesi e sono rimasto impressionato dalla sua distruzione sistematica e dalle conseguenze che ciò comporta. Dei temi ambientali parla anche l’enciclica di Francesco, ma non so quanti l’abbiano veramente letta».

Indigeni: popoli o semplici cittadini?

La Costituzione dell’Ecuador dedica uno spazio importante ai popoli indigeni6. Com’è la loro situazione?

«C’è stato – risponde Houtart – un rinascimento dell’identità indigena. La loro cultura è uscita dalla clandestinità. Per esempio, oggi gli sciamani sono riconosciuti. Io ho partecipato assieme a loro a una cerimonia pubblica in veste di sacerdote cattolico. La loro partecipazione alle ultime elezioni è stata massiccia. In questo sono evidenti i meriti di mons. Proaño»7.

Gli ricordiamo che, stando agli ultimi dati, in Ecuador gli indigeni sarebbero non più di un milione di persone. «Ma questo non corrisponde alla realtà – obietta Houtart -. Dipende dalle domande che vengono fatte durante il censimento. C’è sempre una certa manipolazione. Io penso che in realtà gli indigeni possano arrivare al 30% del totale. In questa società essi hanno un peso importante. Anche se, negli ultimi 30 anni, c’è stato un cambio strutturale importante con la crescita di una classe media, specialmente con Correa che ha potuto usufruire di molte entrate».

I cambi strutturali nella società ecuadoriana di cui parla il professor Houtart hanno prodotto effetti anche sulle popolazioni indigene.

«C’è stata – spiega – una crescente urbanizzazione e al contempo un abbandono delle campagne e specialmente dell’agricoltura campesina. Questo significa che una gran parte della popolazione indigena adesso è urbana. E qui i giovani si interessano certamente più dei cellulari che delle loro origini. È un processo di cambio culturale. Le organizzazioni hanno quindi perso una parte della loro base sociale e della loro forza politica».

In tutto questo entra il progetto che Correa e il suo governo hanno chiamato Revolución Ciudadana.

«Che non è – precisa Houtart – un progetto socialista. Rafael Correa e Alianza País – una coalizione tra una parte della sinistra e una parte della destra – parlano di un capitalismo moderno. Vogliono avere tutti cittadini con stessi diritti e stressi doveri all’interno di un società modeizzata».

E di conseguenza – diciamo inserendoci nel discorso – anche gli indigeni sono cittadini come tutti gli altri. «Sì, ma cittadini – come afferma il presidente – “arretrati”, che si debbono modeizzare. E?che non vengono riconosciuti come popoli. Mai è stata applicata la Costituzione che, nel suo articolo 1, parla di plurinazionalità. Mai c’è stata la definizione e il riconoscimento dei territori indigeni. Gli indigeni più coscienti – quelli riuniti nella Conaie – soffrono molto questa situazione come un’aggressione culturale e politica. Per questo dopo aver appoggiato Correa, poco a poco ne hanno preso le distanze8. Le ultime leggi – quelle sull’acqua (giugno 2014, ndr) e sulla terra (gennaio 2016, ndr), per esempio – escludono i gruppi indigeni, a dispetto di un vocabolario che appare in loro favore. Si favorisce un’agricoltura per l’esportazione, fatta di monocolture, facendo sparire i piccoli produttori sia indigeni che contadini. In questo modo la frattura con il governo si è ampliata sempre più. Il rischio è che, a causa del conflitto con Correa, una parte del movimento indigeno possa cercare un accordo con la destra. Una destra che mai li difenderà, ma che vuole soltanto utilizzarli».

Una frattura che si è approfondita anche a causa del modo di esprimersi del presidente. Houtart conferma: «Sì, il linguaggio utilizzato da Correa nei confronti degli indigeni è spesso volgare. Ed è un vero peccato perché Rafael Correa è l’unico leader politico che parla quechua».

Parco Yasuní: biodiversità o petrolio?

Dalla bellissima (ma spesso inattuata) Costituzione alla bellissima promessa di Correa (era il marzo del 2007) di non toccare il Parque nacional Yasuní, vero scrigno mondiale della biodiversità, ma anche importante riserva petrolifera. A quanto pare siamo davanti a una promessa non mantenuta, professor Houtart.

«L’Ecuador – racconta lui – decise di fare una proposta alla comunità internazionale e cioè di non toccare quel petrolio se la stessa comunità avesse aiutato pagando, per un certo numero di anni, la metà di quello che il paese avrebbe potuto guadagnare con lo sfruttamento di quei giacimenti. Ci furono risposte positive in particolare della Germania. Poi tutto decadde con l’arrivo al potere della signora Merkel. A quel punto il presidente Correa disse che la comunità internazionale non aveva risposto alla proposta dell’Ecuador e che dunque avrebbero iniziato a sfruttare il petrolio. Detto questo, il piano “b” già esisteva perché c’erano interessi economici locali che spingevano a sfruttare quei giacimenti. Il governo disse: andremo a sfruttare soltanto poco più dell’1 per cento del parco, utilizzando le migliori tecnologie. Dalle mie informazioni risulta invece che la distruzione locale è assai più grande di quanto il governo asserisce».

Nel parco e nelle immediate vicinanze vivono almeno tre differenti gruppi indigeni: gli Shuar, i Quichua e soprattutto gli Huaorani. Contro la decisione di iniziare lo sfruttamento petrolifero dello Yasuní ci sono state proteste indigene, ma non con voce unisona.

«Il governo – racconta Houtart – è riuscito a ottenere l’appoggio della maggior parte dei sindaci del territorio – una quarantina, gran parte dei quali indigeni -, promettendo loro che una parte sostanziosa dei guadagni sarebbero andati alle municipalità».

A sorpresa l’opposizione è arrivata dalla società civile. «C’è stata una reazione molto forte della gioventù, specialmente di quella urbana. Si è creato il movimento Yasunidos. E ha avuto un successo straordinario, riuscendo a raccogliere più di 700 mila firme contro lo sfruttamento petrolifero. La verifica governativa ha però ridotto le firme valide a meno di 300 mila».

Si è così riusciti a impedire il referendum popolare. E Correa ha mostrato il suo lato più negativo, non perdendo occasione per apostrofare con sarcasmo gli oppositori: «Gringuitos con la panza bien llena», «indios infantiles». Adesso tutto è in mano al mercato: con i prezzi del petrolio così bassi, l’estrazione nello Yasuní non è conveniente. Per altro verso, gli immani disastri compiuti dalla Chevron in altre zone del paese (ne parleremo, ndr) rimangono come monito indelebile.

L’ex alunno: ottimo sì, pessimo pure

A conclusione della lunga conversazione, torniamo a parlare dell’ex alunno, del presidente Rafael Correa. «Felicemente – spiega il suo ex professore – egli ha rinunciato alla rielezione9. Forse per ragioni più familiari che politiche. Però, dato che è giovane, potrebbe prendersi quattro anni di riposo e poi ripresentarsi nuovamente. Non ho obiezioni al riguardo, ma spero che lui approfitti di questo periodo per leggere, incontrare gente, per viaggiare e soprattutto per trasformare la sua visione adattandola alla realtà del mondo attuale. È un uomo sincero. A volte troppo sincero. E a volte anche un po’ prepotente, perché non accetta consigli. Ma è un uomo di valore e un gran lavoratore».

Insistiamo perché il professore dia un voto al suo ex alunno. «Il voto a Correa – risponde dopo qualche esitazione – dipende dal punto di vista. Se è da quello della modeizzazione della società ecuadoriana, il voto è 8 o 9. Se è dal punto di vista dello sviluppo umano fondamentale, allora diventa 2 o 3». E un sorriso si apre sul suo volto gentile.

Paolo Moiola
(fine seconda puntata)

Note

1 – La Flacso è la «Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales» presente in una quindicina di paesi del continente.
2 – L’Unasur – «Unión de Naciones Suramericanas» – è un’organizzazione di cooperazione che include 12 paesi latinoamericani.
3 – Neoliberalismo e neoliberismo sono termini molto spesso usati come sinonimi. In realtà, il primo si riferisce più alla politica, il secondo all’economia.
4 – Si veda Derechos de la naturaleza in Titolo secondo, Capitolo settimo, art. 71-74.
5 – Via Campesina è il movimento internazionale dei piccoli produttori e lavoratori della terra.
6 – Si veda Titolo secondo, Capitolo quarto, articoli 56-60.
7 – Di mons. Proaño abbiamo parlato nella prima puntata di questa serie, in MC di maggio.
8 – Ricordiamo la marcia indigena di protesta dal Sud fino a Quito dell’agosto 2015 e le proteste del marzo 2016.
9 – Della questione abbiamo scritto nella prima puntata, MC maggio.


Passato e presente della chiesa cattolica

«Quando l’amico Wojtyla uccise la teologia della liberazione»

Le visioni differenti di papa Giovanni Paolo II?e papa Francesco; le differenze ontologiche tra dottrina sociale della chiesa e teologia della liberazione; la situazione in Ecuador: le risposte di François Houtart.

Padre Houtart, quando ha incontrato per la prima volta la chiesa dell’Ecuador?

«Negli anni Settanta, ai tempi di mons. Proaño, il vescovo di Riobamba, ma soprattutto il vescovo degli indios. Varie volte egli mi invitò qui per tenere corsi di sociologia della religione nell’istituto di pastorale del Celam».

A luglio 2015, durante la visita di papa Francesco all’Ecuador, il presidente appariva più entusiasta degli esponenti della gerarchia cattolica locale.

«La dimensione religiosa è molto forte in America Latina. Rafael Correa, per esempio, è un uomo profondamente credente. È un uomo della dottrina sociale della chiesa, ma non della teologia della liberazione. Per questo s’intende molto bene con Francesco, che appunto è un papa della dottrina sociale della chiesa».

Che differenza passa tra l’analisi della realtà fatta dalla dottrina sociale e quella fatta dalla teologia della liberazione?

«Con la prima si condanna il capitalismo per i suoi effetti, ma non per la sua logica. Al contrario, la teologia della liberazione analizza la realtà in termini di struttura sociale, ovvero di classi sociali. Insomma, si tratta di due letture diverse».

 

Lei ha vissuto la teologia della liberazione fin dagli inizi. Ha conosciuto tutti i suoi principali esponenti. Com’è morta?

«È stata fermata, specialmente da Giovanni Paolo II, con il quale peraltro fui amico durante 30 anni. Ma è stato il papa che ha ucciso la teologia della liberazione e le comunità di base. E che ha spinto verso l’emarginazione tutti i vescovi progressisti all’episcopato latinoamericano».

Professore, è giusto dire che la teologia della liberazione sia stata ripudiata e poi affossata perché utilizzava strumenti di analisi propri della sinistra?

«È così. La Tdl ha incontrato nel marxismo un metodo di analisi della società più adeguato alla situazione reale, alla oppressione dei popoli e alla distruzione della natura».

Anche sotto questo aspetto lo stile improntato da papa Francesco pare però molto diverso.

«Il modo di comportarsi del papa attuale ha creato una nuova speranza e un nuovo clima. Per esempio, recentemente l’arcivescovo di Cali, mons. Darío de Jesús Monsalve, ha parlato (il 15 novembre 2015, ndr) della necessità di una riabilitazione di Camilo Torres come cristiano e come sacerdote. Questo non sarebbe stato possibile senza papa Francesco».

Ci rimane da fare un commento sulla chiesa cattolica dell’Ecuador.

«In Ecuador, purtroppo, abbiamo una chiesa gerarchica completamente conservatrice e sotto l’influenza dell’Opus Dei. Mentre la tradizione di mons. Proaño è stata completamente cancellata».

Paolo Moiola

 

 




Italia-Congo: La lunga marcia per la pace


Lui è un rifugiato congolese in Italia. Dove ha vissuto metà della sua vita. Ha il suo lavoro, vive bene. Ma un giorno succede qualcosa. Il Congo chiama e John sente di dover agire. Ma come? La strada si presenterà da sola, e lui dovrà fare delle scelte. E avere molto coraggio.

John Mpaliza porta con sé un entusiasmo dirompente. Quando lo incontri per la prima volta percepisci intorno a lui un’energia positiva. E ti diventa subito simpatico. È tipico di chi sta a suo agio nella propria pelle. Detto in altre parole, ha trovato la sua strada. Lo conosciamo grazie a una serie di incontri organizzati per lui dall’Ong Cisv di Torino.

Nato a Bukavu, in Kivu, nell’Est dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), 46 anni fa, all’età di 11 anni John va a vivere a Kinshasa da sua sorella maggiore che si è sposata in capitale. Qui frequenta il liceo scientifico Boboto, gestito dai gesuiti, «una delle migliori scuole in Africa centrale», dice, e poi si iscrive all’università a ingegneria. È il 1988-89, anno in cui cade il muro di Berlino. Non c’è né Inteet né tv satellitare. «Ascoltavamo la radio sulle onde corte – ci racconta John -. All’università si riuscivano a creare momenti di confronto». Proprio in quegli anni nascono dei movimenti di dissenso, molto legati a un partito clandestino, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale) di Etienne Tshisekedi, l’attuale maggiore partito di opposizione.

«Una volta fui contattato da qualcuno che mi portò a un incontro segreto e fu così che aderii a questo partito». John inizia a fare attività di propaganda, distribuendo volantini clandestinamente. «Non avevamo computer, si scrivevano a mano e si buttavano nei mercati».

Nel 1990 Mobutu fa un discorso importante: «Comprendete la mia emozione». Permette la creazione di altri partiti. È il multipartitismo. Il momento storico è quello del discorso di La Boule di François Mitterrand, nel quale il presidente francese sancisce che ormai è giunto il momento del multipartitismo per gli stati africani. «Lui diceva che non sarebbe mai stato chiamato “ex presidente”» ricorda John.

«Studiavo e manifestavo. Andai avanti fino al ’91. In quell’anno furono uccisi molti studenti a Kinshasa, Lubumbashi e Kisangani. Io fui tra i fortunati».

Congo addio

Incarcerato con alcuni compagni John rischia grosso, ma viene salvato dalla famiglia. «Vista la corruzione che ormai si era installata, pagando si veniva rilasciati. Da noi, in Congo, si dice: “Un figlio nasce da una madre e un padre, ma viene cresciuto da una società”. Così la mia famiglia allargata è riuscita a fare una colletta per tirarmi fuori e aiutarmi a scappare all’estero».

Il giovane John lascia il Congo proprio nel 1991. «Il mio viaggio è stato di lusso, in aereo, non è paragonabile alle traversate dei migranti di oggi».

John tocca diverse capitali africane, per arrivare a Orano, in Algeria, dove ha degli amici che stanno studiando. «Avevo iniziato gli studi a Kinshasa, così mi sono riscritto all’università, per studiare telecomunicazioni. È stata dura perché nel 1992 il Fis (Fronte islamico di salvezza, gruppo radicale, nda) vinse le elezioni, e la Francia disse che non potevano governare». Sono gli anni in cui infuria il terrorismo algerino, con attentati e bombe nelle città. Il presidente Mohamed Boudiaf viene ucciso in diretta tv: «Io l’ho visto e sono rimasto scioccato».

Così John, nel 1993 decide di fare un viaggio in Europa per andare a visitare degli amici a Parigi, Bruxelles e Roma. In Francia passa anche dalla comunità ecumenica di Taizé, in Borgogna.

«Sulla via del rientro in Algeria, a Roma, dovevo prendere l’aereo ma lo persi. Allo stesso tempo ci fu un attentato all’aeroporto di Algeri. Decisi allora di restare in Italia, anche perché in Algeria c’erano manifestazioni e se la prendevano ancora con gli studenti universitari». Così John Mpaliza chiede asilo politico in Italia e per lui inizia una nuova vita. «Una vita difficile, anche se non posso confrontare quei tempi alla situazione di emergenza attuale. Perché i numeri dei migranti erano diversi, così come la percezione che ne aveva la gente. Anche se la normativa non è cambiata molto».

Una nuova vita

Mpaliza si stabilisce nel Sud Italia dove svolge svariati lavori. Dalla raccolta di pomodori in Puglia, a quella delle arance a Rosao e a Castel Voltuo. Vive pure nella terra dei fuochi. «A Giuliano (in Campania) ho conosciuto gente meravigliosa che mi ha cambiato la vita. Avevo un permesso di soggiorno con divieto di studio e di lavoro. Ma non ricevevo sovvenzioni. Facevo dunque dei lavoretti per sopravvivere. In quel periodo ero presso una famiglia di Giuliano. Ci fu una sanatoria nel ’96. La padrona di casa decise di aiutarmi, mettendomi in regola per farmi avere il permesso di soggiorno. Da lì sono andato a Bologna e poi a Reggio Emilia».

Qui, finalmente, John può tornare a studiare e consegue la laurea breve in ingegneria informatica. Poi inizia a lavorare in comune. Un lavoro che svolgerà per 12 anni.

«Nel 1996 appresi dai media l’invasione dell’esercito ruandese in Congo, con a capo Desiré Kabila (che diventerà presidente del Rdc, nda) e subito telefonai a mia madre. Quando le dissi dove ero, replicò: “Cosa fai in Italia?”. Lo stupore era dovuto al fatto che l’Italia non gode di ottima fama, esporta troppi stereotipi, come la criminalità. In quell’occasione mi dissero che mio padre era morto durante l’ingresso dei soldati ruandesi a Bukavu, perché durante una crisi ipoglicemica, a causa della guerra non si era trovata l’insulina».

Ritoo all’inferno

Nel 2009 finalmente John decide di tornare in Congo, a Kinshasa, per una visita. Non è più tornato in patria dalla sua partenza, anche se ha sempre tenuto i contatti con la famiglia.

Quello che vede lo fa stare male: «Era come un paradiso trasformato in inferno. Il mio paese è un paradiso per le risorse che possiede. Terra fertile, acqua dolce, foresta, ecc. Quando ero piccolo, negli anni ’80, si viveva bene in Congo. Ho trovato tutto distrutto. Forse anche perché ero abituato a vivere in Europa.

Ho saputo di una sorella dispersa nell’Est, stessa sorte per molte cugine. Ho ritrovato mia madre, che si era trasferita a Kinshasa».

Nella guerra in Kivu è stato usato, e lo è tuttora, lo stupro come arma di guerra. Le donne inoltre sono rapite e ridotte in semi schiavitù alla mercé dei miliziani.

«Mia madre allora mi confidò: “Ogni sera prego Dio perché vostra sorella sia morta. È meglio così, piuttosto che soffra troppo”».

Si parla di 8 milioni di vittime in otre 20 anni di conflitto nell’Est del Congo. «Un genocidio dimenticato, ci ricorda John».

Tornato in Italia, dopo tre settimane di Congo, va in crisi.

«Ho vissuto 23 anni in Congo e 23 anni in Italia. Mi sento europeo, ma anche africano. Ritrovarti nelle tue radici e trovare questa situazione è stato un disastro. Avevo gli incubi tutte le notti. Ho provato a scrivere un articolo ma non sono stato considerato dai media». John inizia a maturare l’idea che deve provare a fare qualcosa per il suo paese. Ma cosa? Si chiede. «Qualcosa che desti curiosità, perché l’Africa non fa notizia».

L’ispirazione gli viene proprio dalla sua visita a Taizé di molti anni prima.

«Premetto che io non sono camminatore. Ma a Taizé una ragazza polacca mi aveva detto: se ti piace tanto questo posto, un giorno devi andare a Santiago di Compostela».

Pellegrino per caso

«Decisi di andare a incontrare i pellegrini. Nel 2010, per combinazione, c’era il Giubileo di Santiago. Ho parlato con circa 1.000 persone, di 27 lingue diverse, da 30 paesi. E lì ho capito che camminando e parlando la gente si ferma ad ascoltare». John parla di Congo, guerra, stupri, saccheggio delle risorse. Ma non ha ancora le idee chiare. È il raccontare quello che ha vissuto nel suo recente viaggio a Kinshasa.

«Nel frattempo, in Italia, avevo preparato una documentazione, e i miei dirigenti al lavoro volevano aiutarmi presentandomi a un politico. Ma in quel momento c’era crisi quindi non successe a nulla».

Ancora un altro segnale. «Nel febbraio 2011, una ragazza da Sidney mi chiamò su skype. L’avevo conosciuta al Cammino di Santiago. Era arrabbiata perché io non avevo fatto ancora nulla per il Congo, mi disse. Era un’insegnante e al suo rientro dalla Spagna aveva fatto lavorare i suoi studenti sul tema dello sfruttamento dei minerali del Congo.

Una persona su 1.000 si era attivata a causa di quello che le avevo raccontato. Forse qualcosa poteva cambiare. Decisi di organizzare una marcia da Reggio Emilia a Roma e portare la documentazione ai palazzi del potere. Avevo coinvolto la città: comune, provincia, la scuola di pace di Reggio, il centro missionario. La gente seguiva. Ero andato a parlare su Tele Reggio. Feci una marcia di 21 giorni e mi ricevettero alcuni deputati e senatori».

È la prima marcia di John Mpaliza per il Congo, che ne inaugura una lunga serie, in un crescendo di difficoltà. E, soprattutto, diventerà il modo di vivere e di lottare del congolese-italiano, dalla simpatia irresistibile.

On the road

Come si organizza una marcia per la pace in Congo?

«Si definisce la partenza e l’arrivo. Si prendono contatti con le istituzioni locali lungo il percorso, gli scout, le chiese, le scuole. Così nascono gli incontri. Le persone mi accompagnano per un pezzo della strada. Talvolta vengono ad accogliermi alle porte di una città al mio arrivo. Ma la marcia completa la faccio da solo.

A Roma, ad esempio, una quarantina di persone mi aspettarono fuori città e mi accompagnarono fino in Parlamento».

Segue nel 2012 la marcia Reggio Emilia – Bruxelles, di due mesi. John passa a Ginevra dove incontra l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Va anche a Strasburgo dove è ricevuto da parlamentari italiani ed europei. Molti di loro sono promotori dell’emendamento del maggio 2015 sulla tracciabilità dei minerali (si veda il dossier su MC luglio 2015). «Per la prima volta abbiamo chiesto una regolamentazione. C’erano anche congolesi dal Belgio e italiani nella marcia».

Il grande salto

«All’inizio le marce le facevo in estate, durante le vacanze. Oppure, nel caso dovessero durare oltre un mese, prendevo aspettativa dal lavoro. I miei dirigenti erano comprensivi e mi appoggiavano».

Tornato casa dalla marcia di Bruxelles, John si trova sommerso dalle richieste di incontri e conferenze.

Nel novembre del 2012 decide di prendere un part time verticale: alcuni giorni della settimana lavora in ufficio, durante gli altri fa incontri sul Congo, i minerali della guerra, le vie della pace. La sua vita sta cambiando. «Cominciai a chiedermi se fosse questa la via che dovevo seguire. A dicembre 2013 mi sono ammalato e ho capito che questo sistema non reggeva. Così ho spiegato al dirigente che il mio futuro non era più con loro.

Inoltre, la notizia della marcia di Bruxelles era arrivata anche in Congo. I miei famigliari avevano fatto una veglia di preghiera nel paese. Si raccoglievano i primi frutti, perché ormai se ne stava parlando. Mollare, sarebbe stata la dimostrazione che noi (africani) non sappiamo costruire».

John decide di lasciare il lavoro il 31 maggio 2014 e di consacrarsi totalmente alla causa. A luglio parte la marcia Reggio Emilia – Reggio Calabria.

Da quando ha lascia il lavoro John non ha più un reddito. Organizza marce, cammina e fa incontri in scuole, università, parrocchie e istituzioni. Vive di accoglienza e provvidenza.

«Ho deciso di rinunciare a tutto – ricorda – ma devo vedere quando mi sento in forma e posso camminare, fare le cose a modo mio. Ho collaborato con tante organizzazioni, come Rete pace per il Congo, creata dai missionari Saveriani di Parma. Ora mi appoggia anche Libera Internazionale. Non ho ancora fondato un’associazione, ma ci stiamo arrivando. Potrebbe servire per gestire eventuali donazioni».

John approfondisce le rivendicazioni delle sue marce. «L’obiettivo principale è rompere il silenzio, fare breccia. Fare conoscere il dramma congolese, denunciare l’assenza di diritti umani, la guerra economica che produce morti, lo stupro come arma di guerra. I danni che creano i caschi blu dell’Onu, che costano due milioni di dollari al giorno».

I progetti

John ci parla degli incontri: «I giovani a cui parlo sono talmente tanti che tutto questo non può non produrre qualcosa!», ci dice con entusiasmo.

«Voglio spiegare il rapporto che c’è tra noi e quel mondo in Congo». Rapporto che passa dal telefonino che ognuno possiede. «Sì. Non c’è ragazzino che non sia coinvolto. Tutti abbiamo a che fare con i minerali come il cobalto. Per questo parlo della “guerra che abbiamo in tasca”».

I ragazzi si coinvolgono anche con azioni pratiche. «Abbiamo lanciato dei progetti – spiega John – con scuole in Trentino e nel padovano. I ragazzi fanno raccolte di telefonini, per il riciclo. In effetti si può recuperare parte del minerale dall’apparecchio dismesso. È una ricchezza che abbiamo in tasca, anche quando si rompe, senza saperlo. È una miniera d’oro. Ad esempio l’Arpa del Friuli Venezia Giulia collabora con un’azienda svizzera che recupera l’oro dai telefonini».

La normativa in stallo

Oltra alla testimonianza, ovvero «raccontare, spiegare la nostra responsabilità» per formare l’opinione pubblica, è molto importante anche il livello istituzionale.

«Perché comunque abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a far passare una legge sulla certificazione dell’origine dei minerali con i quali si produce l’elettronica di consumo».

Gli Stati Uniti si sono dotati di una legge, nel 2010, la Dodd-Frank Act (vedi dossier MC luglio 2015), mentre l’Unione europea è in una fase di «negoziazione».

«La situazione è complicata. Il Parlamento europeo si è espresso il 20 maggio 2015 rendendo più restrittiva la proposta della certificazione volontaria. In realtà quello è stato il primo round, ora gli stati devono ratificare. In Italia c’è la Focsiv che porta avanti la “Campagna europea sui minerali dei conflitti” (vedi box) e che collabora con Rete pace per il Congo ed Eurac del Belgio».

John è deluso anche del comportamento dell’Italia: «Ero certo, sulla base dei miei contatti, che l’Italia avrebbe subito ratificato. Ma ho appreso che mentre il ministero degli Affari esteri è d’accordo, il ministero dello Sviluppo economico è contrario. Inoltre a dicembre è iniziato un negoziato trilaterale tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea. Io non sono un negoziatore, e ho paura che diventi un nulla di fatto».

Oltre l’importante questione normativa, John scende più in profondità, per eradicare le cause: «Non basta la legge sulla certificazione dei minerali. Serve la stabilità in questi paesi. Se ci fosse uno stato che mettesse delle regole, le compagnie dovrebbero rispettarle e il livello dei problemi sarebbe diverso. Nelle miniere potrebbero lavorare solo adulti, non i bambini, e in certe condizioni di sicurezza. E soprattutto queste risorse andrebbero a beneficio del popolo del Congo e non del Rwanda o dell’Uganda che le stanno sfruttando senza controllo. E si vivrebbe un po’ meglio in Congo».

Nel 2015 John realizza la marcia da Reggio Emilia a Helsinki. Percorre a piedi 3000 km attraversando l’Europa in cinque mesi, da maggio a ottobre. «In Finlandia sono stato ricevuto da funzionari del ministero degli Esteri.

La marcia, richiesta da cittadini finlandesi che avevo incontrato a Varsavia, aveva l’obiettivo di incontrare la Nokia, che nel frattempo, a causa della crisi, era stata comprata di Microsoft. Ai finlandesi interessano molto le tecnologie. Io ho detto loro che sarebbe importante far capire ai cittadini da dove vengono i materiali per produrre i dispositivi. Loro temono che una legge di certificazione porterebbe a un aumento dei prezzi per i cittadini».

Obiettivo Africa

John è tornato in Congo in segreto nel 2014, perché sua madre e sua sorella non stavano bene. Ormai la sua lotta è conosciuta e rischia per la sua sicurezza personale. Ha un altro grande sogno che sta diventando un progetto: una marcia panafricana, che lo porti nel suo paese.

«A fine ottobre vorrei fare Reggio Emilia – Roma. Qui parteciperei a degli incontri durante la settimana internazionale per i diritti umani. Da Roma volerei a Città del Capo in Sudafrica. Da lì voglio risalire verso il Mozambico, la Tanzania e Zanzibar. Per poi attraversare la Tanzania verso Ovest per arrivare nell’Est della Repubblica democratica del Congo. Se ci riusciamo! Occorre lavorare con i movimenti della società civile, le chiese, le associazioni europee e africane. Bisogna creare una specie di scudo, perché camminare in Africa è più difficile!».

Marco Bello




Mondo: salvare il clima

 


Nel dicembre 2015 si è tenuta a Parigi la Cop21, la ventunesima conferenza internazionale sul clima. Da essa è uscito l’Accordo di Parigi, con alcuni obiettivi che la comunità globale dovrà raggiungere per limitare i danni climatici. Alle dichiarazioni entusiastiche di molti si sono affiancate quelle scettiche di molti altri. E a margine della Cop21 si sono registrate assemblee e iniziative alternative: testimonianze di resistenza a un sistema che sembra proprio non voler cambiare.

«Volere è potere», si dice, quindi nell’attuale scenario ambientale e climatico il «non volere» finisce per essere un crimine. E nella storia delle negoziazioni per il clima, il non volere è stato protagonista di molti, troppi summit inteazionali. La Cop211, svoltasi a Parigi lo scorso dicembre 2015, ha rappresentato per molti un’occasione (forse, l’ultima) per prendere decisioni concertate per tempo, allo scopo di cercare di mitigare gli effetti del cambio climatico attraverso una riduzione dei livelli di emissione di anidride carbonica.

Tappe importanti di una lunga serie di summit

Quella di Parigi è stata l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di summit, cominciata dopo la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, quando venne stilata la Unfccc (la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici). Nella città brasiliana si era giunti a un accordo a livello globale di collaborazione per «conservare, proteggere e ristabilire la salute e l’integrità dell’ecosistema della Terra». La prima Cop si tenne a Berlino nel 1995 allo scopo di definire i principali obiettivi di riduzione delle emissioni. Nel 1997 la conferenza riunita a Kyoto produsse il noto «Protocollo», documento che negli anni ha subito un progressivo affievolimento. La mancata volontà di impegnarsi in un piano comune e vincolante fu in qualche modo «sancita» dall’uscita degli Usa dal Protocollo nel marzo 2001, anno in cui, a novembre, si sarebbe tenuta la Cop7, a Marrakesh: gli Stati Uniti, pur rappresentando un quarto delle emissioni complessive del pianeta, uscirono dal Protocollo di Kyoto in disaccordo sui meccanismi della sua attuazione. Con la sua ratifica da parte di un gran numero di paesi, tuttavia, il Protocollo entrò in vigore nel 2005. Esso obbligava i paesi industrializzati a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni di gas serra in misura non inferiore al 5% rispetto a quelle del 1990. Con l’accordo di Doha del dicembre 2012 l’estensione del protocollo si sarebbe prolungata fino al 2020. Nel 2009 la Conferenza delle Parti di Copenaghen partorì quello che venne poi chiamato un non accordo, che ribadiva l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura sotto i 2 gradi Celsius di media a livello globale ma che faceva sparire impegni concreti nella riduzione delle emissioni.

Il mondo è cambiato

Nel 2010, nel momento dell’approvazione del secondo periodo di implementazione, il Protocollo vide l’abbandono di Russia, Giappone, Nuova Zelanda e del Canada, che rifiutavano, un’altra volta, «impegni vincolanti». In effetti, il mondo che si era incontrato nel 1992 e aveva poi firmato il protocollo a Kyoto nel 1997, nel frattempo, era molto cambiato. Alla fine del 2015, a Parigi, alcuni paesi come Cina, India e Brasile che a Kyoto erano stati inseriti un una lista conosciuta come Non Annex 1 (e chiamati «paesi in via di sviluppo»), si sono presentati come potenze mondiali indiscusse a livello economico, produttivo e di potere politico. A questi paesi, Kyoto non aveva assegnato vincoli di riduzione di emissioni, mentre ai paesi industrializzati dell’Annex 1 sì. Con il passare degli anni, i vecchi paesi industrializzati come gli Usa hanno cominciato a richiedere impegni di riduzione anche ai nuovi paesi industrializzati. E i criteri coi quali definire «responsabilità» e «capacità» dei vari paesi di adottare tali impegni a nome di una solidarietà internazionale, sono divenute il nodo gordiano delle negoziazioni.

Il mercato delle emissioni

Questa è la principale (pesante) eredità ricevuta dalla Cop21 di Parigi, che si aggiunge a molte altre questioni spinose sui meccanismi di implementazione dell’accordo. La società civile e accademica, le comunità indigene, campesine, i piccoli agricoltori, etc. hanno criticato pesantemente strumenti come i Meccanismi di sviluppo pulito, o il Redd2, che hanno messo nelle mani del mercato la possibilità di decidere cosa fare e da parte di chi. Che il mercato sia l’attore più opportuno ed efficiente per gestire la crisi climatica è già di per sé discutibile; quando poi si giunge persino a un mercato finanziarizzato del clima (come nel caso dei Redd, appunto), dei diritti d’emissione e consumo, la situazione giunge all’assurdo.

Il debito climatico

Tuttavia, dopo l’evidente fallimento di Copenaghen e le non decisioni prese nelle successive riunioni, c’è chi ha applaudito l’accordo approvato a Parigi lo scorso 12 dicembre: dalle imprese transnazionali al segretario generale delle Nazioni unite, al delegato Usa John Kerry, a vari ministri francesi fino ai nostri presidente del Consiglio e ministro dell’Ambiente. Secondo questi ultimi, nell’Accordo di Parigi l’Italia è stata protagonista, e gli italiani possono essere soddisfatti perché «siamo nella storia». Il ministro Galletti sembra tuttavia parlare di una storia futura, ideale e con tanti «se», mentre pare non prendere in considerazione la storia già avvenuta, quella che ha visto i paesi di vecchia industrializzazione accumulare un debito ecologico e climatico nei confronti del resto del mondo. La giustizia climatica, che ogni accordo sul clima dovrebbe avere come obiettivo, non può esimersi dal fare i conti con il tema del debito climatico. L’effetto serra è un processo che si conosce dalla fine dell’800, soprattutto grazie al lavoro del chimico svedese Svante Arrhenius. Sono però dovuti passare decenni perché il tema diventasse politico, e fosse discusso per la prima volta in una riunione governativa a Villacco, Austria, nel 1985, e poi nei rapporti dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul Cambio Climatico), e in infinite pubblicazioni accademiche. Ci si ricorderà forse del botta e risposta tra gli ambasciatori di Usa e Bolivia a Copenaghen nel 2009. Lo statunitense Todd Ste, mentre riconosceva il pesante ruolo storico del suo paese nelle emissioni di gas serra, rifiutava l’obbligo di compensarle e negava l’esistenza di un debito.

Pablo Solon, allora, gli ricordò che i ghiacciai boliviani si stavano sciogliendo riducendo le fonti d’acqua del suo paese, e gli chiese chi, secondo lui, dovesse far fronte al problema. Dopo di che gli fece notare che in quella sede non si stavano additando colpevoli, ma attribuendo responsabilità.

Il gruppo di ricerca dell’Ejatlas, con la collaborazione del collega svedese Rikard Warlenius, ha pubblicato una mappa tematica del «debito climatico» (vedi in questa pagina in alto). In essa si evidenzia la responsabilità di una parte di mondo nel totale delle emissioni globali. La stessa parte che oggi si rifiuta di prendere impegni vincolanti. E quando parliamo di «paesi» ci riferiamo sì alla popolazione media, ma anche e soprattutto all’élite benestante, alle imprese di quelle zone di mondo in cui i benefici della ricchezza si concentrano.

La tecnologia ci salverà?

Ma perché l’accordo di Parigi è stato accolto come un successo dai politici e dal settore del business e da altri no? Cos’ha di tanto sbagliato? E, infine, è proprio tutto da buttare?

Il documento in effetti raccomanda di rimanere «ben al di sotto dei 2 gradi Celsius» di aumento della temperatura, e aspira persino a raggiungere la soglia di 1,5. E questo è da accogliere come un successo. Tuttavia, le modalità che suggerisce per raggiungere tale obiettivo prevedono ancora quei meccanismi di mercato di cui si è parlato sopra, o strumenti altamente tecnologici capaci di rimuovere dall’atmosfera l’anidride carbonica di troppo. Ma su quest’ultimo punto ci domandiamo se davvero si voglia far fronte alla crisi climatica appellandoci a una tecnologia (probabilmente energivora) che deve ancora essere testata. Non sarebbe meglio un ripensamento radicale del cammino fatto finora?

Secondo Kevin Anderson del Tyndall Centre, un centro di ricerca inglese sui cambiamenti climatici, «se vogliamo essere seri sul tema del cambio climatico, il 10% della popolazione globale responsabile per il 50% delle emissioni totali deve tagliare in modo drastico il suo consumo di energia».

Molti dubbi sull’accordo

Per aggiungere ulteriori dubbi sull’accordo raggiunto, possiamo ancora chiederci, come fa l’analista uruguayano Gerardo Honty, perché le imprese del petrolio e le grandi multinazionali hanno applaudito alla sua firma. Sicuramente vi hanno visto una garanzia per la civiltà dei combustibili fossili: nulla viene messo in dubbio, nessun cambio radicale in vista. Il che viene anche confermato dal consenso di paesi grandi consumatori dell’oro nero, come Cina e Stati Uniti.

Naomi Klein, autrice di ricerche e pubblicazioni importanti su potere corporativo e ambiente, nel suo ultimo libro This Changes Everything, ha fatto notare che termini come «combustibili fossili», «petrolio», «carbone» non appaiono nel testo finale dell’accordo di Parigi, né tantomeno concetti come «debito climatico». È preoccupante, poi, la cancellazione di riferimenti ai Diritti umani e alle popolazioni indigene, se non nel timido preambolo. E come se non bastasse, ci vorrà un bel po’ di tempo perché questo accordo possa entrare in vigore, forse appena nel 2020.

Ci troviamo dunque tra le mani un testo che non affronta le questioni chiave, che non mette in discussione i meccanismi di ingiustizia che favoriscono l’accumulazione di capitale, gli accordi commerciali che aumentano da un lato la ricchezza estrema e dall’altro la povertà e la violenza. La crescita economica perseguita attraverso estrazione di risorse, produzione e consumo continua a essere indicata come la via per raggiungere lo sviluppo. Un retorico appello allo spirito di cooperazione e solidarietà internazionale lascia ai singoli governi la possibilità di adottare misure volontarie di riduzione delle emissioni. In pochi a Parigi hanno presentato obiettivi volontari di riduzione ragionevoli, e si è calcolato che anche se essi venissero rispettati, la temperatura si alzerebbe comunque di 3°C.

Piccole rivoluzioni in atto

Spesso ci aspettiamo che sia un’idea brillante, un’ideologia che possa spiegare tutto, una formula da applicare al mondo intero per fare una «rivoluzione» a cambiare le cose per raggiungere un mondo migliore. Se però poi il cambiamento non arriva, ci demoralizziamo e ci pare che le vie d’uscita siano inesistenti. L’antropologo David Graeber, in un suo saggio del 2004, invitava però a vedere nelle tante azioni quotidiane, vicine a noi o lontane, una rivoluzione già in atto. Anzi, tante piccole rivoluzioni. E a Parigi se ne sono viste tante. Pur nella loro diversità culturale, politica ed ecologica, tutte mostravano strade alternative proprio a quei governi a cui la volontà e il coraggio mancavano.

Rappresentanti dei gruppi indigeni dell’Isola della Tartaruga (così veniva chiamata l’America Settentrionale) hanno portato con sé testimonianze della resistenza nei loro territori contro le perforazioni per fracking, a causa delle quali l’acqua, la terra e l’aria sono state inquinate provocando malattie croniche ad adulti e neonati. In Canada, la popolazione Wet’suwet’en resiste contro la costruzione del Pacific Trails Pipeline (Ptp), un oleodotto construito da Lng Canada, Shell Canada Limited, Mitsubishi Corporation, KoreaGas (Kogas) e Petrochina, che dovrebbe trasportare le sabbie bituminose della regione dell’Alberta al Pacifico, per essere poi esportate. Dal 2012 affrontano con i loro corpi i macchinari che giungono per disboscare, danno il benservito a funzionari delle imprese e del governo che cercano di comprare il loro assenso, richiedono a chiunque voglia entrare nei loro boschi di identificarsi e dichiarare le proprie intenzioni. Bloccando l’accesso stradale, fermano (per il momento) un processo estrattivo altamente inquinante, e per nulla efficiente. L’accampamento, conosciuto ormai come Unist’ot’en yintah, sfida il governo canadese a una ridefinizione di sovranità, rivendica il legittimo diritto di dire la propria su decisioni importanti. E ha ispirato Naomi Klein e altri nell’usare un nuovo termine, Blockadia, per definire resistenze fisiche, decise, coraggiose, e condivise tra molte comunità in tutto il mondo. Resistenze a un modello estrattivo e a una logica di violenza e di imposizione di una sola via di sfruttamento. Una resistenza che semplicemente dice «no», neanche a fronte di compensazioni monetarie.

Un monito per l’economia globale

A Parigi, lo stesso «no» intransigente, fermo e solenne, l’hanno detto in tanti. E per renderlo ancora più visibile, in molti sono andati a dirlo in canoa la domenica 6 dicembre. L’iniziativa, curata dalle reti di Indigenous Environmental Network e Amazon Watch ha portato rappresentanti dei popoli indigeni dal territorio di Sarayaku dell’Amazzonia ecuadoriana, dagli Stati Uniti e dal Canada a navigare la Senna, fino ad arrivare al centro della capitale francese. Le bandiere ricordavano i molti territori violentati e le comunità che dignitosamente resistono e lanciano allarmi dalle periferie di questa economia estrattiva. I loro «no» sono un monito all’economia globale: per sopravvivere dobbiamo cambiare rotta, lasciare i combustibili fossili nella terra, ridurre significativamente il consumo e soprattutto fare la pace, tra gli esseri umani e con la terra, perché senza pace con essa non ci sarà pace nelle nostre società.

Alla loro voce si sono unite comunità, collettivi, associazioni e Ong di tutto il mondo, presenti a Parigi, sia negli eventi paralleli patrocinati dall’Onu vicino alla sede dei negoziati, sia nelle centinaia di iniziative, workshop, conferenze, spazi di convivialità e scambio realizzati nel quartiere parigino di Montreuil.

Lo si è ribadito anche durante il Tribunale dei Diritti della Natura, una corte etica che ha lavorato duramente negli ultimi due anni per realizzare udienze in Ecuador, Perù, Australia e Stati Uniti. Personalità di grande spessore internazionale su temi della difesa dei diritti umani e dell’ecologia, come l’ex ministro dell’Energia dell’Ecuador Alberto Acosta, il senatore argentino Feando «Pino» Solanas, e Nnimmo Bassey della Ong Friends of the Earth Inteational, hanno ascoltato dodici testimonianze di comunità che soffrono per gli impatti delle attività petrolifere di Chevron-Texaco e di Bp, della costruzione di dighe idroelettriche in Brasile, del fracking negli Stati Uniti, e così via. La sentenza del tribunale ha condannato tali fatti in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, un documento approvato nel 2012 dall’Assemblea legislativa boliviana prima del summit sul clima Rio+20, e che ha ricevuto l’appoggio e la firma di migliaia di sostenitori in tutto il mondo. Dalle parole dello stesso Alberto Acosta: «Fermare il cambio climatico e le aggressioni alla Natura va oltre le riunioni governative e richiede che il movimento sociale globale più potente della storia metta in connessione le differenti lotte per la giustizia ambientale, economica, femminista, indigena, urbana e operaia. Questo implica cornordinare le alternative anti coloniali, anti razziste, anti patriarcali e anti capitaliste verso una alternativa di civilizzazione».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas

Note:

1- La Cop21 è stata la 21a sessione annuale della Conferenza delle parti della Unfccc – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 -, coincisa con l’11a sessione della riunione delle parti del protocollo di Kyoto del 1997.

2- Meccanismi di sviluppo pulito: i paesi industrializzati che devono ridurre le emissioni possono acquisire «crediti di emissione» tramite progetti produttivi a basse emissioni in paesi in via di sviluppo (attuati da aziende private o pubbliche del proprio territorio). I crediti di emissione possono anche essere venduti ad altri paesi.
Redd (Reducing Emission From Deforestation and Forest Degradation): è una tipologia di progetti che mira a ridurre le emissioni di gas serra tramite la protezione delle risorse forestali e la riforestazione. La creazione di zone protette espelle intere comunità che, in modo sostenibile, traggono sostentamento dalle risorse forestali.

Scheda Ejatlas: Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il secondo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas).Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

  • www.ejatlas.org
  • www.ejolt.org
  • http://atlanteitaliano.cdca.it



Brasile: incontri ravvicinati


Impressioni scritte all’ombra dei grandi alberi della foresta (Mata) Atlantica del Brasile nei momenti di pausa dal lavoro di ricerca. Le «Riserve della foresta atlantica» sono un insieme di otto aree protette a cavallo degli stati brasiliani di Bahia ed Espírito Santo, che si sviluppano su un’area di circa 112.000 ettari.

Sembra il ronzio di un grosso calabrone. Mi vola attorno. Ora l’ho dietro le spalle. Mi giro con cautela per non spaventarlo. È lì, fermo, a mezz’aria, che mi guarda incuriosito, quasi a chiedersi come mai questa grossa scimmia visiti i fiori come lui. Le ali non si vedono, troppo veloci per l’occhio umano. Pare un modellino di seta sospeso nel vuoto, retto da fili invisibili. In un attimo, il colibrì scarta a destra e poi in basso, veloce come un ufo, poi di nuovo a sinistra e in alto, nervoso, frenetico, elettrico. Sembra grigio, ma i raggi tangenti del sole riflettono colori iridescenti, metallici, stupendi. Ora pare verde, poi blu, poi rosso scarlatto per ritornare grigio in penombra. Rizza le penne del collo che sembrano una ghirlanda. Una visione troppo fugace, il tempo di visitare un paio di fiori con la sua lingua lunga e sottile come un filo di sarta e poi, sempre di scatto, svanisce rumorosamente nel nulla tra le liane, le orchidee, le bromelie (foto 1).

Puma concolor (Foto Richard)
2. Puma concolor (Foto Richard)

Ieri sera finalmente è piovuto. Un bel temporale durato un paio di ore. Si sono mostrati rospi e rane, ma lo spettacolo più bello l’hanno offerto le scimmie urlatrici. Non si vedono che raramente, e quest’anno non si erano ancora fatte sentire col loro ruggito possente. Alle prime gocce di pioggia hanno iniziato all’unisono. Tutta la foresta echeggiava dei loro versi impressionanti, udibili a chilometri di distanza, ad esteare tutta la loro felicità. Pareva di essere circondati da un esercito di giaguari. Indimenticabile. Ieri è arrivato nella stazione un altro ricercatore, si chiama Richard, gestisce trappole fotografiche. Ne avevo viste un paio disseminate in foresta. Gli ho chiesto di vedere le foto scattate. Sono il frutto di otto trappole che hanno funzionato per tre mesi circa. Scattano la foto quando i loro sensori intercettano gli animali. Tra questi naturalmente figuro anch’io, ma ciò che mi impressiona è che prima o dopo il mio passaggio la camera registra tapiri, jaguarundi, ocelot e diversi puma. Anche in pieno giorno! E pensare che ero convinto di essere il solo in giro in quel pezzo di foresta dove non pareva esserci traccia di grandi mammiferi. Evidentemente mi osservavano passare ogni giorno, nascosti tra i cespugli, a pochi passi dal sentirnero.

Richard, gentilissimo, mi ha lasciato le foto più belle. C’erano anche tanti uccelli, specialmente peici e tacchini, ma non ho osato chiedere troppo
(foto 2, il passaggio del puma).

carcarà (Foto Curletti)
3. carcarà (Foto Curletti)

Doveva succedere. Un disastro nella nostra modesta cucina: uova rotte e mangiate, macchinetta del caffè rovesciata, pane sbocconcellato, zucchero sparso ovunque, frutta parzialmente distrutta, piatti e bicchieri rotti a terra… Neppure il sacchetto dei rifiuti è stato risparmiato. È bastato dimenticare la finestra aperta perché quel furbone di carcarà ne approfittasse per saccheggiare le nostre scorte. Mezzo falco e mezzo avvoltornio, si atteggiava a gallina e con aria innocente si aggirava nel cortile proprio come un pollo domestico. Sembrava un amico confidente e invece ci teneva d’occhio studiando i nostri movimenti e la buona occasione per farci fessi. Ora l’ha appena trovata. Eppure avrei dovuto capirlo che il suo atteggiamento soione ci riservava qualche brutta sorpresa. Con quel cappuccio nero sopra il capo color caffellatte ha proprio l’aspetto di un mafioso con tanto di coppola in testa. Anche la sua andatura impettita è da guappo. Ora è sul tetto che ci guarda soddisfatto, pancia piena alla faccia nostra, parrebbe quasi che col suo sguardo acuto e tagliente come una lama voglia prenderci in giro. Che fare? Vedendo il disastro i miei colleghi brasiliani, col loro 3. carattere gioviale, l’hanno presa a ridere: ma che bravo il nostro ladro! E non ci è restato che pulire e mettere ordine…

È passata più di una settimana dal fattaccio e mentre prima era onnipresente, il carcarà non si è più visto. Potrà sembrare strano, ma mi sa che si è reso conto d’averla combinata grossa e si tiene alla larga per paura di rappresaglie. Mica stupido il nostro «giocondor»… (foto 3).

tegù (Foto Curletti)
4. tegù (Foto Curletti)

Mi passa davanti con aria indifferente e quasi indolente, ma so che mi controlla ed è pronto alla fuga al minimo cenno di reazione. Con l’andatura da star di musica rap, muove il corpo come una sciantosa, oscilla a destra e a sinistra alzando le zampe alternativamente, la lunga coda inerme ad anelli chiari e scuri, la piatta lingua biforcuta in eterno movimento alla ricerca di odori e di sapori. Ma chi ha detto che i dinosauri sono estinti? Eccolo qui, un bellissimo esemplare di tegù, il più grande dei sauri terrestri brasiliani. Ormai mi conosce, abbiamo un tacito appuntamento giornaliero, io alla ricerca di un po’ d’ombra nella calura del tardo mattino, lui alla ricerca di sole che lo riscaldi. Puntualissimo esce dal suo buco nelle giornate calde, controlla il terreno circostante ed attende paziente l’uscita della compagna. Lei è più piccola e diffidente, lui invece sa di potersi fidare e mi passa a mezzo metro di distanza, quasi con aria di sfida. Sfida che raccolgo con il mio obiettivo fotografico. Il suo ritratto mi riempirà il cuore di nostalgia al ritorno nel freddo inverno europeo (foto 4).

anuro in bromelia (Foto Curletti)
5. anuro in bromelia (Foto Curletti)

Il buio arriva presto in foresta e lei lo saluta, puntuale. Un trillo lungo, intenso, cristallino. Pochi istanti e poi torna nel silenzio della sua solitudine. L’ho cercata per tre notti di seguito e infine l’ho trovata. La bromelia è aggrappata al tronco di un grosso albero e il suo fiore rosso ricorda il pennacchio del cappello di un carabiniere in uniforme. Lei se ne sta nascosta nel suo interno, nell’occhio formato dalla corona circolare delle foglie caose che conserva l’umidità della pioggia. Mi fissa con i suoi grandi occhi rossi inespressivi, rannicchiata e immobile, sperando di non essere vista. Colore verde pallido, ventre più pallido ancora, piccolissima, con tondi pallini prensili sulle lunghe dita. La raganella se ne sta lì nel profondo pozzo della sua bromelia, al sicuro. Vorrebbe vedere la luna ma per paura si accontenta di vederla passare per pochi momenti dalla rotonda finestra aperta verso il cielo del suo rifugio. Poi rimane al buio, solitaria, nell’attesa che il suo richiamo venga inteso da un compagno (foto 5).

 

Per lui la morte ha le ali violette in continuo vibrato movimento. No, non ha la falce ma una sottile siringa paralizzante. Antenne gialle, corpo nero allungato stretto in un vitino da vespa, agile e nervoso. Ormai paralizzato, si lascia trascinare impotente. Lo sfecide l’ha appena ghermito e lui, la migale, grosso ragno con zanne terrificanti, terrore dei piccoli vertebrati, è ormai rassegnato ad essere dato in pasto alla prole, divorato poco alla volta ma pur sempre vivo, per conservare più a lungo possibile i succhi biologici di cui i neonati del predatore hanno bisogno. È lì, impotente, in balia del suo aggressore nonostante il potenziale offensivo, col veleno in grado di uccidere uccelli e piccoli mammiferi. Non posso frenare un moto di compassione. Chissà se è cosciente che lo attende una morte terribile, lunga, forse dolorosa, ma sicuramente da incubo nel vedere ogni giorno le larve del suo carnefice avvicinarsi per mangiarlo poco alla volta.

Sfecide
sfecide con la preda (Foto Curletti)

Insetti che predano ragni, non solo il contrario. Qual è il significato? Quale stato d’animo regna tra gli abitanti della foresta? L’amore? No, quello lo lascio ai film disneyani. Pur essendo un sentimento fondamentale, importantissimo per la sopravvivenza della specie, l’amore ha durata limitata e prima o poi finisce. Quello invece che accompagna dalla nascita alla morte è la paura. Paura. Quella non abbandona mai, è la compagna che permette la salvezza dell’individuo. Paura di essere parassitato, assalito, divorato, sbranato. Coinvolge tutti, dal giaguaro al tapiro, dal tamanduà all’agutì, dalla scimmia al bradipo, dalla formica alla vespa, dal lombrico alla lumaca. Non esiste il predatore assoluto, ogni specie, uomo compreso, ha i suoi nemici. Quanta verità in una frase di Tennyson che riassume perfettamente il pensiero: «Nature, red in tooth and claw», natura, denti e artigli insanguinati. È questa la legge, piaccia oppure no. Appare troppo evidente a chi sa interpretare il grande libro della giungla. E che Kipling mi perdoni… (foto 6).

 piroforo (Foto Curletti)
7. piroforo (Foto Curletti)

Dopo la pioggia ecco i vagalumen. Così i brasiliani chiamano i pirofori, grossi coleotteri elateridi che si attivano al calar delle tenebre. Producono luce come le nostre lucciole, ma al contrario di queste hanno luce costante e più potente: si narra che i vecchi esploratori li mettessero in gabbiette per poter leggere e scrivere la notte. Bastavano una ventina di esemplari. Hanno due punti luminosi ai lati del pronoto, dietro il capo. Alcune specie ne hanno un terzo più piccolo sulla parte inferiore dell’addome, tipo fanalino di coda. Sono esseri timidi e frugali: di giorno si vedono raramente, si accontentano della linfa che sgorga dalle ferite di qualche albero. Sono neri o bruni, poco vistosi, ma quando cala la notte mostrano tutto il loro luminoso splendore. Al buio sono uno spettacolo. I rami brillano della loro luce, giganteschi alberi di natale accompagnati dai canti dei grilli e delle cicale invece che da jingle bells. Foresta magica, non sempre terribilmente inospitale (foto 7).

Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)
8. Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)

Sono due colonne lunghe centinaia di metri di cui non riesco a vedere gli estremi, che si perdono nell’intrico della foresta. Due semplici colonne di formiche ma quanta differenza. Le prime frenetiche, febbrili, velocissime, aggressive, voraci; i soldati dalle enormi mandibole e dal colore avorio che si mescolano alle nere operaie indaffarate a predare le larve e le pupe di un altro formicaio per fae degli schiavi. Questi, per imprinting, lavoreranno inconsapevolmente per gli assassini della loro tribù, magari aiutandoli a depredare altri formicai fratelli. Sono dei nomadi, non hanno nido, si accampano randagi attorno alla loro regina. Milioni di agguerriti individui caivori, terrore della foresta. Provo a fermare un’operaia per verificare il bottino, una pupa in metamorfosi. Con una velocità impressionante sono subito aggredito da tre soldati. Sono stati fulminei, ben più della velocità della mia mano. Evidentemente mi tenevano d’occhio. La puntura è molto dolorosa e devo desistere. Le chiamano formiche legionarie, per gli entomologi Eciton, probabilmente proprio per la loro febbrile attività. Non le ferma nessuno, tutti gli animali della foresta indietreggiano al loro arrivo, guadano fiumi formando ponti di individui, attraversano laghi con zattere viventi formate da stornici volontari pronti ad annegare per la loro regina e per la colonia.

Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)
9. Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)

La seconda colonna è ben più lenta, compassata. Le operaie con sforzi immani portano tenacemente pezzi di foglia che altre sorelle hanno tagliato con le possenti mandibole, andando controvento e facendosi a volte sollevare per effetto vela, ma senza mollare il bottino. I soldati controllano e vigilano immobili ai lati della lunga fila, pronti a sacrificarsi per difenderle. Sono vegetariane le Atta, fatto inconsueto per il mondo delle formiche. La cosa curiosa è che oltre ad essere vegetariane sono anche degli agricoltori. Le foglie infatti non sono mangiate, ma ammassate all’interno del formicaio per fae concime su cui crescerà un fungo particolare che è il loro esclusivo alimento. Alle prime piogge le future regine sciameranno a migliaia, sono enormi, molto più dei loro sudditi. Verranno quasi tutte divorate dai predatori, uomo compreso, che ne apprezzano le cai grasse succulente. Feroci le prime, più tranquille e perseguitate le seconde. Che sia un caso? (foto 8 di Eciton e 9 di Atta).

Gianfranco Curletti*

* L’autore è l’entomologo del Museo di Storia Naturale di Carmagnola (To). Ha al suo attivo numerose spedizioni scientifiche nei vari continenti, anche se le sue ricerche lo hanno portato principalmente nell’Africa subsahariana. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni specialistiche, non disdegna la divulgazione. Suo il libro «Matto per gli Insetti», edito da Blu ed. di Torino. Collabora da anni con il Museo della Consolata di Torino, e con i missionari in Tanzania, Mozambico e Kenya ha condiviso conoscenze, studi, sudori e cibo.