Borneo, giungla addio


La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.

Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.

Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.

Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.

L’isola misteriosa

Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.

Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.

Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.

Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.

È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.

Lo spirito della foresta

Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.

Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.

Impatto devastante

La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.

Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.

Il cuore del Borneo

Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.

Troppo tardi?

In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.

Marco Bello

Note

  1. S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
  2. Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
  3. Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
  4. David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.

Una storia unica
Il Sarawak dei rajah bianchi

Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).

Ma.Bel.




Marocco. Argento e ambiente


Assetati d’argento

Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.

Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.

Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).

Accaparramento e resistenza

Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.

In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.

L’argento del re

Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.

La miniera è gestita dalla Société Metallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.

La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.

Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.

Danni ambientali e repressione

Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.

Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.

Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.

Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.

Movement on the Road ’96

Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.

Proteste socioambientali in aumento

Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.

E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.

Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.

Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.

Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili

L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.

Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.

Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.

Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.

Non basta dire «sostenibilità»

In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas


Altri tre casi emblematici

1.      L’impatto ambientale dell’energia solare

Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?

2.      Le donne Soulaliyate

Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.

3.      Land grabbing a Rabat

La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello

 




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




India: Water grabbing sul tetto del mondo


Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.

Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.

Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.

Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.

Il ritorno di Banca Mondiale

Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.

L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.

Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.

In nome della sostenibilità

Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.

Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.

I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).

Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.

Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.

Sfruttare il più possibile

Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.

Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.

I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.

Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand

Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.

Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».

Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.

L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica

Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.

Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.

Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».

La sconcertante perseveranza

Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.

Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.

Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.

Energia che non serve

Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.

Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.

Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?

Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

  • 1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
  • 2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
  • 3- Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
  • 4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
  • 5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
  • 6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
  • 7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Cattolici disinvestono dai combustibili fossili


In vista del vertice del G7 e della conferenza della convenzione UNFCCC di Bonn, diverse istituzioni da tutto il mondo si uniscono nel più ampio annuncio congiunto cattolico di disinvestimento dai combustibili fossili finora realizzato.

Ulteriori informazioni disponibili al link:
http://catholicclimatemovement.global/divest-and-reinvest/

Mercoledì 10 maggio 2017 – Nove organizzazioni cattoliche provenienti da tutto il mondo hanno annunciato oggi la decisione di disinvestire i propri portafogli dalle industrie del carbone, petrolio e gas con il più ampio annuncio congiunto cattolico di disinvestimento finora realizzato. I diversi soggetti che si uniscono nell’annuncio – compresi ordini religiosi e diocesi dal Regno Unito, Stati Uniti e Italia – hanno rilasciato la dichiarazione di disinvestimento in vista dei negoziati internazionali di questo mese sulle misure di attuazione dell’accordo di Parigi sul clima. Combustibili fossili come carbone, petrolio e gas sono la causa principale delle emissioni di gas a effetto serra che stanno cambiando il clima e aggravando la situazione di povertà in cui versano le comunità più povere del mondo. A livello mondiale, il 2016 è stato l’anno più caldo sinora registrato , un triste record attribuito precedentemente anche al 2015 e il 2014.

L’annuncio è anche significativo per il numero e la varietà delle istituzioni cattoliche coinvolte, compresi i Gesuiti e i Francescani, che si ancora una volta per far fronte comune sul disinvestimento, tema che sta guadagnando un crescente supporto a tutti i livelli della Chiesa Cattolica. La notizia del disinvestimento giunge dopo la conferenza “Laudato Si’ e investimenti cattolici” del Gennaio 2017 – cui hanno partecipato il cardinale Turkson, Prefetto del Dicastero dello Sviluppo Umano Integrale nonché intimo consigliere dell Papa sui temi ambientali, e l’ex capo negoziatore ONU sul clima Christiana Figueres – centrata proprio sul tema dell’investimento alla luce dei principi della Laudato Si’.

Quella dei Gesuiti Italiani è la seconda provincia gesuita a disinvestire a livello mondiale, segno di una profonda reazione all’appello per la cura della casa comune lanciato da Papa Francesco, anch’egli gesuita. La Comunità Monastica di Siloe è la prima comunità monastica cattolica del mondo a disinvestire. La Diocesi di Pescara diventa la seconda diocesi ad aver disinvesto finora, mentre la Diocesi di Bologna insieme alla Conferenza episcopale italiana e alla FOCSIV promuoverà un approfondimento sulle questioni del disinvestimento durante una conferenza l’8 giugno alla presenza del ministro italiano dell’ambiente Gian Luca Galletti il quale, due giorni dopo, si troverà a dirigere i lavori del G7 ambiente a Bologna. Sette sono le organizzazioni che hanno preso parte al precedente annuncio cattolico di disinvestimento nell’ ottobre 2016 e, considerando l’annuncio odierno, sono 27 le istituzioni cattoliche che hanno aderito in totale a questa iniziativa. L’annuncio giunge poco più di un mese prima del secondo anniversario dell’Enciclica Laudato Si’ del Giugno 2015, lettera con cui Papa Francesco ha invitato cattolici e non cattolici alla cura della nostra casa comune. Con i leader più potenti del mondo riuniti per il summit G7 in Sicilia dal 26 al 27 maggio per discutere le maggiori minacce alla stabilità globale, e con quasi 200 paesi che si riuniscono a Bonn dall’8 al 18 maggio per i negoziati UNFCCC per aggiungere importanti informazioni tecniche al quadro dell’accordo di Parigi, l’annuncio di disinvestimento invia un potente segnale di slancio e sostegno popolare per un’azione ambiziosa sul cambiamento climatico.

Quest’ ultimo annuncio giunge anche nel mezzo della Settimana di Mobilitazione Globale sul Disinvestimento organizzata dalla ONG 350.org , un’iniziativa in cui persone da tutto il mondo agiscono per chiedere a città, università, chiese, fondi pensione, musei e altre istituzioni di dimostrare la propria leadership sul clima rompendo i propri legami finanziari con le industrie dei combustibili fossili.

Referente programma Disinvestimento&Investimento Cattolico: Cecilia Dall’Oglio (Roma, Italia); European Programs Coordinator, Global Catholic Climate Movement; Email: cecilia@catholicclimatemovement.global ; Tel: +39 3331271680 +39 06 6877867 Referente media Italia: Marta Francescangeli; Ufficio stampa FOCSIV – Volontari nel mondo; Email: comunicazione@focsiv.it ; Tel: +39 3384731082 +39 06 6877867 Referente media USA: Christina Leano; Associate Director, Global Catholic Climate Movement; Email; christina@catholicclimatemovement.global ; Tel: +1-786-459-5667

ALLEGATI:

Lista delle istituzioni che annunciano il disinvestimento (10 Maggio)

  1. Congregazione missionaria delle Serve dello Spirito Santo (Internazionale, Curia generale)
  2. Arcidiocesi di Pescara – Penne (Italia);
  3. Il Dialogo (Italia);
  4. Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù (Italia);
  5. Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita (Italia);
  6. Comunità Monastica di Siloe (Italia);
  7. MGR Foundation (USA);
  8. Suore Francescane Wheaton, Provincia di Santa Chiara delle Sorelle Francescane, Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria (USA);
  9. Provincia di San Giuseppe della Congregazione della Passione di Gesù Cristo – Provincia Inglese dei Passionisti (Regno Unito).

Dichiarazioni sulle decisioni di investimento

“”La reazione dei cattolici al cambiamento climatico sta avanzando in maniera esponenziale. Dal rifiuto di investire in combustibili fossili all’installazione di pannelli solari sui tetti delle chiese, un numero sempre maggiore di cattolici sta adottando azioni concrete per proteggere il creato e le persone vulnerabili nelle proprie comunità e non solo. Questo slancio cattolico è qualcosa che non dovrebbe passare inosservato dai leader mondiali riuniti per il vertice G7, prima che essi tornino nei propri paesi per trasformare politiche di convenienza in politiche ambiziose di lungo periodo.”

Tomas Insua, Direttore, Global Catholic Climate Movement.

“Siamo estremamente preoccupati che il vertice del G7 non assuma impegni ufficiali sul clima, adottando obiettivi meno ambiziosi rispetto a quelli di Parigi, e con l’uscita degli Usa dagli accordi. Di fronte a questo impasse politico, diverse organizzazioni cattoliche si impegnano in nome della Laudato Si’ a promuovere la giustizia sociale e climatica tramite dei concreti impegni di disinvestimento dai combustibili fossili. Auspichiamo che tale azione possa costituire sia un richiamo ai leader internazionali per impegnarsi nel contrastare il cambiamento climatico e allo stesso tempo un supporto alla presidenza italiana del G7 affinché continui nel suo lavoro di prioritarizzazione della questione climatica nell’agenda del vertice. FOCSIV insieme alla Diocesi di Bologna e alla Conferenza Episcopale Italiana coinvolgeranno ulteriormente le diocesi al disinvestimento e al reinvestimento in fonti pulite per la promozione di un accesso universale all’energia in occasione del G7 Ambiente a Bologna, l’otto giugno, con Mons Zuppi e il Ministro Galletti”

Gianfranco Cattai, Presidente, FOCSIV (Italia)

“La diversità organizzativa e geografica delle organizzazioni che partecipano a questo annuncio congiunto mostra la leadership delle comunità cattoliche nel prendere azioni concrete in risposta alle ripetute richieste di Papa Francesco per preservare la nostra casa comune. Celebriamo questo annuncio e speriamo che il suo messaggio raggiunga le persone di tutte le fedi e induca altre istituzioni cattoliche, tra cui il Vaticano stesso, a porre fine all’influenza dannosa dell’ambizione dell’industria dei combustibili fossili sulle nostre economie e società e a sostenere fonti energetiche giuste e pulite per tutta l’umanità.”

Yossi Cadan, 350.org Senior Divestment Campaigner.

“Dichiaro di voler aderire alla Campagna per il disinvestimento dalle fonti fossili e l’investimento in energie rinnovabili, promossa da FOCSIV. Questa dichiarazione desidera essere un primo impegno concreto nella logica di una ecologia integrale e della cura della casa comune, a cui ci ha richiamati tutti Papa Francesco nella lettera enciclica Laudato si’, in vista di un progressivo ed effettivo processo di disinvestimento

Tommaso Valentinetti, Arcivescovo di Pescara-Penne (Italia)

“The monastic community of Siloe, in the Diocese of Grosseto, starting from the building of the new monastic complex, in 2000, has been building on good practices of building with the use of renewable energy resources. Strongly committed on the issues of caring and safeguarding the creation, we consider it is important to be part of an initiative that is in very deep harmony with the value in which we believe and that gives a concrete answer to Pope Francis’s Call in his encyclical Laudato Si’ asking for a real ecological conversion and a new way to inhabit the Earth. On behalf of the community of Siloe, which I represent as a superior, I express my commitment to the fossil fuels divestment campaign.”

“La comunità monastica di Siloe, nella diocesi di Grosseto fin dall’inizio della costruzione del nuovo complesso monastico (a partire dall’anno 2000) ha messo in atto le buone pratiche del costruire con l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili. Impegnati sui temi della cura e custodia del creato, riteniamo importante aderire oggi ad una iniziativa che è in profonda sintonia con i valori in cui crediamo e che cerca di dare una risposta concreta all’appello di Papa Francesco nella su Enciclica Laudato Si’, che tutti ci convoca ad una “conversione ecologica” e a mettere in atto una nuova modalità dell’abitare la terra. A nome della comunità di Siloe che come superiore rappresento, esprimo volentieri la mia adesione alla campagna Disinvestimento dai combustibili fossili”

P.Mario M.Parente, Priore della Comunità monastica di Siloe (Italia)

“I express the adhesion of the Italian province company of the Society of Jesus to the divestment campaign. With this adhesion I announce the intention to start a more detailed process about the different ways of removing our investments from fossil, progressively, within the next 5 years.”

  1. Gianfranco Matarazzo, Padre Provinciale dei Gesuiti Italiani (Italia)

“Noi, come Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita, esprimiamo la nostra adesione alla Campagna Disinvestimento dalle fonti fossili. Noi siamo impegnati da tempo nella custodia della casa comune, che è la nostra sorella e madre terra, secondo le indicazioni dell’enciclica Laudato si’. Riteniamo importante aderire ad una iniziativa che è in profonda sintonia con i valori in cui crediamo e che cerca di dare una risposta concreta all’appello del Papa Francesco nella sua più recente enciclica Laudato Sii, in cui ci chiede di fare una conversione ecologica, passando dalle energie fossili a quelle rinnovabili”

Adriano Sella, coordinatore nazionale della Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita (Italia)

“Il direttore e il responsabile della sezione Ambiente de Il Dialogo sono da lustri impegnati nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente. Aderire pertanto al prossimo annuncio cattolico congiunto di disinvestimento che si terrà il 10 Maggio 2017, nell’ambito della mobilitazione globale per il disinvestimento, è per noi naturale e genuino perché significa aderire ai valori in cui crediamo. Pertanto uniamo la nostra voce al messaggio del disinvestimento che FOCSIV sta portando avanti con partner nazionali ed internazionali (assieme alle organizzazioni che fanno parte della Campagna #DivestItaly e del Movimento Cattolico Mondiale per il Clima ). Pertanto ci uniamo alle oltre 100 entità in tutto il mondo tra chiese ed organizzazioni cristiane che hanno recepito positivamente il messaggio del disinvestimento dalle fonti fossili. L’annuncio di disinvestimento dalle fonti fossili è un modo concreto per mettere in pratica la Laudato Si’ e farsi testimoni del suo messaggio. Nell’enciclica LAUDATO SI’, Papa Francesco scrive “Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili [..]deve essere sostituita progressivamente e senza indugio. (Laudato Si’, 165) “Sul cambiamento climatico abbiamo un chiaro, definitivo e ineluttabile imperativo etico ad agire” (Papa Francesco). Siamo convinti che l’unione porterà ad una finanza più sostenibile ed ad un mondo più giusto e vivibile. Pertanto aderiamo e invitiamo tutti ad aderire.”

Giovanni Sarubbi, (Direttore ) Michele Zarrella (Responsabile sezione ambiente) de Il Dialogo ( Italia)

Noi, Provincia di San Giuseppe della Congregazione della Passione di Gesù Cristo (Provincia Inglese dei Passionisti) ci impegniamo in un disinvestimento completo dai combustibili fossili, da iniziare il più presto possibile e completare nei prossimi 4 anni, al massimo entro il 2021” P. Martin Newell CP, Provincia di San Giuseppe della Congregazione della Passione di Gesù Cristo (Regno Unito) “Come comunità siamo impegnate da molto tempo nell’esaminare le radici della violenza. Attraverso il nostro studio e il nostro discernimento rispondiamo con compassione bisogni immediati e sistemici tanto a livello locale che mondiale. Riteniamo che sia imperativo il nostro allontanamento dai combustibili fossili a causa dell’impatto che hanno sull’ambiente.”

Sr. Sheila Kinsey, Suore Francescane Wheaton, Provincia di Santa Chiara delle Sorelle Francescane, Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria (USA)

“Noi Suore Francescane Wheaton, Provincia di Santa Chiara delle Sorelle Francescane, Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria (USA), annunciamo oggi con integrità di non avere investimenti correnti in combustibili fossili e di aggiungere questa decisione nel nostro piano di investimento socialmente responsabile così da assicurare l’assenza di futuri investimenti in combustibili fossili. In questo modo intendiamo enfatizzare l’urgenza della crisi climatica ed approfondire il nostro impegno per la cura della nostra casa comune

Sr. Melanie Paradis,osf, Sr. Lynn Schafer,osf, Sr. Trish Villarreal,osf, Sr. Alana Gorski,osf, Consiglio provinciale delle Suore Francescane Wheaton

Nota

Istituito nel 2014, il Movimento Cattolico Mondiale per il Clima è una coalizione di oltre 100 organizzazioni Cattoliche impegnate a rispondere all’imperativo morale della crisi del cambiamento climatico. Ulteriori informazioni disponibili al link:
http://catholicclimatemovement.global/divest-and-reinvest/




Colombia: Giardini pensili


Alla scoperta delle bellezze di una natura ancora incontaminata e sempre capace di sorprendere, nello scenario dei grandi fiumi che dalle Ande colombiane scendono a confluire nel grande Rio delle Amazzoni.

Ricevo un’offerta che non posso rifiutare. «Andiamo in Colombia?». Ma dai! Quasi non ci credo. Subito penso che padre Angelo (Dutto) mi stia prendendo in giro perché conosce i miei interessi per lo studio degli insetti e la mia passione per le foreste tropicali. Ma il tono è serio e poi so che lui da sempre ci tiene a conoscere quella fetta di Sudamerica dopo quarant’anni passati in Africa orientale. Anzi, per la verità il Sudamerica era stata la sua prima scelta quando gli avevano domandato dove avesse voluto andare dopo l’ordinazione.

«D’accordo, ma purché si vada in Amazzonia», rispondo io. È la parte più «selvaggia» di quelle terre, ancora ricca di foreste percorse dai grandi corsi d’acqua che alimentano il re dei fiumi: il Rio delle Amazzoni.

Conosco padre Angelo da almeno una trentina di anni, da quando, missionario in Tanzania, sugli altopiani amati da Livingstone e da Hemingway, mi ospitava e prendeva parte attiva alle mie ricerche di entomologia. Ora è tornato a Torino ed è uno dei responsabili del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata.

Trovato il volo che fa per noi, ci dividiamo la logistica: a me la parte tecnica, a lui il contatto con i colleghi missionari di quei luoghi. Come meta si sceglie Puerto Leguìzamo, cittadina ai confini col Perù posta sul fiume Putumayo, raggiungibile solo con piroga o con piccoli aerei. Saremo accolti nella casa del vescovo e qui troveremo, grazie all’appoggio di colleghi naturalisti, un aiuto insperato nella persona di un’ornitologa locale di nome Flor, una rarità per quelle latitudini.

A Bogotá arriviamo ai primi di ottobre, ospiti della casa regionale dei missionari nel quartiere di Modelia. I 2.600 metri di altitudine si fanno sentire con una leggera emicrania che però passa presto. Il tempo di prendere fiato e già siamo di nuovo in volo per Florencia, una cittadina ai piedi delle Ande. È una soluzione di ripiego: i voli diretti per Puerto Leguìzamo sono al momento indisponibili e questa è la sola possibilità; da qui con un secondo volo potremo raggiungere l’Amazzonia. Come sempre siamo accolti a braccia aperte. Sorvolate le Ande ci troviamo a fare i primi incontri con la natura lussureggiante dei tropici.

Non è vero che i giardini pensili li hanno inventati i babilonesi. Sono creazioni degli alberi. Questi giganti che trovi nelle foreste sudamericane ospitano una quantità tale di epifite che non finiscono mai di stupirci: dagli umili muschi, ai licheni, alle felci, ai cactus, a decine di bromelie per giungere a orchidee dalle forme e dai colori che solo l’illimitata fantasia della natura può creare. Ogni albero è una serra che ospita decine di specie vegetali in continua eterna competizione, lottando per sfruttare le posizioni migliori di luce, umidità e temperatura. Ogni centimetro di corteccia è un piccolo mondo adatto a essere colonizzato dal più forte o da quello che meglio si sa adattare alle peculiari condizioni microclimatiche. Ogni specie ha il suo spazio preferenziale adatto alle proprie esigenze e grazie al quale riesce a prendere il sopravvento sulle specie rivali. A una osservazione superficiale sembra una disposizione caotica e disordinata, ma in realtà nulla è lasciato al caso, come una rigorosa scacchiera.

Sul fiume Putumayo. «Vedi Napoli e poi muori», recita un detto. Bisognerebbe dire «vedi i fiumi del bacino amazzonico e poi muori». Almeno per i naturalisti come noi. La grandiosità dello spettacolo che offrono è da mozzafiato. Viaggiare ore su una piroga con la foresta che fa da muro e a volte da tetto, fra stormi di pappagalli multicolori e chiassosi, tucani dai becchi enormi, farfalle dai colori impossibili, scorgendo la sagoma di qualche scimmia, su acque perennemente limacciose da cui puoi aspettarti di vedere emergere per pochi istanti la sagoma di un delfino rosa, è bellissimo. Dalla riva, dove si scorgono piccoli nuclei di capanne o isolate palafitte, pescatori ti guardano passare indifferenti, concentrati a lanciare le reti a sparviero con cui traggono a riva pesci dalle forme e dalle livree impensabili.

Sono le quattro del pomeriggio e il sole comincia a rifiatare dandomi un po’ di tregua. Il fiume è immobile. Calma piatta. Nemmeno gli uccelli si fanno sentire. La lenza penzola inerte dalla canoa. Se continua così stasera a cena si tira la cinghia. All’improvviso uno sciacquio: un branco di pesci schizza fuori dall’acqua. Sembrano impazziti. Pochi istanti e ne capisco la ragione: le inia sono in caccia! Eccoli finalmente i delfini rosa delle Amazzoni! Cominciavo a pensare di non poterli osservare. Sono almeno quattro, usano la stessa tattica delle balene con le sardine e con manovre circolari spingono i pesci a formare un branco nel quale entrare poi a turno per fare man bassa. Sono tranquilli. La calma della sera mi ha favorito. Ogni tanto emergono per respirare e Angelo ha la possibilità di scattare qualche difficile foto. Non li vedo saltare come i fratelli del mare, ma scivolano invisibili sotto la superficie, favoriti dalle acque perennemente torbide.

Uno strattone secco alla lenza. Ha abboccato finalmente. Emerge dall’acqua fangosa un figuro dai bargigli lunghissimi, un pesce gatto armato di spine pettorali e dorsali taglienti come rasoi. So che devo stare attento a slamarlo per non ferirmi. Inutile: come lo sfioro mi frega. Lo adagio sul fondo della canoa e non credo alle mie orecchie: parla! Emette suoni gutturali, una sorta di singhiozzo ripetuto forte e ben udibile. A vedere il mio stupore Flor si mette a ridere: «Los peces de aca, hablan, bailan y toman», «i nostri pesci parlano, ballano e bevono». Vengo così a sapere che questa non è un’eccezione, che l’enorme variegato siete-babas fa altrettanto. Giuro che non userò mai più l’espressione «muto come un pesce».

Oggi ho tempo, ho finito con gli insetti e mi viene di tentare i piraña. Il ragazzo della finca (fattoria) mi indica l’ansa giusta dove posso trovarli, mi procuro un pugno di carne e getto l’amo. Non devo attendere molto. Uno strattone e recupero il filo. Strano. È pesante, si sente che c’è qualcosa attaccato, ma si lascia trascinare inerte. Stai a vedere che ho pescato il classico scarpone. Con mia grande sorpresa emerge invece un granchio rosso. È enorme, trattiene nella chela più grande il mio pezzo di carne e pare non abbia alcuna intenzione di mollarlo. Anzi pare voglia sfidarmi ruotando la seconda chela. Cerco di convincerlo con le buone a mollare la presa e alla fine cede. Non sarà l’unico, praticamente non mi lasceranno portare a casa la cena: all’esca arrivano prima loro dei voraci piraña.

È tardi, mi rendo conto che tra meno di mezz’ora sarà buio e viaggiare sul fiume a notte fonda non è prudente. I grossi tronchi galleggianti trascinati dalla corrente possono sfondare una piccola imbarcazione come la nostra. Ma c’è troppo da fare e da vedere e da imparare. Quando il marito di Flor accende il motore della piroga la notte ci ha già sorpresi. Strano però, anche col buio siamo circondati da decine di uccelli in volo. No, non sono uccelli ma pipistrelli! Cacciano a fior d’acqua, agilissimi e silenziosi, con un volo vellutato. Sono di medie dimensioni, e la loro taglia mi fa pensare che la loro dieta non sia solo a base di insetti, ma anche di piccoli pesci e questa spiega la loro massiccia presenza sul fiume.

Certe cose si avvertono subito a pelle. È un tipo squinternato padre José Fernando (Florez Arias di Puerto Leguízamo), ma quando lo vedo arrivare di corsa in maglietta sudata, sporca quasi quanto la mia, stivaloni infangati, barba trascurata mi è subito simpatico. Capelli lunghi, occhi neri e penetranti, fisico atletico, avrà sì e no quarant’anni. Non fa complimenti ma col suo atteggiamento ti fa sentire subito a tuo agio. È un missionario da avamposti persi nella foresta, uno con gli attributi insomma. Sta preparando le provviste per ritornare alla comunità in cui vive, a un paio di ore di piroga a motore, sulla sponda opposta del fiume Putumayo, in Perù. In questi posti la frontiera esiste solo sulle mappe e la gente passa il confine senza problemi. Ci propone di andare con lui e ovviamente accettiamo. Il posto per un naturalista come me è incantevole, c’è la foresta a un tiro di schioppo, ma non è certo l’ideale per chi ama le comodità. Vive in due stanzette di pochi metri quadrati con l’indispensabile per sopravvivere: un letto con zanzariera, un fornello per cucinare e far bollire l’acqua da bere, una biblioteca tascabile, un lavabo, un servizio igienico. L’unica cosa grande è la chiesa, quella sì, in grado di accogliere una quarantina di fedeli: nessun banco ovviamente, solo sedie. Ma qui si trasforma, sembra un’altra persona e assume un carisma insospettato che catalizza il rispetto dei fedeli presenti. Inutile aggiungere che la messa domenicale diventerà una celebrazione commovente. Solo chi le ha vissute può comprenderne l’intensità emotiva.

Gianfranco Curletti*
* Curatore entomologico del Museo di Carmagnola (Torino).

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I due viaggiatori ringraziano il vescovo del vicariato di San Vicente del Caguán, mons. Francisco Múnera, e quello del vicariato di Puerto Leguízamo, mons. Joaquín Pinzón, nonché tutti i padri che ci hanno aiutati nella ricerca entomologica, in particolare Rino Delaidotti a Solano. Per curiosità, la spedizione ha portato alla scoperta di nuove specie di insetti che saranno oggetto di pubblicazioni scientifiche. Ma questa è un’altra storia.